DONNE...CONTROCORRENTE

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  1. gheagabry
     
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    SULPICIA

    (I secolo a. C.)





    Nella letteratura latina emergono esclusivamente autori maschili, per cui si è sempre ritenuto che alle donne non fosse concesso scrivere, nè leggere, il che era vero ma con diverse eccezioni. Esistettero donne colte e raffinate nel mondo antico, ma sono state sempre ignorate perchè scrivere era cosa da uomini e le donne non erano portate per le lettere, così come del resto alle donne non era concesso recitare a teatro, se non per spettacoli lascivi da bordello. In realtà nel mondo antico esistevano tante poetesse, donne dall’animo sensibile apprezzate da un vasto e colto pubblico. Il misconoscerle non venne tanto dal mondo romano quanto dalla caduta dell'Impero in poi, quando la donna con l'avvento del cristianesimo perse tutti i diritti guadagnati in epoca imperiale, come la facoltà di divorziare e di sottrarsi all'autorità maritale.
    Sulpicia visse verso la fine del I sec. a.c. epoca di grande fermento letterario, caldeggiato molto da Augusto che si circondava di poeti e letterati, e fu una poetessa romana di nobile famiglia, l'unica di cui si siano conservati alcuni componimenti. Era figlia dell'oratore Servio Sulpicio Rufo, nipote del giurista Servio Sulpicio Rufo (106-43), e di Valeria, sorella, come narra Girolamo, dell'uomo politico e generale romano Marco Valerio Messalla Corvino (64 a.c.- 8 d.c.), che istituì intorno all'anno 30 un circolo letterario di cui fecero parte anche Tibullo, Ovidio e Ligdamo.
    Sulpicia poté dunque frequentare i migliori ambienti letterati e sicuramente fece parte del circolo intellettuale dello zio Messalla il quale, alla morte del padre di Sulpicia, era divenuto suo tutore. Messalla era un grande generale che aveva combattuto a fianco di Ottaviano nella battaglia di Azio, nel 31 a.c.
    Divenuto sostenitore di Augusto e intimo amico di Mecenate, fondò anch’egli un circolo che prese il suo nome, dove raccoglieva poeti e pensatori del tempo. Tra i frequentatori di questo circolo c'era Tibullo nel cui corpus letterario sarebbero confluite le poesie di Sulpicia. Le composizioni attribuibili alla poetessa sarebbero sei poesie (dalla settima alla dodicesima) del IV libro delle elegie di Tibullo.




    APPENDIX TIBULLIANA

    Il “Corpus Tibullianum“, raccolta di carmi dei poeti del circolo di Messalla, è composto da tre libri:
    Le Elegie di Tibullo, il poeta più famoso del gruppo, occupava i primi due;
    il terzo, “Lygdami elegiarum liber“, il libro delle elegie di Ligdamo, pure di Tibullo, di valore non rilevante, e sempre nel terzo:
    “Panegyricus Messallae“, il panegirico di Messalla, scritto da un autore incerto, pure mediocre,
    “Elegiae de amore Sulpiciae” (8-12),
    “Sulpicia” (13-18),
    altri due testi di Tibullo, un’elegia e un epigramma (19-20).

    Ci sono così pervenuti nel III libro del Corpus Tibullianum, detto Appendix Tibulliana, sei elegie di Sulpicia, le Elegidia, dal III.13 al III.18 per 40 versi. Ma sono di Sulpicia anche tutti i cinque carmi, dal III.8 al III.12, per complessivi 114 versi, del ciclo dell'Amicus Sulpiciae sempre nel terzo libro, e si suppone con certezza sempre maggiore che siano di Sulpicia, oltre le sei Elegidia, anche i carmi III.9 e III.11 dell'Amicus Sulpiciae, le due elegie il cui autore dichiara di essere Sulpicia.

    AMICUS SULPICIAE

    E' giunto finalmente il mio amore:
    "E' giunto finalmente il mio amore:
    averlo tenuto nascosto, motivo di vergogna
    sarebbe per me, più che se a tutti
    l'avessi svelato nella sua nudità.
    Sono stati i miei versi
    ispirati dalle Muse a convincere
    Venere Citerea a portarlo a me
    e a consegnarlo nelle mie braccia.
    Venere ha mantenuto le promesse:
    e racconti pure la mia gioia chi
    si sa che non ne ha fatto esperimento.
    Non vorrei a tavolette sigillare
    affidare alcune mie parole,
    perché nessuno le deve leggere
    prima del mio innamorato.
    Ma dolce m’è peccare
    e disdegno atteggiamenti a virtuosa:
    si dirà che sono una ragazza

    Si dirà che lui fu degno di me, che io fui degna di lui"

    E' l'amore di Sulpicia per Cerinthus espresso in cinque elegie III.8-12, secondo alcuni, ma poco attendibili, di autore ignoto, basandosi su originali biglietti della stessa Sulpicia, perchè una donna non può essere una brava poetessa. Secondo altri studiosi le poesie sono scritte da Tibullo, che si finge femmina, e Cerinto sarebbe in realtà il suo amico, e amante, Cornuto.

    Ma gli scritti di Sulpicia sono stilisticamente molto differenti da quelli di Tibullo e l’immagine di Cerinto qui descritta è troppo lontana da quella tradizionale di Cornuto, che emerge nelle elegie di Tibullo. Pertanto sono da considerarsi due autori diversi e due persone differenti.

    Il piccolo canzoniere d’amore indirizzato a Cerinto, fu composto quindi da Sulpicia, figlia di Servio Sulpicio Rufo, su Cerinto invece non si sa nulla; da escludere che sia stato uno schiavo, ma di condizione forse inferiore a Sulpicia. Ma anche questa è una supposizione ricavata solo da un moto di gelosia, in cui lei ricorda all'amante di chi è figlia. Questo però non significa nulla, perchè il padre di Sulpicia era piuttosto famoso.

    Si ritiene che nelle opere attribuite a Tibullo siano confluite alcune poesie di Sulpicia perchè entrambi decantavano un amore non ricambiato. Ma soprattutto perchè appartenevano allo stesso circolo culturale. Sulpicia è una poetessa di carattere, determinata ed emancipata, fuori dalle regole, che si ispira ai poeti neoteroi e, in particolare, alle poesie amorose di Catullo, il miglior poeta d’amore del mondo classico.

    Comunque le poesie di Sulpicia furono inserite nel Corpus poetico di Tibullo perchè la produzione femminile è stata sempre ignorata dai divulgatori, pregiudizialmente giudicata di qualità inferiore, e solo perchè ritenuta di Tibullo è giunta a noi..




    LA RISCOPERTA DI SULPICIA

    Caduto l’Impero romano, come molti altri autori del mondo antico, Sulpicia venne dimenticata perchè col cristianesimo poteva essere divulgata solo l'arte che esaltava la religione e i santi, tutto il resto era peccato, se poi era opera di una donna diventava diabolico.
    Le sue opere di Sulpicia, non sono state mai ritrovate, se non accennate o citate da altri grandi autori latini, che la descrivevano come una cortigiana dell’imperatore Domiziano, scambiandola, però, con un’altra Sulpicia vissuta molto tempo dopo.

    Nonostante le sue poesie godessero, nell’antichità, di un notevole successo e sebbene appartenesse ad circolo culturale molto importante, sarà, purtroppo, pressocchè dimenticata per quell’errata idea, in voga soprattutto nel ‘400-500, ma anche dopo, secondo cui ad una donna non poteva essere concesso un posto d'onore nella letteratura del mondo antico. Le Elegidia sono state infatti a lungo giudicate un'opera dilettantesca, e si scoprì il loro valore solo dalla seconda metà del Novecento.

    Le prime notizie sull’esistenza di Sulpicia, e quindi la sua riscoperta, si devono infatti all’americano Carol Merriam, che nel 1991 pubblicò un articolo sulla “scoperta” della poetessa romana. ll primo commento al Corpus di Tibullo risale al 1475 da parte di Berardino Cillenio (1450-1476), membro dell'Accademia romana di Pomponio Leto, che ritiene le Elegidia di Tibullo, preferendo ipotizzare l'omosessualità del poeta.

    Ioseph Scaliger (1540-1609), nelle Castigationes in Catullum, Propertium, Tibullum, del 1577, crede che Sulpicia sia il nome di una donna amata da Valerio Messalla ma esclude che sia l'autrice dei carmi: piuttosto pensa che Tibullo abbia voluto nascondersi nel nome di una donna per dare espressione letteraria a una voce femminile, e giudica le sei Elegidia "dolcissime e delicatissime, in tutto degne della musa di Tibullo".

    Nel 1755 venne pubblicata la prima edizione del Corpus Tibullianum a cura del filologo tedesco Christian Gottlob Heyne (1729-1812), che invece riconobbe in Sulpicia la vera autrice delle sei Elegidia. Lusinghieri i suoi giudizi: le elegie di Sulpicia, "dolcissima fanciulla", sono "bellissime e soavissime".

    Otto Friedrich Gruppe (1804-1876), nelle sue Die römische Elegie, pubblicate nel 1838, considera Sulpicia realmente esistita e autrice non di sei, ma di cinque elegie: il Tandem venit amor, è troppo scandalosa per essere sua, sicuramente è di Tibullo. Per il Gruppe è un'autentica scrittura femminile, perché involuta è la tipica forma con la quale una donna esprime i suoi sentimenti. Sulpicia è una docta puella ma non un'esperta poetessa: "l'espressione è goffa, la costruzione spesso si può mettere insieme solo con difficoltà".

    Il contemporaneo filologo Ludolph Dissen sostiene il contrario di Gruppe: le elegidiae sono di altissima qualità e autentiche creazioni di Tibullo, e il loro diverso carattere rispetto alle altre elegie tibulliane è il risultato di un'originale ricerca artistica, nessun dilettantismo, dunque, e nessuna scrittura femminile.

    Per Kirby Smith, autore nel 1913 di un commento al Corpus Tibullianum, le poesie di Sulpicia, diversamente da quelle di Tibullo, che sono pensate per la pubblicazione e costruite secondo il principio dell'ars celare artem, sono invece semplici biglietti indirizzati all'amante o riflessioni consegnate a un diario, espressione di una relazione realmente vissuta, e perciò poesia che nasce dalla spontaneità dell'animo e dall'immediatezza dell'esistenza.

    Così, l'elegia III.13 è un "estratto dal suo stesso diario e fu evidentemente scritto subito dopo la consumazione dell'amore, poiché ella si trova ancora in uno stato d'animo di grande esaltazione. Ella deve ancora essere assalita dai ripensamenti inevitabili in una relazione del genere"

    I carmi di Sulpicia sono oggi ritenuti di Sulpicia e sono bellissimi, paragonabili, nella scioltezza e nella passionalità, ai versi del grande Catullo.



    ELEGIE

    I - Nella prima elegia viene esaltata la grazia e la bellezza di Sulpicia, che si è elegantemente vestita in occasione della festa delle Matronalia, alle calende di marzo, dove comunque si muova o si vesta Sulpicia ha un fascino particolare:

    "Illam, quidquid agit, quoquo vestigia movit,
    componit furtim subsequiturque decor.
    Seu soluit crines, fusis decet esse capillis,
    seu compsit, comptis est veneranda comis"

    II - Nella seconda elegia l'autore si dichiara essere Sulpicia, angosciata dalla passione che Cerinto nutre per lei, ma, per non separarsene, lo seguirebbe su monti e selve, inseguendo con le reti cervi e cinghiali:
    "Tunc mihi, tunc placeant silvae, si, lux mea, tecum,
    arguar ante ipsas concubuisse plagas".
    Ma oltre lei non deve esservi per Cerinto alcun amore:
    "At tu venandi studium concede parenti
    et celer in nostros ipse recurre sinus"

    Cerinthus si suppone sia uno pseudonimo, dato l'uso dei poeti latini di ellenizzare i nomi delle persone amate. Secondo alcuni trattasi di un certo Cornutus amico di Tibullo, ma poichè questo amico di Tibullo è sposato, c'è chi pensa abbia impalmato Sulpicia. Altri suppongono invece si tratti di uno schiavo o un uomo di bassa estrazione sociale. Ciò spiegherebbe il tono drammatico e il problema dell’amore contrastato.

    III - L'amico di Sulpicia chiede a Febo, Dio della medicina, di guarire la ragazza che si è ammalata, tranquillizzando così il giovane Cerinto:
    "neu iuvenem torque, metuit qui fata puellae
    votaque pro domina vix numeranda facit".
    Ma Cerinto deve avere fiducia perchè:
    "deus non laedit amantes:
    tu modo semper amat, salva puella tibi est"
    Guarendola, Febo avrà grande fama tra tutti gli altri Dei perchè salvando un corpo ne salva due:
    "laus magna tibi tribuetur in uno
    corpore servato restituisse duos".


    IV - Come nella seconda elegia, è Sulpicia che parla, alla quale è caro il compleanno di Cerinto. Per lui,
    "uror ego ante alias; iuvat hoc, Cerinthe, quod uror,
    si tibi de nobis mutuus ignis adest
    mutuus adsit amor,
    per te dulcissima furta
    perque tuos oculos,
    per Geniumque rogo"
    Che Natalizio, il genio di Cerinto, accolga i voti di Sulpicia di essere sempre avvinti da una reciproca catena, come certamente è voto dello stesso amante:
    "optat idem iuvenis quod nos, tectius optat
    nam pudet haec illum dicere verba palam"

    V - L'ultima elegia del ciclo dell'Amicus è una preghiera che Sulpicia, al suo compleanno, rivolge a Giunone, offrendo incenso al suo altare. Sulpicia si è abbigliata per la Dea, ma non soltanto per lei, poiché
    "est tamen, occulte cui placuisse velit"
    Giunone faccia sì che nessuno separi chi si ama e procuri al giovane amato un mutuo vincolo d'amore:
    "at tu, sancta, fave, neu quis divellat amantes,
    sed iuveni quaeso mutua vincla para"
    In cambio, Sulpicia offrirà tre focacce e tre volte alzerà il calice alla Dea:
    "sis Iunio huic grata, et veniet cum proximus annus,
    hic idem votis iam vetus adsit amor".

    Sulpicia

    XIII - Nella prima elegia (III.13) Sulpicia si dichiara innamorata di un amore non platonico, e non vuole tenerlo nascosto:
    "Tandem venit amor, qualem texisse pudori
    quam nudasse alicui sit mihi fama magis".
    Sono state le Camene, le muse ispiratrici dei suoi versi, a convincere Venere a condurre l'amato fra le braccia di Sulpicia. Lei non vorrebbe scrivere dei propri piaceri:
    "Non ego signatis quicquam mandare tabellis,
    ne legat id nemo quam meus ante, velim"
    è dolce peccare e noioso fingersi virtuosa: gli altri potranno al più dire che noi eravamo degni l'uno dell'altra.



    XIV - Nella seconda, Sulpicia pensa di essere costretta a trascorrere il suo compleanno nella fredda campagna di Arezzo, lontana da Roma e da Cerinto, dovendo seguire, a malincuore, lo zio e tutore Messalla, ma lascia il suo cuore a Roma:

    "Che compleanno noioso tristemente dovrò trascorrere
    nell’odiosa campagna senza il mio Cerinto!
    Che cosa è più piacevole della città? O forse ad una giovane
    sono più adatti una villa ed un gelido fiume che scorre nell’agro aretino?
    Non affannarti, infine, o Messalla, che troppo di me ti preoccupi:
    spesso i viaggi, parente mio, sono inopportuni.
    Trascinata via, qui l’anima ed i miei sensi lascio,
    anche se tu non mi permetti di agire secondo la mia volontà".

    XV - la giovane comunica che il viaggio è stato annullato e può, pertanto, festeggiare con i suoi cari. e anche con lui, il suo dies natalis, per cui Sulpicia comunica a Cerinto la lieta notizia:

    "Sai che la triste preoccupazione di quel viaggio
    svanita è dall’anima della tua fanciulla?
    Ora le è permesso di stare a Roma nel giorno del suo compleanno.
    Celebriamo tutti insieme questa ricorrenza
    che ti giunge, forse, quale più non speravi."

    Così Sulpicia potrà festeggiare il compleanno insieme con l'amato:
    "Omnibus ille dies nobis natalis agatur,
    qui nec opinanti nunc tibi forte venit"

    XVI - Cerinto però tradisce Sulpicia, sicuro che lei non ricambierà l'infedeltà, e con una rivale di condizione sociale inferiore, forse una schiava, come lasciano pensare i termini toga, indumento indossato dalle meretrices, non dalle dominae, che, invece, usavano la stola, e quasillo, il cesto contenente la lana da filare quotidianamente assegnata alle schiave:

    "M’è gradito che ormai tu ti permetta molte cose
    senza preoccuparti di me,
    poiché non temi che ad un tratto
    io possa stupidamente perdermi.
    Preoccupati pure di una toga e di una donnaccia che reca
    un pesante paniere, più che della tua Sulpicia, figlia di Servio!
    Ci sono quelli che si preoccupano per me,
    che molto s’addolorerebbero,
    se venissi preferita ad un volgare giaciglio."
    Lui frequenta una prostituta, una schiava, dimenticando chi è Sulpicia, la figlia di Servio, e per questo c'è chi si addolora, che Sulpicia sia arrivata a concedersi a un uomo come Cerinto che preferisce le prostitute.

    XVII - Sulpicia è malata, come fa supporre il termine calor (la febbre) e ha l'impressione che Cerinto non se ne preoccupi troppo. Lei guarirebbe solo se fosse certa che anch'egli lo voglia. Ma forse non serve guarire se Cerinto rimane così insensibile alla sua malattia: .

    "Ci tieni davvero, Cerinto,
    alla tua ragazza, ché la febbre
    tormenta il suo corpo spossato?
    E non vorrei vincere questo male oscuro
    se non sapessi che anche tu lo voglia.
    A che gioverebbe vincere il male,
    se tu con cuore indifferente
    puoi sopportare la mia malattia?"

    XVIII - L'ultima breve elegia è una dichiarazione di amore e di passione:
    "Luce mia, possa io non esser più
    la tua ardente passione
    come credo di esser stata
    in questi ultimi giorni se io,
    in tutta la mia giovinezza,
    ho mai commesso una sciocchezza,
    di cui io possa confessare
    di essermi più pentita,
    quella di averti lasciato solo
    la scorsa notte,
    per volerti nascondere
    il desiderio che ho di te".

     
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  2. gheagabry
     
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    PRISCA

    ? - 311 d.c.





    Di Prisca imperatrice non si sa molto, se non che fu moglie dell'imperatore romano Diocleziano che la elevò alla carica di Augusta. Prisca ebbe da Diocleziano Valeria Galeria, la seconda moglie dell'imperatore Galerio. Durante la persecuzione del 303 contro i cristiani, Prisca, cristiana anch'essa o almeno favorevole a loro, fu obbligata a sacrificare agli Dei, ma la verità è che in qualità di imperatrice ed Augusta doveva partecipare alle cerimonie religiose di stato accanto a suo marito.
    Dopo la morte di Galerio nel 311, il destino di Prisca, di sua figlia e del suo nipote adottivo Candidiano si fece tragico: venne infatti esiliata in Siria dall'imperatore Massimino Daia, e in seguito arrestata e giustiziata per ordine di Licinio (315) seguendo di soli due anni la morte di sua figlia Valeria, figlia dell'imperatore Diocleziano e di Prisca. Nel 293 l'imperatrice Valeria aveva sposato l'imperatore Galerio e fu uccisa nel 313 anch'essa dall'imperatore Licinio.

    Insomma è difficile stabilire la vera identità di questa imperatrice o martire romana, nonostante i numerosi documenti antichi, poiché le notizie si riferiscono probabilmente a tre o quattro persone diverse. La celebrazione odierna vuole comunque onorare la fondatrice della chiesa titolare sull'Aventino, alla quale si riferisce l'epigrafe funeraria del V sec., conservata nel chiostro di S. Paolo fuori le mura. L'antica chiesa sorge sulle fondamenta di una grande domus romana del II sec., evidenziata da recenti scavi archeologici. Ma gli Acta S. Priscae, che ne fissano il martirio sotto Claudio II (268-270) e la sepoltura sulla via Ostiense, col suo corpo portato poi sull'Aventino, non sono più credibili della leggenda per cui S. Prisca sarebbe stata battezzata all'età di tredici anni da S. Pietro e avrebbe scelto il martirio, decapitata durante la persecuzione di Claudio, verso la metà del I sec. d.c.. sepolta poi nelle catacombe di Priscilla.
    Nel secolo VIII invece si cominciò ad identificare la martire romana con Prisca, moglie di Aquila, di cui parla S. Paolo: "Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Gesù Cristo, i quali hanno esposto la loro testa per salvarmi la vita. Ad essi devo rendere grazie non solo io, ma anche tutte le chiese dei gentili" (Rm 16,3).

    Si cominciò così a parlare del "titulus Aquilae et Priscae" modificando il primitivo titolo di cui si ha notizia già nel sinodo romano del 499, mentre oggi S. Prisca è stata stranamente depennata dai calendari. La chiesa di S. Prisca, sorta sul luogo di una casa romana che secondo la leggenda avrebbe ospitato S. Pietro, conserva nella cripta un capitello cavo, usato dallo stesso apostolo, per battezzare i catecumeni.

