DONNE...CONTROCORRENTE

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  1. gheagabry
     
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    C’è una donna all’inizio di tutte le grandi cose……

    LE DONNE...CONTROCORRENTE

    Dame-mit-Faecher



    Essere donna è così affascinante. È un’avventura che richiede tale coraggio, una sfida che non annoia mai. Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna. Per incominciare, avrai da batterti per sostenere che se Dio esiste potrebbe anche essere una vecchia coi capelli bianchi o una bella ragazza. Poi avrai da batterti per spiegare che il peccato non nacque il giorno in cui Eva colse la mela: quel giorno nacque una splendida virtù chiamata disubbidienza. Infine avrai da batterti per dimostrare che dentro il tuo corpo liscio e rotondo c’è un’intelligenza che chiede d’essere ascoltata.
    (Oriana Fallaci)



    La melodia della donna risuona
    nella consapevolezza di Dio.
    Lei è la musica su cui danzano le stelle,
    è la curva nell’arcobaleno.
    La donna è il suono glorioso del vento
    che soffia sull’oceano.
    Lei è la tela colorata
    che riveste la terra sulla quale camminiamo.
    Lei è quella che calma sussurrando
    le belve infuriate che attaccano ciecamente
    nell’oscurità della notte.
    Lei è la voce d’amore
    che i sognatori sentono nella mente.
    La donna è e sempre sarà
    il cuore palpitante di Dio.

    (Casey S. Leasure)


    BUERADO-Paintings-Handgemalte-Afrikanische-Frau-im-bunten-Gewand-90x120cm


    Rimango sempre di stucco davanti alla libertà delle donne. Noi le vediamo come esseri subalterni, ci divertiamo alle loro futilità, le cambiamo quando ormai sono sciupate, e ognuna di loro è capace di coglierci alla sprovvista, stendendoci davanti vastissimi campi di libertà, come se sotto alla loro obbedienza, un’obbedienza che sembra cercare se stessa, costruissero le mura di un’indipendenza rude e illimitata. Dinanzi a queste mura noi, che credevamo di sapere tutto dell’essere inferiore che a poco a poco abbiamo addomesticato o abbiamo trovato addomesticato, ci ritroviamo disarmati, inesperti e spaventati: quel cagnolino che tanto volenterosamente si rotolava per terra, sulla schiena, mostrando il ventre, d’un balzo si mette in piedi, fremente d’ira, e all’improvviso i suoi occhi ci sono estranei, occhi profondi, sfuggenti e ironicamente indifferenti. Quando i poeti romantici dicevano (o dicono ancora) che la donna è una sfinge, avevano ragione, che Dio li benedica. La donna è la sfinge, e dev’esserlo, perché l’uomo si è impadronito di ogni conoscenza, di ogni sapere, di ogni potere. Ma tale è la fatuità dell’uomo che alla donna è bastato erigere in silenzio i muri dell’ultimo rifiuto perché lui, sdraiato all’ombra, quasi fosse sdraiato sotto una penombra di palpebre obbedienti, potesse dire, convinto: «Non c’è niente al di là di questa parete»
    (José Saramago )



    Nel tuo esserci l'incanto dell'essere.
    La vita, tua storia,
    segnata dal desiderio d'essere
    semplicemente donna!
    Nel tuo corpo ti porti,
    come nessun altro,
    il segreto della vita!
    Nella tua storia
    la macchia dell'indifferenza,
    della discriminazione, dell'oppressione…
    in te l'amore più bello,
    la bellezza più trasparente,
    l'affetto più puro
    che mi fa uomo!

    (Eliomar Ribeiro de Souza -poeta brasiliano)


    lettrice-fragonard


    A tutte le donne che ogni giorno urlano in silenzio, a quelle che non possono vivere la propria femminilità, alle donne che dedicano la loro vita alla famiglia e alla cura degli altri, alle donne intrappolate dai preconcetti e dalle ipocrisie, alle donne che sanno mutare le loro lacrime in danza, alle donne che sanno essere luce nell’oscurità, alle donne paladine di giustizia e pace, alle donne che con il loro entusiasmo vogliono svegliare l’alba, alle donne che non si arrendono e plasmano i loro sogni, alle donne che con il loro saggio impegno quotidiano rendono straordinario il domani… per tutte loro momenti colorati di polvere di stelle… sentieri profumati di petali di rosa.
    [Stefania P.]



    Sono coraggiose le donne,
    ci costa caro, ma bisogna ammetterlo.
    La fragilità? Solo uno stato culturale,
    più che un dato biologico.
    Sono forti e coraggiose, le donne.
    Quando scelgono la solitudine,
    rinunciando a un falso amore,
    smascherandone la superficialità.
    Sono coraggiose le donne, quando
    crescono i figli senza l’aiuto di nessuno,
    rivalutando l’ancestrale primato,
    quello di essere mamme.
    Hanno il coraggio di non chiedere
    a uomini che sono anche padri,
    la loro presenza, puntualmente assente.
    Uomini che rifuggono le proprie responsabilità,
    trincerandosi in comodi ruoli o paraventi
    infantili di adulti mai cresciuti.
    Sono forti e coraggiose, le donne,
    quando a discapito di tutto e di tutti
    scelgono i propri compagni; costruendo solide storie
    spendendo patrimoni sentimentali, contro la morale comune.
    Sono forti e coraggiose, le donne, quando sopportano,
    violenze di ogni tipo, per salvaguardare quello che resta di famiglie,
    che non son più tali
    Sono la speranza del mondo, le donne, in qualsiasi
    circostanza continuano a far nascere uomini,
    che poi le tradiranno.

    -Bruno Esposito-





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    Edited by gheagabry1 - 29/1/2023, 02:15
     
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  2. gheagabry
     
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    « C'è chi dice sia un esercito di cavalieri,
    c'è chi dice sia un esercito di fanti,
    c'è chi dice sia una flotta di navi, la cosa più bella
    sulla nera terra, io invece dico
    che è ciò che si ama »
    (Frammento 16, incipit)


    Sappho_and_Alcaeus



    SAFFO ERESO (Lesbo)

    VII - VI secolo


    In un vaso attico del 430 è raffigurata una donna intenta a leggere un volume su cui compare il nome di Saffo. Attorno a lei un gruppo di persone ascolta.
    L’immagine fa pensare a una sorta di lettura pubblica e l’attenzione è grande. Come mai, ci si può chiedere, la scelta dell’artista che ha dipinto quel vaso è caduta su quel nome? Evidentemente si trattava non solo di un nome noto, ma anche di un nome amato. La predilezione per Saffo, protrattasi per molti secoli, fa sì che i suoi testi, anche se frammentari, siano giunti a noi. Di questa acquisizione dobbiamo ringraziare i frammenti papiracei, perché alla conclusione dell’epoca bizantina l’opera di Saffo risultava perduta.
    Saffo nacque probabilmente a Ereso, nell’isola di Lesbo, situata nel settore nord-orientale del Mare Egeo, ma trascorse gran parte della sua vita a Mitilene tra il VII e il VI secolo. Fu contemporanea del poeta Alceo, un suo compatriota che sicuramente la conosceva e la ammirava, dal momento che la apostrofa con queste parole «Saffo divina, chioma di viola, sorriso dolce come il miele« (I T58, fr.61). Proveniva da una famiglia aristocratica e proprio per tale motivo, a causa delle contese politiche che dilagavano nell’isola in quegli anni, fu costretta a trascorrere un periodo d’esilio in Sicilia. La famiglia era ricca ma si dice che i suoi beni fossero stati dilapidati dal fratello Carasso, che era stato irretito dalla cortigiana Dorica a Naucrati, in Egitto, dove si era recato per commerciare. Testimonianze di questa diceria possono essere ricavate dal fatto che in una preghiera di Saffo (di cui è rimasto un frammento) la donna invoca Afrodite e le Nereidi perché aiutino il fratello a fare ritorno a casa per la gioia degli amici, la rovina dei nemici e il conseguente recupero del rango che per nascita gli spettava.

    Sappiamo che Saffo ebbe un marito, Cercila di Andro, di professione mercante, e una figlia, Cleide. La tradizione dice che si uccise gettandosi dalla rupe di Leucade perché respinta dal giovane Faone. Quest’ultima notizia viene però confutata da due particolari noti, anche se difficilmente testimoniabili. Il primo fa riferimento al fatto che Faone era una figura mitica legata alla cerchia di Afrodite, che Saffo aveva trattato nelle sue opere. Il secondo è che Saffo era sospetta di omosessualità e che alcuni frammenti, recentemente publicati (I T50, fr. 94) lasciano trasparire che in lei l’ardore sentimentale fosse inferiore al piacere dei sensi. Della sua fine terrena non v’è documentazione, ma il fatto che in alcuni frammenti si legga del rimpianto di Saffo per la giovinezza ormai lontana, è possibile desumere che sia giunta a una certa età.
    Quello che è certo è che fu artisticamente prolifica. I grammatici alessandrini hanno sistemato la sua copiosa produzione in ben nove libri: odi in strofe saffiche, carmi in pentametrici eolici, asclepiadei maggiori, tetrametri ionici, epitalami in metri diversi. Saffo pur prestando grande attenzione alla forma riesce ad esprimersi con grande semplicità per manifestatre sentimenti intensi e coerenti. Esempio lampante di queste sue caratteristiche è l’ode di invocazione a Afrodite che ci è giunta completa (I T$), fr.1). In questa ode Saffo, sofferente per un amore non corrisposto, si rivolge alla dea per averne aiuto, come in altre occasioni. Si potrebbe dire che Saffo sia una psicologa dell’amore, pure le sue considerazioni sono espresse in modo da non turbare, ma addirittura da esaltare, il senso della bellezza. Il gusto del bello rintracciato anche nei dettagli dell’esistenza quotidiana potrebbe essere frutto della sua conoscenza della cultura orientale, facilitata dalla vicinanza geografica dell’isola di Lesbo con la Licia. L’amore per Saffo è un tormento, ma anche la manifestazione massima della gioia di vivere, che nello spirito greco si pareggia con il dolore innato al fatto di esistere.
    (Lia Del Corno)


    saffo-pompei


    Inno ad Afrodite

    « Afrodite eterna, in variopinto soglio,
    Di Zeus fìglia, artefice d'inganni,
    O Augusta, il cor deh tu mi serba spoglio,
    Di noie e affanni.

    E traggi or quà, se mai pietosa un giorno,
    Tutto a' miei prieghi il favor tuo donato,
    Dal paterno venisti almo soggiorno,
    Al cocchio aurato

    Giugnendo il giogo. I passer lievi, belli
    Te guidavano intorno al fosco suolo
    Battendo i vanni spesseggianti, snelli
    Tra l'aria e il polo,

    Ma giunser ratti: tu di riso ornata
    Poi la faccia immortal, qual soffra assalto
    Di guai mi chiedi, e perché te, beata,
    Chiami io dall'alto.

    Qual cosa io voglio più che fatta sia
    Al forsennato mio core, qual caggìa
    Novello amor ne' miei lacci: chi, o mia
    Saffo, ti oltraggia?

    S'ei fugge, ben ti seguirà tra poco,
    Doni farà, s'egli or ricusa i tuoi,
    E s'ei non t'ama, il vedrai tosto in foco,
    Se ancor nol vuoi.

    Vienne pur ora, e sciogli a me la vita
    D'ogni aspra cura, e quanto io ti domando
    Che a me compiuto sia compi, e m'aita
    meco pugnando. »



    .

    SEMIRAMIDE


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    Regina, donna d’armi, cavallerizza, conquistatrice di terre, governatrice. Semiramide fu la moglie del re assiro Shamsshiadad V (800 a.C. circa). Con lui cavalcò per la Babilonia e oltre; lottò al suo fianco, sempre.
    Morto il marito, Semiramide conquistò Egitto ed Etiopia. Reggente – in minore età – per il figlio Adad-Nirari III ebbe con lui rapporti incestuosi, a quanto dicono Giustiniano, Agostino di Ippona e addirittura Dante, che la colloca direttamente all’Inferno (Canto V), come emblema della lussuria. Boccaccio la condanna violentemente nel suo De Mulieribus Claris.
    L’unica testimonianza positiva su Semiramide è quella di Chiristine de Pizan, che in “La città delle donne” (XV secolo) scrive:

    « Semiramide fu una donna di immenso valore e grande coraggio nelle imprese e nell'esercizio delle armi. Fu sposa del re Nino, che diede il nome alla città di Ninive, e diventò un grande conquistatore grazie all'aiuto di Semiramide, che cavalcava in armi al suo fianco. Egli conquistò la grande Babilonia, i vasti territori degli Assiri e molti altri paesi. Questa donna era ancora molto giovane quando Nino venne ucciso da una freccia, durante l'assalto a una città. Dopo aver celebrato solennemente il rito funebre la donna non abbandonò l'esercizio delle armi, anzi più di prima prese a governare e realizzò tali e tante opere notevoli, che nessun uomo poteva superarla in forza e in vigore. Era così temuta come guerriera, che non solo mantenne i territori già conquistati ma, alla testa di una grande armata, mosse guerra all'Etiopia, contro cui combatté con ardimento, conquistandola e unendola al suo impero. Da lì partì per l'India e attaccò in forze gli Indiani, ai quali nessuno aveva mai osato dichiarare guerra, li vinse e li soggiogò. In seguito arrivò a conquistare tutto l'Oriente, sottomettendolo alle sue leggi. Oltre a queste conquiste, Semiramide fece ricostruire e consolidare la città di Babilonia,fece costruire nuove fortificazioni e grandi e profondi fossati tutt'intorno. »

    Per via dei costumi liberi e la società matriarcale, Babilonia è definita dall’Apocalisse “la Grande Meretrice”.
    Gaber la ricorda nella sua Corinna… Semiramide: “esempio di bellezza e sensualità”.



    Per descrivere l'avvento al trono di Semiramide nella sua Biblioteca historica Diodoro Siculo attinge da diverse fonti soprattutto Ctesia di Cnido che aveva fatto parte della corte persiana ed era perciò un testimone attendibile. Nel testo l'autore attribuisce a Semiramide come marito Nino, il fondatore del regno assiro e costruttore della città di Nino cioè Ninive (città delll'Assiria posta sul Tigri). Personaggio di cui però i testi cuneiformi non recano traccia collocando così la sua figura più al mito che alla storia.
    Ebbene si racconta che Semiramide fosse figlia di un adulterio e per questo abbandonata dalla madre. Trovata e allevata da pastori fu ceduta in sposa a un dignitario di Corte. Il re Nino colpito dalla sua bellezza offrì al marito la propria figlia Sosane affinché gli cedesse la moglie, ma avendo l'uomo rifiutato l'offerta il re minacciò di cavargli gli occhi. Preso dalla disperazione il marito impazzì e si suicidò impiccandosi. Si racconta poi che Semiramide alla morte del marito re fondò altre città, poi quando il figlio ordì un attentato alla sua vita, invece di punirlo gli cedette il potere e scomparve nel nulla al pari degli dèi.
    Altri storici (Ateneo) riferiscono ella fosse una bella etera di cui il re d'Assiria si fosse innamorato. Convinto il re a cedergli per cinque giorni il potere allestì una grande festa nella quale convinse i condottieri dell'esercito a seguirla tradendo il loro re che fu posto in prigione e lì dimenticato.
    Altri ancora ritengono fosse una principessa babilonese che giunta sul trono assiro, operò una politica di amicizia con Babilonia.





    LA REGINA di SABA


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    Con l'espressione antonomastica Regina di Saba ci si riferisce a una specifica sovrana del regno di Saba, citata nella Bibbia (nel primo libro dei Re e nel secondo libro delle Cronache), nel Corano e nel Kebra Nagast. Nei testi biblici e nel Corano non viene mai chiamata per nome, ma solo come Regina di Saba o Regina del Sud; per la tradizione etiope il suo nome era Machedà, mentre alcune fonti arabe la chiamano Bilqis (talvolta trascritto Balkiyis). Viene ricordata come regina ricchissima; nella Bibbia, fa visita a Salomone per metterne alla prova la grande saggezza. Secondo il Kebra Nagast, che racconta più estesamente delle vicende della regina, il sovrano etiope Menelik I era figlio di Machedà e Salomone. Da un punto di vista storico, la questione se la regina di Saba sia realmente esistita è controversa.
    La regina visse ad est di Sana’a, a Marib che era la capitale dell’antica Saba. Marib era situata nel punto in cui si incrociavano le carovane che trasportavano incenso in direzione del mar Rosso e l’intera regione con il passare degli anni, a causa dei fortunati e fiorenti commerci, prese il nome di Arabia Felix.
    Poche le tracce nella città per svelare il mistero che circonda la regina di Saba, se veramente è esistita si pensa che possa essere vissuta a Marib, al centro del deserto, circondata dallo splendore di grandi templi e palazzi.
    Sempre secondo la leggenda, la Regina regnava su un dominio di grande ricchezza, oggi questo non sembrerebbe possibile in una terra così desolata e arida. Fu costruito un grandioso sistema d’irrigazione che fece del deserto un giardino, l’acqua proveniva dalla grandiosa diga di Marib, lunga 640 metri ed alta 11 situata in pieno deserto in fondo allo Wadi Adhana.
    Gli archeologi hanno scoperto che la diga, di cui ancora è evidente la struttura, sia stata costruita nel sesto secolo avanti Cristo, cioè 400 anni dopo il leggendario regno di Saba, ma sono state scoperte tracce di una precedente struttura più antica di qualche centinaia di anni.


    La leggenda di Bilqis

    La maggior parte degli studiosi ritiene che il regno di Saba sia da collocarsi nello Yemen, ma della sua regina Bilqis, rimangono solo poche tracce. Narra la leggenda che un giorno re Salomone (che poteva parlare agli animali grazie ad un magico sigillo donatogli da Dio), chiamò a raccolta tutti gli animali. All’appello mancava solo l'upupa, che quando giunse si giustificò raccontando di essersi attardata in un regno nel cuore del deserto che aveva giardini fioriti e un grande trono d'oro e d'argento, tempestato di pietre preziose che apparteneva alla regina Bilqis. Incuriosito il re di Gerusalemme inviò una lettera alla regina di Saba invitandola nel suo regno. La sovrana accettò l'invito decidendo però di mettere alla prova la sapienza del re di cui tutti parlavano. Si fece
    precedere da un corteo di ambasciatori che portavano in dono sandalo, incenso, aloe e mirra, 500 lingotti d'oro e 500 d'argento. Il corteo era composto da 6000 tra fanciulli e fanciulle, gli uni vestiti con abiti femminili le altre con abiti maschili. In un cofanetto depose una perla non forata e una conchiglia con un foro tortuoso. Salomone doveva riuscire a distinguere i maschi dalle femmine, doveva rimanere impassibile davanti a tanta ricchezza e doveva trovare il modo di
    perforare la perla senza toccarla e passare un filo nel foro della conchiglia.
    Per prima cosa il re fece dipingere d'oro e argento i mattoni della sua reggia in modo da sminuire le ricchezze portategli in dono, poi quando giunse il corteo, invitò i giovani a rinfrescarsi e
    lavarsi nella grande vasca: stanchi del viaggio si gettarono nell’ acqua, che rivelò le loro vere identità. Quindi, aiutato dagli animali suoi amici, convocò un tarlo per perforare la perla e un bruco che, contorcendosi, infilò un capello nel foro della conchiglia. Quando la regina di Saba giunse a corte rimase incantata, sia per la splendida città dipinta d'oro e argento, sia per l'arguzia del suo re. Salomone, dal canto suo, per l'arrivo della sovrana fece posizionare delle lastre di cristallo sul pavimento del palazzo, creando uno strano effetto ottico: chiunque ci passasse sopra credeva fosse acqua. Anche Bilqis, vedendo i riflessi cadde nell'inganno, alzò le vesti e mostrò le
    sue gambe maschili, villose* e il suo piede caprino**.
    Durante la sua permanenza la regina di Saba mise più volte in difficoltà re Salomone con enigmi d'ogni sorta. Una volta tornata nel suo regno, Salomone prese a far visita alla bellissima regina ogni mese, fermandosi da lei per tre giorni, e coprendo la distanza nella sola mattina tanto
    era veloce il re e forte il richiamo della sua amata.

    *Secondo la versione araba quando Salomone s'accorse di questa imperfezione chiamò i Jinn, i demoni che lo assistevano, e chiese il loro aiuto. Questi prepararono una pasta di gesso da utilizzare per la depilazione. **Si racconta che la madre di Bilqis, incinta, vedendo una capra esclamò:
    "che bella capra ! che bei piedi!".
    Fu così che ella partorì una figlia con un piede umano e uno zoccolo caprino. Secondo la leggenda quando la regina giunse al cospetto di re Salomone e sollevò la sua veste inciampò in un legno miracoloso e il suo piede caprino si trasformò in piede umano.


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    Dall’unione del re Salomone con la regina, fu concepito Menelik, il cui significato intrinseco è “Figlio dell’uomo saggio” che portava nel sangue le tracce di una ascendenza divina e che sarebbe stato il capostipite di una stirpe salomonica; da qui nasce il fatto che gli Etiopi siano una un popolo eletto. Menelik, cresciuto e divenuto re, fece proprio il simbolo del leone di Giuda che innalzò a simbolo del proprio regno. Divenuto adulto, volle far visita al presunto padre Salomone e quando fece ritorno ad Axum, trafugò o gli fu affidata, l’Arca dell’Alleanza.
    Essa non arrivò con Menelik ad Axum, ma impiegò qualche secolo dopo un lento peregrinare in terra d’Egitto. Questo avvenimento è ricordato con i lenti ed esasperanti riti che la Chiesa Copta etiopica celebra in onore dell’Arca in occasione di Ghenna e Timkat che sono il Natale e l’Epifania del rito copto. Le feste di celebrazione di queste due ricorrenze fanno rivivere lo splendore di quelle che furono le corti di Gerusalemme ed di Axum.



    Nelle valle delle tombe..la tua bellezza distesa
    sulla sabbia morbida di un deserto immortale
    Ogni granello di sabbia conserva il tuo profumo
    Bellezza immutevole nella dolcezza di un tempo
    trafitto dalla leggenda
    E tu, solo tu, accanto a me
    con il tuo candore nella seta dell'amore
    vesti i miei sogni
    (Elia Ria)


    NEFERTARI


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    Il tempio di Abu Simbel, in Nubia è l'enorme monumento, eretto da Ramses II, il grande faraone che resse le sorti dell'Egitto durante il regno nuovo per ben 67 anni, dal 1292 al 1225 a.C.. Oltre a proclamare la sua gloria, testimonia in maniera inconfutabile e imperitura il grande amore e l'immenso rispetto che lo legarono a Nefertari, la prima sposa reale, la "padrona" della stupenda tomba che i recenti restauri hanno permesso di riaprire al pubblico nella valle delle Regine, a Luxor.

    Era bellissima, la potente Nefertari, e tale la ritrassero gli artisti reali: alta, sottile con lunghi capelli neri. Come la maggior parte delle principesse reali egizie. Ma a distinguerla dalle concorrenti e a sottolinearne il fascino, Nefertari ebbe dalla sua un carattere e una determinazione inconsueti per le donne del suo tempo, avvezze sì a una certa indipendenza, ma tenute per lo più lontane dalla politica e dalle decisioni di corte. Fu lei invece la prima a prendere parte attiva alla lunga trattativa di pace con gli Ittiti, gli eterni nemici che insidiavano i confini dell'estesissimo Impero dei Faraoni in Asia Minore. E lo dicono senza ombra di dubbio i documenti dell'epoca giunti intatti sino a noi.
    Scrive Nefertari:

    Da me tutto bene, nel mio paese tutto va bene, che tutto possa andar bene da te, sorella mia; possano il dio Sole d'Egitto e il dio della Tempesta di Hatti portarti gioia. I1 dio Sole faccia sì che la pace sia buona fratellanza al Gran Re di Hatti.