    Ma c'è un'altra storia: Santa Serena di Roma, vissuta nel III secolo e presunta moglie dell'imperatore romano Diocleziano, venerata come santa e martire, con festa liturgica al 16 agosto.
    Il Martirologio di Adone e i successivi della Chiesa cattolica fino al precedente Martyrologium Romanum la annoveravano «A Roma, S. Serena, moglie di Diocleziano».

    Negli Atti di san Marcello e di santa Susanna si dice che l'imperatrice Serena sia intervenuta per difendere i cristiani dalla persecuzione scatenata dal marito. Per questo la tradizione vuole che Serena sia stata ripudiata e in seguito sia morta martire proprio nelle persecuzioni attuate da Diocleziano.



    Secondo fonti contemporanee all'epoca, la moglie di Diocleziano si chiamava Prisca. Serena sarebbe dunque stata moglie di Diocleziano prima di lei e prima che questi divenisse imperatore. Secondo altre fonti, Santa Serena non morì martire ma terminò i suoi giorni in esilio a Foglia, oggi frazione di Magliano Sabina. È patrona del paese e a lei è dedicata la chiesa parrocchiale. In un'urna d'argento sono conservati i presunti resti del suo corpo.
    Però nel ‘Martyrologium Romanum’, s. Serena, sposa dell’imperatore Diocleziano, sarebbe nata nel 243 e morta nel 313, solo due anni prima dell'uccisione dell'imperatrice Prisca. Ora è poco credibile che Prisca fosse la seconda moglie di Diocleziano, che fa uccidere la moglie perchè cristiana e ne sposa una seconda anch'essa cristiana che di nuovo condanna a morte. Per giunta nel 305 Diocleziano aveva abdicato.

    Nell’odierna edizione però Serene non è più menzionata, perché Lattanzio afferma nel suo “De mortibus persecutorem” che la moglie e la figlia dell'imperatore si chiamavano Prisca e Valeria e che furono costrette a fare riti pagani.
    Mentre i leggendari “Atti” di s. Marcello e di santa Susanna, parlano invece di un’imperatrice di nome Serena, moglie di Diocleziano, che intervenne per difendere i cristiani dalla persecuzione scatenata dal marito, la decima e la più violenta. Evidentemente il suo intervento fu proficuo, riguardo il termine della persecuzione, perché nel 305 Diocleziano abdicò e si ritirò a Spalato.

    Pertanto si disse che la santa Prisca altri non era che Serena Prisca, e l'imperatrice si fa santa. La storia cristiana parla di una"congiura dell'inferno contro la Chiesa" che sfociò nel censimento dei cristiani ordinato da Diocleziano, che non si era accorto che tanto la moglie quanto la figlia erano cristiane.

    Le storie simili: Santa Martina

    Martina, venerata come santa dalla Chiesa cattolica, secondo la leggenda fu una nobile romana che subì il martirio nella prima metà del III secolo sotto l'imperatore Alessandro Severo (sotto il quale tuttavia non vi fu alcuna persecuzione dei cristiani). Secondo una Passio leggendaria la diaconessa Martina fu arrestata per aver professato apertamente la sua fede e trascinata davanti ad una statua di Apollo e poi ad una di Diana, facendo in entrambi i casi andare in pezzi la statua e crollare il tempio. Fu quindi sottoposta a tormenti e infine decapitata. La storia è molto simile a quella di Taziana, o di Prisca. Le prime notizie storiche risalgono al VI sec., quando papa Onorio I le dedicò nei pressi del Foro Romano una chiesa, l'attuale chiesa dei santi Luca e Martina di Roma.


    La domus romana e il mitreo

    Il titulus cristiano fu ricavato riadattando parte di una domus databile alla fine del I secolo, da alcuni attribuita a Licinio Sura, da altri identificata con i privata Traiani, cioè la residenza di Traiano prima di diventare imperatore.
    Il mitreo (scoperto nel 1934 e scavato da archeologi olandesi tra il 1953 e il 1966), fu costruito alla fine del II sec., nello stesso periodo in cui alcuni altri ambienti venivano ristrutturati un un'aula a due navate (il titulus, appunto), sulla quale fu successivamente edificata la chiesa, con una interessante compresenza dei due culti orientali - cristiano e mitraico - almeno finché, con l'istituzionalizzazione del cristianesimo, quello non lo cancellò, sovrapponendovi anche fisicamente le proprie strutture murarie. La chiesa, costruita nel IV o V sec. è oggi consideratal Titulus di Aquila e Prisca, registrato negli atti del sinodo del 499 e, secondo la tradizione, si tratterebbe del più antico culto cristiano dell'Aventino, legato all'ospitalità ricevuta da san Pietro e san Paolo. Insomma tra sante martiri e imperatrici è una grande confusione.

    (romanoimpero)

     
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    GIULIA MAMEA



    Giulia Avita Mamea (latino: Iulia Avita Mamaea; 180 – 18 o 19 marzo 235) è stata augusta dell'impero romano e membro della famiglia dell'imperatore Settimio Severo. Figlia della siriana Giulia Mesa e di Giulio Avito, Mamea era nipote dell'imperatore Settimio Severo e sorella di Giulia Soemia. Sposò Gessio Marciano, da cui ebbe un figlio, il futuro imperatore Alessandro Severo. Come membro della famiglia imperiale, assistette da una posizione privilegiata agli eventi che portarono alla morte dell'imperatore Caracalla, figlio di Severo, e all'ascesa al trono di Eliogabalo, nipote di Giulia Mesa. Il nuovo imperatore e la madre Soemia si dimostrarono incapaci, e il favore della potente Giulia Mesa ricadde su Alessandro, il quale divenne imperatore nel 222 alla morte del cugino per mano della Guardia pretoriana.
    Poiché Alessandro aveva all'epoca quattordici anni, Mamea regnò nel nome del figlio, il quale la stimò tanto da nominarla, una volta giunto alla maggiore età, consors imperii ("consorte dell'impero"); fu in questa veste che Mamea accompagnò il figlio nelle campagne militari, con una abitudine iniziata da Giulia Domna, moglie di Settimio Severo. Mamea si recò quindi in oriente, per la campagna contro i Parti, e nelle province della Germania: fu proprio in questa occasione che Alessandro e Mamea si trovarono a Mogontiacum (moderna Magonza) quando le truppe si ribellarono e uccisero l'imperatore e sua madre.




    SALLUSTIA BARBIA URBIANA

    ( 225 - 227 d.c.)




    Alessandro Severo, ovvero Marco Bassiano Alessiano, della dinastia severiana, fu adottato dal cugino e imperatore Eliogabalo, che lo nominò cesare e gli fece assumere il nome di Marco Aurelio Alessandro, grazie ai maneggi di Giulia Mesa, la nonna materna di Alessandro, che era sorella di Giulia Domna, moglie dell'imperatore Settimio Severo (193-211) e madre degli imperatori Caracalla e Geta.
    Quando Iiulia Mesa vide che il sostegno popolare ad Eliogabalo stava crollando, decise che lui e sua madre Iiulia Soemia dovessero essere rimpiazzati da qualcuno più gradito al popolo. Si rivolse all'altra figlia, Iiulia Avita Mamea, e al di lei figlio, il tredicenne Alessiano, e convinse Eliogabalo ad associare il cugino al potere, per lasciare a lui le cure di stato e meglio dedicarsi a quelle religiose.
    Inutile dire che Eliogabalo fu assassinato dai soldati, e la corono passò al giovanissimo Alessandro, col nome di Marco Aurelio Severo Alessandro, governato dalla madre e dalla nonna.

    Gnea Seia Erennia Sallustia Barbia Orbiana, ovvero: Gnaea Seia Herennia Sallustia Barbia Orbiana, nacque da famiglia patrizia, figlia di Seio Sallustio, che fu poi giustiziato per questioni di palazzo, e a cui seguì l'esilio di Sallustia in Africa.
    Il suo matrimonio con l'imperatore Alessandro Severo fu combinato dalla madre di lui, Julia Mamaea, d'altronde all'epoca il matrimoni dei figli li decidevano i loro genitori.
    Sallustia era famosa per la sua bellezza e Settimio, appena sedicenne, la sposò per volere di sua madre, ma poi se ne innamorò e le effigi in cui si tenevano per mano sembrerebbero confermarlo. Il matrimonio che fece di lei un'imperatrice e un'augusta avvenne nel mese di agosto del 225 d.c.
    Proprio per l'amore che le portava, Settimio, contro il volere di sua madre, le concesse il titolo di Augusta che Iulia Mamaea avrebbe voluto per sè. Lucio Seio Sallustio, il padre di Orbiana, era prefetto del pretorio di Alessandro Severo, del quale aveva la completa fiducia. Seio fu così elevato al rango di cesare, probabilmente quando la figlia Sallustia Orbiana fu data in sposa ad Alessandro.
    In qualità di augusta, Orbiana venne ritratta su diverse emissioni monetarie, oggi rare a causa del breve regno, e spesso le immagini celebravano la concordia augustorum, la «concordia degli augusti», con Orbiana e Alessandro che si stringono la mano in un gesto di affetto e concordia. Fu l'unica moglie di Severo a venire effigiata sulle monete. A riprova della sua bellezza una pregevole statua di Sallustia si trova oggi ai Musei Vaticani, nel Cortile Belvedere, dove Sallustia è rappresentata nelle vesti di Venus Felix, accompagnata da Cupido, e la base porta la dedica di due liberti dell'imperatrice: "A Venere felice Sallustia ed Helpido hanno consacrato questa statua" Elpidio e Sallustia. La sua pettinatura, ornata da diadema, forma delle trecce che ricadono sul collo.



    L'ESILIO
    Si dice che Seio attentò alla vita del genero per succedergli sul trono per cui venne giustiziato mentre la figlia venne esiliata in Libia. Secondo Erodiano però, la caduta di Sallustio fu causata dalla madre dell'imperatore, Giulia Mamea. Alessandro amava teneramente sua moglie e viveva con lei, ma Sallustia fu allontanata dal palazzo da Mamea, che era gelosa del titolo di augusta, dell'affetto che il figlio nutriva per lei e probabilmente per la sua celebrata bellezza.
    Mamea, che aveva regnato da dietro il trono del figlio da quando questi era stato eletto imperatore all'età di quattordici anni, guidata per giunta da sua madre, la nonna di Settimio, Iulia Mesa, entrò in contrasto anche con Seio, cercando di cacciarlo insieme alla figlia. Mamea voleva una nuora da dirigere ma evidentemente sia lei che suo figlio opponevano una certa resistenza. Mamea aveva perduto il ruolo di protagonista e non poteva permetterlo.
    Sallustio, irritato da tanti raggiri e malevolenza, aveva deciso di ritirarsi presso il campo dei Pretoriani, dove sua figlia, per sfuggire alla crudeltà della suocera, lo raggiunse. Qui Sallkustio chiese alla guardia pretoriana di proteggere sua figlia, ma per questo fu accusato da Mamea di complotto contro l'imperatore, facendolo arrestare e mettere a morte.
    Pur senza accuse, ma per il solo fatto di essere figlia di un traditore, Sallustia venne privata del titolo di Augusta, suo marito dovette divorziare da lei e venne esiliata sulla costa africana; il tutto sarebbe avvenuto, secondo Erodiano, contro il volere di Alessandro, il quale però non ebbe il coraggio di opporsi alla dispotica madre.
    Più tardi Alessandro morirà insieme alla sua dispotica madre, assassinati dai soldati dell'usurpatore Massimino Trace, nel 235 d.c., ponendo così fine alla dinastia severiana. In quanto a Sallustia Orbiana l'esilio le evitò una fine così sanguinosa, anche se le fonti si dimenticheranno di lei, la giovanissima e bella Sallustia vittima di una suocera intrigante e gelosa.
    Forse se Iulia Mamaea non avesse perseguitato la nuora, magari Alessandro ben visto dal popolo per la bella e autonoma moglie, e non associato alla intrigante madre, se la sarebbe potuta cavare.




    ZENOBIA



    Zenobia, regina di Palmira, vissuta nella seconda metà del III secolo d.C., preferiva affermare, sottolineandolo, di discendere da Semiramide, da Didone e da Cleopatra piuttosto che di appartenere alla famiglia dei Seleucidi, anche sapendo che tale discendenza le avrebbe meglio garantito la legittimità del regno; esse infatti costituivano un modello per le sue aspirazioni e sostenevano, con il loro luminoso esempio, le sue ambizioni.
    L'autorizzazione data da donne non si ferma qui: un arazzo fiammingo, del XVII secolo, che fa parte della magnifica serie di arazzi Aureliano e Zenobia, conservati a Lucca, nel Palazzo Mansi, raccogliendo una tradizione, rappresenta la madre di Zenobia che, cingendo in un abbraccio la figlia e lo sposo Odenato, li unisce in matrimonio; a parte, un sacerdote, affiancato da un'assistente, compie dei gesti rituali.
    Quest'opera, insieme a molte altre: mappe, statue, stele funerarie, oggetti di uso domestico, monete, gioielli, maschere teatrali, oltre a gigantografie delle monumentali rovine di Palmira, è esposta in una bella mostra Zenobia. Il sogno di una regina d'Oriente (Torino, Palazzo Bricherasio, 13 febbraio-26 maggio 2002).
    Settimia Zenobia - tramandano le fonti - era bella, determinata, ambiziosa, combattiva; regnò, prima in compagnia del marito, poi, dopo la morte di questi, da sola, dal 267 al 272 d.C.; era molto colta: sapeva le lingue, l'egiziano, il greco e il latino (questo non perfettamente) e conosceva la storia egiziana e di Alessandria tanto bene da scriverne un compendio; non casuale l'interesse per la storia dell'Egitto, paese impregnato dal culto della grande Iside e nel quale le regine tolemaiche avevano svolto ruoli non di secondo piano.

    La basilissa Zenobia teneva a Palmira una corte fastosa e insieme illuminata, frequentata dagli intellettuali del tempo, come il filosofo ateniese Cassio Longino, che, in relazione con lei, ne appoggiò il disegno e la strategia politica, come il generale Zabda ne attuò l'impresa militare di espansione.
    Il progetto di Zenobia era di rendersi autonoma da Roma e di divenire signora dell'Oriente, riunendo sotto di sé la Siria, l'Egitto, l'Asia Minore, l'Arabia, regioni tutte nominalmente parte dell'impero romano, ma in realtà sfuggite al suo controllo; questo intento era tutt'altro che irrealistico, considerata la situazione di instabilità politica che minava allora la potenza romana; inoltre questi territori, in cui fianco a fianco, coesistevano etnie, lingue, culture, religioni diverse - la greca, la persiana, la romana, l'ebrea, la siriana - si mostravano tuttavia inclini e disponibili ad assumere una loro propria fisionomia, un profilo in qualche modo connotato e capace di autonomia culturale ed economica, che l'abile politica sincretistica di Zenobia esaltava e favoriva.

    La città e la corte di Palmira, più che un simbolo, ne erano la rappresentazione vivente: la vivace ed eclettica città, che sorgeva in una vasta e lussureggiante oasi nel deserto siriano, era il luogo di incontro delle piste carovaniere, che provenivano dall'estremo Oriente, dall'India, dall'Arabia e dalle coste del Mediterraneo; i continui transiti e scambi, incoraggiati dalle efficienti strutture di accoglienza palmirene, rendevano la città ricca e cosmopolita, così come l'architettura e l'urbanistica riflettevano l'osmosi delle diverse culture; fiorenti e raffinate, di sapore ellenistico, erano le arti figurative, l'oreficeria, la lavorazione della terracotta e delle composizioni musive.



    In un primo tempo l'imperatore Aureliano tollerò e forse accettò l'intraprendenza di Zenobia, anche perché la conosceva ottima amministratrice di stati, ma, quando la regina cominciò a presentarsi in pubblico avvolta in un manto purpureo, a farsi chiamare imperatrix (lei stessa infatti, a cavallo, conduceva gli eserciti in battaglia), a battere monete con la propria effigie e quella del figlio, si allarmò e ritenne di dover intervenire; quindi, con le sue milizie, piombò in Siria, attaccò e sbaragliò l'esercito della regina, che trascinò a Roma, orgoglio del suo trionfo. Sembra che a Roma Zenobia sia vissuta da sovrana, benché prigioniera, abbia sedotto col suo fascino Aureliano, che divenne suo amante (forse ebbero uno o due figli).
    La storiografia dell'epoca e quella posteriore non concordano nel giudizio su Zenobia: l'Historia Augusta, Triginta Tiranni, in Vita Zenobiae (30,1-22) ne dà un'immagine e un giudizio estremamente positivi, quasi il ritratto di una perfetta tra i principi, mentre la Vita Aureliani (26-30) la dipinge come donna arrogante e prepotente; lo storico Zosimo, nel V secolo, sminuisce la grandezza della regina, attribuendo a Cassio Longino e al generale Zabda il disegno e la realizzazione dell'autonomia e della magnificenza palmirene. La triade Semiramide-Cleopatra-Zenobia ebbe fortuna fino al Rinascimento.

    Septimia Zenobia si dichiarava discendente di Cleopatra, ma era figlia di un commerciante della gloriosa città di Palmira, il centro carovaniero più importante dell'impero romano. Però da Cleopatra ereditò tutto e come Cleopatra offrì al proprio paese l'ultimo momento di gloria nell'età della decadenza. Un grande sogno perseguito con tanta determinazione da sembrare realtà, anche se solo per un attimo, prima del crollo fatale. Zenobia fu l'erede di tutte le grandi donne d'Oriente. L'ultima a consegnarsi alla leggenda, dopo Didone e Semiramide. L'ultima a vagheggiare un impero siriano, dopo Giulia Domna, Giulia Maesa e Giulia Mamea. Ma mentre agli albori del III secolo d.C. le tre Giulie andarono a Roma e lì tesserono le loro trame per il figlio Caracalla, il nipote Elagabalo e il figlio Alessandro Severo, Zenobia qualche decennio più tardi restò nella sua terra, non volle sostituirsi al potere imperiale ma attaccarlo, vincerlo con la forza delle armi.




    "Non furono Petrarca o Boccaccio o Rossini a consolidare la sua fama. Zenobia era già leggenda in antico. Di lei si sa pochissimo, e le scarse fonti contrastano tra loro nel racconto dei fatti storici. Era già leggenda tra gli antichi. Correvano voci di un suo coinvolgimento nell'assassinio del marito Odenato, forse reo di aver troppo assecondato il volere di Roma, ma mai di lei si sospettò. Al marito si sostituì con un consenso quasi unanime, e tutto il popolo la seguì nel cambio di fronte, l'alleanza con la Persia. Perché sapeva farsi rispettare e amare, possedeva quel misto di femminilità e androginia capace di conquistare uomini e terre. Prima la Siria, poi l'Egitto e l'Asia Minore. Fino a che l'imperatore Aureliano decise di affrontarla, colpirla al cuore stesso del suo potere. Antiochia, Emesa, Palmira caddero una dopo l'altra. E la regina, prigioniera, fu portata a Roma per il trionfo, bellissima anche in catene, catene d'oro.
    Così il suo fascino di amazzone colpì Roma e si fissò nelle pagine degli storici. Che concordano, a parte qualche eccezione, nel celebrare la donna bellissima e austera, coraggiosa e determinata, emblema di un Oriente di sabbia ricco, colto e raffinato. Ma non ne descrivono l'aspetto, Zenobia è bellezza senza volto. Abbiamo, è vero, le immagini impresse nelle monete da lei coniate ad Antiochia e Alessandria (sfidò l'impero anche in questo), ma ritraggono la regina alla maniera di Roma, non sono veritiere.
    E allora piace vederla come le dame di molti ritratti funerari palmireni, austere e solenni nell'ostentare manti raffinati e gioie preziose. Oppure come quella che pubblichiamo e che accoglie il visitatore della bella mostra su Zenobia allestita a palazzo Bricherasio a Torino: più dolce ma ugualmente signorile compassata, elegantissima. Uno dei rilievi funerari palmireni donati da Federico Zeri ai Musei Vaticani, collezionati per ragioni personalissime (Zeri vantava una discendenza siriana, dall'antica Emesa) e in virtù di un'attenzione particolare per la novità e la vitalità dei linguaggi figurativi dell'epoca tardo antica.
    Nel rilievi palmireni c'è la città intera, la ricchezza dei suoì mercanti e il loro spaziare da oriente a occidente. Fissità dei volti tutta orientale e naturalismo classico. Volumi disegnati da linee geometriche che non creano ombre ma luminosità, complice anche il giallo caldo del calcare locale, la pietra del sole e del deserto.
    E' bello ammirare in mostra i rilievi funerari abbracciati dalle gigantografie della grandiosa via colonnata della città. Pare quasi di passeggiarvi, immaginando i rilievi come statue, alcune tra le mille oramai perdute che ornavano le colonne. Statue di ricchi e potenti palmireni che accoglievano trionfalmente l'ospite in città come in un grande salotto. Perché le vie colonnate dell'Oriente antico erano proprio questo, un esterno che pare un interno. E non stupisce allora che chi, già padrone dei deserti e conoscitore del mondo, seppe pensare la città intera come propria casa, abbia vagheggiato poi di ampliare la casa all'infinito, al mondo intero."
    (dal web)

     
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  4. gheagabry
     
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    ESTER

    (486 - 465 a.C.)