    E le speranze di pace di Nefertari inducono lei stessa a proporre a Pudukhepa di inviare a Tebe una delle principesse reali sue figlie perché questa entri a far parte dell'harem del Faraone, cementando così l'unione e la fratellanza fra i due popoli. E la proposta non deve stupire. Nefertari, al ventunesimo anno di regno del marito Ramses, era già una potente e tranquilla dama più vicina ai quaranta che ai trent'anni di età, a cui certo non doveva far ombra l'arrivo di una nuova principessa da aggiungere alla lista già lunga (Ramses ebbe otto consorti legittime) delle spose reali. Da tempo lei aveva consolidato il proprio potere, mettendo in ombra persino Tuya, la madre amatissima di Ramses II. Durante il regno di Sethos, il padre, la regina Tuya era stata la sua fedele sposa e compagna, ma certo non aveva avuto un ruolo preminente negli affari pubblici. Lo ebbe invece con il figlio Ramses II, che le tributò straordinari onori (fra le sei enormi statue che ornano il tempio di Abu Simbel, dedicate tutte a Ramses e a Nefertari, una rappresenta anche Tuya, sebbene sia posta in una posizione di minore importanza). Anzi, per sottolineare l'origine divina della propria regalità, il Faraone fece costruire a Tebe un tempietto dedicato proprio a Tuya, sulle cui pareti è illustrata la teoria secondo la quale era stato lo stesso dio Amon a fecondare Tuya, sostituendosi e incarnandosi nel corpo terreno del padre Sethos I. Insomma Tuya sarebbe stata amata nientemeno che dal sommo degli dei egizi e dalla loro unione avrebbe tratto origine Ramses. E non ci vuole molto a comprendere con un simile onore alle spalle, quanto grande fosse il potere a corte della regina madre, soprattutto durante i primi vent'anni di regno di Ramses II. Ma, nonostante questo Nefertari, la bella fra le belle, com'è indicata in uno scritto ebbe nel cuore del Faraone un posto di assoluta preminenza. Tanto da offuscare l'altra sposa reale, Istnofret, che pure divise a lungo il letto di Ramses II e gli diede numerosi figli.

    A paragone di Nefertari, chiamata ad apparire in pubblico al fianco del Faraone nelle occasioni ufficiali e nelle cerimonie religiose, la figura di Istnofret appare ai nostri occhi come sfuocata: nessuna statua la ritrae e in suo onore non furono costruiti templi. Anche se proprio da lei, la sposa dimenticata, nacque l'erede al trono d'Egitto. I figli di Nefertari, infatti, non ebbero grande fortuna: dal primogenito Amenhiruonmef, che morì in giovane età, ai suoi fratelli minori, che si spensero tutti fra i 20 e i 30 anni. Così fu che il principe Meremptah, il tredicesimo figlio nato da Istnofret, divenne l'erede del Faraone e gli successe sul trono, quasi per una postuma rivalsa della sposa che il grande Ramses aveva dimenticato.
    Nonostante gli sviluppi successivi della storia d'Egitto, è impossibile negare la chiara preminenza di Nefertari fra le dame di palazzo. Lei sola accompagnò Ramses a Tebe nel primo anno del regno e già a partire dal terzo la sua immagine iniziò ad apparire accanto a quella del sovrano nelle scene incise sulla facciata posteriore del nuovo grande pilone del tempio di Luxor, mentre una sua statua elegantemente scolpita nel granito, era collocata per ordine del Re nel cortile anteriore del tempio stesso. Il nome di Nefertari compare anche a Karnak, ma il più grande onore le fu tributato proprio nella lontana Nubia, in quell'imponente tempio di Abu Simbel, che già abbiamo ricordato, dove la regina appare tanto quanto il suo regale consorte. Soltanto sul muro di fondo del sacrario interno Ramses II ha infine la precedenza ed è raffigurato da solo nell'atto di compiere un sacrificio alla dea Hathor. Nefertari ebbe comunque il privilegio di avere un tempietto lì vicino, completamente dedicato a lei: un'attenzione e un omaggio supremi, che soltanto il faraone Amenophis III aveva avuto per la sua sposa Tiyi. E' intorno al ventiquattresimo anno di regno di Ramses che Nefertari coglie questo altissimo onore: i due templi di Abu Simbel sono finalmente terminati ed è giunto il momento di inaugurarli. Con ogni probabilità durante il mese di febbraio del 1255 a.C. la flotta reale salpa verso sud. Il Re e la Regina sono accompagnati dalla principessa Meryetamon e dal vizir Heqanakt oltre che da un vasto seguito di dignitari.

    nefertari

    E' l'alba quando, attraccata la flotta reale, si dà inizio alla cerimonia. Il sole sorge lentamente dalle colline orientali e valica il fiume, finché i suoi potenti raggi arrivano a lambire la facciata del tempio e a dare per un attimo l'illusione della vita alle grandi statue che ne ornano la facciata. E' questa, secondo la convinzione dei sacerdoti, l'unione mistica con il disco solare: i raggi dell'astro, sfiorando la materia inerte, le danno per un istante l'illusione dell'esistenza e fanno brillare i colori di un incredibile splendore.

    Sotto la luce che avanza, l'una dopo l'altra vengono spalancate le porte del tempio, sinché i raggi, affondando per 60 metri nelle viscere della roccia, giungono al fondo del sacrario. E baciano la statua del Faraone e di Nefertari. Ma la regina, come lasciano intendere alcuni scritti, non può assistere a questa straordinaria cerimonia. Stroncata dal lungo viaggio, è costretta a restare a bordo della nave reale sotto la sorveglianza dei medici. Anzi, anche se i documenti non permettono di formulare questa ipotesi con sufficiente certezza, è proprio di ritorno dalla spedizione che ne sottolinea e consacra l'importanza sulla scena politica egizia che Nefertari si ammala gravemente e muore. Ramses II, affranto, l'accompagna, con il fasto che si confà a una regina del suo rango e della sua statura, all'ultima dimora. Quella stessa tomba che oggi, con reverenziale rispetto, i turisti possono di nuovo ammirare per inchinarsi ancora una volta dinanzi alla bellezza e al potere della grande sposa reale. E forse il loro ammirato omaggio, secondo le credenze antiche, andrà ad alimentare lo spirito di Nefertari, il suo "Ka", in modo che la più grande delle regine d'Egitto possa vivere e regnare in eterno.
    (spazioinwind)



    La sua origine è tuttora incerta, qualcuno sostiene che fosse originaria della regione di Tebe e che non fosse di sangue reale, altri, invece, fanno risalire la sua parentela e la sua bellezza a Nefertiti, in quanto entrambe considerate figlie di Ay, penultimo faraone della XVIII dinastia e quindi, secondo questa ipotesi, erano sorelle.
    Pare che le nozze con Ramesse II fossero state celebrate da sei a otto anni prima dell’ascesa dell’imperatore.
    Nefertari è sempre apparsa accanto a Ramesse II ed era molto amata da tutti, lo si comprende dagli appellativi che riceveva: ''Sposa del Dio'' ''Signora delle due terre'' ''Madre di Dio'' e ''Sovrana dell’harem''.
    Il suo nome significa ''la migliore'', ''la più bella di tutte'', ma fu anche chiamata ''quella che possiede grazia, dolcezza e amore e che occupa un posto speciale nel tempio di Amon''.
    Nefertari diede a Ramesse II, oltre al primo figlio, anche il terzo, l’undicesimo, il sedicesimo e la quarta e quinta figlia. (Ramesse ebbe più di duecento figli e figlie e visse più di 90 anni).
    Nefertari morì giovane, circa sui quarant’anni. Aveva un ruolo molto importante nel regno sicuramente per la sua intelligenza, la sua determinazione, volontà e non ultima la sua bellezza.
    Aveva anche un ruolo diplomatico non indifferente e lo si deduce dalla lettera di auguri alla regina Ittita Pudukhepa.
    Ramesse II le dedicò un tempio ad Abu Simbel e si leggono queste parole in una iscrizione: ''Alla regina prima sposa reale Nefertari Mert-en Mut, per la quale brilla il sole''. Il significato di Mert-en-mut (aggiunto probabilmente dalla stessa Nefertari) vuol dire: ''Colei che è amata dalla dea Mut'' (Mut era la consorte del dio di Tebe Amon).
    La bellezza di Nefertari era sorprendente e lei svolgeva il ruolo di essere la controparte del Faraone nella creazione e nel sostegno del mondo cosmico. Ad Abu Simbel la regina venne vista per l’ultima volta ed era in occasione del viaggio di Ramesse II per celebrare la fine dei lavori di costruzione dei templi. Da allora di Nefertari si perde ogni notizia e, fino agli inizi del secolo scorso, neppure la sua mummia viene ritrovata. A scoprire il sepolcro di Nefertari, che si trova nella valle delle regine, è Ernesto Schiapparelli nel 1904. La sua tomba è piccola in confronto a certe tombe della valle dei re che sono di dimensioni imponenti. «Vi si accede attraverso una scala che porta verso la prima anticamera. La tomba arriva ad una profondità di circa 12 metri all’interno della roccia calcarea ed è divisa in sette spazi architettonici di diverse misure e destinati a funzioni diverse, divisi in due parti unite da una scala» (Fondazione Memmo, Nefertari luce d’Egitto, pag. 27). Un tempo la tomba era interamente coperta da dipinti, ora in buona parte (circa il 20%) spariti. Il tutto è espressione della vita oltre la morte: i sarcofagi, il libro dei morti, le statue. Gli Egiziani rappresentavano perfettamente l’ambiente del defunto, proprio per permettergli di continuare la stessa vita nell’aldilà. Nelle tombe vengono rappresentati anche gli oggetti di vita quotidiana, i capi di abbigliamento. Nel libro dei morti erano raccolte le formule magiche che avevano lo scopo di far fronte a qualsiasi pericolo si fosse presentato nell’altra vita. I bellissimi dipinti nella tomba di Nefertari hanno lo scopo di facilitare il viaggio della regina verso la resurrezione e la vita eterna. Ciò che colpisce nella sua tomba è il fatto che la regina appare sempre da sola nel suo viaggio verso l’aldilà, viene accompagnata dalle divinità, ma non c’è il faraone Ramesse II, che compare solo nel titolo principale della regina ''La grande sposa del re''. Manca anche il suo cartiglio, mentre in altri templi la regina è sempre a fianco del faraone.
    L’età della morte di Nefertari probabilmente è intorno al 1255 a.c. Nella tomba non ci sono riferimenti ai suoi figli e non ci sono immagini che richiamino alla memoria la vita terrena della regina. Il tutto è proteso verso l’aldilà, verso la vita ultraterrena. Vengono riprese le iscrizioni geroglifiche del libro dei morti e si ripetono le formule che assicurano la salvezza. «I testi e le immagini si basano sui miti relativi alla morte e alla resurrezione di Osiri, il dio della fertilità, del sole e dell’oltretomba» (op.cit pag 73). Nella tomba vengono raccontati gli incontri di Nefertari con gli dei, presentando una visione religiosa del mondo.
    La camera funeraria della regina, scoperta da Schiapparelli, era stata saccheggiata dai ladri e rimanevano solo pochi resti: «Il coperchio, ridotto a tre quarti circa, del sarcofago esterno in granito rosa del quale si rinvennero abbandonati sul pavimento della sala medesima tre grandi e molti piccoli frammenti, alcuni frammenti di legno rivestito di foglia d’oro, pertinenti probabilmente al sarcofago interno e pochi elementi, non tutti integri, del corredo, in tutto 34 “ushabti”: statuine funerarie di colore nero perché ricoperte da una sostanza resinosa scura, una specie di bitume e considerata dagli Egizi una sostanza divina, capace di proteggere l’oggetto e garantirgli la possibilità di vivere nell'Aldilà (op. cit. pag. 194), due coperchi di cofanetti e altri elementi di mobilio, una statuetta lignea di ibis modellata assai finemente, che purtroppo manca del capo e delle zampe, alcuni vasi, in gran parte frammentari, porzioni di tessuti e di corde, e un paio di sandali di fibre vegetali realmente usati dalla sovrana. Al suo corpo appartengono forse i resti mummificati di due gambe rinvenuti ancora in situ. Chiuso in una nicchia nella parete di fondo della sala del sarcofago si rinvenne un amuleto ''djed'' di finissima fattura».
    (tratto da NEFERTARI: LUCE D’EGITTO, Leonardo Arte , Baioni Stampa, Roma. Ottobre 94)



    In una pittura rinvenuta nella tomba di Nefertari, la regina è raffigurata davanti ad una pagina del libro dei morti. Nella tomba l’immagine è abbastanza estesa sulla stessa parete e si nota anche Nefertari mentre si rivolge ai tre geni della prima porta del regno di Osiri (cap. 144 del regno dei morti): Sekhed-her-‘asha-iru, seguito dal guardiano Tekat-meseger e da un essere femminile con la testa di ippopotamo che impugna due coltelli e da un’altra figura femminile (si tratta del terzo genio detto ''l’annunciatore'') senza caratteristiche specifiche.
    Il testo riferito alla regina dice: ''La grande sposa del re, Signora delle due Terre, Sovrana dell’Alto e del basso Egitto, Nefertari Mery-en-Mut, giustificata presso Osiri, il dio grande, protezione, vita, durata, vigore, salute, ogni gioia, ogni difesa, come Ra''. In tutta l’immagine della parete sono riportati i passi del capitolo 144 del libro dei morti riguardanti le porte del regno di Osiri, come specifica l’inizio dell’iscrizione: ''Formula per conoscere le porte del regno di Osiri nell’occidente e degli dei che risiedono nei loro recessi (i geni delle porte): come uno si potrebbe rivolgere a loro nel mondo terreno. Parole dette dall’Osiri, la Grande Sposa del Re, Signora delle due terre, Nefertari Mery-en-Mut, giustificata presso Osiri''. (Op. cit. pag. 154)
    (LEBLANC C, SILIOTTI A., Nefertari e la Valle delle regine, Giunti, Prato, 2002)



    Eccola, guarda,
    è come la stella luminosa
    all'inizio di una bella annata.
    Lei, che risplende di perfezione,
    brillante di pelle,
    con occhi belli quando guardano
    e labbra dolci quando parlano,
    non ha mai una parola di troppo.
    Alto il collo,
    il petto chiaro,
    capelli come lapislazzuli,
    braccia che superano lo splendore dell'oro,
    dita che assomigliano ai boccioli di loto,
    languide le reni,
    sottili le anche.
    Fa in modo che ogni uomo
    si volti a guardarla...
    (Anonimo Egiziano, XVI-XI sec. a.C.)



    Edited by gheagabry1 - 29/1/2023, 02:29
     
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    HATSHEPSUT



    La regina, o il re Hatshepsut, come certamente avrebbe preferito essere ricordata, regnò sull'Egitto della diciottesima dinastia per più di vent' anni.
    Fu una donna notevole. Figlia maggiore del re Thutmosis I, sposata al fratellastro Thutmosis II e tutrice del giovane fratellastro-nipote Thutmosis III, Hatshepsut riuscì in un modo o nell'altro a sfidare la tradizione e a installarsi saldamente sul trono divino dei faraoni.
    A partire da quel momento Hatshepsut divenne la personificazione femminile di un ruolo maschile, rappresentata, unica nella storia, sia come donna che come uomo, vestita con abiti maschili, dotata di accessori maschili e addirittura della barba finta tradizionalmente esibita dai faraoni.

    Il suo regno, un'epoca in cui la pace interna, l'esplorazione di paesi stranieri e la costruzione di edifici monumentali trovarono un attento e delicato equilibrio, fu sotto tutti i punti di vista - tranne uno, ovviamente - un tipico regime del Nuovo Regno; sotto di lei l'Egitto prosperò.
    Eppure, dopo la sua morte, si cercò con ogni mezzo di cancellare il suo nome e la sua immagine dalla storia dell'Egitto.
    I monumenti di Hatshepsut furono abbattuti o usurpati da altri, i ritratti distrutti e il nome cancellato dalla storia e dall'elenco ufficiale dei re egizi. Il suo nome non compare nelle liste reali in quanto i posteri (a partire da Tuthmosis III) la considerarono un'usurpatrice facendone anche scalpellare i cartigli su molti monumenti.

    Ma qualcosa rimase: Manetone, menzionò un faraone donna, di nome Amense o Amensis, come quinto sovrano della XVIII dinastia.
    E da lì rinacque Hatshepsut...




    Hatshepsut fu la figlia più giovane di Thutmose I e della Grande Sposa Reale Iahmes.
    Al momento della morte di Thutmose I, Thutmose II, per confermare il suo diritto al trono, sposò Hatshepsut attribuendole il titolo di Grande Sposa Reale.
    La durata del regno di Thutmose II, 18 anni secondo Manetone, 3 anni, al massimo 4, secondo alcuni storici moderni rende difficoltoso stabilire che influenza abbia avuto Hatshepsut durante il periodo di governo del marito.
    Nominata in un primo tempo reggente in nome del figliastro, Hatshepsut, dopo aver ottenuto l'appoggio dei più alti funzionari e del clero tebano di Amon, tra cui Hapuseneb che venne innalzato al rango di Primo Profeta, iniziò un' opera di propaganda tesa a dimostrare come il padre, Thutmose I, l'avesse nominata sua diretta discendente e quindi nel diritto di salire al trono. A coronamento di tale opera di propaganda Hatshepsut si nominò coreggente insieme a Thutmose III attribuendosi quindi tutte le prerogative ed i titoli della sovranità.
    Uno dei punti più famosi della propaganda è il mito sulla sua nascita.
    In questa narrazione lo stesso Amon, nella personificazione di Amon Ra andò da Iahmes, dopo aver assunto le sembianze di Thutmose I, e la svegliò con un odore piacevole. Quindi Amon Ra pose l'Ankh, simbolo di vita, sul naso di Iahmes, e Hatshepsut fu concepita.
    Khnum, il dio che dà forza al corpo dei bambini umani, venne invitato a creare un corpo e un Ka, ossia la forza vitale, di Hatshepsut poi il dio e la dea Heket, dea della vita e della fertilità, posizionarono Iahmes su di un letto a forma di leone dove ella partorì Hatshepsut.
    Per rafforzare ulteriormente la sua posizione venne diffuso un pronunciamento dell'Oracolo di Amon, mediato del clero tebano, che proclamò come fosse desiderio del dio che la figlia di Thutmose I sedesse sul trono.
    Hatshepsut pubblicizzò l'appoggio di Amon al suo regno facendo scolpire l'approvazione del dio sui suoi monumenti, per esempio:

    « Benvenuta mia dolce figlia, mia prediletta, il Re dell'Alto e del Basso Egitto, Maatkare, Hatshepsut. Assumi il ruolo di Signore, prendi possesso delle Due Terre. »

    Inoltre Hatshepsut aggiunse all'appoggio divino anche l'intenzione del padre di assegnarle le corone d'Egitto. La propaganda a supporto delle sue rivendicazioni è riportata anche su un'iscrizione parietale del suo tempio funebre:

    « Allora sua maestà disse loro: “Questa mia figlia, Khnumetamun Hatshepsut- possa essa vivere!- ho deciso che siederà sul mio trono dopo di me… lei potrà dirigere il popolo in ogni aspetto del lavoro di palazzo; essa infatti potrà condurvi. Ubbidite alle sue parole, unitevi tutti sotto il suo comando. I nobili di sangue reale, i dignitari e i capi del popolo ascoltarono questo proclama in favore di sua figlia, la Regina dell'Alto e Basso Egitto, Maatkare- possa essa vivere in eterno. »

    Sulla durata del periodo di coreggenza le fonti sono incerte secondo alcuni l'atto sarebbe avvenuto dopo soli due anni di reggenza mentre secondo altri sarebbe da datare al settimo anno di regno.
    Hatshepsut fu certamente un buon faraone e durante il suo regno l'Egitto conobbe un periodo prospero pacifico. Come i suoi predecessi si dedicò alle attività edilizie per magnificare il proprio culto. Fece costruire un monumentale tempio a Deir el Bahri in onore della dea Hator. Hatshepsut fece restaurare i numerosi templi che in tutto l'Egitto erano andati in rovina nel periodo della dominazione Hyksos. Intraprese diverse esplorazioni e spedizioni commerciali (regno di Punt di cui rimane un famoso bassorilievo).
    Hatshepsut ricoprì anche la carica di Divina adoratrice di Amon, ruolo che la poneva molto in alto nella gerarchia ecclesiastica.
    Pare che il suo regno non sia stato segnato da eventi militari, tranne forse qualche campagna militare di scarsa importanza in Nubia contro gli Iuntyu e contro il paese di Nehsin.
    Hatshepsut esercitò il potere in modo assoluto fino al 1453 a.C. e fu il regno più lungo tra le regine d'Egitto. Ma alla sua morte, misteriosamente, nulla soppravvisse, nessuna immagine, nessuna statua, nessun tempio, nessun documento, nessuna traccia di lei che pure ebbe un potere più vasto di Cleopatra e Nefertiti. Persino il suo sarcofago fu profanato.
    Si pensa che a distruggere la sua immagine e a condannarla all'oblio della memoria fu proprio colui che aveva spodestato, Thutmose III.



    Dopo la sua morte, molti dei monumenti a lei dedicati furono distrutti o vandalizzati. Sostituire, sui monumenti, il nome del vecchio sovrano con quello del nuovo era una pratica comune nell'antico Egitto, ma in alcuni casi questo atto aveva lo scopo di damnatio memoriae; portando alla scomparsa della persona dalla storia e quindi cancellandone l'esistenza.
    Gli egittologi hanno pareri difformi su chi sia stato, effettivamente, a cancellare il nome di Hatshepsut dai monumenti, ed anche sulla cronologia di tali atti: Charles Nims e Peter Dorman hanno esaminato questi vandalismi e li hanno datati, approssimativamente, dopo il quarantaduesimo anno di regno di Thutmose, ossia verso la fine del regno mentre Donald Redford suggerisce una motivazione più pragmatica: Thutmose III aveva bisogno di dimostrare la sua legittimità a regnare e quindi si attribuì le opere della sua matrigna e associata al trono.
    Redford annota:

    « Qua e là, nei più profondi recessi dei santuari o della tomba, dove gli occhi dei plebei non potevano vedere, le immagini e le iscrizioni della regina sono rimaste intatte... che mai lo sguardo del popolo potrà vederle di nuovo,così da mantenere il calore ed il timore di una presenza divina. »

    Nel famoso rifugio, identificato come tomba DB320, scavato nella roccia nelle vicinanze del tempio funerario di Hatshepsut, ove durante la XXI dinastia vennero nascoste le mummie di molti sovrani per sottrarle all'azione dei violatori di tombe, venne rinvenuta una mummia femminile, priva di indicazioni sull'identità, ma al cui fianco si trovava una cassetta, recante il nome di Hatshepsut, contenente un fegato mummificato ed altri reperti. Tale mummia venne quindi considerata essere quella della regina. Tale ipotesi venne messa in discussione dal ritrovamento in KV60, vicino alla sepoltura di Sitra-in, nutrice della stessa Hatshepsut, di un cadavere femminile che presentava caratteristiche attribuite alla regina ed una postura di mummificazione tipica dei membri della famiglia reale. Ulteriori studi su tale mummia, comportanti il confronto tra alcuni reperti attribuibili con sicurezza alla regina e la mummia in questione (analisi del DNA) hanno permesso, nel 2007, di confermare tale ipotesi, pertanto la mummia rinvenuta in KV60 è ora ritenuta quella di Hatshepsut. Un'altra convincente prova dell'identità della mummia è il ritrovamento in una piccola scatola di legno con nome e cartiglio di Hatshepsut, che ne contiene le viscere ed un singolo dente con una sola parte della radice. La parte di radice mancante è ancora nella mascella della mummia, il che ha fugato gli ultimi dubbi sul suo riconoscimento.



    HATSHEPSUT, COLEI CHE AMON ABBRACCIA LA PRIMA TRA LE ELETTE
    NUOVO REGNO - XVIII DINASTIA, 1552-1295 a.C.

    Nonostante ben poche siano le esponenti di sesso femminile ad aver conquistato il potere, tutte hanno lasciato un segno del loro passaggio. Hatshepsut è una di queste: la regina fece edificare il suo tempio funerario adattandolo ad una configurazione naturale particolare, per far cadere nell'ombra i templi degli altri sovrani. Il tempio si trova a Deir el Bahari nella necropoli tebana, sulla riva ovest del Nilo, a Luxor, è un santuario a terrazze in parte scavato nella roccia calcarea e sovrastato da alte rupi. La regina visse nel XV Sec. a.C., figlia di Thutmosis I. Era l'unica discendente diretta del re ma non avrebbe potuto salire al trono perchè donna. Sposò il fratellastro Thutmosis II, indossò il gonnellino e la barba cerimoniale, simboli del potere, e fu lei a regnare. Nei rilievi del tempio, famosi in tutta la valle del Nilo, la regina celebrò la sua origine divina ossia la sua teogamia, per legittimare il diritto al trono di fronte ai grandi sacerdoti. Inoltre fece edificare un obelisco, vicino tempio di Karnak, in un unico blocco di granito rosa di Assuan, 317 tonnellate, a Luxor. Un altro avvenimento celebrato sui muri del santuario è il viaggio a Punt, l'odierna Somalia. Prima del viaggio in Egitto di Napoleone, il tempio fu trasformato in un convento dai monaci cristiani. Nel 1798 la spedizione napoleonica lo portò alla luce semisepolto dalla sabbia, ma solo un secolo più tardi, ebbero inizio i lavori per riportarlo all'antico splendore. Nel 1960 ebbero inizio i restauri delle parti interna ed esterna della struttura. la terrazza superiore del tempio è quella che ha suscitato i maggiori problemi. Senenmut, architetto e amante della regina, che aveva concepito l'originale struttura, per ripararla dagli eventuali crolli delle alture, aveva realizzato una piattaforma, sopra la terza terrazza, ora ricostruita. Ad un certo momento si è pensato di smontare il tempio, come ad Abu Simbel, ma le ingenti somme di denaro necessarie hanno fatto accantonare l'idea. Sono state pulite le pareti dove si trovano i rilievi originali, anneriti dalle lampade ad olio dei monaci, quando il tempio fu adibito a convento. Adesso chi visita il tempio può chiaramente ammirare l'ambizione di Hatshepsut che regnò ventanni tra intrighi e congiure. Pur avendo due tombe, il suo corpo non è stato ritrovato, è ancora un mistero la sua morte: fu uccisa o morì di morte naturale?