    Grande è l'importanza data a questa donna: il suo nome viene citato nella Bibbia ben 55 volte. Il nome di nessun'altra donna è ripetuto così spesso. Soltanto Sara si avvicina; il suo nome appare come Sara 35 volte e come Sarai 16, .
    La regina che ha preceduto Ester si chiamava Vasti, una bella donna nobile che ha avuto l'audacia di contraddire un ordine irragionevole del marito. Durante una lunga festa nella quale aveva bevuto molto, il re Assuero ordinò a sette eunuchi di convocare la regina Vasti davanti a lui per far sfoggia di fronte ai principi della sua bellezza. Vasti rifiutò e il re ne fu irritatissimo... l'ira divampò in lui. Ma proprio il rifiuto di Vasti ha permesso l'entrata di Ester nella storia.
    La ragazza (allevata dal cugino Mardoccheo, un Beniaminita, addetto alle porte del palazzo del re) viene notata per la sua bellezza e condotta con le altre giovani vergini di bell'aspetto nell'harem del re, come aspirante al posto della regina Vasti. Tra tutte le ragazze radunate a Susa, probabilmente solo Adassa (nome ebraico di Ester) non adorava gli idoli. Istruita come una figlia da Mardoccheo probabilmente aveva conosciuto da lui le verità riguardanti l'Iddio Altissimo, l'Eterno.
    Una volta davanti al re, Assuero amò Ester più di tutte le altre donne. La ragazza trovò grazia e favore agli occhi di lui più di tutte le altre vergini. Egli le pose in testa la corona reale e la fece regina al posto di Vasti. Divenuta regina, il suo nome è stato cambiato da Adassa, (il mirto) in Ester (la stella).
    E ben presto svolse un ruolo non comune nelle vite della sua gente, minacciata dalla distruzione. Ester si dedicò, non al piacere, alle comodità ed ai lussi del più suntuoso palazzo del tempo, ma alle aspirazioni, alle speranze ed alle ambizioni della sua gente.
    Quando Ester divenne regina, il re Assuero ignorava che fossa giudea, per lei fa una grande festa e sgravò di tasse i popoli dominati. Tutto questo perché attratto dall'amabilità e dalla bellezza di Ester.



    Pensando a lei, possiamo supporre che in questo palazzo magnifico si muovesse con dignità e splendore, portando abiti d'oro, gioielli di ogni sorta che spiccavano tra i suoi capelli e accanto agli occhi raggianti dalla meraviglia per ciò che le stava capitando. Possiamo immaginare che presto ha ipotizzato di essere stata posta a tale condizione non a caso, ma per un grande scopo.
    La regina Ester ha guadagnato il favore della gente che la circondava, per la sua saggezza, l'autocontrollo e la capacità pensare ad altri prima che a se stessa.
    Nel frattempo Ester scoprì che Aman, il favorito del marito, odia la sua gente. Da scrittori ebrei moderni Aman è stato descritto come un tipico Hitler, pieno di odio al punto da ordire un diabolico piano per distruggere tutto un popolo solo per orgoglio ed ambizione personale.
    Di fronte alla malvagità di Aman si oppone ed agisce il coraggio di Ester, pronta a difendere la sua gente anche a costo della propria vita.
    Ester è afflitta per lo scontro in corso tra lo Mardoccheo e Aman, ma si rende però conto che deve agire subito e con saggezza. Un messaggio da parte del cugino la mette infatti di fronte alla sua responsabilità:

    "Infatti se oggi tu taci,
    soccorso e liberazione sorgeranno per i Giudei da qualche altra parte;
    ma tu e la casa di tuo padre perirete;
    e chi sa se non sei diventata regina appunto
    per un tempo come questo?"
    (Ester 4:I4
    )


    Ester è risoluta: donna saggia e prudente, digiuna per tre giorni e coinvolge in questo non solo le sue serve, ma anche tutto il popolo ebreo che si trova nella città di Susa. Di fronte alla distretta tutto il popolo digiuna e, senz'altro anche se non è scritto, prega.
    Poi, Ester si prepara ad andare da suo marito per adoperarsi per la sua gente. Se il re, un uomo molto volubile, fosse stato di buon umore, ce l'avrebbe fatta, sennò, avrebbe potuto perdere oltre alla causa anche la sua stessa vita. Mentre Ester si preparata a comparire davanti al re, fa la dichiarazione più coraggiosa mai fatta da una donna nella Bibbia:

    "Se io debbo perire, che io perisca! " (Ester 4:16)
    (donnecristianenel web)



    Ester si presenta ad Assuero in tutta la magnificenza delle sue vesti regali e nello splendore della sua bellezza. Il re, abbagliato, la tocca con lo scettro d'oro e le salva la vita; ella così può presentare la sua richiesta, che consiste in un invito a cena nei suoi appartamenti con il ministro Aman. ad Aman le cose cominciano a non girare per il verso giusto, poiché è costretto ad onorare pubblicamente l'odiato Mardocheo, dopo aver creduto di essere destinato lui al pubblico trionfo. Ma gli eventi precipitano nel capitolo 7, dove Ester, nel corso del banchetto, accusa Aman di aver condannato a morte tutto il popolo ebraico, e quindi anche lei. Il sovrano monta su tutte le furie ed ordina di appendere Aman a quello stesso patibolo che aveva fatto innalzare per Mardocheo. Così descrive la scena Dante Alighieri:

    « Poi piovve dentro a l'alta fantasia
    un crucifisso, dispettoso e fero
    ne la sua vista, e cotal si moria;
    intorno ad esso era il grande Assüero,
    Estèr sua sposa e 'l giusto Mardoceo,
    che fu al dire e al far così intero. »
    (Purgatorio XVII, 25-30)


    Come molti grandi della storia, Ester si presenta come una figura molto umile, un'orfana ebrea vissuta durante la deportazione di Israele. In quattro anni la sua posizione cambia radicalmente ed Ester raggiunge il massimo del livello sociale: diventa la regina di una grande potenza mondiale, un ruolo che riesce a vivere saggiamente.
    Il racconto che troviamo nella Bibbia è ambientato al tempo delle guerre tra i persiani ed i greci nel palazzo suntuoso dell'impero persiano al tempo di Serse I (486 - 465 a.C.).
    Arazzi di cotone finissimo, bianchi e viola, stavano sospesi, con cordoni di bisso e di porpora, ad anelli d'argento e a colonne di marmo. C'erano divani d'oro e d'argento sopra un pavimento di porfido, di marmo bianco, di madreperla e di pietre nere. Si offriva da bere in vasi d'oro di svariate forme, e il vino alla corte era abbondante, grazie alla liberalità del re. Tutto questo viene descritto nel libro di Ester 1:6-7.




    Il discorso sulla storicità del libro di Ester si presenta complesso. Questo libro appare più come un « racconto esemplare » perfettamente costruito, che come un'effettiva narrazione di eventi storici. Basti ricordare l'incredibile equivoco in cui cade Aman, quando suggerisce al re di onorare chi è degno di lode con un pubblico trionfo, pensando che questi sia lui e non Mardocheo. Tutti i commentatori, sia antichi che moderni, riconoscono in Assuero il re persiano Serse, figlio di Dario I, che regnò dal 486 al 465 a.C., anno in cui fu eliminato da una congiura. Gli storiografi lo ricordano soprattutto per le dure sconfitte che subì a Salamina e a Platea dai Greci durante le guerre persiane. L'impero su cui egli regna si estende, secondo Ester 1, 18-19, dall'India all'Etiopia, ed è suddiviso in centoventisette province. Da notare che Erodoto enumera venti satrapie, ma è possibile che le province fossero suddivisioni territoriali più limitate rispetto alle satrapie. In Ester 8,13 si accenna all'efficiente sistema posseduto dai Persiani per trasmettere dispacci, cioè un sistema viario efficientissimo, percorso da corrieri a cavallo dalla velocità proverbiale. « I miei giorni passano più rapidi di un corriere », dice Giobbe 9,25
    (.fmboschetto)



    Berenice II

    Cirene 270-265 a. C. ca. - 220 a.C. ca.





    Secondo Callimaco, le Grazie non sarebbero tali se non fosse per Berenice, «che ad esse da poco si è aggiunta». Una meravigliosa serie monetale in oro la ritrae. Berenice II non è la prima né l'unica gran donna della dinastia lagide: già la nonna paterna, divinizzata assieme a Tolemeo I Soter aveva compiuto grandi opere; alla cugina (e poi cognata), figlia di Tolemeo II erano legate le cruente vicende della guerra Laodicea.
    Tutte le donne lagidi e seleucidi sono continuo oggetto di scambio a suggello di patti e alleanze, ma difficilmente il primato è contendibile a questa Berenice, figlia di Magas e Apame. Il suo nome, di tradizione macedone, significa “portatrice di vittoria”, la sua data di nascita è deducibile per sola via congetturale attorno al 270 a.C., dalla notizia del suo fidanzamento. Questa decisione di politica matrimoniale, attestata da Giustino (26.3) si colloca alla morte di Magas. Egli, come ultimo gesto di pacata opulenza, avrebbe, ad finienda cum Ptolomeo fratre certamina, dato in moglie al figlio del Filadelfo, il futuro Tolomeo Evergete, la giovane Berenice II. Siccome non c'è appiglio cronologico nel testo che permetta di precisare meglio la collocazione dei fatti rispetto a un arco di tempo 265-243, non c'è modo di sapere quanto ante infirmitatem Magas avesse preso tale decisione. Fatto sta che la madre di Berenice, Apame, non era così d'accordo, tanto che, alla morte del marito, avrebbe fatto chiamare Demetrio il Bello, fratello di Antigono Gonata, offrendogli la stessa, unica figlia in sposa. Sed nec Demetrius moram fecit dice Giustino, salvo però divenire amante di Apame alle spalle di Berenice. Ancora vergine, Berenice si accorse dell'inganno e fece uccidere Demetrio (salvando però la madre Apame) ritornando sul sentiero tracciato dal padre, per unirsi a Tolemeo III Evergete. Da questo momento la volontà di Berenice è dominante e, al di là delle disattese volontà del padre, si può con sicurezza dire che fu lei l'artefice e la volontà animatrice della riunificazione della Cirenaica all'Egitto, divenuta la potenza dominante in tutti i campi per tutta la seconda metà del III secolo.



    Non sappiamo cosa avvenne tra il 250 e il 246 (data della morte di Tolemeo II Filadelfo), ma dalla monetazione citata è plausibile dedurre che Berenice abbia governato in Cirenaica con la stessa autonomia del padre. Il 27 Gennaio 246 divenne regina, insieme al cugino e sposo, anche dell'Egitto. Nello stesso anno tuttavia anche Antioco II morì e Tolemeo III partì per una guerra nata da problemi di successione tra sua sorella (anch'essa Berenice) e Laodice, prima moglie di Antioco II. Berenice restò a governare Egitto e Cirenaica indipendentemente almeno fino all'estate del 245, quando Tolemeo ritornò da una campagna di vittorie a catena che tuttavia non aveva portato a possedimenti stabili. Già come basilissa di Cirene Berenice aveva attuato politiche simili a quelle paterne, stringendo fortissimi legami simbolici con Artemide il cui santuario era molto venerato a Cirene e, al momento della partenza di Tolemeo III, rimarcò la sua personale posizione politico religiosa con un gesto ben noto nella tradizione greca e presente anche in quella egizia: dedicò la sua chioma agli dei. Questo episodio di per sé rivela una continua attenzione alle dinamiche religioso-propagandistiche del periodo ellenistico, e diviene l'oggetto della famosa elegia della Chioma di Berenice scritta da Callimaco e tradotta da Catullo, dove si canta di come questo voto per il ritorno a casa del novello sposo, sia rapito in cielo e divenga costellazione al suo adempimento. Callimaco canta svariate volte di Berenice, come abbiamo già ricordato e non è di certo casuale che proprio in questo periodo si collochi l'apice della fioritura culturale alla biblioteca di Alessandria ad opera sua e di altri Cirenei.
    Berenice ebbe quattro figli noti: la piccola Berenice, morta a sette anni nel 238 a cui venne tributato un culto come signora delle vergini, Tolemeo, Magas e Arsinoe che sposerà il fratello.
    Altre notizie riguardo alla regina ci vengono dalle più svariate fonti anche se da periodi molto successivi, ma nessuna è discorde nel considerare l'avvedutezza della regina, campionessa olimpica, coraggiosa guerriera, devota ad Artemide.
    Riporto solo alcuni episodi rilevanti attribuiti a Berenice nel lungo periodo di pace e nel clima di fioritura culturale e commerciale attestato per il suo regno e per quello insieme a Tolemeo III. Igino, nel I sec. a.C. (de Astr. 2.24) dice che Eratostene avrebbe parlato di una legge con cui Berenice permetteva alle giovani Lesbie di reclamare la loro dote anche dopo la morte del padre se se ne fossero trovate prive. Un gesto da non sopravvalutare come straordinario ma di sicuro in linea con il clima di crescita culturale pacifica dell'impero tolemaico dell'epoca.
    Eliano invece riporta un interessante passo in cui Berenice interviene di nuovo in materia legale contro la leggerezza e dissolutezza del marito: mentre distribuendo condanne a morte egli giocava a dadi ella gli ricordò che «far cadere dei dadi e delle vite non è la stessa cosa» (VH 14, 43).
    Non poté che essere politica anche la fine di Berenice. Il figlio Tolemeo IV Filopatore, corrotto dal ministro Sosibio (Polib., 15, 25, 1-2) eliminato il fratello Magas, uccise tutti i suoi sostenitori e tra questi forse anche la madre.



    Già onorata come divinità insieme al marito dal 242, è attestato un altro culto sacerdotale per Berenice a partire dal 210 per almeno un secolo.
    Si accumulano, su queste fatiche umane (il tradimento, l'abbandono, la perdita della figlia), all'amministrazione di un regno che finalmente si volge alla pace: regina di prosperità e di crescita la sua cifra eroica è tutta umana. Dice meravigliosamente, in un monologo quasi introspettivo la stessa sua chioma (Catullo, 66,23-28): «quando la fatica divorò nel profondo le tue viscere già tristi, allora a te agitata nell'anima, partiti i sensi, la mente venne meno. E io che ti credevo così forte sin da piccola...»
    (Pietro Maria Liuzzo)

    È ricordata nella storia letteraria come ispiratrice di Callimaco (poeta e filologo greco, 305 – 240 a.C.) e in particolare, come protagonista di un delicato episodio, che ispirò il poeta.
    Alla partenza del marito per la guerra in Siria, Berenice consacrò ad Afrodite la sua chioma, per ottenerne un felice ritorno; essendo poi la chioma offerta sparita dal tempio, l'astronomo Conone immaginò che fosse stata trasformata in astro che identificò con una costellazione da lui appena scoperta, che chiamò appunto Chioma di Berenice.




    Edited by gheagabry - 2/2/2012, 13:43
     
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    SALOMINA MATIDIA

    68 - 119




    Nei manuali di storia non c’è. Non solo: Matidia è citata nelle Memorie di Adriano da Marguerite Yourcenar con una certa antipatia. Invece è stata una figura chiave per l’impero romano e in particolare per gli Antonini: nipote di Traiano e suocera di Adriano, è stata la nonna della moglie di Antonino Pio (il successore di Adriano), la trisavola della moglie di Marco Aurelio e la madre di sua nonna. In sintesi: tra imperatori che erano parenti tra loro solo alla lontana, Matidia ha costituito l’elemento di continuità della dinastia. E non un elemento passivo, anzi.
    Salonia Matidia era nata nel 68 d.C.: era la figlia unica di Ulpia Marciana, la sorella del futuro imperatore Traiano, e del pretore Gaius Salonius Matidius Patruinus. Morì nel 119, a 57 anni, molti per una romana. Marguerite Yourcenar racconta nel suo romanzo che aveva riportato dall’Oriente una malattia mortale e che Adriano, che le era molto affezionato, faceva di tutto per distrarla. Ammette che la casa di Matidia, ormai vedova, fosse piena di libri e l’atmosfera ricordasse quella della casa della colta Plotina, moglie di Traiano. In precedenza aveva ricordato che Matidia aveva seguito lo zio Traiano sui campi di battaglia: non in armi, ma come assistente. Tutti fatti veri.
    Tra l’81 e l’82, Matidia sposò Lucius Vibius Sabinus, un senatore che morì tra l’83 e l’84, poco dopo la nascita di una bambina, Vibia Sabina. Matidia era, come spesso accadeva, madre e vedova a 16 anni. Si sarebbe poi sposata altre due volte e avrebbe avuto altre tre figlie, tra le quali, appunto la nonna di Marco Aurelio, Rupilia Faustina. Anche gli altri due mariti sarebbero morti presto.
    Il suo primo capolavoro fu il matrimonio di Vibia Sabina con Adriano, verso il 100 dopo Cristo: lui aveva 28 anni, ed era un lontano parente (la famiglia era di origine iberica). Fino ad allora era stato soprattutto un giovanotto dotato per le lettere ma troppo incline al gioco, ai divertimenti e ai giovanetti, “vizietto” che condivideva con Traiano. Sabina, secondo molte fonti, aveva 12 anni. E l’avrebbe odiato per tutta la vita. Gli storici antichi sostennero che Traiano fosse contrario sia al matrimonio sia alla scelta di Adriano come suo successore (non aveva avuto figli). Plotina, sua moglie, era invece a favore. Probabilmente Traiano gli avrebbe preferito il giurista Nerazio Prisco. O forse non voleva nominare alcun successore. Le due donne, moglie e nipote, si imposero. E fu il loro secondo capolavoro. Che cosa esattamente accadde al momento della morte di Traiano, nel 117, non è chiaro: l’Historia Augusta, una raccolta di biografie imperiali, dice che Plotina fece imitare la voce di Traiano da un presente. Lo storico Cassio Dione afferma che la notizia della morte fu tenuta segreta per giorni e che l’adozione di Adriano fu annunciata al Senato romano con una falsa lettera di Traiano, scritta dalla stessa Plotina.
    A creare la falsa lettera di successione, assieme a Matidia e Plotina, era stato il prefetto al pretorio Publio Acilio Attiano, ex tutore di Adriano, che fu messo presto a tacere. Non sappiamo chi abbia ordinato la sua uccisione: forse il “buon” Adriano. Certo è che l’imperatore doveva tutto alle due donne. E non si rivelò un ingrato. Matidia poté assistere alla sua opera soltanto per due anni: dal 117 alla sua morte, nel 119. Adriano tenne una commossa orazione funebre, piena di elogi per le qualità delle suocera. E le fece subito costruire un tempio a Roma. Un caso unico. Che aspetto avesse l’edificio lo sappiamo da una moneta del 120. Dove fosse, l’abbiamo dedotto da una condotta d’acqua ritrovata in via del Seminario e che porta impresso il nome del tempio. Oggi non ne rimane quasi nulla.
    Nel recitare la laudatio funebris, il giorno del suo funerale (il 23 dicembre 119), Adriano parlò di una suocera “amatissima”, moglie “carissima”, “castissima” sia pure di “summa pulchritudo” (di grande bellezza), madre “indulgentissima” (del presunto “caratteraccio” di Sabina si spettegola da sempre), cognata “piissima”, che non fu mai di peso e molestia a nessuno (“nulli gravis, nemini tristis”). Ricordò che aveva sopportato con pazienza la lunga vedovanza anche dall’ultimo marito. Dell’elogio è rimasto un lungo brano inciso su pietra: forse era esposto nel foro di Tivoli. A parte gli spettacolari giochi gladiatori, Adriano ordinò che dopo la morte della suocera, già nominata Augusta dallo zio Traiano nel 107, fossero distribuite al popolo, come d’uso, sostanze aromatiche.
    E dunque perché Matidia? Perché nel periodo dei cosiddetti Cinque imperatori d’oro (Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio), le donne hanno giocato un ruolo fondamentale. Per esempio, nel nuovo modo di intendere il potere dell’imperatore. E tra le donne più influenti, Salonia Matidia ha avuto un ruolo cruciale. Per eredità, per matrimoni, per le sue stesse azioni. Ma anche perché era ricchissima e seppe utilizzare i suoi soldi per numerose opere pubbliche. Quanto fosse importante lo si vide già quando, nel 117, fu attribuito a lei l’onore di deporre le ceneri di Traiano ai piedi della colonna che porta il suo nome, a Roma. Proclamata Diva, ovvero divinizzata, dal genero Adriano dopo la morte, raccolse riti e tributi ovunque poiché le sue statue erano sparse in tutto l’Impero. Soprattutto tra Asia Minore e isole greche, dove aveva viaggiato e dove, oltre che un ritratto di marmo dall’aria severa, era apparsa anche come regnante in carne e ossa. Sarà un caso, ma fu proprio Adriano ad abolire la complicatissima e umiliante procedura legale che qualsiasi donna romana doveva seguire per fare testamento.
    (Valeria Palumbo, enciclopediadelledonne)





    « Proseguendo nel cammino, arrivammo ad un luogo dove i monti, attraverso i quali stavamo andando, si aprivano e formavano una valle immensa che si estendeva a perdita d'occhio, tutta pianeggiante e molto bella, e oltre la valle appariva la santa montagna di Dio: il Sinai. »
    (Egeria, Itinerarium 1, 1)


    EGERIA


    Galizia IV - V secolo



    Egeria, anche nota come Eteria (... – ...), è stata una scrittrice romana del IV-V secolo, autrice di un Itinerarium in cui racconta il suo viaggio nei luoghi santi della cristianità.
    Fu identificata da alcuni studiosi con Silvia, originaria della Gallia, parente del ministro dell'imperatore Teodosio I, Flavio Rufino. Nuove ricerche, invece, hanno permesso di stabilire che l'autrice dell'Itinerarium è la stessa pellegrina Egeria, menzionata in una lettera di un monaco di nome Valerio vissuto nell'Alto Medioevo.
    Egeria scrisse le proprie osservazioni in una lettera ora chiamata Itinerarium Egeriae, o Peregrinatio Aetheriae (il Pellegrinaggio di Eteria) o anche Peregrinatio ad Loca Sancta (Pellegrinaggio in terra Santa). La parte centrale del testo originale, circa un terzo, privo dell'inizio e della fine, venne ritrovata nel 1884 dallo studioso Gian Francesco Gamurrini in un manoscritto dell'XI secolo, scritto nell'abbazia di Montecassino e rinvenuto ad Arezzo , che venne pubblicato per la prima volta nel 1887 dallo stesso Gamurrini.
    Nel VII secolo il monaco Valerio, scrisse a sua volta una lettera in cui lodava l'autrice, fornendoci altre informazioni su di lei e sul suo itinerario. Altri testi successivi citano parti del testo perdute nel manoscritto di Arezzo, ma citate da Valerio.