    NEFERTITI



    Posata con amore nella tomba dell’eternità,
    immortalata ed onorata.
    Dea e donna nei millenni
    ci commuove per la sua bellezza.
    Signora di delicata grazia,dolcezza,amore.
    Amata dal suo sposo poeta,sognatore
    sensibile alla bellezza,all’umanità,
    alla giustizia,ebro del dio Aton,
    incantato dalla sua sposa-cugina
    preferì sognare la propria vita che viverla.
    Perduto com’èra
    nella contemplazione del suo dio,
    il suo stato sprofondo nell’anarchia.
    Separata,forte nella sua fede incrollabile
    della nuova religione…Ormai lontana
    dagli eventi che precipitavano,
    entrava nel mito, nella legenda
    bella tra le belle…
    Tu soave creatura apparisti,
    come raro fiore in mezzo al deserto
    che non appassisce.

    (Leopold Persidi Roma.19-02-2004)



    Sulla grande e potente regina dell'antico Egitto si sa veramente poco: non esiste alcuna documentazione precisa sulla sua morte, né fu mai fu ritrovata la sua tomba.
    Sguardo fiero, viso dai lineamenti delicatamente proporzionati e sopracciglia leggermente arcuate, naso sottile, labbra carnose e lungo collo aristocratico: Nefertiti dev'essere stata una donna dall'aspetto estremamente affascinante. Non per nulla il suo nome, che probabilmente era pronunciato "Naftayta", significava "la Bella è arrivata". L'aspetto radioso di Nefertiti è documentato da innumerevoli ritratti, alcuni dei quali sono stati ritrovati a El-Amarna, luogo che una volta ospitava la corte di Amenofi IV.

    Tra questi ritratti, il più affascinante è un busto scolpito e dipinto in pietra calcarea e gesso che dal 1924 si trova al Museo Egizio di Berlino. Questa scultura di appena 50 cm. di altezza, che a tutt'oggi è uno dei più famosi artefatti risalenti all'Era Egizia dei Faraoni, fu scoperta da un archeologo tedesco nel 1912. Un altro busto venne rinvenuto dal ricercatore inglese John Pendlebury intorno al 1932, durante gli scavi a El-Amarna. Questa testa, che apparentemente lo scultore aveva intenzione di porre su di una statua, non riporta alcuna iscrizione. Eppure la somiglianza ad altri ritratti di Nefertiti è tale da non lasciare dubbi che si tratti della regina. Oggi è possibile ammirare questo busto al Museo Egizio del Cairo.
    Il Faraone Amenofi IV dovette amare appassionatamente la sua sposa e consorte, dato che nella capitale fece erigere in suo onore diverse colonne riportanti inscrizioni che cercavano di catturarne la bellezza:

    "La più bella di viso, ha il dono della felicità, ha il talento di saper prestare ascolto, la sua voce porta gioia, è regina di tutte le grazie, è dotata di amore in abbondanza, porta felicità al sovrano delle due terre".

    ...La Storia...


    Per più di un decennio Nefertiti fu la più influente donna in Egitto, riverita come un dio dal suo popolo. Regnò di fianco ad Amenofi IV, un sovrano della 18ª dinastia del Nuovo Regno. Ma della bella regina tuttavia non si sa quasi nulla, dato intorno al 1336 a.C., all'età di circa 30 anni, scomparve semplicemente dalla storia. Nefertiti aveva sposato il figlio di Amenofi III durante il quarto anno del regno. pare che al tempo Nefertiti avesse 15 anni e il suo sposo almeno 14. A seguito dell'unione, la regina diventò una delle più potenti sovrane mai esistite in Egitto. Amata, elogiata e adorata, era presente al fianco del re in tutte le occasioni importanti: il suo rango era quasi alla pari con quello del re. Ma poi, improvvisamente, se ne perdono le tracce. Fino ad oggi non sono state trovate prove che possano gettare luce sulla misteriosa fine di Nefertiti e, fino ad oggi, si credeva che il suo corpo fosse andato perso.
    Le sue origini sono sconosciute. Secondo una teoria, avrebbe potuto trattarsi della principessa mitannica Tadukhepa, che avrebbe dovuto essere stata la sposa di Amenofi III ma che invece sposò il figlio di questo. Secondo un'altra teoria, sarebbe stata il frutto dell'unione tra Amenofi III e una concubina; in questo caso Nefertiti sarebbe la sorellastra di Amenofi IV. Ma anche questa teoria sembra piuttosto improbabile in quanto, se fosse vera, il titolo di "Figlia del Faraone" le sarebbe appartenuto per diritto, mentre invece non fu così.
    Secondo una terza teoria, Nefertiti sarebbe stata la figlia di Tiy, un ufficiale di alto rango alla corte di Amenofi III. Secondo questa teoria, che si sta diffondendo sempre di più tra gli egittologi, Nefertiti sarebbe quindi nata tra i ranghi più alti della società egiziana.

    Nefertiti ed Amenofi IV introdussero importanti riforme religiose e culturali, tra le quali un radicale allontanamento dalle divinità tradizionalmente onorate dal popolo egizio, per dedicarsi al culto di Aton, il dio Sole. Durante il quinto anno di regno di Amenofi IV, la coppia trasferì la residenza ufficiale da Tebe ad Achetaton, il "Luogo della Luce di Aton", città che ai giorni nostri è conosciuta con il nome arabo di El-Amarna. La costruzione di nuovi templi in onore del dio sole interessò perfino Karnak, che fino ad allora era stato il centro tradizionale del culto di Ammon. Questi templi vennero decorati con innumerevoli immagini di Nefertiti la quale, in quanto monarca, portava anche il titolo di "Neferneferuaton", che significa "Perfetta è la perfezione di Aton". Più di ogni altra regina egiziana prima o dopo di lei, Nefertiti venne immortalata in templi e su monumenti. È anche probabile che la regina abbia ricoperto la carica di Sommo Sacerdote, carica che tradizionalmente era riservata esclusivamente ai re.
    Eppure, durante gli ultimi anni del regno di Amenofi IV, Nefertiti scomparve da dipinti e sculture per essere sostituita da due delle sue sei figlie: Meritaton e Ankhesenpaaton.

    Che cosa accadde alla regina? A lungo i ricercatori hanno creduto che Nefertiti non avesse più goduto del favore del re e fosse stata esclusa dalla famiglia reale. Uno dei motivi potrebbe essere stato il fatto che stava diventando palese che non avrebbe mai dato un figlio maschio al re. Secondo un'altra teoria, il governo della coppia sarebbe stato rovesciato da una ribellione della popolazione che considerava eresia l'adorazione del dio Aton. Quello che è certo è che una volta asceso al trono Tutankhamon nel 1333 a.C., qualsiasi traccia che potesse ricordare Amenofi IV e Nefertiti venne sistematicamente eliminata.
    Quindi, l'improvvisa scomparsa di Nefertiti è destinata a rimanere un mistero. Tuttavia, è possibile che il corpo senza nome che il team di archeologi britannici ritiene possa essere quello mummificato dell'affascinante regina stia per rivelare alcuni dei suoi segreti.

    La scoperta



    Potrebbe rivelarsi la scoperta archeologica più sensazionale da quella della tomba di Tutankhamon. L'egittologa inglese Joann Fletcher è convinta di aver trovato la mummia della leggendaria Nefertiti che - insieme a Cleopatra è stata la più famosa sovrana dell'antico Egitto. Nel giugno 2002 a Joann Fletcher, docente presso l'Università di York, e ai suoi colleghi fu permesso di esaminare la tomba conosciuta come "KV35" nella Valle dei Re, presso Luxor. Tale tomba era stata infatti precedentemente aperta, nel 1898 per poi essere nuovamente murata nel 1907. Una delle mummie presenti nella tomba aveva destato particolare interesse tra il team di ricercatori, in quanto le vecchie fotografie mostravano una forte somiglianza con il famoso busto di Nefertiti di Berlino.
    La mummia, catalogata come "No. 61072", giace insieme ai corpi mummificati di una seconda donna e di un ragazzo in una galleria attigua alla camera funeraria di Amenofi II. I tre furono rinvenuti da un archeologo francese verso la fine del 19° secolo, ma essendo in condizioni tutt'altro che buone non avevano attratto molta attenzione al tempo e per molti anni successivi.
    Ora, e solo dopo innumerevoli controlli dettagliati, il team britannico di ricerca ha raggiunto la conclusione che in tutta probabilità la "Mummia 61072" è quella della leggendaria regina Nefertiti.

    Secondo il parere degli scienziati britannici, tra le prove che suggeriscono che si tratti di una "riscoperta" del corpo di Nefertiti, ci sono i due buchi nel lobo dell'orecchio della mummia, che erano segno di appartenenza alla famiglia reale, i segni lasciati da una sorta di corona, anch'essa indossata esclusivamente dai reali, e il capo rasato che secondo la dott.ssa Fletcher sarebbe stata una pratica essenziale che permetteva di indossare perfettamente una corona del tipo del famoso copricapo blu portato da Nefertiti.
    Da una valutazione preliminare, il team britannico di ricerca ritiene che per lo meno questa mummia, che è stata trovata sotto un enorme quantità di tessuto di lino, sia probabilmente quella di una figura reale femminile risalente al periodo Amarna. Il lungo collo da cigno, gli zigomi alti e i forti lineamenti del mento ricordano il bel capo di Nefertiti. Un altro elemento che identificherebbe la mummia come la bella sovrana del regno del Nilo è, secondo la dott.ssa Fletcher, una parrucca rinvenuta accanto al corpo mummificato. Si tratta di una parrucca in stilo nubiano, quello preferito dalle donne della casa reale nell'ultima parte della 18ª dinastia. Inoltre, le procedure di imbalsamazione utilizzate sui tre corpi non identificati nella tomba KV35, i materiali usati e il tipo specifico di mummificazione suggeriscono che i corpi risalgono alla seconda metà della 18ª dinastia, il periodo corrispondente al regno del Faraone Amenofi IV e di sua moglie.

    Il corpo che si ritiene essere quello di Nefertiti presenta segni di notevole violenza, apparentemente inflitti con un ascia o una sorta di machete. L'orecchio destro e un braccio sono mancanti, anche se il braccio è stato rinvenuto nel corso di una seconda spedizione intrapresa dal team di ricerca britannico nel febbraio 2003. Secondo la dott.ssa Joann Fletcher, questo prova che Nefertiti sia stata soggetta a maltrattamenti e quindi uccisa; tali ferite rappresentano un ulteriore indizio nel rompicapo che potrebbe portare alla definitiva identificazione del corpo. La studiosa ritiene che la morte violenta a cui è andata incontro la regina potrebbe essere un atto di vendetta del popolo dettato da come il Faraone Amenofi IV e la regina avevano tradito la religione tradizionale per dedicarsi al culto del dio Sole. Un ulteriore esame della mummia ha rivelato che il viso presenta segni di violenza inflitti da un oggetto estremamente affilato, forse un pugnale. Questo corrobora la tesi secondo la quale la sovrana odiata sarebbe stata torturata e il suo corpo sfigurato dopo la morte. Il braccio destro della mummia, in seguito rinvenuto separatamente, era stato fasciato in posizione piegata con la mano verso l'alto. Le dita sembra che stessero ancora afferrando uno scettro reale, anche se questo da allora è svanito.

    Alcuni esperti hanno tuttavia espresso scetticismo; ritengono infatti che la dott.ssa Fletcher e i suoi colleghi stiano basando le loro deduzioni su prove insufficienti. Secondo gli scettici, la mummia riscoperta potrebbe corrispondere a qualcun altro, per esempio a una delle figlie di Nefertiti. Per risolvere il mistero una volta per tutte, sarebbe necessario effettuare dei test di confronto di DNA. Ma finora non sono stati ritrovati i resti dei figli di Nefertiti né quelli di altri parenti stretti. Quindi, tali test risultano impossibili.
    (informiamo)


    Tanti sono i giubilei dell'Unico-di-Ra, re eterno,
    e della Grande Regina, la sua prediletta, ricca di beltà,
    che fa contento Aton con una dolce voce
    e con le sue belle mani che portano i sistri,
    la Signora delle Due Terre,
    Neferneferuaton, Nefertiti, viva eternamente,
    che sta per sempre a fianco dell'Unico-di-Ra
    (Da una parete nella tomba di Ai, genero e successore di Ekhnaton a Tell el-Amarna)


    Allorché, in quel lontano tramonto del 1366 A.C., Tadulchipa, la dolce principessa asiatica, approdò a Tebe, la favolosa città dalle ‘cento porte’, capitale dell’alto e del basso Egitto, il popolo del Nilo le tributò un’accoglienza orgiastica. Sebbene il suo bel volto non lo tradisse, un brivido di repulsione dovette percorrere quel suo bel corpo di quindicenne alla vista dell’obeso e decadente Amenophis III, il re delle ‘due terre’, cui l’amato genitore, Tushratta, potente re del Mitanni, l’aveva destinata come sposa.
    Nefertiti, ‘La Bella che qui viene’, era tuttavia ben lungi dall’immaginare il ruolo che il destino le aveva riservato nella terra dei Faraoni. Alla morte di Amenophis III, a soli diciassette anni, la ‘Bella’ sposò il figlio di questi, Amenophis IV, sul quale tanta influenza doveva esercitare nella edificazione di quel grande culto monoteistico dedicato al disco solare, ad…Aton!. A questo culto l’illuminato ‘Faraone eretico’ dedicherà tutta la sua vita. La ‘città dalle cento porte’ venne presto abbandonata per ‘Aketaton’, nuovo paradisiaco centro di culto nell’area di El Amarna, a nord di Tebe, ed il giovane Amenophis assunse il nome di ‘Akenaton’, (servo di Aton).
    Dopo alterne vicende, che la ‘Bella’ dominò per circa tredici anni col suo fascino e splendore, nel 1351 A.C. la ritroviamo disperatamente sola, ripudiata dal ‘signore delle due terre’, isolata dalla corte e soppiantata nel suo ruolo di ‘consorte reale’ dal correggente ‘Smenkhkara’ e dalla giovanissima figlia ‘Meritaton’, nuova ‘consorte reale’.
    Fu forse questo il periodo dei più disperati e dissoluti amori di Nefertiti; periodo in cui il grande scultore di corte, Thutmosis, dovette follemente innamorarsi della bella regina, senza però esserne corrisposto. Amore ed odio dovettero guidare la mano del geniale artista nel plasmare quel raro esemplare d’arte figurativa qual è il busto della ‘Signora del Nilo’, oggi conservato nel museo di Berlino. Questo magnifico e superbo reperto, rappresentativo dell’Arte figurativa di ‘Amarna, finemente lavorato e dipinto e preziosamente ornato con lamine auree, lapislazzuli, malachite e calcedonio, è caratterizzato dall’assenza dello strato brillante dell’occhio sinistro.
    Oggi, l’osservatore del reperto n.21.300 del museo di Berlino non resta eccessivamente perplesso alla vista di quell’occhio bianco e senza luce come dovette invece esserlo, molto probabilmente,Ludwig Borchardt, l’archeologo tedesco che, per primo, ebbe il privilegio di fissare quel volto stupendo allorché, nel Dicembre del 1912, lo riportò alla luce, estraendolo da quello che risultò essere il laboratorio del grande caposcultore ‘Thutmosis’ (Camera 19, settore P47, degli scavi di Tell El Amarna).
    Per i più, alterne vicende ed il fluire del tempo potevano essere stati i responsabili della mutilazione. Per studiosi più attenti, Thut aveva forse inteso affidare ad un rituale ‘magico’, diffuso in quei tempi, la sua vendetta di amante respinto. Ma…forse…più semplicemente, l’Artista aveva inteso rappresentare, a mezzo di quell’occhio spento, il suo profondo disprezzo per la pur tanto amata regina. A sostegno di questa tesi sembrerebbe deporre , paradossalmente, proprio una delle tante formule ‘magiche’ in cui ‘l’occhio bianco’ appare quale attributo dispregiativo, come per esempio “…svanisci! Oh tu che sei cupo in volto, tu che sei cieco, tu che hai l’occhio bianco ed avanzi strisciando! Oh miserabile!....” e così via. In contrapposizione all’occhio ‘bianco’, spesso ci si imbatte con l’esaltazione dell’occhio ‘vivo’ di Horus, il Dio ‘Falco’, che si posa su un ‘luminoso’ orizzonte.
    Se la bella Regina del Nilo avesse solo immaginato che il grande amore di Thutmosis le avrebbeconsentito di realizzare il sogno dell’immortalità, certamente oggi anche il suo occhio sinistro risplenderebbe!
    Gli occhi di Nefertiti si spensero per sempre all’età di trentasette anni.
    La vendetta del vecchio Dio Amon la raggiunse nella forma di un micidiale veleno fattole propinare dal grande generale Horemheb. Costui, al quale la ‘ragion di stato’ aveva imposto la penosa bisogna, ne arse il cadavere e ne disperse le ceneri ai quattro venti.
    L’ira di ‘Amon’ era placata!
    (Joey Fatigati)


    ...........

    Ankhesenamon

    QueenAnkhesanamen

    Una ragazza bellissima sedeva ad un tavolo, da sola. Aveva lo sguardo triste e fiero allo stesso tempo. Lo sguardo di chi aveva avuto un'infanzia troppo breve. Indossava un'ampia veste bianca adornata solo da lunghe e morbide pieghe. Un soldato ittita, due tavoli più in là, la fissava quasi a voler leggerne l'identità nei suoi occhi scuri. La ragazza si accorse di essere osservata e, rivolta al soldato, disse - Perché mi guardi così assiduamente, uomo?- L'ittita senza distogliere gli occhi dai suoi rispose - ... il tuo volto non mi è nuovo, donna, chi sei? ...mi ricordi qualcuno... e qual è la tua storia?-
    Il timbro di voce del soldato e la bellezza della ragazza attirarono l'attenzione di tutti i presenti nella Taverna. Il silenzio calò. Era il preludio ad un'altra storia.



    Sono vissuta nel 1340 a.C. a Tebe, la città dalle 100 porte, splendida come Babilonia dalle torri stupende, come Ninive dai meravigliosi giardini e Hattusas capitale del popolo dai 1000 dei.
    Mi chiamo Ankhesenamon, terza figlia del faraone Amenhotep IV o Akhenaton, come lui voleva essere chiamato, e di Nefertiti sua sposa. Moglie del faraone Tutankhaton o Tutankhamon, come lo costrinsero a mutare il nome coloro che lo assassinarono, anch'egli figlio, unico maschio, di Akhenaton e Kyia sua concubina. Fui data in sposa, alla morte del faraone, al giovane re quando aveva nove anni... ed io dodici. Due bambini eravamo. Indifesi ed inesperti. Prede di un uomo senza scrupoli e dall'ambizione smisurata: il gran visir Ay. Per otto anni io ed il mio giovane marito siamo stati manovrati da Ay. Per ingraziarsi i favori e la fedeltà dei nobili e dei sacerdoti, ci costrinse ad abbandonare il culto di Aton che dà luce e calore agli uomini, facendoci ritornare al vecchio culto di Amon Ra. Il suo potere era diventato superiore a quello del faraone mio marito, ma la sua ambizione non era ancora sazia: voleva diventare lui stesso signore dell'Alto e del Basso Egitto e... voleva me. Tutankhamon, resosi conto di quanto stava accadendo, decise di ripristinare il culto di Aton per togliere ad Ay ed ai suoi sostenitori il potere. Furono due anni terribili: noi, sovrani d'Egitto, dovevamo tramare contro un nostro servo! Un giorno Ay, fingendosi pentito, invitò Tutankhamon ad una battuta di caccia e lo uccise, aveva diciannove anni. A tutti disse che era caduto dal carro finendo sotto gli zoccoli dei cavalli... non c'erano testimoni a parte quei traditori dei suoi uomini. Non c'erano eredi al trono perché per ben due volte la mia gravidanza era finita male. Ma l'Egitto doveva avere il suo faraone ed Ay mi imprigionò affinché lo sposassi per legittimare le due corone alle quali ambiva da tanto. Ero disperata. Mio marito e fratellastro, l'uomo che amavo, era stato ucciso e non potevo fare nulla per liberarmi dal suo assassino che ogni notte veniva nelle mie stanze per violentarmi... Decisi di chiedere aiuto a Suppiluliumas, grande re degli Ittiti e nostro nemico... Gli inviai una tavoletta con la preghiera di farmi sposare un suo figlio poiché mai avrei sposato un mio servitore nonché assassino di mio marito.

    Il re ittita dopo qualche esitazione (non gli sembrava vero...) accettò ed inviò suo figlio Zannanza con una scorta che non arrivò mai a Tebe. Ay li aveva fatti massacrare... Ormai, priva di ogni speranza ed aiuto, fui costretta a diventare moglie di Ay. Finalmente aveva legittimato la corona: era il faraone!

    Ankhesenamon, temeva per la sua vita e non intendeva sposare alcun "servo". La sua figura, come la sua fine, resta avvolta nel mistero, subito dopo le nozze, di natura teologica, con l'ex visir, di lei si sono perse le tracce. Si suicidò o invece fu uccisa? Ankhesenamon è presente in molti oggetti rinvenuti nella tomba di Tutankhamon, suo marito, ma non nelle pareti: è assai strano perchè era sua sorella e sua moglie, erano cresciuti e vissuti insieme. Invece tra i reperti rinvenuti nella tomba del faraone c'è una piccola cappella le cui scene danno un'idea del suo ruolo, è chiamata grande maga, colei che dona l'energia indispensabile per regnare. Alla morte del faraone fu il visir Ay ad organizzare tutto; se fosse stata rappresentata nella tomba di Tutankhamon avrebbe accompagnato simbolicamente il marito defunto, Ay aveva altri progetti, la regina era indispensabile per raggiungere il trono.



    .......

    « La vita mi fu ingiusta — essa conclude —
    vissi senza delitto, seppure non è delitto l'amare;
    ed il pianto è degli amanti il sollievo »
    (Baldassarre Castiglione)


    CLEOPATRA



    Cleopatra, la regina d'Egitto, considerata la "regina delle regine", ultima sovrana della dinastia macedone, erede diretta di Alessandro Magno, permeata dalla cultura e dalle tradizioni greche, amò profondamente il suo paese, rivivificandone le gloriose tradizioni e lottando per mantenerlo prospero, riuscendo ad ottenere il consenso dal popolo egiziano e persino a farsi onorare come incarnazione di Iside, grazie al sostegno della classe sacerdotale.
    Adulata e contestata, osannata o ritenuta lussuriosa, giudicata dalla Storia come una donna abile nella corruzione, certamente non bellissima come vuole la leggenda (anche il filosofo Pascal nel 1670, nei "Pensieri", parlò del suo naso camuso), amante del lusso e dei piaceri, fu dotata d'intelligenza brillante e di grande cultura.
    Padrona dell'egiziano, dell'arabo, dell'ebraico, del greco, e di varie altre lingue, curiosa, ironica, d'indole gioiosa, certamente di grande fascino, se riuscì a sedurre due uomini potenti come Cesare ed Antonio, che per lei aveva ripudiato la virtuosa moglie Ottavia, dovette essere di non poco fastidio in tempi in cui la condizione sociale femminile era d'inferiorità.
    Così Plutarco descrisse lo sfarzo della regina:

    " In procinto di muoversi per la guerra contro i Parti, Antonio mandò ordine a Cleopatra di venirlo ad incontrare in Cilicia per scagionarsi dall'accusa di aver dato aiuto a Cassio e di averlo appoggiato nella guerra contro Roma.
    Cleopatra apparecchiò molti doni ed ornamenti, come si conveniva a chi era partecipe di una dinastia fastosa e potente. Poi se ne venne navigando lungo il fiume Cidno su di una nave dalla poppa dorata, con le vele di porpora tutte spiegate, coi remi d'argento mossi dalla ciurma in cadenza, al suono della tibia unito con quello delle zampogne e delle cetre.
    Essa poi si stava adagiata sotto un padiglione intessuto d'oro e dalle due parti assistevano, facendole vento, alcuni giovanissimi paggi; le più belle tra le sue damigelle, in abito di Nereidi, stavano chi al timone, chi alle gomene, esalando da molti incensieri, si diffondevano sulle rive del fiume, segnalando il passaggio della regina d'Egitto."




    Al tempo di Cleopatra Alessandria era la perla del regno egizio, una città ricca e potente, e Roma desiderava avere i Tolomei come alleati. In seguito agli intrighi del marito Tolomeo II, Cleopatra fu cacciata da Alessandria ma decise di riconquistare il potere da sola. Fu allora che incontrò Cesare che, sedotto dal suo fascino, e irretito dai suoi intrighi, s' innamorò perdutamente di lei e riuscì a farla riconciliare col fratello e a restituirle il trono d'Egitto.
    Cleopatra e Cesare si stabilirono poi a Roma e dal loro amore nacque un figlio, Tolomeo Cesarione, ucciso nel 30 a. C, quando Ottaviano Augusto conquistò l'Egitto.
    Nel 44. a. C Cesare venne assassinato e Cleopatra tornò in Egitto, e qui , rimettendo in moto le sue arti seduttive, avvinse a sé Antonio, designato da Cesare come suo erede e triumviro incaricato degli affari d'Oriente, in un legame che durò circa 10 anni, che si concluse con il matrimonio e dal quale nacquero tre figli,
    Alessandro- Hélios, Cleopatra- Selene e Tolomeo- Filadelfo.
    Antonio e Cleopatra come coppia rappresentavano l'unione della forza e della seduzione e si identificavano con Dioniso ed Afrodite, per sottolineare l'alleanza e la potenza dei due imperi, ma il loro legame, che aveva sapore peccaminoso come tutto ciò che proveniva dal fascinoso Oriente, l'ostentazione delle ricchezza di Cleopatra e il fastidio che procurava il fatto che un romano non dimostrasse la propria superiorità sul paese conquistato, che pure
    non metteva in discussione la sovranità romana, infastidì Roma.
    Si arrivò, così al conflitto armato; Ottaviano, desideroso di conquistare il potere, dichiarò guerra ad Antonio. Nel corso della battaglia di Azio Antonio e Cleopatra riuscirono a fuggire, salvando parte della flotta ed il tesoro. Dopo la sconfitta di Azio, abbandonato da tutti, e pensando che Cleopatra si fosse suicidata, Antonio si uccise conficcandosi la spada nel ventre.
    Ridotto l'Egitto a provincia romana, e morto Antonio, nel 30 a. C. Cleopatra, per il dolore di vedere la disfatta del proprio paese sfruttato e piegato da Roma, e per non subire l'umiliazione di dover seguire incatenata il carro del vincitore,
    preferì darsi la morte con un aspide.
    (Francesca Santucci)



    ....Tra i poeti vi troviamo spesso Sallustio, Asinio Pollione, Lucio Apuleio e i due giovanissimi Virgilio e Orazio. Quest’ultimo, che ha appena 21 anni, non fa mistero di detestare la Regina. E tuttavia è per lui che Cleopatra stravede: Cleopatra si annoia mortalmente nel sentire Sallustio declamare il Bellum Iughurtinum ma quando Orazio prende la parola e racconta le avventure amorose delle sue eroine Cleopatra ascolta ammaliata. Addirittura, pare che Cleopatra stessa si sia cimentata nella composizione di un’opera letteraria, andata perduta,
    sulla cosmesi femminile simile ai Medicamina faciei di Ovidio.
    Agli occhi dei poeti Cleopatra appare concordemente bellissima. Cleopatra, racconta Lucio Apuleio, indossa solitamente una conturbante tunica di lino, simile a quelle delle sacerdotesse egizie; possiede anche vesti elaborate, nei colori tradizionali di Roma, il rosso e il giallo, tutte assai discinte rispetto agli standard capitolini. Alla Corte risiedono anche mimi e attori, tra i quali Publilio Siro, e lo scultore greco, Arcesilao, che fonde in euricalco una statua della regina nelle vesti di Iside.
    Tra i personaggi pubblici agli Horti sono frequentatori abituali Bruto, Antonio e il giovane Ottavio, dall’indole severa e assai critico. Ci sono anche Tolomeo XIV, il fratello-sposo di Cleopatra di appena 13 anni, e l’infante Cesarione. Il grande assente dalla Corte portuense di Cleopatra è Cicerone: per il Padre della Patria Roma ha un’unica corte regale, quella sul Palatino.
    (Diletta Boni)



    ....Plutarco scrive:
    «aveva una voce dolcissima simile ad uno strumento musicale con molteplici corde
    in qualunque idioma volesse esprimersi»
    ,
    mentre Dione Cassio rammenta come la sua conversazione avesse un fascino irresistibile,
    « ...e da un lato il suo aspetto, insieme alla seduzione della parola, dall’altro il suo carattere, che pervadeva in modo inspiegabile ogni suo atto quando si incontrava col prossimo, costituivano un pungiglione, che si affondava nel cuore. ».

    Non tutti gli storici antichi sono però concordi nell'esaltare le qualità di Cleopatra, assurgendola a reincarnazione della divinità Iside. Cicerone, infatti, narra che il giudizio dei Romani non era affatto benevolo nei confronti della regina, Dante la descrive, nel girone dei lussuriosi, come « rapace, crudele e lasciva » e Shakespeare la demonizza appellandola come « il serpente del Nilo ». Difficile dunque stabilire quale sia la fonte più attendibile e, fra adoratori e detrattori, la storia fatica a dipingere un ritratto autentico di questa donna, amata e odiata, dall'educazione poliglotta e dalla cultura cosmopolita, dotata di una personalità talmente appassionata e orgogliosa al punto da scegliere il suicidio anziché l'umiliazione davanti a Roma.

    La dinastia tolemaica termina ufficialmente nel 30 a.C., anno della morte di Cleopatra, in seguito alla quale l'Egitto diventa a tutti gli effetti un dominio romano. Quello che un tempo era stato il grandioso impero dei faraoni, il faro della civiltà ellenistica, si disgregò davanti alla potenza romana, perdendo, con la morte della sua regina, anche tutta la cultura, il sistema di valori, il modo di vivere e di intendere la vita tipico dei signori del Nilo.





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    Edited by gheagabry1 - 30/9/2018, 22:17
     
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  4. gheagabry
     
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    Donne e potere



    Messalina... Terza e penultima moglie dell’imperatore Claudio, nipote di Ottaviano Augusto è entrata nella storia principalmente per la sua vita trasgressiva e sregolata. La sua amoralità aveva scioccato persino i romani, persone molto tolleranti a questi tipi di comportamento e abituate ormai a vedere o a partecipare a qualsiasi tipo di cupidigia. I politici e gli storici dell’Antica Roma hanno cercato invano di cancellare il nome di Messalina dalla storia, distruggendo i suoi ritratti e le statue. La storia non dimentica nulla, e il nome di Messalina è diventato sinonimo di libertinaggio, esibizionismo e qualsiasi altro tipo di trasgressione sessuale. Se volete potete trovare alcune storie molto squallide e assai disgustose su questa donna negli scritti di Tacito, ma meglio di tutti la ha dipinta in modo ovviamente allegorico Petronio nel suo famoso “Satyricon”. La sua figura appare naturalmente anche nell’omonimo film di Fellini, ispirato porpio al lavoro di Petronio. La Messalina di Fellini è pittoresca ed espressiva come tutti i personaggi del geniale regista, anche se forse è un po’ troppo interpretata. Oltre alle gesta nel campo erotico diciamo, Messalina ha voluto fare un’altra opera rischiosa, ha deciso di sposare uno dei suoi amanti e congiurare contro suo marito l’imperatore Claudio con la subdola intenzione di assumere tutto il potere dell’Impero Romano. Il progetto non le riesce, perché venne uccisa probabilmente su ordine diretto dell’imperatore anche se qualche storico vede l’intervento di parte del Senato a supporto dell’ormai quasi demente Claudio.

    Dopo la morte di Messalina il posto di imperatrice dell’Impero Romano è stato occupato da Giulia Agrippina detta minore, una donna molto interessante e curiosa, forse la più potente della storia romana imperiale. Gli scritti dicono che fosse molto bella e terribilmente crudele. Agrippina era la sorella dell’imperatore Caligola, madre di Nerone e ultima moglie dell’imperatore Claudio. Bisogna precisare che Claudio era lo zio diretto di Agrippina, ma dopo tutto quello che si dice facesse Caligola con le proprie due sorelle, probabilmente il matrimonio incestuoso con lo zio era una stupidaggine per una donna di questo tipo.
    Dopo un tentativo di congiura proprio contro Caligola venne mandata in esilio assieme alla sorella, scampò alla morte ordita da Messalina la quale riuscì a far cadere invece la sorella Livinia. Così alla morte di Messalina sposa lo zio Claudio, mossa molto importante per la conquista del trono. Nerone era nato dal primo marito di Agrippina (matrimonio imposto da giovanissima) e non essendo figlio di Claudio non aveva diritto al trono. L’onore di diventare l’imperatore di Roma dopo la morte di Claudio doveva passare al figlio di lui Britannico. Ma Messalina è riuscita ad eliminare tutti gli ostacoli, prima ha fatto adottare Nerone a Claudio, poi lo ha sposato con la figlia di lui e quindi sua sorellastra Octavia. Dopo di che Agrippina ha fatto avvelenare suo marito Claudio con i funghi, il resto lo ha fatto suo figlio Nerone. Per prima cosa uccide il fratellastro ed erede al trono Britannico, si fa nominare imperatore tra una nefandezza e l’altra. Dopo di che uccide anche la propria madre Agrippina, ormai troppo scomoda. E così anche questa donna che amava così tanto il potere muore di una morte tremenda e spaventosa. Non per ultima uccide anche la moglie Octavia e così estingue la dinastia.

    La povera Octavia non aveva nessuna ambizione di diventare imperatrice, è stata costretta a sposare Nerone, si narra che scongiurasse i suoi omicidi a lasciarle la vita, ma imperatore aveva bisogno si sbarazzarsi di sua moglie per sposare un’altra donna, la bellissima e molto crudele Poppea Sabina. Tutti gli storici e i poeti dell’epoca, come anche le statue testimoniano la sua bellezza veramente straordinaria. Gli storici però dicono che era tanto bella e intelligente, quanto crudele, amorale e ambiziosa. Comunque sia anche questa imperatrice dell’impero più grande e potente di tutti gli imperi mai esistiti ha finito male la sua vita. Gli storici hanno una certa discordia nello spiegare i motivi della sua morte. Tacito sostiene che Poppea sia stata uccisa durante la gravidanza colpita al ventre con calcio in un attacco di collera dal proprio marito Nerone. Un altro storico, Svetonio scrive che Poppea Sabina muore già divorziata da Nerone durante l’eruzione del Vesuvio. A dire il vero, pensando al carattere di Nerone e alle ambizioni di Sabina entrambe le versioni sembrano lontane dalla verità, ma adesso dopo duemila anni è difficile ricostruire la storia di questo matrimonio.
    (Apap)





    Agrippina Ara Ubiorum

    (Colonia) 15 - Lucrino 59





    Agrippina nacque nel 15 d.C. ad Ara Ubiorum, sulla sponda sinistra del Reno, insediamento che lei stessa fece ribattezzare Colonia Agrippinensis, oggi Colonia. Quella primavera, suo padre era impegnato in una campagna contro i Cherusci, che sei anni prima, alla testa di una coalizione, avevano sbaragliato le legioni romane di Publio Quintilio Varo nella famosa battaglia di Teutoburgo. Germanico riuscì a sconfiggerli.
    Fratello del futuro imperatore Claudio, Giulio Cesare Germanico proveniva dalla più importante famiglia di Roma: adottato dallo zio e imperatore Tiberio nel 4 d.C., era destinato a succedergli. Anche la madre di Giulia Agrippina, Agrippina maior, aveva origini nobilissime: suo nonno era Ottaviano Augusto.
    Giulia Agrippina ebbe otto fratelli: tre morti bambini, e poi Caio Cesare detto Caligola, Druso, Nerone, Drusilla, Giulia Livilla, tutti nati tra il 6 e il 18. Nel primo periodo i ragazzi crebbero negli accampamenti. Una vita durissima: Agrippina maior aveva seguito il marito in tutte le sue spedizioni militari. Verso la fine della campagna contro i Cherusci, era riuscita addirittura a fermare la fuga dei romani.
    Germanico era giovane, bello, vittorioso: Tiberio lo temeva. Morì il 10 ottobre 19 d.C., a Epidaphne, presso Antiochia, a 34 anni. La moglie accusò il governatore romano di averlo avvelenato. Le sue ceneri furono condotte al mausoleo di Augusto a Roma da lei e dai figli, in un vero delirio di popolo. Da quel momento la lotta tra Agrippina e l’imperatore fu senza quartiere. In particolare Lucio Elio Seiano, il prefetto del pretorio a cui Tiberio aveva delegato il governo, decise di liberarsi dei tre figli maschi di Germanico, destinati al trono, e di far fuori la madre e i suoi vecchi amici. Fu una strage, anche di donne. Agrippina minor mentalmente prendeva nota: in seguito, come avrebbe raccontato Tacito, ne scrisse nelle sue memorie, che a noi non sono arrivate.



    Quando Giulia Agrippina, o Agrippinilla, come la chiamavano in famiglia, compì 12 anni, la madre la condusse da Livia Drusilla, vedova di Ottaviano, nella speranza che l’anziana Augusta mitigasse gli odii di Tiberio e Seiano. Livia non era donna da commuoversi, ma quella fanciulla istruita e silenziosa le piacque. Le disse che assomigliava a suo padre ben più dei suoi fratelli, che aveva lo sguardo dritto e poi la spedì fuori dalla stanza per discutere del suo destino con la madre. Quale che fosse la loro decisione, non poté essere attuata, perché Livia morì poco dopo, nel 29.
    Nello stesso anno, Tiberio diede la ragazza in sposa a Gneo Domizio Enobarbo, che non solo aveva 30 anni più di lei, allora quattordicenne, ma che era stato prima spia di Seiano, poi di Tiberio contro Seiano. Uomo crudele e vile, Gneo Domizio Enobarbo sarebbe diventato console nel 38. Il suo curriculum però, più che di onori e titoli, è ricco di stupidi e feroci delitti, oltre che di frodi pubbliche. Agrippina non l’amò mai, ma lo subì, pur trattenendo a stento la rabbia. Lo accusò di viltà e servilismo, mentre lui la accusava di immoralità. Il matrimonio venne celebrato in Campania, nella villa di Livia, sotto gli occhi di Tiberio, ma lontano dalla madre e dai fratelli. La sposa non era bella: aveva il naso lungo, la fronte stretta, le mascelle sporgenti e il mento troppo grande, le labbra sottili, con quello superiore sporgente sull’altro. In compenso era molto alta: più di un altro, futuro marito, l’imperatore Claudio, e del figlio Nerone.
    Nel 29, una rivolta popolare a favore della moglie e del figlio di Germanico dette a Seiano, che forse l’aveva sobillata, il pretesto per mandare Agrippina maior al confino a Ventotene. Agrippina minor corse dalla nonna Antonia, cognata di Tiberio, per tentare di fermare la condanna. Inutilmente. Allora cercò di raggiungere la madre a Ercolano: non arrivò in tempo. Tornata a Roma, seppe che anche il fratello Druso, che pure si era schierato contro la madre, era stato arrestato. Agrippina maior sarebbe morta di inedia il 18 ottobre 33 d.C.: per i figli maschi, tranne Caligola, un destino analogo. Per Giulia Agrippina fu uno choc terribile. In memoria del fratello diede il nomignolo di Nerone all’unico figlio che ebbe da Gneo Domizio Enobarbo, il 13 o 14 dicembre del 37. Non lasciò, però, trasparire nulla. E cominciò a intessere la sua fitta rete di relazioni strategiche.



    Quando a Tiberio successe Caligola, per Giulia Agrippina, almeno in apparenza, tornarono tempi di gloria. Caligola si rivelò però una scheggia impazzita. Nel frattempo, secondo Tacito e Svetonio, Agrippina si diede a una scatenata vita sessuale: tra i partner ci sarebbero stati anche il fratello Caligola e Marco Emilio Lepido, marito di sua sorella Drusilla, oltre che amante dello stesso Caligola. Gli storici moderni ne dubitano: non per gli intrecci incestuosi, piuttosto diffusi all’epoca, ma per il carattere di Agrippina, in genere fredda, politica e calcolatrice. Anche la storia con Marco Emilio Lepido, poi fatto uccidere da Caligola, fu più un’alleanza strategica che una passione. Nell’autunno del 39 Caligola, dopo una fallimentare spedizione militare in Germania, alla quale aveva preteso che partecipassero anche le sorelle, condannò Agrippina minore e Giulia Livilla al confino, per tradimento. Il 24 gennaio 41, Caligola fu ucciso. Il cinquantenne, fragile e balbuziente zio Claudio, fratello di Germanico, fu proclamato imperatore.
    Per Giulia Agrippina, che Claudio fece rientrare dall’esilio, si aprì una nuova stagione. Nel frattempo, nel gennaio del 40, era morto il marito. Agrippina scelse di vivere sul Palatino. Recuperò il cadavere del fratello Caligola, abbandonato nei campi, e lo seppellì in un luogo che non è mai più stato scoperto, forse nel mausoleo di Augusto. Poi riprese con sé il figlio, Lucio Domizio Enorbarbo, che allora aveva tre anni.
    Infine si mise a cercare marito e forse posò gli occhi su Servio Sulpicio Galba, generale e governatore. Ma il progetto matrimoniale, se mai esistette, dovette abortire o incontrare il rifiuto dell’interessato visto che Agrippina lo prese così in odio che anni dopo, dal 49, lo costrinse all’isolamento. Un errore: nel 68, alla morte di Nerone, Galba sarebbe diventato imperatore. Agrippina aveva fiuto per i futuri uomini di potere: sotto Caligola era stata accusata di adulterio con Gaio Ofonio Tigellino che, nel 62, sarebbe diventato prefetto del pretorio e con il tempo si sarebbe rivelato il più feroce funzionario di Nerone.
    Nel febbraio o nel marzo 41 l’imperatore chiese a Gaio Sallustio Crispo Passieno, allora marito di Domizia Lepida maior, sorella di Gneo Domizio Enobarbo, di divorziare dalla moglie e sposare Giulia Agrippina. Gaio, uomo ricchissimo, acconsentì. Domizia giurò vendetta. Nel 54 d.C., Agrippina scatenò una battaglia contro la sorella della donna, Domizia Lepida minor, madre della celebre Valeria Messalina, terza moglie di Claudio. Secondo Agrippina, Domizia minor esercitava un ascendente pericoloso su Nerone. Per questo, accusandola di incantesimi e di aver turbato la pace in Italia, riuscì a farla condannare a morte. Domizia Lepida maior si sarebbe vendicata un anno dopo accusando Agrippina di tradimento verso l’imperatore.
    Nel 47, secondo le testimonianze antiche, Agrippina fece avvelenare il nuovo marito. Si ritrovò non solo vedova, ma ricchissima: il marito l’aveva nominata unica erede. Nel 48, Messalina fu condannata a morte con l’accusa di aver attentato alla vita dell’imperatore. Claudio ordinò ai pretoriani che lo uccidessero, in futuro, se mai gli fosse venuto in mente di riprendere moglie. Cambiò subito idea: un liberto potente, Pallante, gli propose la trentatreenne Giulia Agrippina. Contro di lei, due altre candidate: Elia Petina, che Claudio aveva già sposato e ripudiato nel 38; e Lollia Paolina, ex moglie di Caligola. Agrippina ebbe la meglio: il suo comportamento quasi austero rispetto a quello di Messalina, le aveva, negli anni, conquistato il favore del popolo e quello del Senato. Era incesto, ma non era una novità per Roma: zio e nipote parteciparono ai riti e ai sacrifici purificatori e il Senato concesse il matrimonio, che si celebrò il giorno di Capodanno del 49, che per i romani cadeva il 1° marzo. Agrippina si comportò da vera imperatrice: per prima cosa riorganizzò le finanze dello Stato, dissestate da Messalina, e impose nuovi costumi a corte, limitando anche le spese e gli eccessi dei liberti.
    Poiché però sapeva di non poter aspirare direttamente al trono, il suo obiettivo fu porvi Nerone. Alla nascita del bambino un astrologo caldeo le aveva predetto che l’avrebbe uccisa. Agrippina, racconta Tacito, aveva risposto: «Che mi uccida pure, purché regni!»
    Per prima cosa organizzò il fidanzamento del figlio, undicenne, con la figlia di Claudio, Ottavia, che aveva nove anni ed era già promessa a Lucio Silano. Poi fece condannare a morte Sosibio, il precettore di Britannico, figlio ed erede di Claudio. Quindi affidò Britannico ai suoi fedeli e lo chiuse in una gabbia dorata. Seguirono altre eliminazioni di possibili avversari. Nello stesso tempo lavorò per se stessa. Si presentava in Campidoglio su un cocchio, privilegio un tempo dei sacerdoti. Volle una guardia personale di germani, comandati dal fedele Sestio Afranio Burro: la loro sfilata lungo la Via Sacra divenne uno spettacolo perfino per i romani. Si fece dare il titolo di Augusta, il massimo a cui una donna potesse aspirare. Il 25 febbraio 50 ottenne l’adozione di Nerone da parte dell’imperatore Claudio. Per farne un degno erede al trono Agrippina aveva richiamato dall’esilio, come suo precettore, Lucio Anneo Seneca, il più brillante intellettuale dell’epoca. Anche la proclamazione, nel 50, della Colonia Agrippina non ebbe nulla di sentimentale: la città avrebbe accolto i veterani di Germanico, ovvero sarebbe stata una riserva di soldati fedeli.
    Benché Agrippina si stesse accorgendo di aver generato un infido Enobarbo, il progetto di portarlo sul trono non si arrestò. Il figlio, in apparenza, l’adorava, tanto che, il primo giorno del proprio impero scelse come parola d’ordine «Ottima madre». Svetonio dice anche che sognò di giacere con lei ma fu dissuaso dai nemici di lei che temevano il potere di una donna «fiera e tirannica». Di certo Nerone la temette fino alla fine.
    Intanto, in Germania, i soldati presero a innalzare statue di Agrippina. E Claudio si spaventò. Le concesse però un ennesimo onore: l’omaggio dei sacerdoti sul Campidoglio. L’entusiasmo della folla fu tale che, nonostante l’ottima organizzazione, alla cerimonia ci furono morti e feriti. Il popolo scandiva la parola «Augusta» come se, per la prima volta, sognasse un’imperatrice, sola, al comando. Claudio ne rimase sconvolto.
    Nel 51 l’Augusta fece nominare al comando delle coorti pretorie il fedele Afranio Burro. Intanto bandì giochi in proprio onore in tutto l’impero e scrisse con regolarità ai sovrani sottomessi a Roma; prese poi sempre più parte alle decisioni politiche a fianco di Claudio, in un periodo denso di problemi, soprattutto in Giudea. L’imperatore doveva accettare: durante un’improvvisa rivolta popolare a Roma era stato l’arrivo di Agrippina a salvarlo dall’ira della folla. A Nerone riservò cariche e onori crescenti.
    Nel 53 Agrippina riuscì a far sposare Nerone e Ottavia. Ma il 54 si aprì tra sinistri presagi. Il 12 ottobre l’imperatore morì. Quasi tutti pensarono che ad avvelenarlo, con i funghi e poi ordinando al medico Senofonte di dargli una sostanza fatale anziché un antidoto, fosse stata Agrippina. Nerone fu proclamato imperatore già il 13 ottobre dai pretoriani di Afranio Burro. E per quanto, almeno all’inizio, sembrasse sopportare il potere della madre, la sua condotta si rivelò subito feroce e immorale. La caduta di Pallante, ministro delle finanze e fedele di Agrippina, fu il primo segnale del cambiamento: Seneca, che ne prese il posto, non fu estraneo al complotto. Agrippina minacciò allora Nerone di farlo sostituire con Britannico: in qualche modo firmò così la condanna a morte del ragazzo, al quale si era negli ultimi tempi riavvicinata.