    Valerio riferisce che si trattava di una monaca, che aveva scritto il diario di viaggio del suo pellegrinaggio in una lunga lettera alle sue consorelle (alle quali nel testo si rivolge appunto con l'appellativo di "sorelle").Tuttavia la libertà di un'assenza tanto lunga (circa quattro anni) e il costo considerevole del viaggio sembrano in contrasto con tale identificazione, mentre l'appellativo di "sorelle" e "fratelli" era frequentemente utilizzato all'epoca della redazione del diario anche al di fuori delle comunità monastiche: l'appellativo ha probabilmente tratto in inganno lo stesso Valerio. Egeria-Eteria era dunque più probabilmente una ricca donna della classe media, originaria probabilmente della costa atlantica della Spagna o della Gallia.
    Il pellegrinaggio di Egeria si svolse sicuramente, sulla base dei riferimenti presenti all'interno del testo ad altri avvenimenti, tra il 363 e il 540, ma la data più comunemente accettata è il 381-384. La parte del testo conservata descrive la fine della sua permanenza a Gerusalemme, dove si era trattenuta per tre anni. Il testo venne probabilmente redatto dopo la fine del viaggio, sulla base di appunti presi in precedenza e alcune descrizioni sembrano essere state redatte dopo il suo ritorno a Costantinopoli. Egeria doveva essere una donna di una certa cultura e si dimostra interessata ai luoghi e ai costumi, e alle loro differenze rispetto a quelli del suo luogo di origine, e non solo agli episodi edificanti; accoglieva con un certo spirito critico le notizie che le venivano riportate dalle sue guide. È tuttavia pienamente cristiana e descrive solo edifici, situazioni e personaggi cristiani, senza alcun riferimento a quelli pagani. Pone una particolare attenzione alla liturgia ed è di grande interesse per gli studiosi la descrizione di quella della Settimana Santa utilizzata in quest'epoca a Gerusalemme. Scrive in un latino probabilmente colloquiale, distante da quello classico e sembra che il suo maggiore riferimento sia stata la Bibbia, del cui stile si colgono gli echi in alcuni punti.
    Dal punto di vista linguistico il testo rappresenta una testimonianza dell'evoluzione del latino: espressioni come "deductores sancti illi" ("quelle sante guide", con il significato di "le sante guide") aiutano a far luce sull'origine dell'articolo definito nelle lingue romanze.

    Nella Pasqua dell'anno 381 dopo un lungo viaggio, iniziato forse dalle sponde atlantiche della Galizia o forse da un castello della Aquitania, una agiata signora di nome Egeria giunge finalmente a Gerusalemme.
    Agli occhi dei pellegrini Gerusalemme, affacciata sul deserto sassoso della Giudea, con i suoi improvvisi giardini di olivi e fiori all'interno delle mura, con le sue numerose chiese, appariva commovente e inebriante, anche per la memoria della Passione che in essa vi si cercava. Sappiamo che era allora una città povera, dalle case sbrecciate e le mura ferite; non priva di pericoli, ma ricca di costumi diversi e pittoresca per la varietà delle lingue che risuonavano nelle vie. Egeria era senz'altro una donna devota e determinata, probabilmente una vedova non anziana e certamente in buona salute, provvista di mezzi economici e senza legami familiari. Viaggiare così lontano allora voleva dire fare trasferimenti di 30 o 40 chilometri al giorno a cavallo o anche a piedi. Egeria era certamente coraggiosa: come tutti i viaggiatori in Terrasanta avrà incontrato i predoni che aspettavamo al varco i pellegrini e affrontato i soliti disagi - il clima e le malattie, il cibo e l'acqua scarsi.
    Nonostante questi pericoli fossero assai comuni, in quei secoli lontani accadeva che alcune donne, non poche, viaggiassero da sole. Succedeva per ragioni diverse: pellegrine, regine e nobildonne, badesse, ma anche mercantesse, percorrevano a piedi, in groppa al cavallo o all'asino, lungo i fiumi o per mare sopra imbarcazioni certo non confortevoli, le regioni d'Europa e si spingevano anche più lontano. Raggiungevano i Luoghi Santi, come la giovanissima vedova Melania - imitata più tardi da sua figlia e da sua nipote – o la beata Marcella, sollecitata da san Gerolamo a «entrare nella grotta del Salvatore e a salire pregando il Monte degli Ulivi» insieme a lui...
    Il caso di Egeria è un po' diverso perché possediamo fortunatamente il suo racconto di viaggio. L'Itinerarium, scritto in un latino un po' zoppicante infarcito di termini già volgari (“pisinno” per bambino), è indirizzato alle sue «dilette signore sorelle» rimaste al di là del mare: amiche o compagne che condividevano semplicemente la devozione religiosa, le letture e l'affetto, o forse appartenenti, con lei, a una comunità laica.
    Fra andata e ritorno Egeria sta lontana da casa per più di tre anni; non evita infatti digressioni che rendono più interessante il suo viaggio: a Costantinopoli arriva per mare e da là, percorrendo la strada militare che attraversa la Bitinia, arriva in Galazia, in Cappadocia; visita Tarso, poi Antiochia e da qui raggiunge Haifa (allora Sycamina), dove prega al monte Carmelo, sacro al profeta Elia. Giunge finalmente a Gerusalemme: eccola, la sospirata città, apparire alta sui colli. Parte da lì per varie escursioni: in Egitto, dove, prima di salire al Sinai, ammira al monastero di santa Caterina «il giardino bellissimo dove sgorga una fonte fresca e abbondante». Con poche parole, che ancor oggi si possono verificare, descrive la fatica dell'ascesa alla montagna erta e petrosa del Sinai, dalla cui cima può ammirare tutt'intorno la corona di monti che si apre in un silenzio sovraumano. Altro viaggio in Giudea, a Betlemme, a Nazareth, poi alla suggestiva collina dominata dall'Herodion ... Passando il fiume Giordano, Egeria arriva “in Arabia” dove sale al monte Nebo. Visita poi Emessa, famosa per la leggendaria corrispondenza fra Gesù e re Agbar, ritornando poi a Efeso per pregare sul luogo dell'apostolo Giovanni. Egeria commenta tutto questo con cura ma anche parsimonia; descrive le sue emozioni ricorrendo a immagini bibliche, dice poco o nulla di sé e dei suoi compagni di viaggio. Di lei sappiamo meno di quel che vorremmo, ma abbastanza per ricostruire l'avventura non così insolita, ma comunque rara, di una dama agiata che a cavallo fra IV e V secolo viaggia e scrive.
    (Mariateresa Fumagalli)



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    Galla Placidia



    Costantinopoli 390 ca. - Roma 450




    Nella prospettiva di un aristocratico romano degli inizi del V secolo la situazione si poteva probabilmente riassumere in questi termini: la bella e la bestia. Non diversamente si poteva concepire l’inaudito caso di una principessa imperiale caduta nelle mani di un barbaro, che poi l’aveva persino sposata.
    Poche figure come la protagonista di questa vicenda, Galla Placidia, rappresentano il dramma finale dell’Impero Romano. Quando nacque, figlia e nipote di imperatori, l’Impero era più esteso di quanto lo fosse stato ai tempi di Augusto; quando morì, nel novenbre del 450, Roma era già stata saccheggiata dai Goti, gli Unni erano passati come un vento infuocato sulle terre dell’Impero, la Britannia, l’Africa e buona parte delle Gallie erano perdute e i Vandali si accingevano a devastare una seconda volta il caput mundi. Di tutti questi eventi Galla non fu una semplice spettatrice ma una grande protagonista.
    Elia Galla Placidia era venuta al mondo attorno al 390 nel palazzo imperiale di Costantinopoli, figlia di Teodosio e della sua seconda moglie Galla, a sua volta figlia di un altro imperatore, Valentiniano; dal precedente matrimonio Teodosio aveva avuto due maschi, Onorio e Arcadio, i quali, dopo la sua morte, avvenuta nel 395, si sarebbero divisi le due metà dell’Impero.

    In Placidia si riunirono due dinastie imperiali romane, quella valentiniana e quella teodosiana. Suo nonno materno era l'imperatore Valentiniano I, suoi zii materni gli imperatori Graziano e Valentiniano II; entrambi i suoi due fratellastri (Arcadio e Onorio) furono imperatori; dei suoi due mariti uno, Ataulfo, fu re dei Visigoti, l'altro, Costanzo III, imperatore romano d'Occidente assieme ad Onorio; furono pure imperatori il figlio di Galla, Valentiniano III, e suo nipote Teodosio II, figlio di Arcadio.
    All'inizio degli anni 390 Placidia ricevette il titolo di nobilissima, che le dava una dignità pari a quella dei fratelli, e delle proprietà che la resero finanziariamente indipendente. Nel 394 la madre Galla morì neanche ventenne, a seguito di un parto in cui morì anche il bambino, Giovanni. In quello stesso anno Teodosio si recò in Occidente a combattere l'usurpatore Eugenio, che era succeduto a suo cognato Valentiniano II morto in circostanze misteriose; Teodosio lasciò a Costantinopoli Arcadio, mentre si fece seguire da Onorio e Galla Placidia, entrambi poi affidati alle cure di Serena, figlia di un fratello defunto di Teodosio e moglie del generale di origine barbarica Stilicone. Sia Onorio che Galla Placidia erano a Milano all'inizio del 395, dove assistettero alla morte di loro padre; la leggenda vuole che l'imperatore abbia affidato i propri figli alle cure del vescovo Ambrogio da Milano. Alla morte di Teodosio, l'Impero romano fu diviso in una parte orientale, sotto Arcadio, ed una occidentale, governata da Onorio; in realtà, però, il governo effettivo era nelle mani di Rufino e poi di Eutropio in Oriente e del generale Stilicone in Occidente. L'ambiziosa Serena intendeva legarsi strettamente al cugino Onorio e, nel 399 gli diede in sposa la figlia Maria, ma probabilmente il matrimonio non fu consumato a causa dell'impotenza di Onorio e allora, nel 400 Serena organizzò il fidanzamento di Galla Placidia con suo figlio Eucherio, che all'epoca avevano rispettivamente otto e undici anni. Il matrimonio tra Galla ed Eucherio fu rimandato per la giovane età dei due fidanzati, e alla fine non fu più celebrato. Accadde infatti che Stilicone, sempre più influente, fu oggetto di una congiura e assassinato, senza l'opposizione di Onorio, il 22 agosto 408. Quello stesso anno i Visigoti di Alarico, il quale era legato a Stilicone, calarono in Italia e discesero verso Roma, contando di trovare sostegno lì tra gli amici del generale barbarico assassinato e in particolare quello di Eucherio; questi fu però ucciso da alcuni emissari di Onorio, il quale stava rinchiuso a Ravenna.
    Alarico giunse a Roma e la mise d'assedio, desistendo solo per la robustezza delle sue mura. Nella città assediata, però, crebbe il rancore contro i sostenitori di Stilicone e la vittima fu Serena, processata dal Senato romano con l'accusa di aver chiamato i Visigoti a Roma. Al processo partecipò Galla Placidia, sia come membro della famiglia imperiale, sia come persona che conosceva bene Serena; è significativo il fatto che la sentenza capitale fosse emanata dal Senato e da Galla insieme, segno di un suo aperto schierarsi contro il partito di Stilicone e a favore della corte ravennate di Onorio.


    La vita di Galla ebbe una drammatica svolta nel 410; allora la principessa si trovava a Roma, dove fu coinvolta nelle convulse vicende che portarono il goto Alarico a conquistare e saccheggiare la Città Eterna. Tra il bottino dei vincitori vi era il più prezioso degli ostaggi, la sorellastra dell’imperatore Onorio. Alarico e i suoi prigionieri si diressero verso il sud Italia, dove il re goto morì improvvisamente. Il suo successore Ataulfo condusse il suo popolo nella Francia meridionale, portando con sé Galla, che sposò nel 414: fu così che la nipote dell’imperatore Teodosio finì nel letto di un reuccio barbaro. Ataulfo però era realmente innamorato di Galla, della quale subiva la forte personalità e di fronte alla quale avvertiva un forte senso di inferiorità culturale. Galla del resto era una donna abile e astuta, anche crudele, di temperamento completamente diverso da Onorio, il quale per tutta la vita non fu altro che un povero fantoccio nelle mani dei suoi consiglieri.
    Quando Galla e Ataulfo ebbero un figlio, i genitori lo chiamarono Teodosio, come il nonno: se fosse vissuto, sarebbe diventato il candidato al trono imperiale, e forse la storia di Roma avrebbe preso un corso differente. Ma il destino decise in altro modo. Il bambino morì subito dopo la nascita e poco dopo Ataulfo fu ucciso in una congiura. Il nuovo re goto, Sigerico, volle umiliare l’altezzosa principessa romana facendola marciare a piedi davanti al suo cavallo. Il successore di questo brutale soldato, Wallia, decise che era più conveniente restituire Galla ai Romani e così, nel 417, dopo sette anni di questa strana avventura, la principessa tornò a Roma, accolta in modo trionfale. In seguito, la vedova del re goto sposò un valoroso generale romano, Costanzo, dal quale ebbe una figlia, Giusta Grata, e un maschio, Valentiniano; sembra però che Galla si sia piegata controvoglia a questo matrimonio politico con un generale coraggioso ma rozzo e brutto. Dopo la morte di Onorio e del marito, riuscì a installare Valentiniano (che aveva sei anni) sul trono d’Occidente divenendone la tutrice. Così, dal 423 sino alla morte, Galla diresse di fatto l’impero in un periodo terribile, tra guerre e invasioni, cercando di mettere un freno al disfacimento dello stato con la sua abilità diplomatica e la sua non comune capacità d’intrigare, nonchè di sopperire all’imbelle inettitudine che il figlio condivideva con tutti gli eredi maschi della casata di Teodosio.
    Galla, come tutti i membri della sua dinastia, era una fervente (e anche intollerante) cattolica, e spesso s’intromise in questioni religiose. Morì alla fine del 450, e fu sepolta a Roma, non nel commovente Mausoleo che si era fatta costruire a Ravenna. Da quel momento non vi fu alcun freno alla decadenza: l’ultimo grande generale di Roma, Ezio, fu assassinato da Valentiniano, il quale a sua volta venne ucciso l’anno seguente. Lo stato romano era destinato a un rapidissimo tramonto: a Galla fu almeno risparmiato di vedere il secondo saccheggio di Roma da parte dei Vandali nel 455 e, circa vent’anni più tardi, la fine dell’Impero in Occidente.
    (Giulio Guidorizzi, enciclopedia delle donne)

    La caduta di Roma.



    Ora, vi chiedo di chiudere gli occhi e di dimenticare per un momento dove vi trovate. Dimenticate che siete in un'aula, dimenticate che siete studenti di chimica, dimenticate di vivere nel ventunesimo secolo. Provate ad immaginare qualcosa che è esistito nel lontano passato: l'antica Roma nei primi anni del quinto secolo della nostra era, 1500 anni fa. Sì, Roma, la città eterna, il centro del mondo, la culla della civiltà, il luogo dove portano tutte le strade. All'inizio del quinto secolo, Roma è ancora la più grande città d'Europa e la capitale dell'Impero Romano d'Occidente. Pensate alla città che si estende sui suoi sette colli, circondata dalle imponenti mura aureliane, piena di palazzi di marmo, mercati, anfiteatri, giardini e fontane. Il Senato Romano si riunisce ancora nella Curia ed i gladiatori combattono ancora nelle arene, come hanno fatto per secoli. Ma durante il quinto secolo, le cose sono cambiate molto per l'Impero. Le armate vittoriose di un tempo non ci sono più; l'imperatore stesso non vive più a Roma. Sta nella piccola città di Ravenna, protetto dalle paludi che circondano la città. E, nel 410, Roma è sotto assedio.
    Immaginatevi che fuori dalle mura di Roma ci sia un'intera nazione: uomini, donne, bambini, cavalli e bestiame. Decine di migliaia di persone che hanno marciato fin lì dal nord: i Visigoti. Sono guidati dal loro re, Alarico, ed ora stanno assediando Roma. Mentre l'Imperatore Onorio si nasconde a Ravenna, l'unica barriera che tiene i Barbari fuori dalla città è il cerchio delle antiche mura aureliane. Ma questo non può durare per sempre. Senza un esercito a difendere le mura, il risultato dell'assedio può essere solo uno. Nell'Agosto del 410, i Barbari entrano e saccheggiano Roma. Quella data sarà ricordata nella storia: la più potente città del mondo, la città “eterna” era caduta. Lo shock dell'avvenimento ha riecheggiato per secoli. Fra le altre cose, ha ispirato “La Città di Dio” di Sant'Agostino, ancora molto conosciuto oggi.
    Ora, com'è successo che la più grande città del mondo, la città “eterna”, sia stata saccheggiata da una banda di barbari? Era, in effetti, il punto di arrivo di un declino che continuava da secoli. Sapete che l'apice dell'Impero Romano è stato ad un certo punto del secondo secolo dopo Cristo. Dopo quel periodo è stato tutto un declino: guerre civili, invasioni barbariche, epidemie, carestie e così via. Non un processo continuo, naturalmente. Ci sono stati periodi molto difficili e dei periodi in cui l'Impero sembrava essere in grado di recuperare. Nel complesso, l'Impero d'Occidente è stato in grado di rimanere unito fino alla fine del quarto secolo. Ma, con l'arrivo del quinto secolo, le cose dovevano cambiare e, stavolta, l'Impero non si sarebbe mai più ripreso.
    Edward Gibbons ci fa un resoconto particolarmente toccante di quegli eventi nel suo “Declino e caduta dell'Impero Romano.” Nell'anno 405 (forse), l'inverno era stato davvero freddo – così freddo che le acque del fiume Reno si erano congelate. Quel fiume era stato il confine orientale dell'Impero per secoli; era stato scelto dopo che i Romani erano stati sconfitti dai Germani a Teutoburgo, molto tempo prima. Ma quando si è congelato, un gran numero di barbari lo ha attraversato. Quella è stata la fine delle fortificazioni di confine; i Romani semplicemente non erano più in grado di difenderle. Le mura sono state abbandonate e lasciate andare in rovina per sempre. E' stato un cambiamento epocale: anche se era da tempo che ormai le mura non fermavano più veramente i barbari, da quel momento in poi non ci sarebbe più stata nessuna barriera ai confini dell'impero. Dei barbari che avevano preso residenza all'interno dell'impero, una parte aveva marciato direttamente verso Roma. Ai piedi degli Appennini, di fronte alla città di Faesulae, oggi Fiesole, si sono scontrati con quello che Gibbons chiama “l'ultimo esercito della Repubblica”. I Romani avevano raccolto lì tutte le forze che potevano radunare e sono riusciti a fermare i barbari. Intrappolati in una stretta vallata, i barbari finirono quasi tutti uccisi o fatti prigionieri e venduti come schiavi. Il loro re, Radagaiso, fu catturato e decapitato sul posto. Questi eventi sono ancora ricordati come leggende nella zona dove la battaglia è stata combattuta.
    E' stata una grande vittoria per Roma ed in particolare per il generale che che conduceva l'esercito Romano: Flavio Stilicone. Ma c'era un problema: i generali di successo non piacciono mai agli imperatori. Inoltre, Stilicone era lui stesso un barbaro, un Vandalo. E questo non lo rendeva popolare fra i Romani. Così, l'imperatore Onorio lo fece giustiziare per tradimento. Questo è stato un grande errore, veramente grosso; si potrebbe dire che Onorio si è tirato una freccia in un piede con la sua stessa balestra. In quel periodo, l'esercito romano era composto principalmente da barbari e, col loro capo Stilicone tradito e ucciso, molti di loro disertarono. L'esercito si sbandò e quelli che avevano disertato si unirono all'esercito del Re Alarico. Ora, potete capire perché Roma era stata lasciata indifesa ed è finita col cadere in mano ai Barbari.