    Subito dopo fu accusata di complotto, in particolare di voler sposare e portare sul trono Rubellio Plauto, pari a Nerone, in linea paterna, nella discendenza da Ottaviano Augusto. Agrippina si difese e si salvò.
    Il ripudio di Ottavia da parte di Nerone e il matrimonio con Poppea Sabina, nel 58, fecero precipitare la situazione. Poppea era stata moglie di Rufrio Crispino, un capo della guardia pretoriana fatto condannare a morte da Agrippina. Poppea sognava di vendicarsi. Ci riuscì, anche perché Nerone era sempre più stanco, come racconta Svetonio, della madre, che non smetteva di rimproverarlo per il suo comportamento. Le tolse allora tutti gli onori e i privilegi e la privò della scorta dei germani. Finì non solo con l’allontanarla dalla corte ma anche con il pagare calunniatori di professione perché le intentassero processi. Agrippina non si lasciò spaventare: rispose alle minacce con altre minacce. Per questo Nerone, spalleggiato da Seneca e Burro, decise di ucciderla. Tentò tre volte di avvelenarla, ma lei si era premunita con gli antidoti. Quindi progettò un finto naufragio e la invitò, con una lettera affettuosissima, a Baia, perché andasse a festeggiare con lui le Quinquatrie, cerimonia in onore di Minerva. Era il 20 marzo 59.
    Agrippina si salvò dalla caduta in mare provocata dai marinai che la riconducevano a casa, mettendosi a nuotare. Al suo posto fu uccisa l’ancella Acerronia che, nella speranza di essere ripresa a bordo, aveva gridato di essere l’imperatrice. Quando il liberto della madre, Lucio Agermo, ignaro dell’inganno, corse da Nerone per annunciargli che Agrippina si era salvata, l’imperatore gettò ai suoi piedi un coltello, lo accusò di aver tentato di ucciderlo, proclamò che la mandante era l’Augusta e ordinò che la si mettesse subito a morte. Se ne incaricò Aniceto, già precettore di Nerone fanciullo. Circondò la villa sul lago di Lucrino dove Agrippina si era rifugiata e fece irruzione. Un sicario la colpì alla testa e lei, benché ferita, ad Aniceto che si avvicinava per finirla riuscì a dire: «Ventrem feri!»: colpisci il ventre che ha generato Nerone.
    L’imperatore volle andare a vedere di persona il cadavere martoriato della madre e ne lodò la bellezza. Scrive Tacito che venne cremata la notte stessa su un triclinio da banchetto e con esequie modestissime e, finché Nerone fu al potere, non ebbe nemmeno una pietra sepolcrale.
    Valeria Palumbo






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    Edited by gheagabry - 31/12/2011, 21:11
     
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    Messalina (25 d.C-48 d.C),

    fasto e nobiltà di una prostituta imperiale



    “Senti le disavventure di Claudio. La moglie, non appena lo vedeva addormentato, spingendo la sua audacia di augusta meretrice sino a preferire una stuoia al talamo del Palatino, incappucciata di nero, l’abbandonava scortata da una sola ancella. Nascondendo la chioma scura sotto una parrucca bionda, varcava la soglia di un lupanare tenuto caldo da un tendone malandato, dove in una cella a lei riservata, col falso nome di Licisca, si prostituiva ignuda, i capezzoli dorati, offrendo il ventre che, generoso Britannico, un tempo t’aveva portato. Lasciva accoglieva i clienti, chiedeva il prezzo stabilito [e giacendo supina assaporava l'assalto d'ognuno].
    Quando poi il ruffiano mandava via le sue ragazze, usciva a malincuore, con la sola concessione di poter chiudere per ultima la cella, il sesso ancora in fiamme e vibrante di voglie. Sfiancata dagli uomini, ma non sazia ancora, se ne tornava a casa: il viso ammaccato di lividi, impregnata del fumo di lucerna, portava il lezzo del bordello sin nel letto imperiale.” (Giovenale, Satira VI)

    Si racconta che il tribuno che l’aiutò ad uccidersi, mentre l’afferrava per i capelli e prima di trafiggerla, le avrebbe detto: “Se la tua morte sarà pianta da tutti i tuoi amanti, piangerà mezza Roma”. Messalina, un nome che al giorno d’oggi è caduto in disuso perché inscindibilmente legato alla figura di questa donna considerata simbolo di dissolutezza e depravazione. Oggi “Messalina” è sinonimo di seduttrice, nelle chat erotiche furoreggia, e nell’immaginario collettivo questo nome richiama gesta libidinose e avventure carnali. Di questa donna, gli storici greci e romani hanno dipinto sempre un ritratto molto crudele.
    Moglie sedicenne dell’imperatore Claudio, di 20 maggiore, da subito dimostrò una certa attitudine alle liaison extra-coniugali. Di lei si narrano le storie più squallide: che avesse imposto al marito di ordinare ai sudditi che fossero di suo gradimento di accondiscendere in tutto e per tutto ai desideri della consorte; che avesse avuto relazioni incestuose con i fratelli, che si prostituisse nei bordelli di Roma, e addirittura che avesse sfidato una famosa puttana dell’epoca: con il nome d’arte di Licisca collezionò 25 amanti in un solo giorno. Questo fu il periodo più buio della sua vicenda umana, quello che lasciò inorriditi i moralisti, e oggi è ancora fastidioso. Rimangono molti dubbi su come Claudio fosse l’unico a non conoscere lo stile di vita della moglie, sebbene anche lui lasciasse alquanto a desiderare per fedeltà coniugale, considerato che preferiva di gran lunga l’alcova al letto nuziale.
    C’era un attore di nome Mnestere di cui Messalina era follemente innamorata, ma ahimé non venne ricambiata, perché probabilmente gay o comunque non abbastanza attratto dalla bellezza acerba della giovane imperatrice appena ventenne. Famose le orge romane di cui Messalina e Mnestere - si dice – fossero gli attori principali: un numero sempre maggiore di amanti servivano a lui per destare gli istinti assopiti…
    Priva di amore, schiava degli amplessi, vuota e insoddisfatta, trovò la sua strada nel vizio sfrenato. La giovane imperatrice cambiava tanti amanti quante acconciature. Non paga di ciò, padrona del cuore dell’imperatore del mondo, Messalina cominciò a perseguitare, e finanche ad eliminare, i suoi avversali con una leggerezza e disinvoltura notevoli anche per quei tempi così depravati.
    Ma d’improvviso, dopo tanta carne fredda, il cuore della giovane imperatrice ricominciò a battere. Anche le fonti storiche sono concordi nell’affermare che Galio Silio fosse bellissimo e molto intelligente. Tuttavia la situazione era complicata: sposato lui, sposata lei. Con la differenza che lei era la moglie dell’imperatore di Roma. Fortuna, si fa per dire, volle che Claudio non vedeva e non sentiva. Messalina svaligiò la corte imperiale per colmare di doni e onore il suo amante, che stranamente aveva restituito un po’ di senno alla sua vita sbandata.
    I meravigliosi giardini del Pincio (dove oggi sorge Villa Borghese) furono motivo di sangue. Volendosene impossessare, e ricevendo una risposta negativa dal proprietario – Valerio Asiatico - che non intendeva ottemperare ai capricci dell’imperatrice, fece credere al marito babbeo di essere vittima di una congiura ordita proprio da costui. La vicenda terminò con il suicidio coatto del gentiluomo.
    Domanda: può un’imperatrice non riconoscere solennemente il proprio amore? Una donna ambiziosa e corrotta può rinunciare alla propria ragione di vita? Messalina fu capace di escogitare un piano diabolico per riuscire a sposare Silio e vivere con lui nella villa del Pincio. Giocò sul punto debole dell’imperatore: lo spauracchio della superstizione. Disse a Claudio di aver sognato se stessa vedova. Consapevole della reazione che avrebbe avuto il marito credulone, gli raccontò anche della soluzione che aveva trovato: divorziare e sposare un altro, così da gettare la mala sorte sul nuovo consorte, e da vedova ritornare tra le braccia dell’imperatore. Ovviamente come morto che camminava fu designato Silio.
    Claudio partì per Ostia e Messalina organizzò un sontuoso matrimonio: non badò a spese né a pudore. Se più fonti, diverse tra loro, non avessero fornito la stessa versione, si potrebbe pensare ad una storia inventata. E invece non fu così. Il fatto più sconvolgente fu che le nozze avvennero alla totale insaputa dell’imperatore. Infatti la situazione di silenzio durò poco. Fu il fedele Narciso a svelare tutti i retroscena passionali e politici a Claudio: che Messalina non volesse rinunciare al titolo imperiale per ritirarsi all’ombra del Pincio e che, una volta ucciso l’imperatore, volesse salire al trono e governare con a fianco il suo amante. La delazione di Narciso consacrò la fine di Messalina, alla quale fu ordinato di togliersi la vita.
    (pinkblog)





    Irrequieta ed insoddisfatta in vita, continua a tormentarsi anche da morta anzi, da fantasma. Se volete incontrarla potete tentare la sorte passeggiando nei giardini di Colle Oppio, tra le rovine della Domus Aurea a Roma. Ho detto “tentare la sorte” perché non è facile vedere il fantasma di una delle donne più potenti e dissolute dell’antica Roma aggirarsi tra le rovine ma, c’è chi ci è riuscito.

    Capita, infatti, che, mentre la maggior parte delle persone dormono, il suo fantasma vaghi disperato nella vana ricerca di….avventura, eclissandosi allo spuntar del sole per ricominciare il suo calvario la notte successiva. Inizialmente a raccontare di lei erano principalmente senzatetto ubriachi o insonnoliti; si pensava, quindi, che fosse una invenzione ma, in seguito, quando il fantasma venne “incontrato” da persone appartenenti a ceti e categorie differenti questa storia, divenuta leggenda, fu tramandata nei secoli attraverso racconti, romanzi e cronache di epoche differenti della storia di Roma. Per la storia, Messalina era una giovane donna che, avendo sofferto moltissimo, si era gettata tra le braccia di molti uomini alla disperata ricerca di una appagante vita sentimentale.
    La sua storia e la sua dissolutezza hanno fatto sì che non cadesse nell’oblio ma che continuasse a vivere, nell’immaginario collettivo, persino in ben diciassette film di cui è la protagonista indiscussa. A lei, alla bella Messalina, il cui fantasma si aggira nel cuore di Roma nella speranza di trovare un baldo giovane con cui vivere un amore eterno, il destino ha voluto riservare un dono o una condanna: l’immortalità.

    C’è chi sostiene che Messalina continuerà a vagare tra le rovine romane sino a quando non sarà soddisfatta e, solo allora, il suo fantasma sparirà definitivamente. Se vi capita, quindi, di passeggiare dalle parti del Colosseo, nel cuore della notte, non vi spaventate se, improvvisamente, vi sembrerà di vedere una bella donna vestita di chiaro, con i lunghi capelli sciolti sulle spalle ma, sorridetele e auguratele buona fortuna, ne ha veramente bisogno…è Messalina!
    (Marinella Gelli)


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    POPPEA



    Poppea era la figlia di Tito Ollio, un pretore durante il regno dell'imperatore Tiberio. La sua amicizia con Elio Seiano lo rovinò prima di ottenere un incarico pubblico. Sua madre, anch'essa chiamata Poppea Sabina, era una donna distinta, che le fonti antiche descrivono dalla florida bellezza e dalla notevole classe. Tacito la descrive come una delle donne più amabili dei suoi tempi. Nel 47 si suicidò, vittima innocente degli intrighi dell'imperatrice Messalina.
    Il nonno materno di Poppea era Gaio Poppeo Sabino, che fu console nel 9. Durante il regno di Tiberio fu onorato con un trionfo militare, per aver posto fine ad una rivolta in Tracia, nel 26. Dal 15 alla sua morte, prestò servizio come Governatore Imperiale di Grecia e in altre province. Questo amministratore competente godette dell'amicizia della famiglia imperiale. Morì nel 35.
    Poppea Sabina ebbe un patrigno chiamato Publio Cornelio Lentulo Scipione, che servì come comandante militare del 22, come console nel 24 e successivamente come senatore. Il fratellastro di Poppea, che aveva lo stesso nome del padre, fu console nel 56 ed entrò in seguito nel senato.



    Tra le donne dell’antica Roma Poppea Sabina fu celebre per la bellezza e per il modo di vivere dissoluto e sfrontato; figlia di Poppea Sabina Maior, famosa per fascino e numero di amanti, e di T. Ollio, uomo politico caduto presto in disgrazia, fin da giovanissima mostrò una innata propensione per il potere e il lusso.
    Lo storico latino Tacito scrisse di lei che aveva avuto ogni dono dalla natura “tranne che un animo onesto“; all’apparenza mite e riservata, celava in realtà un carattere ambizioso e naturalmente portato alla dissolutezza.
    Sposò Rufrio Crispino poco più che bambina ed ebbe da lui un figlio, ma ciò non le impedì di divenire l’amante del giovane e gaudente Marco Salvio Ottone, amico di Nerone.
    E proprio per interessata intercessione di Ottone, che nel frattempo ne era diventato il marito, Poppea conobbe l’Imperatore: durante un banchetto nella primavera del 58 a.C., Nerone rimase abbagliato dalla bellezza e dal fiero portamento della donna tanto da diventarne l’amante appassionato nel giro di poco tempo.
    Ma Poppea non era solo bella, era anche intelligente e scaltra, e consapevole dell’ascendente che sapeva avere sul debole e concupito amante, iniziò da subito ad allontanare chiunque le si frapponesse come ostacolo: entrò in conflitto con Giulia Agrippina, ambigua madre di Nerone, fece allontanare il marito mandandolo governatore in Lusitania e convinse l’Imperatore a ripudiare la legittima moglie, l’irreprensibile e dolce Ottavia, dapprima relegata nell’isola di Pandataria, infine fatta orrendamente e vigliaccamente decapitare dopo una falsa e assurda condanna per adulterio.
    Come è noto, tra i tanti misfatti attribuiti a Nerone, c’è anche quello infamante di aver ordinato l’assassinio di sua madre; non appare troppo improbabile un incitamento in tal senso della stessa Poppea, desiderosa di eliminare dalla ristretta cerchia dell’Imperatore tutti coloro che in un modo o nell’altro mostravano ostilità verso la sua persona.
    E infatti una volta liberatisi di ogni ostacolo, Poppea e Nerone si sposarono e nel 62 a.C. ebbero una bambina.
    Ormai l’ambiziosa e testarda donna aveva ottenuto ciò che desiderava da tempo: era divenuta la moglie dell’Imperatore Nerone riuscendo a rafforzare il legame con la nascita di una figlia, le era stato attribuito il titolo di “Augusta”, nessuna delle persone entrate in conflitto con lei era ancora vivente o in grado di nuocerle.
    Ma proprio nel momento in cui tutto sembrava procedere meravigliosamente, la Fortuna, per sua natura mutevole e beffarda, cominciò a cambiare direzione: la bimba avuta da Nerone morì ad appena quattro mesi di vita lasciando i genitori nel più totale sconforto, Roma fu quasi completamente devastata da un incendio, venne a galla la congiura pisoniana cui seguì la terribile punizione che portò alla morte di Petronio, Seneca e Lucano, mentre la situazione personale e politica della regale coppia peggiorava di giorno in giorno.
    Particolarmente triste fu la fine di Poppea: rimasta di nuovo incinta, fu uccisa da un calcio nel ventre datole da Nerone in un accesso d’ira.
    Il corpo che era appartenuto a una delle donne più belle e affascinanti che la Storia ricordi, dopo essere stato imbalsamato e profumato con essenze odorifiche, fu deposto nel mausoleo della famiglia Giulia in Campo Marzio.
    Ultima beffa: lo straziante elogio funebre fu pronunciato dai Rostri da Nerone, che l’aveva uccisa.
    (mariapaolamacioci)




    Quell’anno ebbe inizio una spudoratezza di grandi sventure per lo Stato non di minor conto. Si trovava in città Sabina Poppea, figlia di Tito Ollio - ma aveva assunto il nome del nonno materno, alla memoria illustre di Poppeo Sabino, illustre per l’onore del consolato e del trionfo; infatti l’amicizia di Elio Seiano mandò in rovina Ollio, che non aveva ancora ricoperto cariche pubbliche. Questa donna ebbe ogni altra qualità eccetto che un animo onesto. Infatti sua madre, che aveva superato in bellezza tutte le donne del suo tempo, le aveva trasmesso il buon nome ed allo stesso tempo la bellezza; i mezzi equivalevano la rinomanza di stirpe. Aveva un tono affabile ed un’intelligenza affatto limitata. Ostentava sobrietà di modi e si prestava a licenziosità. Raramente si mostrava in pubblico, e dopo essersi per giunta velata una parte del volto, per non saziare la vista, o perché così le si addiceva. Non si curò mai della sua reputazione, dal momento che non faceva distinzione fra mariti ed adulteri; e non sentendosi mai legata al suo o all’altrui affetto, laddove fosse apparsa un’utilità, là indirizzava la sua passione. Dunque Otone riuscì a sedurla, benchè vivesse sposata con Rufro Crispino, cavaliere romano dal quale aveva avuto un figlio, grazie al suo ardore giovanile, allo sfarzo in cui viveva e poiché era considerato essere amico intimo di Nerone: e non si aspettò di far seguire il matrimonio all’adulterio. (tacito)



    Edited by gheagabry - 2/1/2012, 23:51
     
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    Agnodice

    Atene IV - III secolo a. C.





    Di buona famiglia ateniese, si taglia i capelli e si traveste da uomo per studiare medicina con Erofilo, uno dei più rinomati medici dell’epoca, che insegnava ad Alessandria d’Egitto. Il travestimento è reso necessario dal divieto di studiare medicina imposto alle donne e agli schiavi. Conclusi gli studi, rientra ad Atene, dove diventa un'ostetrica molto ricercata.



    Usa mettere le pazienti a loro agio sollevando le vesti per rivelare il proprio sesso. Gelosi del suo successo, i medici la chiamano davanti all’Areopago e la accusano di sedurre le pazienti (cosa vietata dal giuramento d'Ippocrate, ora come allora). In tribunale lei solleva di nuovo le vesti. Secondo la legge ateniese, per aver praticato la medicina sotto mentite spoglie, viene quindi condannata a morte. Nell'udire la notizia, numerose mogli di ateniesi illustri circondano il tribunale e minacciano di uccidersi se la sentenza sarà eseguita. Ottengono non solo che Agnodice continui a esercitare, e finalmente in abito femminile, senza doversi più nascondere, ma che la legge venga cambiata e che le donne nate libere possano svolgere la professione medica, alla condizione che curino soltanto altre donne. Così racconta Gaio Giulio Igino nelle Fabulae, dove afferma che quella era la prima volta che tale privilegio veniva esteso alle donne. Secondo altre fonti, invece, pare che le ginecologhe esercitassero già nel V secolo a.C. , mentre per altri storici Agnodice, cioè “casta e giusta”, sarebbe il soprannome di Fanostrata che una stele funeraria indica come ostetrica (maia) e medico (iatros).

    Sylvie Coyaud



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    Aspasia

    Mileto V secolo a. C. -



    «Concubina occhio di cane»: così un suo contemporaneo, il comico Cratino, definiva Aspasia; un giudizio non proprio lusinghiero per la figura femminile più celebre del V secolo a.C. Cresciuta in un mondo che giudicava il valore di una donna sulla base del silenzio di cui sapeva circondarsi («Delle donne bisogna parlar poco o nulla», diceva Pericle), Aspasia non corrisponde al modello tradizionale di femminilità classica: devota, silente, capace di accudire il marito e la famiglia. Neppure la sua origine ha tutte le carte in regola: nata a Mileto, fa parte di un mondo cosmopolita e colto, aperto agli influssi orientali e quindi probabilmente più duttile nella definizione dei compiti e del ruolo femminile. Grazie alla sorella, ha modo di legarsi alla potente famiglia ateniese degli Alcibiadi. Ricca, se non aristocratica, raffinata se non nobile, quando giunge ad Atene, intorno al 450, aspira a diventare moglie di un Ateniese di qualche peso, a condurre una vita agiata. I tempi, tuttavia, non sono dei migliori: Pericle, che governa Atene e sarà al potere ancora per molti anni, ha appena promulgato la sua legge più controversa, quella sul diritto di cittadinanza: prevede che possa chiamarsi cittadino ateniese solo chi sia figlio di due cittadini; gli altri saranno stranieri, senza diritto di voto e di partecipazione attiva alla vita della città. La ricaduta di questo provvedimento sulla vita di Aspasia è pesante: non potrà più diventare la sposa di un cittadino, in grado di generare prole legittima, ma dovrà accontentarsi di essere una concubina e di dar vita a figli “bastardi”, ìmetecoî, uno straniero residente, una categoria sociale dai molti obblighi (tasse altissime) e dai pochi onori (potevano risiedere in città e godere parzialmente dei privilegi della polis più importante d'Occidente).



    Questa donna di Mileto, tuttavia, incontra il suo destino proprio in Pericle. Plutarco che, con la sua Vita di Pericle, è sicuramente il principale biografo di Aspasia, ci racconta, non senza ironia, come lo stratega l'amasse profondamente e per lei avesse lasciato la moglie, madre di due eredi. Il rapporto fra i due rimane, per i contemporanei e per i posteri, piuttosto difficile da decifrare: è ancora Plutarco a chiedersi, polemicamente, cosa Pericle trovasse in Aspasia e, cosa, in generale, vi trovasse chiunque l'avesse conosciuta. Non viene descritta come particolarmente bella, ma è in grado di esercitare un fascino non comune sui suoi contemporanei. Socrate la considera uno dei suoi maestri di vita e ne loda la saggezza e l'intuito politico; lo scrittore Senofonte ricorre a lei come consigliere matrimoniale e la figura di questa “straniera” affiora nei trattati di filosofi e oratori come il modello carismatico di una donna pensatrice e libera. I poeti comici a lei contemporanei, a dire il vero, l'attaccano ferocemente come una prostituta, una cortigiana, e l'accusano di ospitare nella sua casa donne compiacenti, per deliziare Pericle. La violenza di quest'attacco non è semplicemente letteraria: l'aneddotica del tempo racconta che proprio la sfida lanciata dal teatro di Dioniso sia all'origine dell'accusa di empietà con cui Aspasia viene portata in tribunale alle soglie della guerra del Peloponneso e che solo le lacrime di Pericle riescono a salvarla dalla pena capitale. Nel clima di caccia alle streghe che circonda la figura di Pericle alla fine degli anni 30 del V secolo, la sua concubina di Mileto viene naturalmente coinvolta nello scandalo, ed è questo il primo vero segnale della fine imminente: Pericle morirà poco dopo, falciato dalla terribile peste del 430 a.C. Aspasia gli sopravvive: intelligente e piena di risorse, è ancora una volta capace di non scivolare nell'ombra; si lega alla figura di Lisicle, politico non di primo piano nell'Atene di fine secolo, ma in grado comunque di assicurarle una posizione e una stabilità sociale. Questa l'ultima notizia certa sulla sua vita: sappiamo che a Pericle ha dato un figlio, Pericle il Giovane, destinato ad essere per sempre un bastardo, e che probabilmente un altro figlio è nato dall'unione con Lisicle. L'ironia della storia vuole che al pensiero cristiano spetti il merito di aver fatto di una concubina greca un esempio di virtù, un maìtre à penser (a leggere Clemente di Alessandria o Sinesio di Cirene). La giovane Eloisa, scrivendo all'amato Abelardo, gli parlava di Aspasia e, nel farlo, aveva probabilmente in mente l'idea di un legame diverso fra le anime di due amanti, lontano dal recinto canonico del legame sponsale.