    Galla Placidia: Principessa Romana



    Quella che vi ho raccontato è la storia della caduta di Roma così come la possiamo trovare nei testi dei cronisti di allora. In realtà è rimasto molto poco delle fonti del tempo, molto di quanto abbiamo è stato scritto decenni, se non secoli, dopo gli eventi. Così, abbiamo bisogno di mettere insieme tutte le fonti che abbiamo per cercare di capire che cosa sia effettivamente successo. E c'è un lato umano degli eventi che va oltre il fatto che Roma era in declino e che alla fine è caduta. Possiamo solo immaginare quale fosse l'atmosfera a Roma durante i due anni di assedio, quello che la gente pensava e come vedevano un evento che - in ogni senso – devono aver trovato incredibile; veramente impossibile. Roma non era stata assediata per mille anni, era la più grande città del mondo conosciuto. Che potesse cadere per mano di un meschino signore Barbaro era... ma dai. Non può proprio essere! Il problema è che quando la gente affronta qualcosa che non combacia con il modo in cui si pensa che il mondo dovrebbe essere, tende ad ignorarla. Se non può, allora impazzisce. Ed i Romani sono impazziti. Hanno provato qualsiasi cosa gli potesse venire in mente per impressionare il Re Alarico. Hanno nominato un nuovo Imperatore, un certo Prisco Attalo, con tutta la pomposità del caso. Ma il re barbaro non era impressionato. In seguito hanno mandato da lui una delagazione di Senatori che ha riferito al Re quanto fossero numerosi i Romani. A ciò, Alarico ha risposto solennemente (immagino): “Più il fieno è spesso, più facilmente si falcia”. Ora, ditemi se questa non è la materia di cui sono fatte le leggende!
    A questo punto, i Romani sono veramente impazziti. Sì, sono andati fuori di testa di brutto. Hanno cominciato a cercare un colpevole, un capro espiatorio, qualcuno a cui addossare la responsabilità. Ora, vi ricordate che l'imperatore Onorio aveva accusato il suo generale Flavio Stilicone di tradimento, ovvero, di essere colluso coi Barbari. Quello era già un effetto della paranoia montante. Ma, nella Roma sotto assedio, la paranoia era salita su di svariate tacche. Qualcuno aveva notato che la vedova di Stilicone, Serena, era a Roma. Se suo marito era stato un traditore, lei doveva essere a sua volta una traditrice. Serena era la cugina dell'Imperatore Onorio, una nobildonna di alto rango. Ma quando la paranoia diventa la regola, genera il peggio. Serena fu accusata di tradimento, condannata a morte dal Senato e giustiziata per strangolamento. Ed è a questo punto che vediamo apparire per la prima volta Galla Placidia nella storia come adulta, aveva circa 20 anni a quel tempo. Ci viene raccontato dallo storico Zosimo che l'esecuzione di Serena fu fatta “con il consenso di Galla Placidia”.
    C'è una piccola storia da raccontare, qui. Torniamo indietro di qualche anno. Il padre di Placidia, Teodosio primo, “Il Grande”, è stato l'ultimo Imperatore Romano a governare sia l'Impero d'Oriente sia quello d'Occidente. Aveva due figli maschi, Arcadio ed Onorio, ai quali aveva lasciato l'Impero. Ad Arcadio è toccato l'Oriente e ad Onorio l'Occidente. Ma Teodosio aveva anche una figlia più giovane, Galla Placidia, alla quale non era toccato nulla. Allora come oggi, essere donna non è un vantaggio quando si tratta di ereditare un Impero. Ma Teodosio potrebbe aver capito che i suoi due figli maschi non sarebbero stati dei buoni imperatori (e non lo sono stati) e quindi ha tenuto Placidia in riserva; una cosa che in seguito si è rivelata una mossa azzeccata. Teodosio lasciò Placidia alle cure del suo miglior generale, Flavio Stilicone, che l'ha cresciuta nella sua famiglia con sua moglie Serena, che era anche la nipote di Teodosio. Così, negli anni dell'assedio, Placidia era a Roma, probabilmente ospite della sua madre adottiva Serena. Ora, possiamo a malapena immaginare una situazione in cui il Senato decide di condannare a morte una nobildonna di alto rango, come Serena, fra le altre cose la cugina dell'imperatore regnante. Ma Placidia era di rango ancora più alto in termini di nobiltà. Aveva il titolo di "puella nobilissima." Penso che conosciate sufficientemente il latino per tradurre questo titolo che, naturalmente, è l'equivalente di un'odierna “principessa”. Quindi, in un certo senso, i Senatori si sono sentiti in imbarazzo all'idea di uccidere Serena ed hanno chiesto al nobile di rango più alto a Roma, Placidia, di prendersi la responsabilità di quello che era, a tutti gli effetti, un omicidio legalizzato. E le hanno chiesto di avallare l'omicidio di qualcuno che era allo stesso tempo sua madre adottiva e sua parente stretta.
    Non possiamo dire, naturalmente, cosa sia passato per la mente di Placidia a quel tempo. Non possiamo nemmeno essere sicuri che lei avesse approvato realmente qualcosa del genere. Di questa storia sappiamo solo grazie ad una frase di Zosimo, un greco che ha scritto più di un secolo dopo quegli eventi. Ma, se è accaduto, è stata la prima decisione politica di Placidia nella sua vita, qualcosa che ci dovrebbe dare l'idea del suo modo di pensare. Probabilmente, potrebbe aver semplicemente ceduto sotto lo stress del momento. Ma potrebbe anche aver pensato che opporsi al Senato non avrebbe fatto differenza. Avevano già preso la folle decisione di uccidere Serena, che cosa gli impediva di decidere di uccidere anche Placidia? Dopo tutto era la figlia adottiva di Stilicone, avrebbero potuto pensare che fosse una traditrice anche lei. Così, probabilmente Placidia ha deciso di non combattere una battaglia che non poteva vincere. Era il suo stile: non contrastare l'inevitabile. Vedremo che questo stile riaffiorerà più di una volta in seguito. Placidia sapeva essere flessibile, adattarsi e prosperare in situazioni davvero difficili.
    Con l'esecuzione di Serena, la presunta traditrice, possiamo immaginare che i Romani si aspettassero che i Visigoti sparissero in uno sbuffo di fumo. Ma, naturalmente, non è accaduto. Nel 410, i Visigoti entrano a Roma e la saccheggiano e non solo: si prendono un trofeo molto importante: la stessa Galla Placidia, puella nobilissima. Gli storici non dicono niente sul rapimento di Placidia, che magari sia stata trascinata via dal suo palazzo mentre scalciava ed urlava – non dicono proprio nulla su questo punto. Probabilmente questo significa qualcosa. Non dobbiamo pensare che Placidia fosse felice di unirsi ai Barbari ma, ancora una volta, non ha cercato di evitare l'inevitabile. Non possiamo nemmeno escludere che si potesse sentire più al sicuro coi Barbari che con gli infidi Senatori Romani. Almeno per quello che ne possiamo sapere, i Visigoti hanno trattato Galla Placidia con tutti gli onori dovuti ad una puella nobilissima, sorella dell'Imperatore in carica.0
    Così, i Visigoti hanno lasciato Roma e si sono diretti a sud, con l'idea di attraversare il mare, verso l'Africa, e di insediarsi lì. Sono arrivati alla punta più a sud della penisola Italiana, ma non sono riusciti ad attraversare fino in Africa perché una tempesta ha distrutto le loro navi che avevano riunito sulla costa. A questo punto, il Re Alarico è morto e la leggenda dice che sia stato sepolto sotto il letto del fiume Busento, insieme alla sua parte dell'oro saccheggiato a Roma. Un altro evento che sa di leggenda. C'è gente che sta ancora cercando quel tesoro oggi! 0
    A quel punto, bloccati nel sud Italia e a corto di viveri, i Visigoti non avevano altra scelta che tornare indietro, ripercorrendo lentamente la loro strada. Erano guidati dal loro nuovo re, Ataulfo, fratellastro di Alarico. Il viaggio verso il sud Italia li aveva indeboliti considerevolmente e, quando sono arrivati vicini a Roma, non si potevano nemmeno immaginarsi di saccheggiare la città di nuovo. Hanno proseguito e, infine, si sono fermati nel sud della Francia, ormai abbandonata dall'Impero Romano. E, lungo il cammino, Placidia ha sposato Ataulfo, forse in Italia o forse a Narbonne, in Francia. E' accaduto nel 414, quattro anni dopo la caduta di Roma.

    Credo che stiate tutti immaginandovi il matrimonio di Galla Placidia e Ataulfo e, infatti, dev'essere stato qualcosa di speciale: un vero matrimonio imperiale. E' stato celebrato in pompa magna e con grandi festività romane. Abbiamo addirittura una descrizione dei magnifici regali che sono stati fatti a Placidia dal bottino che i Goti avevano catturato a Roma. Il discorso di matrimonio è stato fatto da un Senatore Romano, Prisco Attalo, quello che reclamava il titolo di Imperatore dal tempo dell'assedio di Roma. Attalo ha anche cantato una canzone al matrimonio; sapete, è stato qualcosa di speciale: pensate di avere un Imperatore che canta al vostro matrimonio!0
    Galla Placidia, la principessa romana, assumeva volentieri il titolo di “Regina dei Goti”. Dico “volentieri” perché non ha mai rinnegato quel titolo in vita sua, a prescindere da quanto le è accaduto – e vedremo che sono accadute molte cose. Ma perché? Voglio dire, lei aveva già il titolo di Principessa , aveva buone possibilità di sposare un pretendente al trono di Imperatore e diventare lei stessa Imperatrice. Perché avrebbe voluto diventare la Regina di una nazione barbara? Inoltre, pensate che Ataulfo era il fratellastro di Alarico, il re che aveva saccheggiato Roma. Naturalmente, 1500 anni dopo i fatti, non possiamo dire cosa passasse nella mente di Galla Placidia e non possiamo escludere che ci fosse un elemento romantico nella sua decisione. Questo porta a chiedersi se Ataulfo fosse un bell'uomo, ma non abbiamo un suo ritratto. Non sappiamo nemmeno quanti anni avesse al momento del matrimonio. Sappiamo che era stato sposato ed aveva quattro figli, ma non abbiamo idea di cosa fosse accaduto alla sua prima moglie. Quindi possiamo solo dire che, probabilmente, era più vecchio di Placidia, ma questo è tutto. Sappiamo molto di più di Placidia, anche se non abbiamo un ritratto nemmeno di lei. Ma, se vogliamo capire questa storia, dobbiamo immaginarci i volti di questi personaggi. Sono sicuro che ve li siate “visti” mentalmente entrambi – le nostre menti sono fatte così; pensate a quando parlate al telefono con qualcuno che non avete mai incontrato – non potete evitare di costruirvi un'immagine mentale di lui o di lei.
    Quindi, qual era l'aspetto di Placidia e Ataulfo? Il modo migliore in cui possiamo immaginarcelo è quello di pensare a un barbaro contemporaneo di rango simile che conosciamo: Flavio Stilicone, il generale Vandalo che era il padre adottivo di Placidia. Abbiamo un dittico d'avorio di lui e sua moglie, Serena, e del loro figlio Eucherio. In quest'immagine Stilicone è rappresentato come alto e bello. Un po' solenne nei suoi abiti Romani. Ataulfo potrebbe essere stato simile a lui: alto, bello e con la barba.
    E Placidia? Bene, come ho detto, non abbiamo un suo ritratto. Potremo cercare di farci un'idea del suo aspetto dal ritratto di Serena, sua cugina. Qui è mostrata alta quasi quanto suo marito, Stilicone, e come una signora bella e imponente – probabilmente aveva sui 40 anni quando è stato realizzato il dittico. Indossa una collana vistosa che sembra fatta di perle. Sapete, c'è una leggenda che dice che Serena è stata maledetta da quando si è portata via una collana da un statua della dea Rea Silvia – forse è proprio quella collana. In realtà, sembra che l'intera famiglia di Stilicone sia stata maledetta. Lui e lei sono morti di morte violenta, compreso il figlio Eucherio. Ma questa è un'altra storia, diciamo solo che il ritratto di Serena ci dice, perlomeno, come si potesse vestire Placidia nelle occasioni ufficiali: una veste elaborata detta “palla”.
    Ma non sappiamo gran che del volto di Placidia. Possiamo vederla rappresentata in alcune monete coniate durante il suo regno come Imperatrice. Il problema è che queste rappresentazioni sono tutt'altro che realistiche. E' lo stesso problema che abbiamo con Cleopatra, la regina egiziana. Tendiamo a pensare a Cleopatra come ad una bella donna, ma non abbiamo alcun ritratto che possiamo riferire a lei con certezza. Così, guardando il suo volto sulle monete, sembra francamente brutta. Ma, naturalmente, questi ritratti sulle monete non avrebbero dovuto essere qualcosa di realistico e possiamo felicemente continuare a immaginare Cleopatra con il volto di Elizabeth Taylor, che l'ha interpretata in un vecchio film di Hollywood.
    Ora, con Placidia, abbiamo lo stesso problema che con Cleopatra. Se Placidia fosse come appare su molte delle monete che abbiamo, be', ehm... dovremmo compatire il povero Ataulfo che l'ha dovuta sposare. Ma, come per Cleopatra, queste monete non erano realistiche. In effetti, monete diverse mostrano volti di Placidia molto diversi fra loro, quindi possiamo ragionevolmente essere sicuri che, nella maggior parte dei casi, chiunque abbia fatto quei ritratti non aveva avuto occasione di vedere l'imperatrice in volto. Alla fine, la cosa più vicina ad un ritratto di Placidia di cui siamo in possesso è un medaglione d'oro. Uno di una coppia in cui l'altro mostra il fratellastro Onorio. Penso che possiamo dire che questo medaglione ci dia almeno un'idea dell'aspetto di Placidia. Guardandolo, vediamo che aveva lineamenti fini ed un collo sottile, sotto la sua elaborata acconciatura. Di sicuro abbiamo buone ragioni per immaginarla come una bella donna. Dopotutto sua madre, Galla, era detta “la più bella donna dell'Impero Romano”.
    Sposando Ataulfo, Placidia potrebbe semplicemente aver ceduto all'inevitabile, com'era nel suo stile personale. Ma, seguendo il proprio destino, Placidia potrebbe anche aver avuto un piano specifico ed aveva un modo per far propria ogni opportunità, quando ne vedeva una. Era una principessa romana ed aveva questa potenzialità di diventare Imperatrice. Non avrebbe potuto farlo finché suo fratello Onorio era in vita, ma Onorio non aveva figli. Quindi Placidia aveva sicuramente qualcosa in mente quando ha chiamato il figlio che ha avuto con Ataulfo “Teodosio”, lo stesso nome di suo padre Teodosio “Il Grande”. Da quello che ci raccontano gli storici, sembra chiaro che l'idea di Placidia era niente meno che prendersi il trono del suo fratellastro, Onorio, e iniziare una dinastia Gotico-Romana che avrebbe dominato l'Impero. Un piano ardito, se mai ce ne fosse stato uno.
    Ma c'era molto di più nei piani di Placidia che semplicemente dominare un Impero. Vedete, il quinto secolo è simile ai nostri tempi per molte ragioni, una della quali erano le grandi migrazioni. Era un tempo in cui la gente marciava e marciava, sempre in cerca di un luogo dove insediarsi e questo portava molti contrasti, battaglie e guerre. Per i Romani, le persone che entravano nel loro impero erano invasori o, in qualche caso, immigranti. Con il termine “Barbaro” si intendeva semplicemente “straniero”. Legali o illegali che potessero essere, gli immigrati erano visti con sospetto – proprio come noi oggi guardiamo i nostri immigrati. A quel tempo, proprio come oggi, c'erano persone che volevano rispedire gli immigrati a casa loro o far piazza pulita di loro in un modo o nell'altro. Ma non era facile e, come abbiamo visto, gli immigrati sono diventati numerosi e potenti abbastanza che sono stati in grado di saccheggiare Roma. Quindi, i Romani avrebbero dovuto imparare come vivere coi loro immigrati Barbari. Ma al tempo di Placidia, molti Romani proprio non riuscivano a rassegnarsi all'idea che lo dovessero fare. Sarebbe bello, a questo punto, dire che Ataulfo e Placidia vissero felici e contenti e che il loro figlio, Teodosio, diventò imperatore romano e, allo stesso tempo, re dei Goti. Ma le cose non sono andate in quel modo, naturalmente. Era un bel sogno, ma anche un sogno impossibile.[..]
    (Traduzione a cura di Massimiliano Rupalti dal post su “Cassandra's Legacy” del 22 Dicembre 2011)


    Edited by gheagabry - 2/1/2013, 22:53
     
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    Dhuoda

    803 d. C. ? -





    «La madre». Così viene definita Dhouda da alcuni storici. Mi domando se è una definizione significativa. Corretta certamente sì: Dhouda scrive un Liber Manualis per il figlio Gugliemo, quindicenne, lontano, consegnato dal padre Bernardo di Settimania (grande famiglia nobile del tempo) in ostaggio all’imperatore Carlo il Calvo.
    Dhouda è dunque in qualche modo segnata dalla sua maternità. Rimane tuttavia, quella di “madre”, una definizione generica, relativa, all’interno del genere femminile, come puella, soror , filia, mulier e via dicendo. A me piace definirla scrittrice (ed è una delle prime scrittrici medievali di cui possediamo un’intero testo) che riflette sui temi morali della sua posizione, sui doveri e le difficoltà di un giovane uomo, il figlio, lontano da casa; sulla cultura e sulla società del suo tempo.
    Veniamo dunque al suo Liber Manualis scritto intorno all' 843 per il figlio Guglielmo. Dhouda è un’aristocratica nata in Francia o forse in Catalogna (sappiamo così poco di lei); sposa un cugino di Carlomagno e, moglie sottomessa e praticamente abbandonata dal marito sempre in guerra, vive nel castello di Uzès, nel Midi francese, una zona solitaria e silenziosa che accentuava certamente la melanconia della donna lontana da tutto. Erano tempi di ferro: lunghe lotte fra i discendenti di Carlomagno laceravano l’impero da lui costruito, impoverivano le terre e opponevano le famiglie dei nobili schierati su diversi fronti.
    Dhouda nel suo isolamento non si abbandona all’angoscia, che pure trapela nelle sue parole, ma legge e scrive. In un latino qualche volta scorretto ma “inconfondibile, efficace e sensibile” (P. Dronke) rappresenta il suo stato di solitudine femminile in una società in guerra, ma anche ciò che le letture (la Bibbia e i Padri come Agostino e Ambrogio ma anche alcuni scrittori pagani come Plinio e Ovidio) le hanno insegnato. Eppure si definisce, come altre donne di quei secoli che non erano andate a scuola e vivevano chiuse nelle loro dimore o nei monasteri, una “fragile donna”, una muliercula, ripetendo il topos dell’inferiorità femminile che più tardi sarà paradossalmente anche di Rosvita e della potente Ildegarda, di Eloisa stessa … Topos che segnala la interiorizzazione dolorosa del generale giudizio maschile sulla donna.
    Dhouda è una donna colta (certamente più colta del marito guerriero) e conosce le teorie e il calcolo aritmetico e la simbologia dei numeri tipica delle scuole carolinge.



    Sarebbe scorretto sottovalutare il progresso fatto dalla matematica prima dell’introduzione dei numeri arabi: Dhouda, donna e “laica” pur isolata dai centri culturali, raccoglie dal passato una eredità notevole, e oggi quasi sconosciuta, di cultura aritmetica “romana” e scrive di calcoli e esercizi matematici complessi intrecciati a riferimenti allegorici. Carlomagno, appassionato alla matematica e all'astronomia, aveva ordinato infatti che il computus fosse insegnato in tutte le scuole episcopali e monastiche. «Il Liber Manualis è pervaso di ‘sacra’ matematica…Il Tre è sacro come la Trinità divina …e così il Quattro come i Vangeli, il Sette come loro somma, il Sei come le Età del mondo …» (Franco Cardini).
    Dhouda si augura che il figlio pur nella sua situazione di quasi prigioniero, continui gli studi e «accresca la sua biblioteca ogni giorno».
    La maggior parte del Manualis è tuttavia dedicata alla riflessione morale: è interessante il duplice codice proposto dalla donna al figlio, un sistema etico non convenzionale che si riferisce a due ordini di doveri; quelli del giovane verso la Corte del sovrano e quelli del cristiano verso Dio. Accanto alle virtù religiose Dhouda segnala dunque comportamenti positivi e molto terreni nel loro valore, la discretio come misura e controllo dell’emotività; la gioia che è fonte di energia; la generosità che distingue il vero uomo nobile. Sono le tre virtù tipiche della cultura provenzale di tre secoli dopo: mezura, joys e largeza.
    Ecco un brano del Manualis: «Anche se tu o figlio sei sommerso da impegni terreni […] ti prego di leggere sovente questo mio libretto e […] anche se i tuoi volumi sono molti ti chiedo di non dimenticarlo. Vi troverai quel che desideri sapere e anche uno specchio nel quale scorgere al di là di ogni dubbio lo stato di salute della tua anima, al fine di essere gradito non solo a questo mondo ma anche e soprattutto a ‘Colui che ti creò dal fango’.»
    Dhouda non avrebbe più rivisto suo figlio, “giustiziato” dal suo signore.
    (Mariateresa Fumagalli)

     
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    "Molte volte mi unii a uomini nel mio sacro letto, Cleonice Cirilla era il mio nome, da Eros desiderata per Afrodite Pafia. In questa tomba giaccio grazie alla devozione degli amanti".
    (Iscrizione su lastra tombale di marmo scolpita a rilievo,
    raffigurante Afrodite Genitrice, da Tessalonica (Salonicco), II sec. d.C.)


    "LE SUONATRICI DI FLAUTO"



    Le origini della pratica della prostituzione sacra in Mesopotamia risalirebbero al III millennio a.C.. Annualmente infatti veniva praticata la ierogamia, usanza cultuale che consisteva nell’unione sacra tra il sovrano, che impersonava il dio Dumuzi, e una prostituta, nelle vesti della dea Inanna (l’accadica Ishtar). Questa usanza religiosa, chiamata dagli studiosi “matrimonio sacro”, avveniva all’interno del tempio e aveva il compito di assicurare la fecondità della terra, degli armenti e la prosperità del paese e del popolo. Tale cerimonia continuò ad essere praticata nei millenni con lo stesso scopo. La prostituzione sacra inoltre è attestata non solo in ambito mesopotamico ma anche in Siria, Fenicia e Cipro. In questi casi le notizie giungono dalle fonti classiche. Luciano, nel suo De Dea Syria, descrive le cerimonie della prostituzione sacra a Biblo in onore del dio Adone, mentre Sant’Agostino narra della prostituzione sacra che si svolgeva nel tempio di Baalbek per la dea Venere e Virgilio spiega la pratica svoltasi a Cipro in onore della divinità Astarte per la fondazione di Cartagine. Tutto ciò permette di intuire che, molto probabilmente, il culto della prostituzione sacra ha avuto una grande diffusione nell’antichità, sia nel tempo che nello spazio. In Mesopotamia il luogo della prostituta era il tempio dedicato alla dea della fertilità, la dea Ishtar. Il complesso templare della divinità comprendeva alloggi e terreni coltivati per sostenere una gerarchia femminile prestigiosa. Come lo Harem, il tempio era strutturato in un sistema gerarchico piramidale al cui vertice era posta l’alta sacerdotessa, ruolo che spesso apparteneva alla figlia del sovrano che, proprio per la carica di cui era intestataria, personificava la dea Ishtar durante la cerimonia del sacro matrimonio. Sotto di lei prestavano servizio almeno due gradi di sacerdotesse, le cosiddette “prostitute del tempio”, distinte in sacre prostitute e ragazze di commercio; queste ultime in particolare lavoravano nei postriboli. La prostituzione sacra costituiva una parte rilevante del culto di Ishtar mentre l’attività delle prostitute commerciali era secondaria. In particolare quest’ultima, sebbene collegata al tempio, era un’attività finalizzata soprattutto all’accumulo di ricchezze del complesso sacro. Erodoto, nel primo volume delle Storie, descrisse la figura della prostituta, ed è probabile che delineasse il ruolo della prostituta commerciale piuttosto che di quella sacra. Egli scrive infatti:

    “Turpe è invece questo costume, per cui ogni donna, una volta in vita sua, andare a sedersi presso il tempio di Afrodite e prostituirsi uno straniero. Molte donne, sdegnose di mescolarsi alle altre e orgogliose della loro ricchezza, vanno al santuario su un carro coperto e là si dispongono ad aspettare, con un numeroso seguito di servi. Ma per lo più si mettono a sedere entro il recinto sacro di Afrodite con una corona attorno al capo con corda e ve ne sono in gran numero: le une arrivano, le altre se ne vanno. In mezzo ad esse vi sono dei passaggi liberi, segnati da funi tese in tutte le direzioni, là circolano gli stranieri e fanno la loro scelta. Quando una donna ha preso posto nel sacro recinto, non può tornarsene a casa se prima un forestiero, dopo averle gettato del denaro, non si sia unito con lei dentro il tempio. E, gettandone il denaro sulle ginocchia non si sia a lei congiunto all’interno del tempio. Nell’atto di gettare il denaro egli deve dire queste parole: “Invoco su di te la dea Militta”.Militta è il nome assiro di Afrodite. La somma può anche essere piccolissima, e non sarà rifiutata dalla donna, che non ne ha il diritto: infatti quel denaro diventa sacro; ella deve seguire il primo che gliene getta e non può rifiutare nessuno. Dopo essersi unita con il forestiero e aver sciolto l’obbligo verso la dea, la donna torna a casa e dopo d’allora non riusciresti più a comprarla per nessuna somma. Le donne belle di viso e di corpo ritornano dal tempio presto, le altre vi restano a lungo senza riuscire a pagare il debito alla dea: ve ne sono alcune che vi rimangono tre o quattro anni.

    Alcuni studiosi però ritengono che Erodoto abbia confuso le prostitute commerciali con quelle sacre. In realtà l’unico appunto che si potrebbe fare alla descrizione è legato all’idea che le prostitute concedessero favori sessuali agli stranieri; ciò non ha riscontro nella cultura mesopotamica e piuttosto sembra una caratteristica appartenente alle prostitute fenicie, le quali erano solite guardare fuori dalle loro finestre con l’intento di ammaliare i marinai, tendenzialmente stranieri, che giungevano a riva.
    D’altro canto a confermare l’esistenza, all’ interno del tempio, di prostitute che concedevano favori sessuali agli stranieri come servizio dovuto alla dea Ishtar, è un’ iscrizione su una tavoletta proveniente da Sippar in cui è scritto che alcune donne babilonesi venivano assegnate all’esercito in modo da provvedere ai bisogni del personale militare. Erodoto, quando parla degli stranieri che ricevevano i favori sessuali dalle prostitute, potrebbe quindi riferirsi ai militari dell’esercito, molti dei quali stranieri. È verosimile pensare poi che alcune tra le prostitute venissero chiamate con i seguenti appellativi, volti ad evidenziare le loro caratteristiche distintive: kharimatu, shamkhat e kezretu. Il primo epiteto indicava coloro che erano recluse, il secondo distingueva le donne che indossavano abiti sgargianti e il terzo era riferito alle prostitute che portavano capelli ricci. Le kharimatu inoltre esercitavano la loro professione nel santuario di Ishtar e pare siano proprio le prostitute descritte da Erodoto. Il ruolo della prostituta devota alla dea Ishtar era finalizzato alla prosperità del paese e per questo motivo la donna veniva stimata; sebbene la pratica in sé svolta non rispecchiasse un codice morale completamente accettabile dalla società di cui faceva parte. Quindi c’è qui una specie di contraddizione tra il rispetto dovuto alle prostitute data l’importanza del loro incarico e la riluttanza a livello morale nell’accettare i mezzi attraverso il quale esso veniva svolto. Infatti, in quanto prostituta, essa era venuta meno al destino comune di donna, ossia di moglie e di madre, risultando quindi inferiore a se stessa. Detto ciò si percepisce che il ruolo della prostituta non fosse considerato come una scelta ma piuttosto uno status, se così si può dire, che il destino le aveva riservato. Essendo prostituta era la donna di tutti gli uomini ed era quindi incapace di assicurare una discendenza e di prendersi cura della famiglia, ecco perché la sua vita doveva essere sacrificio e appartata rispetto a quella delle altre donne. Si deduce che la sua persona non poteva però essere disprezzata in quanto il suo ruolo le era stato delegato dalle divinità le quali sono fautrici del destino dell’intera popolazione.



    In Grecia, la prostituzione rimase a lungo legata al sacro. Le prostitute che partecipavano ai culti erano venerate al pari delle Dee. Contribuivano al rafforzamento delle credenze, al rispetto degli Dei, a volte anche alla prosperità delle città grazie ai doni che le venivano fatti.
    (Violaine Vanoyeke: La Prostitution en Grèce et à Rome. Les Belles Lettres, Paris 1990)..
    Scrive l’Henriques: “Le auletridi provenivano in genere dai porti ionici dell’Asia Minore. Loro precipue caratteristiche erano il suonare il flauto [aulòs], il danzare e il darsi all’amore venale, ed erano enormemente richieste. Gli intrattenimenti delle auletridi dopo un banchetto o persino nel corso di esso erano considerati come un’assoluta necessità, di modo che uomini in vista gareggiavano per ottenere i servizi delle più famose tra queste esecutrici. Ateneo (XIII, 607) racconta di uno spettacolo offerto dai partecipanti ad una solenne colazione data da Antigono in onore di una delegazione arcadica. ‘Ma quando, dopo che il vino era corso a fiumi fece seguito ad altri spettacoli l’ingresso delle danzatrici della Tessaglia indossanti, secondo il loro costume, solo veli intorno ai fianchi, i vecchi delegati non poterono trattenersi più a lungo e, balzati in piedi, si misero ad urlare per ciò che vedevano di meraviglioso, inneggiarono al re chiamandolo uomo felice perché poteva godere di simili cose: indi si dettero a commettere molte altre volgarità…’. Non è difficile immaginare come finisse il banchetto. I ricevimenti offerti alle odierne delegazioni straniere hanno senzaltro perso un poco di quel colore.” Alcifrone scrive che le suonatrici di flauto avevano anche una “patrona”, Venere Peribasia [ancheggiante], e nel corso della sua festa si riunivano in festini cui erano esclusi gli uomini.

    Un’eco del senso magico dei sacri accoppiamenti l’abbiamo dai riferimenti a queste ierodule come a delle vere e proprie ministre di culto. Ad esse ci si rivolgeva con rispetto per avere delle preghiere e dei sacrifici in aiuto ad imprese politiche e militari, come in occasione delle guerre persiane contro il re Serse. Quando la battaglia arrise ai Greci, le ierodule di Corinto vennero onorate come dee; si eressero statue ed ex voto in loro onore, i loro nomi furono scolpiti in un’epigrafe posta nel tempio assieme a un’epigramma che gli dedicò il poeta Simonide. Sacerdotesse o semplici ierodule che fossero, le ministre di Afrodite erano rispettate in tutta la Grecia certamente di più di quanto non lo fossero le donne normali. Non c’era festa o cerimonia ove non fosse reclamata la loro presenza. Avevano posti riservati nei teatri assieme alle più alte cariche della magistratura. Gli erano in particolar modo consacrate le feste Afrodisie e le Adonie. Non è neanche da escludere che quelle festività riservate alle sole donne, come quelle di Bona Dea a Roma, fossero in realtà la sopravvivenza di antiche cerimonie di iniziazione omosessuale femminile, non prive di relazione con il mondo della magia.
    Ad Atene le prostitute frequentavano assiduamente i Filosofi. Pare che Epicuro impartisse i suoi insegnamenti ad almeno sei cortigiane. Aristotele ebbe un figlio da una di queste, Erpillide. Il famoso libro di Aristotele “Etica Nicomachea”, così spesso commentato da arcigni quanto severi professori, era dedicato appunto a questo figlio: Nicomaco. Spesso Socrate interrompeva volentieri i propri discorsi per andare a contemplare le grazie di Teodotea. Nei banchetti i Filosofi erano soliti circondarsi di queste cortigiane.



    Amate e ripudiate, sfruttate e rese immortali nei versi dei poeti, le prostitute nell'antica Roma hanno avuto un ruolo sociale di primo piano, come testimoniano centinaia di documenti risalenti al periodo compreso tra il 200 a.C. e il 250 d.C.. le case d'appuntamento a Roma e nell'Impero erano molto frequentate, e le prostitute non attiravano le attenzioni solo dei ceti medio-bassi. L'aristocrazia vedeva nel sesso a pagamento uno svago e una attività economica con un notevole flusso di denaro contante dai profitti alti e dai costi - anche quando le schiave e la casa dovevano essere acquistate - relativamente modesti. Così, le prostitute avevano libero accesso anche a terme e spettacoli, luoghi ed eventi destinati ad accogliere un gran numero di persone. La discriminazione sociale, tanto a cuore ai patrizi, era paradossalmente elusa in edifici d'uso pubblico e non in zone malfamate. Gli aristocratici erano evidentemente liberi di patrocinare gli incontri alle terme, ma rischiavano la loro reputazione se avessero messo piede in un bordello o popina . L'idea di reprimere o creare zone riservate per le prostitute - come fecero in seguito i cristiani - non sfiorava nemmeno il pensiero dei cittadini romani: per loro era sufficiente incaricare alcuni ufficiali di sorvegliare i bordelli e mantenere l'ordine pubblico.
    (THOMAS A. J. McGINN)

    Nella Roma arcaica l'adulterio era considerato reato solo se veniva commesso dalla donna, e veniva punito in modo più severo della vicina Grecia. Era addirittura prevista la pena di morte se il pater familias lo riteneva necessario. Le donne ufficialmente dichiarate adultere, come le donne di rango inferiore (le lavoranti nei circhi, nei teatri, nella prostituzione), vengono private a scopo punitivo del diritto di contrarre un legittimo matrimonio e della facoltà di trasmettere pieni diritti civili.
    Eppure nell'antica Roma c'era un notevole permissivismo per le relazioni sessuali con prostitute: un rimedio che lo stesso Cicerone consigliava affinché i giovani non cercassero di "godersi le mogli degli altri". Naturalmente si pretendeva che le ragazze arrivassero vergini al matrimonio. Una cosiddetta donna di "facili costumi", se non ha solo occasionali rapporti con il marito della matrona (un romano libero non è mai colpevole di adulterio), può ufficialmente convivere in famiglia come concubina. Il concubinato, importato con molte modifiche da Atene, diviene un istituto tipicamente romano. E' sulle concubine che, ad un certo punto della storia romana, possono essere fatti gravare i rischi del parto, evitati alle spose ufficiali, protette dal sistema sociale. La matrona non ha difficoltà ad accettare le relazioni del marito con schiave o donne non rispettabili. Secondo quanto riferisce Svetonio, era la stessa moglie che forniva ad Augusto donne del genere.



    Ovidio fa risalire il primo caso di prostituzione alle Propetidi, fanciulle di Amatunte, nell'isola di Cipro; esse subirono questa condanna per aver offeso Venere.

    Sunt tamen obscenae Venerem Propoetides ausae
    esse negare deam; pro quo sua numinis ira
    corpora cum fama primae vulgasse feruntur,
    utque pudor cessit, sanguisque induruit oris,
    in rigidum parvo silicem discrimine versae.



    Ma le dissolute Propètidi giunsero al punto di negare che Venere fosse una dea. Per l'ira del nume, si dice che fossero le prime a prostituire il corpo e le grazie loro; come persero il pudore, il sangue si seccò nei loro volti, e furono mutate rapidamente in rigide pietre.
    (Ovid. Metam. XV. 238-242)

    "Un documento amministrativo del tempio di Astarte, su alabastro del 470 a.C. Trovato a Kition (Larnaka) nel 1879, potrebbe far pensare alla presenza di personale dei due sessi dedito alla prostituzione sacra" (Ribichini 2001, 59)
    Sembra certo che a Erice, nel tempio di Venere ericina, tale forma fosse praticata: consoli e pretori romani, ogniqualvolta venivano in Sicilia, non mancavano di onorare il temenos di Erice con sacrifici e onori magnifici. Diodoro aggiunge poi che essi, a dispetto della severità del loro incarico, "deponevano il rigore della loro autorità, passavano allo svago e s'intrattenevano con delle donne in grande allegria" (Ribichini 2001, 57). A Erice si svolgeva una solenne celebrazione durante la quale sfilavano le prostitute sacre, o ierodoulae. Essa si svolgeva alla presenza degli abitanti e degli stranieri di passaggio, tra i fumi dell'incenso e della mirra e con danze orientaleggianti (Spano, 2009, 54).

    Un altro tempio che certamente ospitò le ierodulae fu quello di Locri Epizephirii nel Brutium. Narra Giustino (Iust. XXI 3, 2):

    Cum Reginorum tyranni Leophronis bello Locrenses premerentur, voverant, si victores forent, ut die festo Veneris virgines suas prostituerent.

    Quando i locresi furono attaccati dal tiranno di Reggio Leofrone fecero voto che, se avessero vinto, avrebbero fatto prostituire le loro figlie nel giorno sacro a Venere.



    La storia greca ci riporta a molte figure di etére, alcune delle quali ebbero, attraverso i loro amanti, la possibilità di influire su scelte politiche spesso importanti.
    Ricordiamo Aspasia, amata da Pericle. Nata a Mileto, si era trasferita ad Atene dove, secondo alcuni, era tenutaria di una casa di tolleranza e praticava la professione di etéra. Ricordiamo che tale figura femminile non è alla concezione moderna, ma che essa comportava una somma di conoscenze e competenze non solo sessuali ma estese alla letteratura, alla musica, alla filosofia... Aspasia, dopo essere stata amata anche da Alcibiade divenne l'amante di Pericle e successivamente, secondo alcuni, la sua moglie legittima ed ebbe da lui un figlio. Sulla figura di questa donna, tuttavia, gli storici, anche recenti, hanno formulato ipotesi diverse e spesso contrastanti, alcune delle quali ne negano la tradizionale professione e la indicano invece come una donna di grande intelligenza e culura filosofica.



    Lais, o Laide, nacque in Sicilia, ad Icari, Hykkara (l'odierna Carini. N.d.R.) e fu presa schiava dagli Ateniesi di Nicia quando, nel 415 a.C., durante la sfortunata spedizione contro Siracusa, distrussero la città; fu poi a Corinto dove era così stimata da poter chiedere somme impensabili a chi volesse passar del tempo con lei.
    Trasferitasi in Tessaglia suscitò l'interesse di tutti i Tessali, ma l'ira delle loro donne, che l'uccisero a colpi di sgabello durante un rito femminile in onore di Venere, al quale gli uomini, che altrimenti l'avrebbero difesa, non partecipavano (Visconti, 1821,4).
    La Tessaglia, punita dalla dea dell'amore con una pestilenza a espiazione di tale misfatto, le costruì uno splendido sepolcro. Ma un altro, forse un cenotaffio, le fu eretto a Corinto; il monumento ci viene descritto da Pausania (L. II, 2, 4):

    καὶ τάφος Λαΐδος, ᾧ δὴ λέαινα ἐπίθημά ἐστι κριὸν ἔχουσα ἐν τοῖς προτέροις ποσίν.

    e il sepolcro di Laide, in cui una leonessa che sovrasta un ariete, lo afferra con le zampe anteriori. Il sepolcro di Laide divenne poi, durante il regno di Adriano (117-138), tema di monete corinzie.

    Tra le auletridi o suonatrici di flauto la più famosa fu forse Lamia, che "esercitò" per circa vent'anni ad Alessandria ed ebbe come cliente affezionato lo stesso Tolomeo I Sotere, sovrano d'Egitto. Passò poi, ormai quarantenne, a Demetrio Poliorcete.



    É famosa anche la storia, narrata da Plutarco (Alex. 38) che narra come Taide (Thaïs), etéra al seguito di Alessandro il Grande, lo abbia indotto a incendiare Persepoli, a conclusione di uno di quei sfrenati banchetti cosí frequenti alla corte del Macedone. Ecco il testo, nell'originale e nella nostra traduzione:

    ἐν δὲ τούτοις εὐδοκιμοῦσα μάλιστα Θαῒς ἡ Πτολεμαίου τοῦ βασιλεύσαντος ὕστερον ἑταίρα, γένος Ἀττική, τὰ μὲν ἐμμελῶς ἐπαινοῦσα, τὰ δὲ παίζουσα πρὸς τὸν Ἀλέξανδρον, ἅμα τῇ μέθῃ λόγον εἰπεῖν προήχθη, τῷ μὲν τῆς πατρίδος ἤθει πρέποντα, μείζονα δ’ ἢ καθ’ αὑτήν. ἔφη γάρ, ὧν πεπόνηκε πεπλανημένη τὴν Ἀσίαν, ἀπολαμβάνειν χάριν ἐκείνης τῆς ἡμέρας, ἐντρυφῶσα τοῖς ὑπερηφάνοις Περσῶν βασιλείοις· ἔτι δ’ ἂν ἥδιον ὑποπρῆσαι κωμάσασα τὸν Ξέρξου τοῦ κατακαύσαντος τὰς Ἀθήνας οἶκον, αὐτὴ τὸ πῦρ ἅψασα τοῦ βασιλέως ὁρῶντος, ὡς ἂν λόγος ἔχῃ πρὸς ἀνθρώπους, ὅτι τῶν ναυμάχων καὶ πεζομάχων ἐκείνων στρατηγῶν τὰ μετ’ Ἀλεξάνδρου γύναια μείζονα δίκην ἐπέθηκε Πέρσαις ὑπὲρ τῆς Ἑλλάδος. ἅμα δὲ τῷ λόγῳ τούτῳ κρότου καὶ θορύβου γενομένου καὶ παρακελεύσεως τῶν ἑταίρων καὶ φιλοτιμίας, ἐπισπασθεὶς ὁ βασιλεὺς καὶ ἀναπηδήσας ἔχων στέφανον καὶ λαμπάδα προῆγεν· οἱ δ’ ἑπόμενοι κώμῳ καὶ βοῇ περιίσταντο τὰ βασίλεια, καὶ τῶν ἄλλων Μακεδόνων οἱ πυνθανόμενοι συνέτρεχον μετὰ λαμπάδων χαίροντες.