    Silvia Romani



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    CORNELIA
    madre dei GRACCHI




    A Roma le donne, intelligenti e brillanti, ricevevano una solida educazione poi, oltre a badare alle loro famiglie, erano in grado di sostenere interessanti conversazioni con coloro con cui venivano a contatto. Insomma le Romane non erano il genere di gentili sempliciotte che uno sposava per avere figli: esse invece vivevano alla pari con i loro mariti e furono per essi ottime socie.
    Così nella classe alta del mondo romano ci furono donne eccezionali e alcune furono delle vere e proprie intellettuali. Tra queste si cita Cornelia la madre dei Gracchi, figlia di Scipione l’Africano che lo sconfisse a Zama e suocera di Scipione l’Emiliano che distrusse Cartagine. Cornelia non era soltanto molto colta , ma anche estremamente intelligente ed affascinante. Sia Plutarco che Orosio e Velleio Patercolo sottolineano il suo grande amore per le belle lettere ed è da loro che apprendiamo che non soltanto ella aveva molto letto le opere greche, ma che parlava un latino perfetto e scriveva talmente bene che ancora all’epoca di Cicerone le sue epistole erano considerate modelli di composizione, e di lei Cicerone scrive
    “Leggiamo le lettere di Cornelia la madre dei Gracchi e da queste vediamo che i suoi figli non furono tanto creati dal grembo materno, quanto dalla sua dottrina”
    E certamente Cornelia fu una notevole e importante donna e, quando, dopo la morte dei figli si ritirò a Miseno, essa regolarmente si intratteneva con intellettuali e scrittori greci e spesso riceveva importanti doni dai re, alleati di Roma che con questi volevano dimostrarle la loro ammirazione. Uno di essi, Tolomeo Euergete, la chiese addirittura in sposa. Ella avrebbe potuto farlo e non soltanto sarebbe divenuta regina, ma, raffinata intellettuale, avrebbe potuto vivere ad Alessandria che allora era il centro di ogni cultura, comunque non lo fece e gentilmente rifiutò. Dopo la morte del marito, Tiberio Gracco, essa non aveva mai voluto risposarsi.
    Nel I secolo a,C. ci fu poi un’altra Cornelia, la quinta ed ultima moglie di Pompeo Magno, una donna molto più giovane di lui. Essa era figlia di Metello Scipione, console nel 52 e in prime nozze era stata sposata con Publio il figlio di Crasso che nel 53 morì in battaglia assieme al padre. Cornelia sposò Pompeo che nel 54, due anni prima, aveva perso la sua amatissima quarta moglie, Giulia figlia di Cesare. Di Cornelia Plutarco scrive:
    “ La sua giovinezza non era la sua sola attrattiva. Essa era molto colta e suonava perfettamente la cetra con la quale accompagnava il suo canto; era anche molto versata in matematica e poteva dibattere qualsiasi discussione filosofica. Nello stesso tempo in lei non vi era niente di antipatico o di presuntuoso come spesso capita con questo genere di donne sofisticate e intellettuali.”
    ( Eugenia Salza Prina Ricotti)




    La poca prudenza degli uomini comincia una cosa che,
    per sapere allora di buono,
    non si accorge del veleno che vi è sotto.
    (Niccolò Machiavelli, Il Principe, 1513)



    LOCUSTA


    Nel I secolo d. C. Roma era una città pericolosa in cui vivere: omicidi sono all’ordine del giorno. In questo clima di violenza, per quasi un ventennio, una donna uccide alla luce del sole con il tacito assenso dell’aristocrazia e delle più alte cariche pubbliche. Si chiama Locusta. Locusta nasce orfana nella Gallia romana, non si sa quando, dove o con quale nome reale. Allevata da dei contadini, emarginata dai coetanei a causa del suo essere sprovvista di genitori reali, passa le giornate nei boschi annoverando e assaggiando piante, bacche, funghi e frutti di ogni tipo, da cui il suo soprannome. Viene morsa e avvelenata da ogni genere di animale e pianta possibile, tanto da venire recuperata un paio di volte in fin di vita. Sopravvive sempre, spesso curandosi da sola con impacchi, unguenti e intrugli autoconfezionati, per cui si fa una fama di immortale. Per alcuni, di strega. Appena è più grande diventa ragazza di bottega dell’erborista. Per qualche anno va tutto bene, poi la gente inizia a notare che a differenza di tutte le altre fattorie, gli incidenti campestri in quella dei suoi tutori sono rarissimi. Le talpe e i cinghiali non gli mangiano l’orto, le volpi non attaccano il pollaio, i lupi lasciano stare le pecore.Si trasferì adolescente a Roma probabilmente durante il governo di Claudi A diciotto anni la botteghina di Locusta era una minuscola casetta sul colle Palatino. In facciata promette prodotti per la cura del corpo e rimedi per la salute. Sottobanco fornisce rimedi definitivi, vendeva veleni ed elisir di ogni tipo; aveva una buona conoscenza sulla farmacologia ed era molto popolare come un’avvelenatrice professionista. Il suo elemento naturale è l’arsenico e i suoi derivati, ma funghi velenosi, cicuta, gisquiamo e piante tossiche sono dominati con una tale maestria da rendere ogni decesso impeccabile. Un veleno di Locusta è invisibile, inodore, facilmente solubile, irrintracciabile e può agire subito come dopo 48 ore. Può essere doloroso o indolore, letale o inabilitante. Bastava chiedere.. e presto in città, la sua fama e il suo patrimonio crescono: parenti impazienti di accaparrarsi una cospicua eredità, uomini politici senza scrupoli, benestanti matrone desiderose di liberarsi dei propri mariti e persino dei membri della famiglia reale si avvalgono della sua mano. Più volte arrestata e condannata a morte, la donna riuscì sempre a salvarsi grazie al provvidenziale intervento dei suoi protettori. Tra questi vi era anche l’imperatrice Agrippina, quarta moglie di Claudio: assetata di potere, nel 54 la sovrana fece uscire di prigione la famigerata Locusta e le affida il delicato compito di togliere di mezzo il marito, così da garantire la successine del figlio Nerone. L’Imperatrice ebbe a incontrarsi segretamente con Locusta, dopo che un’amica le disse dell’esistenza di tale donna, per discutere il modo con cui uccidere Claudio. La donna, non batté ciglio, oramai, non aveva più niente da perdere. Il giorno dopo consegnò una scatola piena di polvere bianca all’Imperatrice. Le garantì che sarebbe stato sufficiente metterne una piccola dose nel cibo della persona che voleva uccidere, e che quest’ultima sarebbe spirata nell’arco di mezza giornata. Sapendo che la vittima era molto amante dei funghi, preparò un miscuglio simile ai miceti, ma mortale. Così l'imperatore ingerì il veleno per ben due volte. Infatti, come se non fosse abbastanza, Locusta le somministrò anche della coloquintide, un’erba, che accelera gli effetti del veleno, e impregnò con la stessa la piuma con la quale l'imperatore era solito farsi venire lo stimolo del vomito quando aveva mangiato troppo. Il 12 ottobre 54, dopo aver fatto bere molto vino al marito, Agrippina personalmente gli servì il piatto coi funghi. Mentre mangiavano, incoraggiò Claudio a testare quello più grande. Fiducioso si avventò su di esso. Dopo sei ore dall’ingestione iniziò ad agonizzare, andando in coma e morendo poco dopo. Per tutto il tempo Agrippina non smise un attimo di preoccuparsi del marito, interessandosi alle motivazioni dell’agonia di Claudio.

    Tornata alla sua attività di avvelenatrice per conto privati, Locusta viene di nuovo arrestata. E’ il giovane Nerone, questa volta a farla scagionare, assoldandola per eliminare un pericoloso pretendente alla corona, il fratellastro quattordicenne Britannico. Nell’anno 55, durante un banchetto, Britannico ingerisce una bevanda in cui Locusta ha aggiunto uno dei suoi filtri; eppure, il giovane principe non muore: la miscela letale non funzionò. Magnanimo Nerone le concesse un’altra possibilità. Locusta questa volta fa centro: mentre è a cena, Britannico beve un bicchiere di vino miscelato con acqua avvelenata e, colto da convulsioni, spira all’istante. Il suo corpo, fu bruciato e sotterrato a Campo di Marte, senza pompa magna e senza dissimulare la fretta di quell’azione. Dione e Tacito diranno nei loro scritti che “in quel momento una pioggia violenta cadde evidenziando la furia degli dei”.

    Dopo la morte fatta passare per un fatale attacco di epilessia, Nerone la riempie di regali, come scrive lo storico Sventonio ricordando che ”in premio per l’opera compiuta, concesse a Locusta l’impunità, dei vasti poderi e persino dei discepoli”. Accolta a corte, alla donna viene concesso di aprire una vera e propria scuola, nella quale insegnare come distinguere le erbe mortali e miscelare gli ingredienti per preparare una pozione. I veleni, prima di essere messi in commercio, vengono sperimentati su animale, schiavi e criminali. Questa macabra scuola, che forma silenziosi professionisti molto richiesti dalla classe dirigente, gode dell’incondizionato favore di Nerone. Tacito dirà che “l'imperatore era così affezionato a lei, che per paura di perderla, metterà vicino alla sua casa degli uomini che la sorveglieranno affinché non le succeda niente”. Quando però il sovrano si suicida nel 68, Locusta cade in disgrazia: arrestata per ordine di Galda, successore di Nerone, che l’accusò di 400 omicidi, venne condannata a morte. Nessuno, questa volta, accorre in suo soccorso. Il 9 gennaio del 69, durante la celebrazione degli Agonalia (festa dedicata agi dei), la celebre Locusta vie pubblicamente giustiziata.


    Edited by gheagabry - 6/6/2015, 14:36
     
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    Antonia

    di Eugenia Salza Prina Ricotti


    La seconda moglie di Antonio fu invece una cugina: famiglia nobile perciò, ma con una brutta nomea. Antonia, così si chiamava la giovane, era infatti la figlia di Caio Antonio, un discutibile personaggio soprannominato Hybrida, parola che in greco significa Bastardo. Il soprannome poteva anche riferirsi alle oscure origini della madre di questo gentiluomo, ma è più probabile che esso gli fosse stato attribuito per le sue malefatte e per la sua morale praticamente inesistente.
    Marco Antonio era spesso assente e Antonia, figlia di un tal padre, non aveva nè saldi principi, nè un intemerato concetto dell'onore. Non può quindi stupire il fatto che essa finisse tra le braccia di Dolabella, il minuscolo genero di Cicerone, un giovane talmente basso di statura che una volta Cicerone, vedendolo armato, non aveva potuto trattenersi dall'esclamare "Santo cielo! Chi è che ha legato mio genero ad una spada?"
    Il giovane compensava però queste sue piccole dimensioni con un eccesso di attività in campo amoroso e si era perciò gettato con entusiasmo nella tresca con l'invitante Antonia. Forse se la sarebbe pure cavata se, con una sfacciataggine degna di miglior causa, egli non avesse contemporaneamente tentato di stabilire un accordo politico con Antonio. Questi, interessato alla proposta, stava riflettendo sul da farsi, quando i suoi amici, che non approvavano il programma, pensarono di dissuaderlo mettendolo al corrente di quanto stava succedendo alle sue spalle.
    Il loro piano ebbe un insperato successo. Antonio, che non si era mai trattenuto dal sedurre le mogli degli altri, perse il lume degli occhi all'idea che qualcuno gli stesse rendendo la pariglia e, cedendo al suo carattere violento, attaccò furiosamente Dolabella in senato, dando così una vasta diffusione ad un fatto che sarebbe stato meglio mettere a tacere o, tutt'al più, regolare in privata sede: non era certamente cosa da illustrare gridandola in quel consesso. Dopo questa violenta scena l'accordo tra Dolabella ed Antonio naufragò miseramente; Antonia venne immediatamente ripudiata e Cicerone, ferito soprattutto dal fatto che si fosse osato accusare di adulterio il suo prezioso genero, si vendicò dilungandosi su tale argomento nelle sue Filippiche e, per meglio coprire di vergogna l'odiato Antonio, dipinse il Bastardo come un povero vecchio intemerato affranto dalla vergogna che il genero aveva accumulata sulla sua veneranda canizie.
    In questo attacco Cicerone sosteneva poi che Antonio aveva ripudiato "l'innocente" Antonia soltanto perchè voleva sposare Fulvia, la bellissima madre di Clodia. Fulvia - la prima ad avere il suo volto su monete, anche se in esse impersonava soltanto la vittoria del partito antoniano in Oriente - avrà anche avuto un pessimo carattere, come si diceva prima, ma era una donna interessante, affascinante e soprattutto molto ricca. A quel momento essa era già l'amante di Marco Antonio, ma non era la sola: contemporaneamente il giovane continuava a coltivare una stretta relazione con la mima Citeride e, probabilmente, se lo scandalo di Antonia e Dolabella non fosse scoppiato, il giovane si sarebbe tenuto tutte e tre le donne e non si sarebbe mai sognato di divorziare. Ma, una volta libero, pressato oltre che da Fulvia che voleva regolarizzare la sua posizione, anche da Cesare che voleva mettere un freno alla sua vita scapestrata, Antonio non ebbe scelta, e sposò la caparbia amante.

     
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    FULVIA

    83 a.C. - 40 a.C.




    Fulvia aveva già avuto altri mariti. Essa era una donna di famiglia ricca, ma non nobile. Il fatto che i suoi antenati fossero plebei aveva limitato le sue possibilità nella scelta di un partito con cui convolare a giuste nozze; ma, essendo essa una donna astuta ed ambiziosa, era riuscita ugualmente a sposare uno dei grandi nomi di Roma. Naturalmente si era dovuta accontentare, ed aveva scelto Clodio, personaggio che versava in gravi ristrettezze ed era molto discusso dal punto di vista morale, ma che apparteneva alla nobilissima e famosa gens Claudia. Era stato un affare per tutti e due i novelli sposi. Con questo matrimonio Fulvia aveva ottenuto la posizione sociale che desiderava, e per giunta al fianco di un marito giovane e prestante; per parte sua, Clodio, oltre ad aver rimpinguato i suoi forzieri, aveva ora come moglie una donna molto attraente e decorativa.
    Il ricco patrimonio della sposa rimise a posto le finanze del giovane e contribuì ad aiutarlo nella sua carriera politica; ma, cosa molto più importante, i due furono felici. Essi finirono coll'innamorarsi ad un punto tale da non riuscire più a staccarsi l'una dall'altro. Persino quando Clodio doveva partire per qualche lungo viaggio egli portava con sè la moglie e Fulvia lo seguiva incurante dei disagi. Fu soltanto un caso, perciò, se essa non assistè allo scontro che Clodio ebbe con Milone a Boville e non se lo vide uccidere sotto ai suoi occhi. Quel giorno, infatti, Clodio scelse di compiere il tragitto tra Roma e la sua villa albana a cavallo invece che in carrozza, e quindi Fulvia lo rivide soltanto morto. Le reazioni della giovane quando le riportarono il cadavere del marito furono talmente violente da passare alla storia, e la sua presenza al processo contro Milone contribuì molto alla sua condanna.
    Fulvia non era però donna da restar eternamente fedele alla memoria del defunto, ed aveva moltissimi corteggiatori. Parecchi erano coloro che, avendo frequentato la casa di Clodio, erano rimasti affascinati dalla sua bellezza. Molti di essi, ambiziosi e desiderosi di far carriera, avevano anche realizzato i vantaggi che la sua ricca dote avrebbe apportato al proprio futuro politico. Così non passò davvero troppo tempo prima che ella, asciugatesi in fretta le lacrime, si risposasse con un altro giovane altrettanto nobile e, in quel momento, altrettanto squattrinato: Curione figlio.
    Questo secondo marito, che Cicerone chiamava la "figliolina di Curione" per le sue particolari tendenze erotiche, era stato sempre strettamente connesso alle vicende dei vari personaggi dell'epoca: non soltanto era stato il grande amico di Clodio, ma ancor più legato era stato a Marco Antonio. Infatti, ironia del destino, in tempi lontani, Curione aveva perso la testa proprio per il futuro marito della sua nuova moglie. Antonio era allora bellissimo. Curione gli aveva subito messo gli occhi addosso: il giovanetto, poco più che adolescente, ma già avido di piaceri, conduceva una vita molto superiore ai suoi mezzi e le possibilità che queste sue tendenze offrivano non erano sfuggite al vizioso patrizio, il quale aveva subito cominciato ad incoraggiarlo per quella china, sicuro che molto presto il ragazzo si sarebbe trovato a mal partito; e così fu. Il padre di Curione era ricco e stimato, ed i creditori di Marco Antonio accettarono senza esitare l'avvallo che il figlio del potente patrizio offrì per l'amico. Così Curione cavò l'imprudente giovane dall'impiccio. Il seguito, date le sue tendenze, fu quello che doveva essere e comunque Cicerone pensò bene di togliere ogni dubbio a chi potesse ancora nutrirne: non soltanto nelle sue Filippiche precisò quale fosse la relazione dei due, ma la arricchì con dovizia di particolari.
    Curione non fu però che un breve interludio nella vita di Marco Antonio. Il ragazzo vi si era dovuto adattare perchè costretto dalle circostanze, ma non certo per vocazione. Non appena le sue condizioni e le sue finanze glie lo permisero, egli ricominciò invece a circondarsi di donne di tutti i tipi e di tutte le condizioni sociali. Tra queste ci fu probabilmente anche Fulvia. Essa gli era piaciuta fin dal primo momento che l'aveva vista, quando, giovanissimo, aveva fatto parte della banda di Clodio. Costui non aveva però gradito l'interesse che il ragazzo dimostrava per sua moglie e Marco Antonio aveva lasciato Roma. Al suo ritorno nel 50 a.C. aveva ritrovata Fulvia, maritata con l'uomo che un tempo lo aveva spinto sulla via del vizio. Non dovette, perciò, avere molti scrupoli nel sedurla e, nel 49 a.C., alla morte di Curione, la sposò, divenendone il terzo ed ultimo marito.
    Le prime due volte Fulvia era rimasta vedova, ed ambedue i suoi consorti erano morti di morte violenta. Adesso Cicerone andava clamorosamente chiedendole che, mettendo in opera gl'influssi iettatori che ormai le attribuiva, essa si affrettasse a mandare al creatore anche Marco Antonio. Ma la donna non aveva nessuna intenzione di accontentarlo e Marco Antonio dovette gradir poco l'augurio. Anzi i due coniugi non persero tempo a porre l'oratore sulle loro liste di proscrizione ed a farsi consegnare a domicilio la sua testa e la sua mano destra: Fulvia, insomma, portò sì disgrazia, ma fu Cicerone ad esserne colpito.
    Non è pero che Fulvia non creasse guai anche al marito. Volitiva ed intrigante, essa si immischiava continuamente nella politica e negli affari di stato, ed Antonio, purtroppo, non reagiva con la necessaria energia. Egli si era sempre lasciato dominare dalle donne soprattutto se belle, e, anche ammettendo che, come scriveva Velleio Patercolo, Fulvia avesse soltanto il corpo di donna, ne aveva uno molto seducente. Perciò, approfittando della debolezza del marito e della posizione di primo piano da lui raggiunta dopo la morte di Cesare, Fulvia commise ogni genere di eccessi rendendosi invisa a tutti.
    Antonio era l'unico a non indignarsi. Quindi loro rapporti si mantennero buoni e per parecchio tempo ancora La situazione fra i due sposi cominciò a guastarsi soltanto quando, dopo la battaglia di Filippi, Antonio dovette recarsi in Asia Minore e lì incontrò Cleopatra. Da quel momento in poi non ci fu più nessun altra per lui e il breve intervallo di due anni nei quali visse con la sua terza moglie, Ottavia, non riuscì mai a fargliela dimenticare.
    (Eugenia Salza Prina Ricotti)