    ...fra le quali c'era la famosissima Taide, Ateniese, che era l'etéra di Tolomeo, che sarebbe poi divenuto re. Lei, ora lodando Alessandro, ora vezzeggiandolo, quando si comincò a bere, iniziò un ragionamento che, anche se era tipico delle usanze della sua patria, non era consono alla sua condizione di donna. Ella disse di aver ottenuto in quel giorno la ricompensa di tutte le fatiche che aveva sostenuto nel venire in Asia poiché si sentiva felice all'interno degli splendidi palazzi dei Persiani, ma sarebbe stata ancor più felice se avesse potuto ridurre in cenere il palazzo di Serse, che aveva incendiato Atene, la sua patria. Allora, sotto gli occhi del re, accese una fiaccola, affinchè gli uomini potessero dire che le donne al seguito di Alessandro avessero inflitto ai Persiani, per vendicare la Grecia, una punizione maggiore di quella ottenuta dai suoi famosi generali in terra e in mare. A queste parole sorse un applauso rumoroso e frenetico. I compagni del re lo spronarono, ed egli, levatosi in piedi, con la corona in capo, con la fiaccola davanti a sé li guidava. Tutti i presenti, gridando e rumoreggiando, seguirono il re; e gli altri macedoni, avendo sentito il rumore, accorsero subito felici, con le fiaccole.



    La bellissima Frine, un'ètera greca, divenne l'amante del retore Iperide, del pittore Apelle e dello scultore Prassitele di cui fu modella: divenne ricchissima. Divenne celebre per il suo processo, perchè il tribunale di Atene l'accusò di empietà per aver posato nuda nei panni della dea Afrodite, in alcuni riti. Fu assolta grazie al suo amante, Iperide che, denudandola davanti ai giudici, chiese come si poteva offendere una dea con una simile bellezza.


    (roth37)


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    Edited by gheagabry - 20/4/2012, 03:13
     
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    Le Vestali





    Le Vestali costituivano l’unico forma di sacerdozio al femminile presente nell'antica Roma, inizialmente erano quattro, poi passarono a sei e tale numero rimase fino allo scioglimento dell’ordine. Prestavano il loro servizio nel Tempio di Vesta, il quale era inizialmente rappresentato dal focolare domestico della casa del re e solo le figlie di quest’ultimo erano autorizzate a sorvegliarlo, poi ad esse si sostituì un gruppo di sacerdotesse che furono quindi definite Vestali.

    Il loro compito principale era quello di sorvegliare che non si spegnesse mai il fuoco sacro (colei che non adempiva a questo compito veniva fustigata in un luogo oscuro e fatta vestire soltanto di stracci), oltre a questo partecipavano ad altri riti, tutti strettamente connessi al culto domestico, e inoltre dovevano custodire e proteggere la statua sacra della dea Atena Pallade.




    Le aspiranti Vestali erano fanciulle in età compresa fra i sei ed i dieci anni appartenenti a famiglie patrizie; entrambi i genitori dovevano essere in vita e godere di ottima salute, una volta elette le Vestali dovevano restare nel sacerdozio per trenta anni, preservando la loro verginità. La vestale che non rispettava quest’ultima regola veniva uccisa (in effetti veniva seppellita viva, in quanto il sangue della vestale non doveva essere versato a terra).



    Allo scadere del trentennio di servizio le Vestali erano libere di poter ritornare presso la loro famiglia d’origine e sposarsi, ma dalla storia sappiamo che alcune di loro decisero di restare nel tempio per tutta la vita, come ad esempio la Vestale Cossinia di Tivoli alla quale ancora oggi è dedicato un monumento nella sua città natale; alla loro morte venivano sepolte all'interno delle mura della città.
    Inizialmente le Vestali erano scelte dal re, poi in seguito il loro ordine passò al Collegio dei pontefici, e venivano prescelte attraverso il sorteggio ed all'atto della loro consacrazione, facevano dono dei loro capelli alla Dea, e vestivano in modo austero.



    Le Vestali conducevano una vita molto agiata, e questo grazie alle donazioni private ed ai lasciti testamentari, fatti anche da molti imperatori. Dal momento che a questo ordine arrivavano ingenti somme di denaro, provvedevano anche ad aiutare i bisognosi; oltre a questo potevano concedere la grazia a chi fosse stato condannato a pene corporali.
    Erano molto onorate e rispettate e le Vestali avevano molti diritti non concessi alle altre donne romane, infatti avevano posti privilegiati a teatro, e partecipavano attivamente alla vita della città. Nel IV° secolo dopo Cristo, l'ordine si dissolse a causa dell’editto di Teodosio (394 d.C.) il quale proibiva qualunque culto pagano, decretando così la fine del sacerdozio delle Vestali.



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    Edited by gheagabry - 3/6/2012, 18:46
     
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    LE DONNE ROMANE



    La donna romana cominciava dalla nascita ad affrontare mille difficoltà per la sua sopravvivenza. In età traianea in una città le persone ammesse all'assistenza alimentare erano 179, di cui 145 maschi e solo 34 femmine. Il che dimostra quanto la condizione femminile fosse considerata al di sotto di quella maschile, sia pur sempre migliore di quella greca, dove era alla stregua di una schiava. La donna era considerata un essere inferiore, con pochissimi diritti e totalmente sottomessa prima al padre e ai fratelli, poi al marito.

    Quando vennero rapite le Sabine nel famoso ratto, le donne accettarono di andare spose solo a certi patti che i Romani accettarono: le sabine non avrebbero mai dovuto lavorare per i loro mariti, salvo filare la lana; per la strada gli uomini dovranno cedere loro il passo; nulla di sconveniente sarà detto a loro o in loro presenza; nessun uomo potrà mostrarsi nudo davanti a loro; i loro figli avranno una veste speciale (praetexta) e un ciondolo d'oro (bulla aurea).
    I Romani promisero ma presto dimenticarono.



    La sproporzione tra maschi e femmine derivava da un lato dall'ingiustizia sociale che preferiva aiutare i maschi anzichè le femmine, e poi dall'uccisione delle neonate, per l'antichissima usanza della pubblica esposizione. Con l'avvento del patriarcato le donne non possono combattere, e pertanto sono di peso e vanno eliminate, o tenute quel tanto che serve per procreare. Nel duro passaggio dalla libertà delle donne sabine alla semischiavitù romana, i Romani ebbero la meglio e le leggi sabine che proteggevano le donne scomparvero.
    Ne lasciarono però un'impronta, perchè le donne romane non furono totalmente schiave come le Greche, segregate come in cella nel gineceo senza alcun diritto. Anzi rispetto alle donne barbare erano privilegiate. Un'altra impronta la lasciarono gli Etruschi, dove le donne erano nei diritti quasi uguali agli uomini.

    Virgilio nell'Eneide scrive della volsca Camilla, che durante la guerra contro Enea guida il suo popolo combattendo a cavallo, accompagnata da una schiera di vergini guerriere, le amazzoni. Un tempo le donne combattevano ed erano fiere, lo testimonia anche Cesare che dichiara in Senato, a chi lo accusa di essere donna per la sua omosessualità, che le amazzoni erano donne, eppure avevano dominato l'Asia, non lo cita come un mito ma come un accaduto.




    Nel patriarcale mondo romano il rapporto tra i sessi era cambiato. Si nasceva ufficialmente solo con il rito del riconoscimento. Dopo il parto il neonato veniva deposto in terra. Se il capofamiglia lo sollevava in aria con gesto rituale, veniva accolto come figlio legittimo dalla famiglia e dalla società, altrimenti veniva esposto, cioè abbandonato nella strada.
    I neonati più a rischio di esposizione erano i deformi, gli illegittimi e le femmine.

    Ma altrove non era diverso, anche nella civile Atene. Il commediografo greco Posidippo indicò la regola degli Ateniesi: "un figlio maschio lo si alleva sempre anche se si è poveri. Una femmina la si espone anche se si è ricchi."
    In una commedia di Terenzio un tale dichiara tranquillamente alla moglie incinta che se metterà al mondo una femmina la dovrà esporre perché lui non la vuole.
    Si è spesso criticato Sparta, che gettava dalla rupe i neonati deformi. Ma un'antichissima legge, attribuita a Romolo, obbligava il padre a mostrare i neonati maschi che voleva esporre esporre a cinque vicini, i quali dovevano giudicare se malformazioni o gracilità ne giustificassero l'esposizione. Ma le neonate anche di robusta costituzione venivano esposte senza alcuna formalità. Romolo allora per evitare il loro eccessivo abbandono impose di allevare almeno le primogenite.

    Una domanda: ma se i Romani fecero "il ratto delle Sabine" perchè mancavano le donne, come mai le ammazzavano da neonate? I conti non tornano, anzi il ratto non conta, e il mito è un mito, i Romani assalirono i Sabini prendendole e dandole di santa ragione, per cui alla fine decisero di unire i popoli anzichè ammazzarsi tutti nelle battaglie.

    Augusto del resto farà esporre il figlio della nipote Giulia, condannata all'esilio per adulterio, e Claudio abbandonerà, completamente nuda davanti alla porta della moglie ripudiata, la figlia Claudia, quando avrà scoperto che era stata concepita da un liberto.
    Ciononostante durante l'impero le donne verranno in parte riscattate, istituendo la dote per esempio, che restava alla donna se ripudiata, e concedendo loro il divorzio. Il Cristianesimo toglierà alle donne la libertà conquistata, e ci vorranno ben duemila anni perchè venga loro restituita. E ad opporsi sarà sempre la Chiesa. Per duemila anni fu impedito il divorzio alle donne, ma non stupitevi, perchè 2500 anni fa le donne greche avevano diritto di voto, e a toglierglielo furono gli stessi ateniesi.



    IL NOME

    Trascorsi i primi otto giorni dalla nascita c'era il rito di purificazione con l'acqua, un po' come il battesimo. Parenti e amici di famiglia portavano doni e alla bambina veniva dato un nome, il vero praenomen, tenuto assolutamente segreto, ma solo per la femmina, e custodito nell’intimità familiare.
    Al di fuori dell’ambiente domestico, il nome era sostituito da un cognomen, quello della gens paterna con le aggiunte per distinguerla dalle sorelle, secondo l’ordine di nascita: Maxima, Maior, Minor oppure Prima, Seconda, Tertia, o con un soprannome per le sue caratteristiche fisiche: Rutilia o Fulvia (di capelli rossi), Murrula (bruna), Burra (tenera).
    Così mentre un uomo aveva tre nomi la donna ne aveva solo uno. Nella cerimonia nuziale, alla domanda del marito “Qual è il tuo nome?” la sposa risponderà di chiamarsi con lo stesso nome di lui e al precedente cognomen gentilizio paterno subentrerà o si aggiungerà quello dello sposo.
    Così la catulliana Lesbia, il cui nome ufficiale è Clodia (figlia di Clodio), diventerà Clodia Metelli, la donna di Quinto Metello Celere. E per la seconda volta nella sua vita la donna continuerà a tacere al pubblico il vero nome, che non sarà posto neppure nell'epigrafe funeraria.
    Questa usanza durerà fino al I° secolo d.c. e Varrone scrive che il nome della donna non si rende noto per antichissima consuetudine, di cui si è persa memoria già in età imperiale.

    In effetti la consuetudine risale a una remotissima era matriarcale che attribuiva un generico potere sacerdotale e magico alle donne, per cui il nome doveva essere usato solo nei riti che agli altri, soprattutto ai maschi, era proibito conoscere. Conoscere il nome della persona era avere potere sulla persona. Per esempio in Egitto Iside la maga ottiene il potere su Ra obbligandolo a dichiarare il vero nome, tormentandolo col pungiglione di uno scorpione. Ma è un mito trasformato, perchè solo le Dee e le donne anticamente erano considerate maghe.



    L'EDUCAZIONE

    Giovenale nelle Satire commenta la donna romana: "Non si sente interessante se non posa a donna greca. Magari è di Sulmona o è toscana, ma vuole sembrare un'ateniese puro sangue. Parla solo in greco e non sa neppure il latino. Ha paura in greco, s'arrabbia in greco, s'addolora in greco, dice in greco tutti i segreti del cuore, fa addirittura ... l'amore in greco."
    Ma Giovenale è misogino e sulle donne ha sempre da ridire, perchè parlare greco era un vezzo di molti romani, compresi imperatori come Adriano, ma se lo facevano le donne non andava bene.
    In famiglia il padre si preoccupava di educare i figli maschi, delle femmine poco si curava. Al padre spettava nutrirle, controllare la loro moralità e combinare un buon matrimonio. Il resto era affare della madre.
    Nelle case patrizie i precettori facevano il resto, indirizzando la fanciulla a essere sposa e madre, educandola nelle attività domestiche, come la tessitura della lana, e verso le virtù di castità, riservatezza e modestia.
    I genitori, specie se agiati, facevano impartire lo studio a casa per i pericoli nei tragitti tra casa e scuola. La verginità delle fanciulle andava preservata. Nelle scuole pubbliche la fanciulla imparava a leggere, scrivere e fare di conto. Poi veniva spedita a casa prima dei suoi coetanei maschi.
    Alcune donne, per l'elevato livello culturale della famiglia, divennero colte, ma la donna intellettuale non sempre piaceva. La ragazza che avesse compiuto gli studi di letteratura greca e latina, docta puella, e mostrasse troppo la sua cultura poteva, al contrario dei maschi, infastidire.
    Da molti scrittori però, come Quintiliano, Tibullo, Ovidio e Plutarco, la donna colta era ammirabile e lo stoico Musonio Rufo in pieno I secolo giunse a dire che alla donna andava impartita la stessa educazione dell’uomo.



    IL MATRIMONIO

    Nella Roma arcaica una figlia, ancora giovanissima, poteva essere promessa in sposa o fidanzata a un giovane contro la propria volontà. Era un impegno perseguibile in caso di inadempimento, che vincolava la donna ad una fedeltà prematrimoniale. Il matrimonio si perfezionava con il trasferimento della donna dalla famiglia paterna a quella del marito. Per il fidanzamento il ragazzo consegnava alla ragazza un anello che lei indossava all'anulare della mano sinistra.
    I matrimoni venivano decisi dai parenti dei due giovani per motivi di prestigio o economici, soprattutto in età repubblicana.
    Il matrimonio più vincolante era la confarreatio, dal panis farreus, pane di farro mangiato dagli sposi, appena entrati nella nuova casa. C'era poi la coemptio, con cui il padre cedeva la figlia allo sposo per un compenso pecuniario.
    L’usus era invece la sanatoria di una condizione di fatto, per cui diventano sposi i conviventi di un anno intero senza interruzione di tre notti consecutive.
    Una donna romana poteva essere ceduta dal padre al marito già a 12 anni, ma troviamo iscrizioni funerarie che citano fanciulle sposate a 10 ed 11 anni, usanza che oggi fa rabbrividire.
    I romani si sposavano soprattutto per garantirsi una discendenza, mentre sul piano della sessualità avevano atteggiamenti liberi, almeno da parte degli uomini, la cosa diventerà reciproca in epoca imperiale.

    Nella formula più arcaica l'uomo chiedeva alla donna: vuoi essere la mia mater familias?, e la donna chiedeva: e tu vuoi essere il mio pater familias?
    Se però il marito erava ancora "filius familias", un minorenne, la donna che entrava nella famiglia del marito era sottoposta alla potestà del suocero.
    In ogni caso il pater familias, marito o suocero, aveva su di lei un potere, manus, che per un'antica legge dei tempi di Romolo comportava almeno in due casi diritto di vita o di morte: quando la moglie era sorpresa in flagrante adulterio e se aveva bevuto vino, bada bene, anche senza essersi ubriacata.
    Si dice che l'uomo tornando a casa controllasse l'alito della moglie, come dire che poteva ucciderla impunemente con la scusa del vino. Un sistema drastico per divorziare senza divorzio e senza alimenti.

    Le lodi alle donne nelle epigrafi romane non riguardavano mai la sua intelligenza o cultura, ma solo quanto avevano servito e amato marito e figli e quanto avevano accudito la casa. In famiglia la moglie stava vicino al marito anche nei banchetti e nei ricevimenti, ma sedute e non sdraiate come i maschi. Ma anche qui le cose cambiarono in epoca imperiale e le donne si sdraiarono sui triclini come i maschi..
    Nel 18 a.c., per far fronte al crollo delle nascite e ai divorzi facili, Ottaviano presentò la famosa Lex Iulia de maritandis ordinibus, che sanciva l’obbligo al matrimonio, vietava l’unione dei senatori con liberte e stabiliva premi per le famiglie numerose, nonchè multe a celibi e coniugi senza figli. Penalizzò, oltre ai celibi, anche i lunghi o molteplici fidanzamenti degli scapoli.

    Ma soprattutto con questa legge Ottaviano liberò la donna creando il matrimonio Sine Manu, cioè senza tutela maritale, e la concesse pure alle donne già sposate purchè avessero partorito tre volte. In più, concesse alle donne il divorzio, mentre prima c'era solo il ripudio maschile, divorzio che poi il Cristianesimo toglierà, perchè metterà di nuovo la donna sotto tutela maschile.
    Una vera emancipazione e rivoluzione femminile, emancipazione che la donna italiana riconquistera solo nella seconda metà del 1900, duemila anni dopo.




    La gestazione

    In quanto a ciò che conoscevano i romani sul tempo della gestazione, la ritenevano possibile di sette mesi, mai otto, più frequentemente nove e anche 10 mesi. Sull'impossibilità della nascita all'ottavo mese dissentiva Varrone.L'imperatore Adriano aveva giudicato un processo contro una donna che aveva partorito all'undicesimo mese, essendo il marito morto all'inizio della sua gestazione. Si sospettava che la donna fosse rimasta incinta dopo la morte del marito, ma Adriano, consultati gli antichi filosofi e sentito il parere dei medici, aveva stabilito che il parto all'undicesimo mese era possibile.

    IL PARTO

    Partorire in età romana era molto pericoloso: il dieci per cento delle donne moriva di parto, spesso per lacerazioni e lesioni irreparabili in un utero troppo infantile per l'estrema giovinezza delle spose, o per emorragia o altre cause.
    Per questo in età imperiale la donna cercò di limitare le nascite, specie nelle classi più elevate, soprattutto se era riuscita a portare a termine le tre gravidanze dovute. Usava pozioni contraccettive ed abortive, con ruta, elleboro e artemisia. Oppure ricorreva ai rimedi medici come i pessari, cioè tamponi di lana imbevuti di aceto e collocati negli organi genitali.
    Ma doveva farlo spesso di nascosto, perchè anche la decisione sull'aborto spettava al futuro padre che poteva ripudiarla se non era d'accordo.
    La maggior parte dei medici rifiutava di assistere aborti, che potevano derivare da adulterio, e in tal caso diverrebbero complici, subendo le stesse pene degli amanti, per cui si ricorreva alle levatrici o a donne esperte. Se la donna moriva nella pratica abortiva, per un intervento chirurgico fallito, il medico veniva accusato di omicidio. Comunque l'aborto non era punito per sè, ma solo se procurava la morte della donna.



    La puerpera alle prime contrazioni si lavava le mani e si copriva il capo. Invocava Giunone Lucina, o la Dea Carmenta (come Antevorta che presiedeva all'inizio e alla nascita, perchè Postvorta riguardava la fine cioè la morte), o altra Dea, intanto veniva spogliata e sistemata sulla sedia da parto dall'ostetrica. Perchè i Romani avevano apposite sedie da parto, forate sotto per far colare i liquidi (non per far uscire il bambino come si è supposto) e le maniglie per attaccarsi nella spinta. Le schiave portavano ampolle di olio di oliva, cataplasmi, spugne, coperte di lana grezza, e versavano acqua calda nelle catinelle.
    Una schiava abbracciava da dietro lo schienale la partoriente, mentre l'ostetrica sedeva su un basso sgabello sotto di lei, ungendola d'olio d'oliva per rendere più elastica la pelle e facilitare il passaggio. Le schiave ponevano sul ventre mani riscaldate e panni bagnati di olio caldo sui genitali. Lungo ognuno dei fianchi si poggiava una vescica piena di olio caldo. Queste pratiche per evitare dolori ma anche le antiestetiche smagliature non ci sono neppure nelle cliniche moderne.
    Per sedare il dolore si usavano cataplasmi caldi. Le spugne asciugavano il sangue delle ferite e l'acqua calda per la pulizia dei genitali. Le coperte venivano usate per coprire le gambe della donna, le bende e il cuscino per fasciare e deporvi il neonato.