    «Una dominatrice, una donna che non voleva solo comandare su un marito, ma un grande comandante di eserciti». Così lo storico greco Plutarco descrive Fulvia, terza moglie di Marco Antonio.
    Nata nell’84 a.C., era figlia di Marco Fulvio Bambalione, ovvero Tartaglione, e di Sempronia, della gens Tuditana. Era di nobiltà recente, ma ricchissima e questo la rendeva un ottimo partito. Forse per sua scelta, si sposò tardi, a 22 anni, con Publio Clodio Pulcro, ovvero il Bello, dell’antica e nobile gens Claudia, che già si era segnalato come traditore della patria, dissoluto, demagogo, violento, libertino impenitente. Fulvia seppe domarlo: Clodio la portava con sé ovunque. Tra i suoi amici spiccavano due giovanotti, altrettanto gaudenti: Caio Scribonio Curione e Marco Antonio. Fulvia li avrebbe, in seguito, sposati entrambi.
    Clodio si fece eleggere tribuno della plebe, carica importante che gli permise di mandare Cicerone in esilio. Poi prese a spadroneggiare per le vie e le piazze di Roma. Fulvia, popolare per tradizione di famiglia, sosteneva le sue trame. Ma Clodio non era un politico: era un sobillatore. Così, mentre le vittorie di Giulio Cesare e Marco Antonio rafforzavano il potere dei popolari, Roma si trasformava in un campo di battaglia.
    Nel gennaio del 62 a.C. Clodio si avventurò con il suo seguito lungo la via Appia, lasciando Fulvia a Roma. Fu attaccato e poi ucciso dalla banda di Tito Annio Milone, partigiano del suo avversario Pompeo. La città insorse: alla testa di una folla inferocita Fulvia andò a prendersi il cadavere, lo riportò in città e lo fece deporre nella Curia. Fredda come una pietra. In aprile Fulvia presenziò al processo. La difesa di Milone, fuggito a Marsiglia, era stata affidata a Cicerone; Fulvia gli si oppose con il poco che a una donna era concesso: il pianto. Pubblico e giuria si commossero: il retore non se la sentì neanche di parlare e Milone fu condannato.
    Fulvia non perse tempo: prese a vedersi con Curione e, terminati i dieci mesi di lutto, lo sposò. Curione era un ottimo oratore: Giulio Cesare lo comprò perché fingesse di avversarlo e riuscisse invece, da tribuno, a minare il potere di Pompeo. Tra l’11 e il 12 gennaio del 49 a.C. Cesare varcò in armi il Rubicone, scatenando la guerra civile. Convinto delle doti militari di Curione, lo spedì in Sicilia contro i fedeli di Pompeo e poi in Africa, dove fu ucciso da Giuba. Era la metà di agosto del 49 a.C.: Fulvia restava vedova per la seconda volta. Presto divenne amante di Marco Antonio. Non l’unica. Ma si fece largo. E lo sposò nel 44.
    La studiosa Catherine Virlouvet ha definito Fulvia una «passionaria», riferendosi non ai suoi amori, ma alle sue passioni politiche: Marco Antonio, con cui, almeno all’inizio, ebbe un intenso legame, fu per lei il terzo, e più tragico, trampolino verso il potere.
    Nel 44 Fulvia era ancora bellissima. Era già madre: Clodio le aveva lasciato una bambina, Claudia. Da Antonio avrebbe avuto Antillo e Iullo. Dopo la morte di Cesare, il 15 marzo del 44 a.C., Antonio, che pure, inspiegabilmente, non era al suo fianco al momento dell’agguato, gestì la repressione contro i cesaricidi. E Fulvia, che non poteva partecipare ai sontuosi banchetti “politici” organizzati dal marito, allestì nella sua casa, l’ex villa di Pompeo, una vera corte. Aveva cacciato gran parte del corteo buffonesco e parassitario che il marito si trascinava dietro e prendeva parte attiva ai giochi politici, tutt’altro che limpidi, di Antonio. Nelle sale di rappresentanza della casa, dove si affollavano amici e postulanti e si decidevano importanti affari di Stato, Fulvia non mancava mai: era lì quando gli ambasciatori della Galazia riottennero, per il loro re Deiotaro, le terre che Cesare aveva già offerto ad altri sovrani dell’Anatolia. I diplomatici versarono alla mediatrice e a suo marito dieci milioni di sesterzi: questo racconta Cicerone. In ogni caso non erano trattative limpide: Antonio e Fulvia furono accusati di far traffico degli atti autentici di Cesare e di non pochi apocrifi. Furono cioè sospettati di gestire il testamento del condottiero in libertà e a proprio vantaggio. Nell’ex villa di Pompeo, si insinuava, il denaro non si contava più, ma si pesava. Fulvia non si occupava solo di assistere Antonio in casa: lo seguiva ovunque, come aveva fatto con Clodio. Erano insieme a Brindisi, per esempio, quando il console soffocò nel sangue una ribellione di legionari macedoni. Fulvia non solo insistette per la decimazione, ma restò così vicino al luogo dell’esecuzione da essere schizzata dal sangue dei giustiziati.
    Cicerone, nelle sue Filippiche, scritte tra il 2 settembre 44 e il 21 aprile 43, additò Marco Antonio come il principale nemico della libertà di Roma. Nel frattempo Gaio Ottavio, ossia Ottaviano, il figlio adottivo di Cesare, prese a rubargli la scena e il potere. Non solo: il 20 dicembre 44 Cicerone, che si era alleato con Ottaviano, chiese al Senato di dichiarare Antonio nemico pubblico. L’assemblea non accolse la richiesta ma sollevò il marito di Fulvia da tutti gli incarichi per l’anno successivo. La donna, allora, girò supplice tra le case degli aristocratici e si presentò nel Foro per fermare i senatori, insieme con la madre di Antonio e il figlio Antillo. Stava quasi per convincerli quando l’odiato Cicerone la fece cacciare. Lei si rifugiò allora presso Pomponio Attico, amico di Bruto e Cicerone.
    Il 23 aprile 43 i soldati della Repubblica e i veterani di Antonio si scontrarono presso Modena: il grande stratega perse ma riuscì a portare i suoi centurioni in Gallia, accolto dal governatore Emilio Lepido che passò dalla sua parte. Fulvia non rimase con le mani in mano: provocò, o almeno favorì, la rottura tra Ottaviano e Cicerone e fece da ponte tra l’erede di Cesare, Antonio ed Emilio Lepido. Alla fine i tre decisero di costituire un nuovo triumvirato che fu sugellato dal matrimonio di Claudia, la figlia di Fulvia e Clodio, quasi una bambina, con Ottaviano. Il matrimonio, come il triumvirato, non durò a lungo: Claudia fu rimandata a casa ancora vergine; i rapporti tra Fulvia e Ottaviano si guastarono. Ma soprattutto si logorarono quelli fra i triumviri. Le vendette si riaccesero. Cicerone fu decapitato il 7 dicembre 43, e la sua testa esposta sui Rostra, nel Foro, insieme con la mano destra che aveva scritto le Filippiche. Secondo Appiano la testa rimase in bella mostra, per qualche tempo, nella villa di Fulvia, che, non soddisfatta, ne trafisse la lingua con uno spillone da capelli, una puntura per ogni volta che era stata offesa. Attico, il più grande amico di Cicerone, fu risparmiato proprio perché le aveva offerto rifugio. In compenso si attribuirono alla moglie di Antonio, in quel periodo, un numero incredibile di sentenze di morte: troppe, per essere vere. Il che non toglie che la sua sete di vendetta fu insaziabile. In più le proscrizioni le permisero di raccogliere moltissimo denaro per le successive campagne di guerra. Nell’estate del 42 Fulvia era di nuovo incinta, ma volle accompagnare Antonio all’imbarco a Brindisi: non l’avrebbe più rivisto.
    La battaglia di Filippi, nell’ottobre 42, segnò la vittoria di Antonio su Bruto e Cassio, la loro morte e la spartizione dell’impero fra i triumviri. Ad Antonio toccò l’Oriente. Ebbe tempo di allacciare una relazione con la bella Glafira, madre di Archelao Sisines, pretendente al trono della Cappadocia. E poi strinse la sua grande intesa, militare, politica e soprattutto sessuale, con Cleopatra VII , sovrana d’Egitto e già amante di Giulio Cesare. Roma non si scandalizzò del loro amore. Almeno all’apparenza non ebbe nulla da obiettare neanche Fulvia che, invece, aveva imposto ad Antonio di abbandonare la meretrice Volumnia, tra le sue amanti più assidue. Così, mentre Antonio si godeva i lussi faraonici, sua moglie, a Roma, lottava per tenerlo in sella. Alcuni storici sostengono che Fulvia pensasse che Antonio fosse legato a Cleopatra da ragioni politiche e per questo lo lasciasse fare. In realtà i due si amavano davvero. Comunque solo attraverso Fulvia e suo fratello Lucio, console nel 41, Antonio mantenne il suo potere su Roma. Almeno fino a quando moglie e fratello non scatenarono una guerra civile contro i seguaci di Ottaviano. I due si erano assicurati l’appoggio dei veterani, assegnando loro molte terre nelle colonie italiche, e avevano dalla loro parte i senatori conservatori, che intendevano ristabilire la Repubblica. Paradossale, visto che Fulvia e Antonio erano sempre stati pro-popolari. Ma Ottaviano stava diventando troppo potente e pericoloso. In un primo momento le truppe di Fulvia e Lucio occuparono l’Urbe ma furono messe in fuga e si ritirarono a Preneste, l’attuale Palestrina. Il conflitto ha preso il nome di guerra di Perugia, dalla città intorno alla quale si è svolto lo scontro decisivo, ma le battaglie sono state diverse. Fulvia, racconta Dione Cassio, «cingeva lei stessa la spada, dava la parola d’ordine ai soldati e spesso arringava le truppe«. Alla fine i due cognati si arroccarono a Perugia e aspettarono Marco Antonio, con le sue truppe, tutto l’inverno.
    Marco Antonio non arrivò mai.
    Stanca ma ancora pronta a combattere, Fulvia scelse con i suoi figli l’esilio volontario in Grecia e lasciò l’Italia insieme con un certo Planco, che Velleio Patercolo definisce, «suo compagno di fuga». Tempestò allora Antonio di lettere, rimproverandogli tanta inerzia. Alla fine, Antonio tornò in Italia. A Brindisi pose l’assedio contro Ottaviano. Ma misteriosamente e all’improvviso, Fulvia morì a Sicione, nel Peloponneso. Secondo Dione Cassio a ucciderla fu il dolore dell’amore tra Antonio e Cleopatra.
    A piangerla non furono in molti. Però William Shakespeare fa dire al suo Marco Antonio:
    «Ora che se n’è andata, ella m’è cara,
    e la mano che un giorno la respinse
    vorrebbe ora riprenderla con sé...».
    In realtà non sappiamo come Antonio accolse la notizia della morte. Sappiamo che si affrettò a far la pace con Ottaviano, gettando su Fulvia tutte le colpe. Poi, senza interrompere la relazione con Cleopatra, sposò la sorella dell’ex-avversario, Ottavia, la quale si assunse anche il compito di allevare Iullo, il figlio minore di Fulvia e Antonio. Antillo seguì invece il padre in Oriente.
    L’alleanza non durò. Nella battaglia navale di Azio contro Ottaviano, il 2 settembre del 31 a.C., Marco Antonio, vedendo fuggire la flotta di Cleopatra, la seguì, provocando la propria sconfitta. Lo scontro definitivo avvenne nell’agosto del 30. Antonio si suicidò, seguito da Cleopatra. La vendetta del nuovo padrone di Roma colpì anche un figlio di Fulvia: Antillo si era rifugiato ai piedi della statua di Cesare ad Alessandria d’Egitto. Fu trascinato via e massacrato dai sicari di Ottaviano. Iullo invece sopravvisse e per qualche tempo godette dei favori dell’imperatore. Nel 2 d.C. però Ottaviano lo condannò a morte con l’accusa di essere l’amante di sua figlia Giulia, moglie di Tiberio, futuro imperatore.
    (Valeria Palumbo)

     
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  11. gheagabry
     
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    Giulia




    L’educazione che venne impartita a Giulia non poteva essere più dura. Augusto la faceva tenere sotto stretto controllo ed essa venne abituata a filare la lana e a tessere quelle tuniche e toghe che Augusto voleva fossero fatte a casa dalle sue donne. Di libertà non ne aveva molta, ma qualcosa andò storta e non poteva andare peggio.
    Forse alla base di tutto ci fu il fatto di essere l’unica figlia legittima figlia dell’uomo più potente del mondo. Attorno a lei pullulava sempre quella folla di adulatori che sempre circondano i potenti, e questa razza di cortigiani la figlia di Augusto dovette addirittura adorarli. Non fu certamente viziata dal padre , ma lo fu poi e parecchio da coloro che la circondarono e che le ripetevano continuamente quanto essa fosse bella, desiderabile e potente. Poteva manovrare il padre come meglio le piacesse – le dicevano - o almeno così credevano. Certamente Giulia per essere l’unica discendente legittima di Augusto era una persona importante e lei non poteva ignorarlo. Suo padre l’amava moltissimo, anche se freddo e calcolatore quale egli era, per contrarre tramite lei convenienti alleanze ed intese favorevoli ai suoi progetti, la usò spesso come una pedina politica promettendola in matrimonio a destra e a sinistra
    Queste manovre cominciarono prestissimo. Giulia era piccolissima ed aveva appena due anni quando per rafforzare i legami con Antonio, il padre la fidanzò con Antillo, il figlio del collega, che avendo anche lui solo cinque anni proprio maturo non era. Comunque nessuno dei contraenti prendeva questo fidanzamento troppo sul serio e i bambini meno ancora di loro. Infatti esso venne rapidamente rotto. Dopo Giulia fu in forse di esser sposata con Cotiso figlio di Geta, e poi anche ad altri, a volte semplici cavalieri, che però servivano ad Augusto.
    Ma nonostante tutte queste manovre Augusto amava la figlia profondamente e non le avrebbe mai permesso di fare un cattivo matrimonio. Perciò quando la ragazza ebbe 14 anni ella fu promessa al quindicenne cugino Marcello, figlio di Ottavia, la sorella di Augusto, un ragazzo che Augusto prontamente adottò. Essi si sposarono, ma il matrimonio non durò che un paio di anni perché Marcello, che era un giovane gracile e delicato, morì dopo appena due anni spezzando il cuore della madre. Non certo quello della giovane sposa.
    Subito dopo Augusto scelse come marito di sua figlia il suo coetaneo, e grande amico Agrippa. Realmente Agrippa era già sposato ed aveva un felice matrimonio con Marcella un’altra figlia di Ottavia, ma questo non fermò Augusto che glie la fece ripudiare, dando così alla sorella, già distrutta dalla perdita del figlio, il dolore di vedere adesso il divorzio della figlia. Marcella non perse molto da questo divorzio perché subito dopo le fu fatto sposare Iullo Antonio, il secondo figlio del triumviro e di Fulvia, che era bellissimo e che probabilmente la consolò. Fatto ciò Augusto fece sposare la figlia con Agrippa. Agrippa aveva un anno meno di Augusto e 23 anni più di Giulia, ma questo non voleva dire niente: molte giovanissime romane sposavano uomini molto più vecchi di loro e spesso quei matrimoni andavano benissimo, come bene andò quello di Pompeo Magno con la figlia di Cesare unione nella quale i due si adorarono. Agrippa poi non si poteva nemmeno dire brutto: dalla ritrattistica e dalla monetazione non sembra che all’epoca del matrimonio con la figlia di Augusto egli fosse particolarmente da disprezzare.
    Comunque la vita come moglie di Agrippa si rivelò particolarmente piacevole per Giulia che da un regime austero e durissimo passò ad una grande libertà una vita nella quale poteva soddisfare tutti i suoi gusti e crogiolarsi nel lusso che adorava. Con Agrippa viaggiava e con lui andò in Oriente. Qui scoprì un mondo sconosciuto, antichissimo e raffinato e durante questo viaggio trionfale lei, figlia di un dio, venne trattata come una dea. Non c’è dubbio che questo dovette darle alla testa. A Roma la si adorava ma nessuno si sognava di considerarla una creatura soprannaturale.
    In definitiva a Giulia questo secondo matrimonio non dovette dispiacere e comunque per un bel po’ essa venne occupata a far figli. È vero che secondo Macrobio essa ormai aveva una vivace vita amorosa e tradiva il marito in lungo e in largo. Il padre aveva notato in lei atteggiamenti che lo preoccupavano, ma tutte le volte che guardava i nipoti che tanto ad Agrippa rassomigliavano si tranquillizzava. Gli intimi di Giulia che avevano le prove su che razza di vita ella conducesse erano anche essi perplessi e si chiedevano come mai, con quello che Giulia combinava, facesse poi figli tutti con lo stampo del marito ed essa lo spiegò con una frase piuttosto volgare: “Non prendo mai nessuno a bordo se prima non ho fatto il carico.” E con questo chiarì il mistero. E il pieno lo fece parecchie volte dato che ebbe 5 figli.
    Giulia con il marito lontano ed Augusto che si prendeva cura di educarle i figli era rimasta completamente libera e si scatenava. Non aveva certo voglia a di filare e tessere la lana e cercò occupazioni più divertenti, né fece fatica a trovarne divertendosi con un gruppo di gioventù dorata, gente che ad Augusto non piaceva né punto né poco. Egli provò a rimproverarla indicando come Livia fosse invece circondata da gente seria e compassata, ma Giulia gli rispose che ad ognuno la sua età e che quegli amici che oggi il padre trovava così scapigliati, con gli anni sarebbero diventati seri e maturi come la gente che circondava la sua matrigna. Disgraziatamente Augusto le diede retta.



    Il tempo non mise molto a passare e gli avvenimenti precipitarono. Intanto morì Agrippa e il padre decise di risposare subito la figlia vedova, e per far ciò scelse come marito il suo figlio adottivo Tiberio. Tiberio non ne fu affatto contento dato che aveva un felicissimo matrimonio con Vipsania Agrippina, una bravissima donna nata da un primo matrimonio di Agrippa con Attica, la figlia del grande amico di Cicerone. Di Vipsania Agrippina Tiberio era molto innamorato e da lei aveva anche avuto un figlio, Druso, ma non ci fu mezzo di fermare Augusto e i due dovettero separarsi anche se con il cuore spezzato. Il divorzio ebbe luogo, dopo di che Giulia fu rapidamente risposata con il nuovo marito. Su Giulia però correvano molti pettegolezzi e si diceva che già prima di questi fatti essa aveva posto gli occhi su Tiberio e si diceva che gli avesse anche fatto proposte molto spinte A Tiberio non soltanto questo non era piaciuto per niente, ma l’aveva sempre respinta. Non sembrava davvero un matrimonio nato sotto una buona stella. Aver visto le sue profferte rifiutate non doveva certamente aver fatto molto piacere a Giulia, comunque per un po’ di tempo tirarono avanti alla meno peggio. Nacque un bambino che subito morì e da quel momento Tiberio decise di non aver più rapporti con la moglie.
    Si creò così una situazione insostenibile. Tiberio, che su Giulia non era cieco come lo era il padre, si rendeva conto di quello che accadeva. Era facile prevedere che prima o poi lo scandalo sarebbe scoppiato e lui non voleva esservi coinvolto. preferì dunque ritirarsi in volontario esilio a Rodi. Fece appena in tempo.
    Giulia infatti lasciata completamente libera si scatenò. Aveva 38 anni e vedeva avvicinarsi la quarantina. Un età pericolosa perché è proprio allora che molte donne sentendosi invecchiare vengono colte da una mania irresistibile di godersi la vita e fanno di tutto per sentirsi più giovani. Così Giulia si faceva strappare i capelli bianchi che apparivano nella sua capigliatura. Augusto vedendola così occupata le chiedeva cosa diavolo facesse e se piuttosto di avere una testa bianca essa preferisse restare calva. Ma lei continuava imperterrita e oltre a cercare di conservare scuri i suoi capelli più che mai amava i vestiti trasparenti che mostravano le sue forme. Lo aveva fatto anche quando Agrippa era ancora vivo e una volta che Augusto, vedendola così abbigliata si era scandalizzato, Giulia si era salvata dicendo che il vestito audace lo aveva indossato per il marito e che l’indomani sarebbe venuta vestita per il padre.
    Adesso dopo la partenza di Tiberio non si ritirò in casa al riparo delle dicerie, ma si gettò allo sbaraglio con una vita eccessivamente brillante. Erano festini su festini e quando i suoi compagni avevano bevuto non era certo lei che manteneva l’ordine anzi era la prima a sfrenarsi. Abbiamo anche un’idea di quello che combinasse perché le sue avventure ci vengono raccontate da Seneca e da altri.
    Però fino a questo momento Augusto non ne era a conoscenza perché, sapendo come egli potesse essere vendicativo, nessuno aveva il coraggio di informarlo. Ma la situazione non poteva esser tirata più in lungo: lo scandalo era grande e a quel punto egli non poté più ignorarlo. Racconta Dione
    “...... e quando alla fine egli si accorse quanto Giulia fosse dissoluta e scoprì che essa aveva preso parte a orge e festini tenuti nella notte nel Foro Romano e addirittura sugli stessi rostri, divenne furioso. Egli aveva già cominciato a sospettare che ella non conducesse una vita proprio irreprensibile, ma non ci aveva voluto credere. Infatti sembra proprio destino che coloro che hanno il comando siano informati su tutto, eccetto che sui propri affari.........”
    Quello che Dione dice è naturalmente vero e non c’è nessuna difficoltà ad ammettere che fino al momento in cui lo scandalo scoppiò Augusto ignorasse tutto, ma quando nel 2 a.C. esso esplose, la risonanza fu tale che non fu più possibile nascondergli la verità.
    Gli amici di Giulia vennero coinvolti con lei nello scandalo. Molti di essi erano più giovani di lei ed appartenevano alle migliori famiglie di Roma. La città ne venne sconvolta. Ti erano un Appio Claudio, uno Scipione e con loro c’era anche quell’ Iullo Antonio, il marito di Marcella che era uno dei principali amanti di Giulia e che, allo scoppiare dello scandalo, preferì uccidersi. Del gruppo facevano anche parte molti letterati come il poeta Gracco, un altro amante di Giulia, e lo spiritoso Ovidio.
    A parte Iullo che era morto e una liberta Febe complice di Giulia che preferì uccidersi, tutti gli altri furono esiliati. Augusto si lamentò di non essere stato il padre di Febe la quale aveva dimostrato tanta dignità da uccidersi e invece aver dovuto esserlo di Giulia che lo aveva coperto di vergogna e per punirla la esiliò a Ventotene.
    In questa occasione Augusto per la prima volta in vita sua perse completamente le staffe e non agì ponderatamente. Scrisse una lettera al Senato nella quale denunciava tutte le colpe di sua figlia, e con essa comunicava loro che l’aveva esiliata per sempre. Poi non contento lasciò nel suo testamento precise disposizioni per far sì che a nessuno venisse in mente di seppellirla nel suo mausoleo quando fosse morta. Lui che fino a quel momento aveva sperato che gli atteggiamenti spregiudicati della figlia fossero solo pose senza importanza e che ci aveva riso sopra dicendo che lui aveva due figlie viziate, “filias delicatas”, a cui badare, Giulia e lo Stato Romano si rese conto che in confronto a quello che era Giulia, lo Stato Romano era un modello di ordine ed occuparsene una bazzecola. La sua reazione fu talmente spietata che il popolo romano chiese pietà per la peccatrice ma a coloro che lo pregavano di perdonarla egli rispondeva bruscamente augurando loro di avere tali figlie e tali mogli.
    Giulia, lui, non la perdonò mai. Era stata la sua preferita e lo aveva ferito troppo crudelmente. L’unica concessione che fece dopo 5 anni di duro esilio a Ventotene fu quello di permettere che essa venisse trasferita sulla terra ferma a Reggio in Calabria. Giulia intanto a Ventotene aveva molto sofferto, esiliata in un isola che mancava di tutte le comodità, uno scoglio brullo, quasi senza abitanti e coltivato solo a vigneto, mentre il vino le era proibito. Inoltre nessuno poteva andare a trovarla se non con un permesso speciale del padre e gli uomini ammessi a sbarcare sull’isola erano scelti da Augusto perché erano enormemente fidati ad ancor più enormemente brutti.
    Anche Reggio dove venne trasferita dopo i primi cinque anni non doveva esser certo una località turistica, ma Giulia dovette continuare a starvi fino alla sua morte avvenuta nel 17 d.C. Il padre non la perdonò mai e si limitò ad addolcirle un po’ la pena, ma questo probabilmente perché cedette alle preghiere di Livia la quale matrigna per Giulia non lo fu proprio. Augusto fu inflessibile con la figlia e anche Tiberio, quando dopo di lui divenne imperatore, non fece niente per cambiare il destino della sua ex moglie. Piaciuta Giulia non gli era mai e non c’era ragione che non la lasciasse a meditare sulle sue colpe.
    Una delle prove di quanto forte fosse il risentimento di Augusto verso la figlia ci è dato dal fatto di non trovare suoi ritratti: neanche una statua o un busto che si possano attribuire a lei con certezza, e questo mentre il tutti i familiari dell’imperatore furono abbondantemente rappresentati e le loro immagini furono sparse per tutto l’impero. Il numero di statue di Livia, di Ottavia e di Antonia, la madre di Germanico e di Claudio che sono state ritrovate nel territorio romano non si contano. Ma di Giulia non c’è niente o almeno niente di certo.
    Oggi si mette in dubbio che sia lei l’elegante figura che nei bassorilievi dell’Ara Pacis si trova vicino ad Agrippa e tiene per mano un bimbo. Infatti è stato scritto che la matrona in questione è Livia e che Giulia deve invece essere la figura posta in posizione simmetrica dall’altro lato dell’Ara. Caso o proposito: la parte alta del corpo di questa donna è malamente distrutta. Era bella Giulia? Probabilmente, ma per noi sarà sempre come la figura dell’Ara Pacis: una donna senza volto.
    (Eugenia Salza Prina Ricotti)

     
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  12. gheagabry
     
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    Livia Drusilla.
    di Eugenia Salza Prina Ricotti



    Livia discendeva dalla famiglia Claudia, ma il padre suo era entrato per adozione nella famiglia dei Livii Drusi ed aveva assunto il nome di Livio Druso, quindi Livia si chiamò la figlia che gli nacque....Dopo la sconfitta di Filippi, non aveva atteso a vedere cosa avrebbero fatto i vincitori e si era rapidamente ucciso. Quando tutto questo successe la futura Augusta era giovanissima essendo nata il 30 gennaio del 58 a.C. e aveva solo 15 anni quando fu fatta sposare con Tiberio Nerone, un uomo molto più vecchio di lei, che nel 48 a.C. era stato questore di Giulio Cesare...rendergli sempre meno simpatici i successori di Cesare.
    Fu da lui che, quasi subito dopo il matrimonio, Livia ebbe Tiberio nato il 16 novembre del 42 a.C., nello stesso anno in cui il nonno si stava uccidendo in conseguenza del successo di Ottaviano. Mai il povero padre di Livia avrebbe potuto supporre che proprio questo giovane da lui tanto odiato gli avrebbe sedotto la figlia, sarebbe divenuto suo genere e come se questo non bastasse, anche patrigno e protettore del nipote...Dopo la fine di Bruto e Cassio quando Fulvia scatenò la guerra perusina tra il partito di Antonio e quello del Giovane Cesare, il marito di Livia, anticesariano com’era non esitò un momento a schierarsi dalla parte di Anonio e venne mandato in Campania a comandare un guarnigione. Quando però Perugia capitolò, egli, anche se in quel momento si trovava da un’altra parte, venne coinvolto nella sconfitta e fu costretto a scappare e, visto che c’era, si portò con sè anche Livia ed il bambino.
    Quella di portarsi appresso una giovane donna ed un lattante non sembra davvero essere stata un’idea eccessivamente brillante. Non c’è nessuna prova che Ottaviano si desse molto da fare ad uccidere donne e bambini lasciati indietro, ma evidentemente Tiberio lo riteneva capace di tutto. Quello che è certo che fu allora che Livia passò un periodo molto difficile, durante il quale i due coniugi ed i loro accompagnatori dovettero continuare a spostarsi da un nascondiglio all’altro sempre inseguiti da un nemico il quale come ogni altro nemico dell’epoca non avrebbe avuto molti scrupoli a passarli tutti, bambino compreso, a fil di spada.Riuscirono comunque a scamparla e continuarono la fuga che, attraverso alla Sicilia li portò in Acaia. Qui Tiberio Nerone affidò moglie e figlio ai Lacedemoni che essendo sotto il patrocinio dei Claudi erano legati alla famiglia di Livia e lui se ne tornò in Sicilia. Per Livia però marce forzate e pericoli non erano finiti e ne vide di tutti i colori, finendo una volta in un bosco in fiamme da cui uscì con capelli e vesti bruciate.
    Una vita come si vede molto avventurosa e tra tanti disagi pericoli e angustie la giovane donna non avrebbe mai potuto immaginare che presto avrebbe non soltanto incontrato il suo nemico e persecutore, ma che avrebbe finito con l’amarlo profondamente e mai avrebbe potuto supporre che con lui si sarebbe sposata. Come dio volle e per fortuna dei due giovani, Livia riuscì sempre a salvarsi e finito il pericolo tornò a Roma.
    Quando Livia di ritorno arrivò a Roma la vita nella grande città stava riprendendo il suo ritmo normale. In più, come sempre dopo una guerra e le morti e le tragedie che questa porta con sé, c’era più voglia di vivere e ci si riuniva assieme. Come spesso accade amici e nemici si rincontravano e gente che fino ad un momento prima si sarebbe volentieri sgozzata si rivedeva e si finiva a cena assieme, pronti poi a ricominciare a sgozzarsi alla prima favorevole occasione.
    Anche Augusto e Livia si incontrarono e si guardarono con interesse. Lui vedeva una donna che era fuggita con marito e bambino e che lui aveva fatta inseguire dai suoi scherani e lei vedeva in lui colui che aveva tanto odiato e che l’aveva tante volte messa in pericolo. Ma questo aggiungeva un pizzico di curiosità e di interesse . Vedere con i propri occhi colui che aveva cercato di farla sgozzare e accorgersi dell’effetto che produceva su lui doveva essere divertente e stuzzicante. A furia di divertirsi però la giovane donna dovette anche bruciarsi un po’ le ali. Augusto le stava intorno. ma poi piano piano Livia dovette entrargli nel sangue e iniziò a capire che lei non sarebbe mai stata una meteora passeggera nella sua vita; che lei era una vera donna, una donna da amare completamente e soprattutto una valida compagna che gli sarebbe stata vicina tutta la vita. Così finalmente il gelido e calcolatore Augusto finì con l’innamorarsene.