    Plinio avverte che nascere con i piedi in avanti è contro natura e generalmente quanti nascono così sono chiamati "Agrippa" (partorito con difficoltà). I medici romani però non consideravano grave una presentazione podalica, più pericolosa invece la presentazione di testa. Un parto cesareo era raro e veniva praticato con un gancio acuminato che estraeva il feto privilegiando la vita della donna su quella del nascituro. Ma c'erano neonati che venivano felicemente alla luce anche col parto cesareo, sembra che la dinastia di Cesare provenisse da un capostipite nato col cesareo, e forse non è vero, ma dimostra che i nati col cesareo potevano campare.

    La partoriente stringeva le maniglie della sedia da parto e iniziava a spingere. Secondo le prescrizioni mediche, l'ostetrica non doveva tenere a lungo lo sguardo sui genitali della donna, ad evitare che per pudore la partoriente si contraesse. Ma questo lo s crissero i medici maschi, perchè le levatrici hanno sempre guardato attentamente, fin dall'età della pietra. Tratto fuori il bimbo gli si tagliava il cordone ombelicale, poi veniva controllato e infine lavato.







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    NU SHU Il linguaggio segreto delle donne cinesi


    Beatriz-Martin-Vidal

    Poco tempo fa, con la scomparsa di Yang Huangyi, a 92 anni, si pensava perduto per sempre l’antico linguaggio segreto delle donne cinesi: il Nu-Shu.
    Yang era infatti l’ultima depositaria dei segreti di questa scrittura, insegnatale dalla madre. E invece, grazie al lavoro meticoloso di ricerca e trascrizione di un gruppo di donne dello Hunan (una regione meridionale della Cina in cui pare sia nato questo linguaggio di genere, l’unico al mondo) non solo si sono recuperati i 2800 ideogrammi della lingua, ma si sono tradotti interi volumi. Per la prima volta i “libri del terzo giorno”, cioè i libri segretissimi che le compagne regalavano ad una donna quando era costretta a sposarsi, vedono la luce delle librerie e incontrano la commozione delle donne moderne.
    Ricchi di poesie, canzoni, pensieri, questi libri tessuti e ricamati a mano, nascevano per consolare la sposa nel momento in cui, a tre giorni dal matrimonio, doveva definitivamente lasciare la famiglia d’origine e il paese natio. Libri che in qualche modo dovevano curare la solitudine di queste nuove mogli, così poco considerate, in quanto femmine, così poco amate per la loro presunta “inferiorità”.



    Un antico detto cinese dice: “Davanti ad un pozzo non si muore di sete. Quando si è con le sorelle non c’è posto per la disperazione”. E infatti, in un tempo non troppo lontano, in cui le donne si sposavano contro la propria volontà, e venivano allevate coi piedi fasciati per essere più “graziose” (non riuscendo a camminare senza appoggiarsi a qualcuno!) l’amicizia tra donne era il bene più prezioso. Tra donne ci si incontrava per lavorare, tessere, cantare, allevare i figli. Per farsi quelle confidenze che i mariti maschilisti non tolleravano e che quindi finivano nei diari segreti di Nu-Shu.
    Paradossalmente, se in passato questa lingua è stata praticata dalle donne più povere e maltrattate, le analfabete, le concubine, le bambine a cui veniva proibito di imparare a parlare perché non potessero poi esprimere le loro emozioni, oggi sono le signore di classe ad avere il tempo di imparare questa nuova lingua per utilizzarla poi con le amiche nei loro eleganti salotti.



    La scuola appena nata, rigorosamente femminile, per apprendere l’antico linguaggio è frequentata da bambine di livello sociale alto, che seguono i corsi come fossero un nuovo hobby d’elite.
    Allo scopo è stato stampato il primo dizionario Nu-shu e sono state tradotte molte lettere scritte in forma poetica, dal contenuto struggente, se si pensa che erano l’unico modo delle donne per sfogare la malinconia, la tristezza, che regnava nelle loro vite. Curioso il fatto che non avessero neppure bisogno di nascondersi quando scrivevano, perché ai loro uomini non interessava minimamente sapere cosa attraversasse la mente, o il cuore, delle donne che sposavano esclusivamente per fare figli e avere in casa domestiche ubbidienti e non pagate. Cosa potevano scrivere di interessante sui quei quaderni che spesso si portavano nella tomba o lasciavano in eredità alle figlie, quelle piccole femmine, se un antico proverbio dell’imperialismo cinese così recitava: “…meglio avere un cane che una figlia…” ?
    E poi i caratteri del nuovo alfabeto venivano spesso scambiato per dei piccoli disegni; a differenza degli ideogrammi cinesi molto squadrati, era infatti formato da tratti sinuosi e curvilinei, così aggraziati che a volte venivano ricamati sugli abiti, per comunicare messaggi che gli uomini non potevano interpretare.
    Solo negli anni ’50, e per motivi politici, i servizi segreti cinesi si interessarono a questo linguaggio, immaginando le donne che lo utilizzavano come spie al servizio dei paesi occidentali. Con grande scalpore raccolsero diversi materiali e li diedero da tradurre ai migliori linguisti del paese, ma non ottennero nulla. Nessun uomo fu mai in grado di decifrare l’antico alfabeto. Ci vollero decenni per arrivare alla verità, e all’ultima depositaria del segreto: Yang Huanyi. Solo grazie a lei il velo fu finalmente sollevato, sui 7000 caratteri che compongono il Nu-Shu ma soprattutto su un intero mondo femminile, salvato in extremis dall’oblio.

    Il Nu-Shu ha anche ispirato un romanzo di Alexander Alma, dal titolo “Le parole segrete di Jin-Shei” e narra di misterioso regno dell’antica Cina in cui dominavano le donne, capaci di esprimersi con un linguaggio segreto che si tramandavano di madre in figlia.

    (Pubblicato sulla rivista Geniodonna, maggio-giugno 2011)

     
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    BEATRICE DELLA SCALA E IL TEATRO



    Non è il luogo a prendere il nome del tempio italiano della musica, è il celebre teatro ha aver assunto quel nome per il fatto di affacciarsi su una piazza dedicata ad una principessa poco nota.
    Dove ora, nel cuore di Milano, svettano il Teatro della Scala e la sede comunale Palazzo Marino, fino al XVIII secolo si trovava la chiesa di Santa Maria alla Scala, che fu demolita appositamente, il 5 agosto 1776, per lasciare spazio alla costruzione del teatro inaugurato nel 1778.
    Di Beatrice Della Scala, la nobile veronese che tutti chiamavano Regina, non è nota l’esatta data di nascita. Unica fanciulla di quattro fratelli, il padre Mastino II, signore di Verona, e la madre, Taddea da Carrara, la fecero educare con tutti i crismi, non facendole mancare nulla. Finché, nel 1350, giunse il momento di trovarle marito. Il partito giusto lo indicò l’arcivescovo di Milano Giovanni Visconti. La scelta ricadde su uno dei suoi tre nipoti: Bernabò. Un giovanotto irascibile, eccentrico e bellicoso. Ma anche ambizioso. Desideroso di aumentare la gloria della Biscia milanese. Le nozze vennero celebrate nella città di Sant’Ambrogio tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno. E furono sontuose e partecipatissime. Sistemato il nipote, Giovanni passò a miglior vita e Bernabò si trovò a condividere lo scettro con il fratello Galeazzo II.
    Salita sul trono, Beatrice seppe dare da subito prova della pasta di cui era fatta. Le cronache la descrivono come bellissima, magnanima, devota. Qualità “banali”, che ricorrono fino alla nausea nelle descrizioni delle nobildonne medievali. A differenza delle sue contemporanee, però, la scaligera sovrana aveva una marcia in più: sapeva comandare senza delegare a uomo alcuno, occupandosi personalmente delle incombenze politiche, finanziarie e persino belliche. Amministrava personalmente i propri possedimenti strategici sul lago di Garda, dove arrivò a scontrarsi con alcuni parenti. Fu lei la prima a spostare il centro politico ed amministrativo dalla Riviera da Maderno a Salò, che fece fortificare. Gestiva come una sindachessa i numerosi borghi di cui era proprietaria (Urago d’Oglio, Pumenego, Fiorano, Calcio e Galegnano) e, su delega del marito, amministrò per quasi dieci anni la città di Reggio Emilia. Non solo: quando Brescia si ribellò al potere visconteo, essendo lei una Della Scala, famiglia che da sempre rivendicava diritti sulla città della Leonessa, non esitò a marciare alla testa di migliaia di cavalieri per sedare la rivolta.
    Per la nuova chiesa di Santa Maria, che fece erigere a sue spese nel centro di Milano, i fedeli ambrosiani ne furono così ammirati e grati che la parrocchia prese preso il nome di Santa Maria Della Scala. Oggi quella chiesa non esiste più. Ma il toponimo è rimasto. E ha dato il nome al Teatro alla Scala, che sui ruderi dell’edificio è stato edificato, alla fine del Settecento.
    Se, ripercorrendo le gesta di Beatrice, ci si stupisce per l’originalità della sua vita pubblica, allo stesso modo si rimane meravigliati dai suoi comportamenti privati. Nonostante tutti gli impegni, riuscì a trovare il tempo per dare al marito ben 15 figli, dieci femmine e cinque maschi. E col marito condusse con successo trattative matrimoniali per accasarli tutti con i rampolli e le rampolle delle più importanti casate d’Italia e d’Europa.
    Per tutta la vita tollerò gli innumerevoli, spudorati tradimenti del consorte. Senza battere ciglio. Bernabò era un donnaiolo impenitente. Amava circondarsi di belle donne e i nomi delle sue numerose amanti sono arrivati fino a noi. Donnina de’ Porri, Giovannola Montebretto, Beltramola de’ Grassi. Beatrice non era stupida. Ma non gli rinfacciò mai nulla. Forse perché sapeva chi aveva sposato. E sapeva anche che, per quanto il marito fornicasse di qua e di là, per quanti marmocchi bastardi potesse seminare per il contado, lei era l’unica donna che amava sul serio. Da pari a pari. La sola in grado di spegnere la sua ira quando si arrabbiava, di muoverlo a clemenza quando minacciava atroci punizioni o di dargli buoni consigli quando c’erano da prendere decisioni capitali per lo Stato. Pare che fosse persino riuscita a intuire che l’altro ramo della famiglia stesse tramando nell’ombra per usurpare il trono. Cosa che di fatto avvenne, nel maggio 1385, quando Gian Galeazzo, nipote di Bernabò, fece arrestare zio e cugini dopo aver teso loro un tranello, imprigionandoli fino alla fine dei loro giorni. Prima del tradimento fatale, Beatrice apparve in sogno a uno dei suoi figli, Ludovico, avvertendolo di stare in guardia. Ma, come Cassandra, non venne creduta.
    Morì nel 1384. Sconvolto per la dipartita della sua compagna di vita, Bernabò ordinò che tutti i suoi sudditi vestissero il lutto per due anni, pena atroci punizioni. L’epitaffio in onore della sua amata rende l’idea dell’affetto e della considerazione che il signore di Milano aveva per sua moglie, definita “Splendore d’Italia”, “Regina dei Liguri”, “nota nel mondo per la sua bellezza, per il suo decoro, la sua pudicizia e la munificenza nei confronti di tutti, nobili e popolani”. Per custodire le sue spoglie, Bernabò aveva commissionato una splendida arca di marmo bianco al migliore scultore sulla piazza: Bonino da Campione. Avrebbe dovuto essere collocata accanto al suo gigantesco sepolcro sormontato da un altrettanto titanica statua equestre. Così, pensava Bernabò, lui e Beatrice sarebbero potuti restare vicini per l’eternità, nella chiesa di San Giovanni in Conca. In effetti i due monumenti, oggi, sono affiancati, al Museo d’Arte antica del Castello Sforzesco. Le vere tombe di Beatrice e Bernabò, però, sono altrove. Una vicina all’altra, ma nascoste, ben lontano dagli occhi del mondo, nell’oscurità di un angolo remoto della Chiesa di Sant’Alessandro.
    Fine indegna per il potente signore. Fine ancor più ingiusta per la sua Regina.
    (http://lastoriaviva.it/, web)
     
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  14. gheagabry
     
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    Robert Auer

    Donne e cibo:
    le ricette mortali delle avvelenatrici


    I funghi di Locusta: Il primo esempio di legame mortifero tra donne e cibo lo abbiamo nell’antica Roma dove Locusta, conosciuta come negoziante di filtri d’amore e veleni di ogni sorta, aiutò Agrippina nell’assassinio di Claudio. Si dice, infatti, che fu proprio Locusta a preparare il delizioso piatto di funghi velenosi, che nel 54 d.C. diede la morte all’imperatore.
    L’acqua di Tofana: siamo nel 1654, quando Giulia Tofana, cortigiana e fattucchiera, ideò quello che sarebbe stato il veleno storico per tutto il Rinascimento: l’acqua di Tofana. Ottenuta miscelando acqua bollente, anidride arseniosa, limature di piombo e antimonio, si dice che l’acqua di Tofana diede la morte a circa 600 persone.
    L’aceto dei pidocchi: Giovanna Bonanno divenne avvelenatrice di professione quando, nel 1786, scoprì per puro caso la pericolosità dell’”aceto dei pidocchi”, una soluzione di vino bianco e aceto, completamente inodore e insapore. Dal quel momento “la vecchia dell’aceto” si servì di questo potentissimo veleno per aiutare le proprie clienti, per lo più nobildonne, a liberarsi di amanti e mariti.
    Pudding e miele: Siamo nel 1806 quando Mary Bateman convince i coniugi Perigo che i sui magici pudding e un cucchiaio di miele fossero la cura perfetta contro i malanni di stagione. Peccato che i Perigo non fossero a conoscenza dell’ingrediente segreto di Mary: arsenico.

     
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  15. gheagabry
     
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    CLELIA FARNESE




    Nel torrido luglio del 1579, a Roma si diffonde a macchia d’olio la notizia dell’aggressione subita dalla “bella Barbara”, di professione cortigiana. I torbidi ma confusi dettagli della vicenda fanno presto il giro delle Urbe: a prendere a bastonate o, a uccidere la donna sarebbe stata la regina dell’alta società romana, la ventiduenne Clelia, unica figlia di Alessandro Farnese, “il gran cardinale”. A spingere la nobildonna alla brutale violenza, la gelosia nei confronti del marito fedifrago. E non è certo quest’ultimo crimine di cui Clelia si macchierà le mani. Bellissima, colta e gaudente dama del bel mondo, Clelia Farnese è una delle signore più chiacchierate di Roma, non solo per i suoi sontuosi ricevimenti, ma anche per il temperamento trasgressivo e sprezzante della religione e per il burrascoso rapporto con il potente genitore, che in quell’affascinante figliala vede l’ostacolo alla tanto agognata ascesa al soglio pontificio "Con il suo carattere forte, Clelia non è un’eccezione per la società del secondo ‘500”, spiega Gigliola Fragnito, già docente di Storia moderna all’Università degli studi di Parma e autrice di una biografia dedicata a Farnese. “Nel corso della ricerca storica, a dispetto di una diffusa immagine stereotipata che vorrebbe la donna dell’età della Confraternita mite e remissiva, mi sono spesso imbattuta spesso in figure femminili potenti e decise, che gestiscono con vigore il patrimonio e il prestigio di famiglia durante l’assenza dei mariti. Nel a caso dell ribelle Clelia, solo le maniere forti del padre riusciranno a piegarla al suo volere”.


    Palazzo Farnese


    Clelia nasce il 22 ottobre 1557, figlia del cardinale Farnese e di una donna ignota, una lavandaia, si mormora, con la quale il prelato, divorato dalla sua innata passione per la carne, si sarebbe congiunto durante un soggiorno a Parma. La bambina è allevata con cauta discrezione lontano da Roma, prima dalla nonna e poi dalla zia. I tempi di papa Borgia e del suo ostentato nepotismo sono ormai terminati e il Farnese, desideroso di piegarsi – almeno in apparenza – alla rigida morale vigente, non può rischiare di compromettere la sua reputazione tenendo con sé la piccola. Nel 1571, Clelia è richiamata dal padre nella capitale pontificia: è giunto per lei il momento di salire all’altare. Lo sposo è Giovan Giorgio Cesarini, membro di una ricca famiglia della municipalità laziale. A Roma i due giovani vivono nel lusso più sfrenato, prendendo parte a battute di caccia e scommettendo grosse cifre al gioco d’azzardo. La loro condotta è sempre posta sotto la sorveglianza di uomini al servizio del Farnese, che ben presto informano il prelato delle infedeltà coniugali di Giovan Giorgio. Spiega Fragnito: “Una delle motivazioni dell’adulterio del Cesarini è l’impossibilità della coppia di generare una prole numerosa per la continuità della stirpe: dopo la nascita del figlio Giuliano nel 1572, infatti, Clelia non rimane più in cinta. Esasperata dai tradimenti, nel luglio 1579 la nobildonna arriva ad attaccare una delle amanti del marito, la cortigiana Barbara.




    La notizia di questo atto violento, sebbene non sia chiaro se si sia trattato di omicidio o di aggressione fisica non fatale, è pubblicata sugli Avvisi di Roma, informazioni di dominio pubblico sempre attendibili. Su questo episodio, nulla è conservato nell’archivio del tribunale criminale del Governatore di Roma. Sono convinta che ciò che è accaduto sia stato messo a tacere perché nella vicenda era coinvolto un personaggio tanto eminente quale Clelia” Anche dopo questo episodio, Giovan Giorgio continua a mantenere una condotta dissoluta, tradendo costantemente Clelia con domestiche e prostitute. Tuttavia, ciò che soprattutto preoccupa Alessandro Farnese è l’amicizia, ogni giorno più stretta, che lega il Cesarini al cardinale Ferdinando de’ Medici, nemico del Farnese nella lotta per la tiara papale, e che mina irrimediabilmente i rapporti tra suocero e genero. Prostata dalle tensioni familiari, Clelia cade in una cupa depressione, dalla quale però riesce a uscire all’inizio degli anni Ottanta: più bella, serena e affascinante che mai, Clelia recupera la complicità sessuale con il marito e torna a gettarsi nella vita dell’Urbe. “Regina della mondanità, è ora fatta oggetto di maldicenze che la vorrebbero licenziosa e immorale” spiega la Fragnito. “Possiamo pensare che a Clelia piacesse essere ammirata per la sua bellezza, ma l’accondiscendenza a eventuali corteggiamenti non può essere dimostrata.



    Rovva Sinibalda

    Colpevole o meno, nel 1585, rimasta vedova del Cesarini, Clelia è allontanata da Roma dal Padre: il Farnese, infatti, teme che il successo mondano della figlia possa compromettere la reputazione del casato anche solo dando adito a pettegolezzi”.
    La bella Clelia, confinata nel feudo di Belmonte, non è però fatta per la provincia e, trasgredendo le direttive del padre, ritorna in città. Voci maliziose iniziarono nuovamente a circolare e, questa volta, si chiacchiera persino di un flirt tra Clelia e il cardinale de’ Medici. E’ troppo per l Farnese, che decide di maritare la figlia a Marco Pio di Savoia, marchese di Sassuolo. ,Clelia si oppone alle nozze, che l’avrebbero condotta distante da Roma e dal figlio, e il padre orchestra così un sequestro: la sera del 25 giugno 1587, reclamata con un pretesto dal genitore, Clelia, in lacrime, è trascinata a forza fuori dalla città e rinchiusa nella Rocca di Ronciglione. Dopo un mese di prigionia, la ribelle Farnese è costretta a capitolare. Accolta fastosamente a Sassuolo, Clelia vi trova una corte colta e raffinata. Marco infatti, è sensibile alla cultura delle arti, ma degno figlio di un’epoca di violenza, si rileva un tiranno per la moglie, ripetutamente tradita e picchiata. E’ un questo clima di tensione che, nel 1589, la nobildonna commette un secondo crimine, pugnalando a morte una delle sue damigelle, “trovata da lei in adulterio col marito”, come ricordano gli Avvisi di Roma dell’11 marzo. Anche questa volta, gli alti natali di Clelia le assicurano l’immunità giudiziaria, e il caso della damigella viene presto dimenticato. Infelice e nostalgica di Roma, Clelia ha l’occasione di tornarvi dopo la morte del marito nel 1599. I costumi, in città, si sono fatti più severi anche , dopo per Clelia. Dopo aver tanto sofferto, è ormai maturata: la miscredente, orgogliosa e gaudente Farnese si è infatti trasformata in una devota e cupa nobildonna oppressa da presagi di morte. Clelia si spegne l’11 settembre 1613, dopo aver visto morire il figlio Giuliano. Roma no dimenticherà Clelia, ma ne tramanderà un’immagine poco lusinghiera di donna libidinosa, ricamando romanzesche vicende basate sui più bassi pettegolezzi in circolazione nella capitale pontificia negli anni in cui Clelia, bella tra le belle, regnava sovrana nella sfavillante vita mondana dell’Urbe.
    (Simone Zimbardi, articolo su History marzo 2015)


     
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