    Cosa vide in lei all’inizio quando l’aspetto fisico è quello che più conta? Bella, checché ne dica Carcopino, Livia non lo era. Il suo naso aquilino un po’ lungo per il suo viso tondo e largo, la breve distanza tra il naso e la bocca e la bocca stessa, piccolissima è vero, ma con labbra sottili non rientrava nei canoni della perfezione classica. Livia certamente non poteva dirsi brutta con i suoi grandi occhi e la linea perfetta delle sue sopracciglia, ma non aveva certo quella bellezza travolgente che fa perdere la testa e lascia senza fiato al primo incontro.
    Certamente doveva essere molto intelligente, cosa che dimostrò sempre in tutta la sua vita e doveva quindi essere dotata di quel fascino sottile e molto persistente che non è tanto legato all’aspetto fisico, ma alla personalità della donna e che è quindi capace di durare tutta una vita, qualcosa di magico che pian piano attira l’attenzione di un uomo e lo cattura. Qualcosa di veramente speciale che spinse i due giovani l’uno nelle braccia dell’altra. Per Livia questo amore fu una vera rivelazione.
    Il Giovane Cesare era molto diverso dal vecchio marito che lei aveva fedelmente seguito nella buona come nella cattiva sorte. “Ubi tu Gaius ego Gaia” diceva la sposa romana all’atto del matrimonio, ma non dovette passare molto tempo dal primo incontro con Augusto prima che Livia si rendesse conto che il suo vero Gaio non era il maturo Tiberio Nerone: era invece questo ragazzo che fino allora ella aveva considerato il suo grande nemico, l’uomo odiato da tutti i suoi parenti e da tutta la sua classe sociale, l’essere al quale fino a poco tempo prima essa aveva augurato con tutto il cuore di rompersi il collo. Livia era una donna molto seria e morale e tale fu per tutto il resto della sua vita. Non era la donna che si butta nelle braccia del primo uomo che la corteggi. È chiaro che quando decise di cedere alle proposte del giovane Cesare essa era ormai sicura non soltanto dei suoi sentimenti, ma anche di quelli di lui. Ma per cedere cedette e come! Non si può sapere cosa i due amanti avessero in mente per il loro futuro. Certo è che non dovettero essere tanto prudenti, dato che Livia restò nuovamente incinta. Comunque secondo gli storici antichi Ottaviano si portò a casa Livia tre mesi prima della nascita di Druso evento che ebbe luogo il 14 gennaio del 38. Quindi fu soltanto intorno al 14 ottobre del 39 a.C. che la donna andò ad abitare con il giovane legandosi a lui con un matrimonio per “usus” (oggi coabitazione) e rimandando il matrimonio formale ad un momento nel quale essa fosse stata in migliori condizioni, matrimonio che venne celebrato tre giorni dopo il parto. Tiberio Nerone divorziò dalla moglie e non solo questo, ma come se ne fosse il padre invece che il marito, le costituì una dote, partecipò alla cerimonia delle nozze e la consegnò personalmente al giovane sposo, dando pure agli amici una cena per festeggiare il matrimonio.Augusto e Livia ebbero una felice e lunga vita matrimoniale, anche se col passare degli anni Augusto cominciò ad avere parecchi acciacchi. Livia gli fu ovviamente sempre accanto e lo curò con devoto amore. Così passarono ben 52 anni, lunghi anni di un felice matrimonio. Erano passati cinquantadue anni, cinquantadue lunghi anni, ma per i due sposi erano volati via come un sogno. Morendo Augusto non pensava all'impero che aveva fondato, alla grandezza di Roma che si era rinsaldata nella sua pace. Le sue ultime parole non erano rivolte ai suoi concittadini, né ai posteri, né alla storia alla quale era ben conscio di appartenere. Nel momento supremo, davanti alla morte, quando un uomo si sente solo e nudo davanti all'eternità e tutto vien guardato con occhi nuovi, egli vedeva soltanto sua moglie: erano soltanto loro due a contare; egli sapeva che quello che erano stati l'uno per l'altra non poteva morire con lui. Fino a che Livia fosse vissuta e fosse restata su questa terra, quel fuoco che aveva riscaldato tutta la loro vita non si sarebbe estinto. Dopo niente avrebbe più contato, ma fino a che uno di loro fosse esistito anche il legame che li aveva uniti da giovanissimi avrebbe continuato ad esistere. Era questo che le voleva dire. L'ultimo addio e l'ultima raccomandazione:
    “Livia, ricordati del nostro amore. Ricordalo ogni giorno della tua vita. Addio!” e fu con questa ultima testimonianza di un'unione che niente aveva mai scalfito che Augusto uscì di scena.
    Non c'è dubbio che quando dalle storie si tolgano i commenti e le insinuazioni degli storici, e si guardi soltanto alla verità, Livia appare una donna di antico stampo: buona moglie, ottima madre, nonna affettuosa, e leale amica.
    Oltre a queste qualità, Livia dimostrò sempre di essere una donna forte; lo dimostrò quando, mortole il figlio Druso mentre combatteva i Germani, essa dovette trovare in sé stessa non soltanto la forza di superare il dolore, ma anche quella di mantenere di fronte al mondo la serenità e la compostezza che il suo rango richiedevano. Augusto, che sapeva quanto ella soffrisse, cercò di farla aiutare da Areo, un filosofo della sua cerchia, che poteva offrirle il conforto della sua scienza. Ella gli fu grata dell'aiuto in quel momento così difficile, ma in realtà fu da sola che reagì, e riuscì a farsi tanta forza da nascondere agli altri la sua disperazione. Del resto, ella aveva sempre silenziosamente disapprovato lo sfoggio di dolore che Ottavia aveva dato al mondo dopo la morte del figlio suo Marcello, e voleva dimostrare a tutti che era possibile sopportare un lutto gravissimo, e tener per sé la propria pena, senza imporla agli altri ed abbandonarsi a clamorose dimostrazioni di dolore.



    Non c'è dubbio che quando dalle storie si tolgano i commenti e le insinuazioni degli storici, e si guardi soltanto alla verità, Livia appare una donna di antico stampo: buona moglie, ottima madre, nonna affettuosa, e leale amica.
    Oltre a queste qualità, Livia dimostrò sempre di essere una donna forte; lo dimostrò quando, mortole il figlio Druso mentre combatteva i Germani, essa dovette trovare in sé stessa non soltanto la forza di superare il dolore, ma anche quella di mantenere di fronte al mondo la serenità e la compostezza che il suo rango richiedevano. Augusto, che sapeva quanto ella soffrisse, cercò di farla aiutare da Areo, un filosofo della sua cerchia, che poteva offrirle il conforto della sua scienza. Ella gli fu grata dell'aiuto in quel momento così difficile, ma in realtà fu da sola che reagì, e riuscì a farsi tanta forza da nascondere agli altri la sua disperazione. Del resto, ella aveva sempre silenziosamente disapprovato lo sfoggio di dolore che Ottavia aveva dato al mondo dopo la morte del figlio suo Marcello, e voleva dimostrare a tutti che era possibile sopportare un lutto gravissimo, e tener per sé la propria pena, senza imporla agli altri ed abbandonarsi a clamorose dimostrazioni di dolore.
    La lucida ed intelligente Augusta non poteva prestar fede a queste calunnie: essa era tra le poche persone di quell'epoca che non si lasciavano incantare dalle chiacchere, ed alla magia, bianca o nera che fosse, non credeva proprio. Quindi quando si disse che la morte del nipote era stata dovuta ai sortilegi di Pisone, ella non si lasciò trascinare dal dolore e dalla superstizione e non credette alle calunnie. E sì che queste magie nere erano allora molto di moda.
    Da tutti questi piccoli squarci di vita che abbiamo qui esposto risulta che Livia era una donna dotata di forza di carattere ed equilibrio non comuni. Oltre tutte queste qualità essa ne dimostrò poi molte altre nel campo pratico. Ad esempio ella fu un'ottima donna d'affari ed una splendida amministratrice. Augusto lo aveva subito riconosciuto, e, già nel 35 a.C., quando, giovane sposa, aveva appena compiuto 23 anni, aveva liberato sia lei che Ottavia dalla patria potestas. Evidentemente riteneva che sua moglie fosse perfettamente capace di badare ai fatti suoi senza bisogno dell'aiuto di nessuno. Da quel momento, dato che Livia era ricchissima, essa ebbe sempre molto da fare per dirigere le sue proprietà in Asia Minore, Gallia e Palestina. Ai suoi ordini, per assisterla in questi compiti, ella tenne sempre persone della massima fiducia ed estremamente capaci, tra i quali, ad esempio, Burro, persona tanto stimabile che sotto Claudio e Nerone venne posto al comando della guardia pretoriana composta da più di mille persone.
    Più tardi col passare degli anni Livia ottenne tutti gli altri titoli e privilegi che una matrona romana poteva conseguire. Nel 9 a.C., quando ormai aveva compiuto 49 anni, le venne concesso il diritto di "madre di tre figli", un onore che probabilmente non le era stato dato prima nella speranza che una nuova gravidanza glie lo facesse automaticamente ottenere. Alla morte di Augusto era pure stata esentata dalla lex Voconia che limitava l'entità massima dell'eredità che una donna poteva ricevere. Infine nel testamento essa venne da lui adottata prendendo il nome di Giulia Augusta, e subito dopo venne eletta sacerdotessa del suo culto con diritto di essere accompagnata da un littore. Ma non abusò mai della sua posizione, e furono più gli onori che rifiutò, spesso tramite il figlio Tiberio, che quelli che accettò.
    Così, in mezzo a tutte queste traversie e tutta la sua grande attività, essa, sempre lucidissima e mai oziosa, arrivò all'ottantacinquesimo anno, un'età davvero rispettabile per quei tempi. Indubbiamente l'aiutò il fatto di esser sempre stata molto morigerata. Passato alla storia è il piatto di enula, una radice amarissima, che ogni giorno l'imperatrice mangiava per mantenersi in salute. Ma non poteva essere soltanto la dieta che l'aveva aiutata a vivere tanto a lungo: essa godeva evidentemente anche di una fibra molto robusta. Morì nel 29 d.C.

     
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  13. gheagabry
     
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    Lucrezia

    VI secolo a.C. -



    Nel 1594 William Shakespeare compone per il Duca di Southampton Lo stupro di Lucrezia, piccolo gioiello di intensa drammaticità, dedicato alla figura di Lucrezia, vissuta al termine del VI secolo a.C. e destinata a divenire il pretesto per la fine della monarchia a Roma. Come spesso accade per i personaggi romani di Shakespeare, anche Lucrezia ha fatto la sua prima comparsa nelle pagine di Ovidio, ma la sua storicità è documentata da un lungo racconto di Tito Livio. Un unico episodio racchiude, come in un cammeo, il destino di questa giovane donna che attrae Shakespeare per il suo tratto esemplare. La vicenda reale è ambientata in quella Roma di tarda età monarchica i cui re provenivano da famiglia etrusca: sanguinari e tracotanti, paiono pensati per essere spodestati. Lucio Tarquinio (534-509 a.C.), soprannominato “il Superbo” per la sua non gradevole indole, ha provocato l’assassinio del suocero e precedente sovrano, Servio Tullio, e si è impadronito del trono.
    Mentre sta assediando Ardea, così vuole la leggenda, si concede un momento di riposo: sorge una disputa fra gli astanti su quale, fra le mogli dei presenti, sia da ritenersi la più virtuosa. Il premio va a Lucrezia, moglie di Collatino, parente del re, così come alcuni altri fra i presenti. Per verificare la nobiltà di Lucrezia, un gruppo di compagni d’arme si reca allora a casa di Collatino, dove effettivamente la matrona si sta dedicando ai lavori domestici. La vista di Lucrezia provoca in Sesto Tarquinio, anch’egli stretto parente del re, un desiderio insopprimibile di possesso. Approfittando delle tenebre, Tarquinio stupra allora Lucrezia e immediatamente l’abbandona, senza alcun rimorso. La giovanissima sposa, distrutta dalla violenza a cui è stata sottoposta, sente di non poter tollerare l’onta che ne deriverebbe per sé e per la propria famiglia: si toglie quindi la vita per sottrarsi alla vergogna.
    Bruto, un altro membro di questa numerosa famiglia, raccoglie il corpo esangue di Lucrezia e lo porta a Roma come un vessillo: perché la morte di Lucrezia divenga il simbolo della crudeltà dei re etruschi e spinga il popolo a cacciarli. La gente di Roma insorge, le porte della città vengono sprangate e a Tarquinio il Superbo non resta che ripiegare in esilio a Cere con i figli. La monarchia è morta e, con l’esempio di una giovane donna, inizio' la Repubblica.
    (Silvia Romani)





    « Alla vista dei congiunti, scoppia a piangere. Il marito allora le chiede: "Tutto bene?" Lei gli risponde: "Come fa ad andare tutto bene a una donna che ha perduto l'onore? Nel tuo letto, Collatino, ci son le tracce di un altro uomo: solo il mio corpo è stato violato, il mio cuore è puro e te lo proverò con la mia morte. Ma giuratemi che l'adultero non rimarrà impunito. Si tratta di Sesto Tarquinio: è lui che ieri notte è venuto qui e, restituendo ostilità in cambio di ospitalità, armato e con la forza ha abusato di me. Se siete uomini veri, fate sì che quel rapporto non sia fatale solo a me ma anche a lui." Uno dopo l'altro giurano tutti. Cercano quindi di consolarla con questi argomenti: in primo luogo la colpa ricadeva solo sull'autore di quell'azione abominevole e non su di lei che ne era stata la vittima; poi non è il corpo che pecca ma la mente e quindi, se manca l'intenzione, non si può parlare di colpa. Ma lei replica: "Sta a voi stabilire quel che si merita. Quanto a me, anche se mi assolvo dalla colpa, non significa che non avrò una punizione. E da oggi in poi, più nessuna donna, dopo l'esempio di Lucrezia, vivrà nel disonore!" Afferrato il coltello che teneva nascosto sotto la veste, se lo piantò nel cuore e, piegandosi sulla ferita, cadde a terra esanime tra le urla del marito e del padre. »

     
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  14. gheagabry
     
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    Secondo quanto ci viene tramandato, è nell’ambito della scuola pitagorica (VI sec. A.C.) che le donne fecero la loro prima apparizione come seguaci e praticanti di filosofia. Giamblico(251-325 d.C.), nella sua Vita pitagorica, parla di ben 17 discepole di Pitagora! Intorno al 440 a.C., si distinse Aspasia di Mileto, che fu l’amante di Pericle e la sua casa fu il centro della vita letteraria e filosofica dell’Atene del V secolo.Tra le donne che fecero professione di filosofia incontriamo Diotima ,sacerdotessa di Mantinea. E’ famosa perché viene soprattutto ricordata in un dialogo platonico, il Simposio (201 d – 212 c), in cui Socrate dice di aver appreso da lei la teoria dell’amore.

    Diogene Laerzio ci parla di Ipparchia, che aderì alle teorie dei Cinici. Di lei viene esaltata la grande cultura filosofica e l’eleganza del ragionamento, paragonandola addirittura a Platone. Piuttosto discussa è la figura di Leonzia (Leonzio o Leontina) ,forse cortegiana di Epicuro, si dice abbia scritto una invettiva contro un altro celebre filosofo, Teofrasto.

    Comunque, la più rilevante figura di filosofa che viene tramandata dall’antichità greca è quella di Ipazia, di tendenze neoplatoniche, morta verso il 415 d.C. Fu figlia del matematico e astronomo Teone di Alessandria e si interessò lei stessa di scienze. Si recò ad Atene ed ebbe una notevole influenza negli ambienti filosofici unificando il pensiero matematico col neoplatonismo. Di religione pagana, ma fautrice della distinzione e autonomia fra filosofia e religione, acquistò prestigio anche negli ambienti politici, frequentando il prefetto romano Oreste. Ciò le attirò il rancore degli ambienti cristiani e un giorno Ipazia fu aggredita per strada e uccisa da un gruppo di fanatici. L’episodio della drammatica morte della donna ha colpito scrittori di diverse epoche: il più recente è stato Charles Péguy(1873-1814),che l’ha immortalata come l’ultima e pura erede del pensiero greco.

    Nel mondo romano vi fu ad esempio Plotina, consorte dell’imperatore Traiano (53-117 d.C.), che fu seguace della scuola epicurea e ne favorì il rilancio a Roma.
    (Ernesto Riva)



    IPPARCHIA

    Nacque a Maronia, località molto vicina all'attuale Tracia orientale, per poi trasferirsi, insieme alla sua famiglia, ad Atene. Sorella del cinico Metrocle, originaria di una famiglia di buona condizione, minacciò di uccidersi se non le fosse stato consentito di sposare il filosofo cinico Cratete di Tebe. Secondo Diogene Laerzio, Cratete, non riuscendo a dissuaderla,

    « toltisi i vestiti, di fronte a lei, disse: Lo sposo è questo; questi i suoi averi. Prendi una decisione in base a questo.
    Costui, infatti, non potrà essere tuo sposo, se non acquisirai anche il suo stesso modo di vivere. »

    (Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, a cura di Giovanni Reale, 2005, Bompiani, Milano, ISBN 88-452-3301-4)

    Nell'Antologia Palatina (VII, 413), è riportato un epigramma che la riguarda:

    « Io, Ipparchia,
    non scelsi opere di donne dalle ampie vesti,
    ma la dura vita dei cinici,
    non ebbi scialli ornati di fibbie,
    né alte calzature orientali,
    né retine splendenti nei capelli,
    ma una bisaccia col bastone,
    compagna di viaggio e adatta alla mia vita,
    e una coperta per giaciglio. »


    In un simposio, avrebbe confutato Teodoro l'ateo con questo ragionamento:

    « Se ciò che Teodoro fa non è ingiusto, neanche fatto da Ipparchia sarà ingiusto. Se Teodoro, colpendosi, non commette un'ingiustizia, neanche Ipparchia, colpendo Teodoro, commetterà ingiustizia. »

    Al rimprovero di questi di aver abbandonato i lavori dei telai, rispose di aver messo a frutto il tempo per la propria educazione, anziché sprecarlo nei telai




    “Quando ti vedo mi prostro davanti a te, alla tua parola, vedendo la casa astrale della Vergine, infatti verso il Cielo è rivolto ogni tuo atto, Hypatia sacra, bellezza della parola, astro incontaminato della sapiente cultura” (Pallada).



    Ipazia

    Alessandria d'Egitto 370 ca. - 415



    Alla morte del padre Teone, matematico-astronomo, Ipazia ne eredita legittimamente il posto a capo della scuola neoplatonica d’Alessandria. Invece non prende marito, sentendosi già «sposata alla verità». I suoi scritti sono andati perduti, ed è difficile ricostruirne il pensiero; sono piuttosto le testimonianze dei contemporanei a dare notizia della sua fama. Sinesio, lo studente venuto da Cirene e futuro vescovo di Tolemaide la chiama «madre, sorella, maestra e benefattrice», e le fonti la ritraggono come una scienziata e filosofa dai talenti insoliti che partecipa attivamente alla vita politica: «Per la magnifica libertà di parola e di azione che le veniva dalla sua cultura, accedeva in modo assennato anche al cospetto dei capi della città e non era motivo di vergogna per lei lo stare in mezzo agli uomini: infatti, a causa della sua straordinaria saggezza, tutti la rispettavano profondamente e provavano verso di lei un timore reverenziale», lo scrive Socrate Scolastico. A un secolo di distanza Damascio , che pure la considera «inferiore in quanto donna» e quindi inadatta alla filosofia, esprime lo stesso giudizio: «di natura più nobile del padre, non si accontentò del sapere che viene attraverso le scienze matematiche a cui era stata introdotta da lui ma, non senza altezza d'animo, si dedicò anche alle altre scienze filosofiche. La donna, gettandosi addosso il mantello e uscendo in mezzo alla città, spiegava pubblicamente a chiunque volesse ascoltarla Platone o Aristotele o le opere di qualsiasi altro filosofo... era pronta e dialettica nei discorsi, accorta e politica nelle azioni, il resto della città a buon diritto la amava e la ossequiava grandemente, e i capi, ogni volta che si prendevano carico delle questioni pubbliche, erano soliti recarsi prima da lei, come continuava ad avvenire anche ad Atene. Infatti, se lo stato reale della filosofia era in completa rovina, invece il suo nome sembrava ancora essere magnifico e degno di ammirazione per coloro che amministravano gli affari più importanti del governo».
    Se poco si sa della vita di Ipazia, non mancano i dettagli circa la sua morte. La distruzione dei templi ellenici voluta dall’imperatore Teodosio I (al tramonto del IV secolo) è messa diligentemente in atto dal vescovo Teofilo. Questo attacco così altamente simbolico, è seguito da un breve periodo di tregua, che vede Ipazia ancora libera e influente. A Teofilo, morto nel 412, succede il nipote Cirillo, assai più bellicoso, il quale si dota di una milizia privata (i parabalanoi) e dopo uno scontro forse pretestuoso fra ebrei e cristiani, caccia gli ebrei dalla città. I pagani sanno che il loro turno sta per arrivare quando, nel 414 il prefetto Oreste, estimatore di Ipazia e inviso al vescovo, viene aggredito da un gruppo di monaci e ferito. Il colpevole è condannato a morte, ma Cirillo gli organizza funerali in pompa magna e lo proclama martire.



    Nel marzo 415 , un gruppo di monaci si apposta vicino alla casa di Ipazia, in attesa del suo rientro. «Tiratala giù dal carro, la trascinarono fino alla chiesa che prendeva il nome da Cesario; qui, strappatale la veste, la uccisero usando dei cocci. Dopo che l'ebbero fatta a pezzi membro a membro, trasportati i brani del suo corpo nel cosiddetto Cinerone, cancellarono ogni traccia bruciandoli».
    Socrate Scolastico, da cristiano, non incolpa il vescovo. Lo fa Damascio, il filosofo pagano per il quale Cirillo «si rose a tal punto nell'anima che tramò la sua uccisione, in modo che avvenisse il più presto possibile, un'uccisione che fu tra tutte la più empia».
    Da allora Ipazia scompare dalla storia, se non per prestare alcune sue doti a santa Caterina di Alessandria. Nel Settecento, ricompare in una disputa tra cattolici ed anglicani inglesi: di facili costumi - per i primi (che ci faceva, altrimenti, per le strade di Alessandria?), vittima del fanatismo per i secondi, così come nella voce Eclectiques , dell’Encyclopédie e per per Voltaire, Henry Fielding, Edward Gibbon e altri Illuministi.
    Nel poema epico Ipazia o delle filosofe (1827), la contessa Diodata Saluzzo Roero tenta di ribaltare questa interpretazione. La sua Ipazia si converte al cristianesimo e muore da santa: «languida rosa sul reciso stelo/Nel sangue immersa la vergine giacea/Avvolta a mezzo nel bianco suo velo/Soavissimamente sorridea/Condonatrice dell’altrui delitto/Mentre il gran segno redentor stringea».
    Similmente di bianco vestita, ma viva e fieramente pagana, l’aveva descritta in due delle sue “poesie antiche” il poeta rivoluzionario Leconte de Lisle, in - Hypatie - per colpa di un uomo nato in Galilea, lo «spirito di Platone e il corpo d’Afrodite» erano «partiti per sempre nei bei cieli dell’Ellade»; in Hypatie et Cyrille - invece, il vescovo alla filosofa può offrire solo la scelta fra tra il silenzio e la vita.
    La questione della libertà di pensiero femminile, e di azione, in rapporto all’autorità politica e religiosa resta scabrosa: Ipazia compare nel teatro e nel romanzo dell’Otto e del Novecento, forse anche - suo malgrado - perché facilmente le calzano i tratti della martire eroica, tanto più martire quanto più la sua autorevolezza intellettuale è indiscussa. Marcel Proust (All’ombra delle fanciulle in fiore), Umberto Eco (Baudolino), Hugo Pratt in un album di Corto Maltese le rendono omaggio, mentre prendono il suo nome associazioni di femministe, filosofe e scienziate. Nel XXI sec. l’autonomia femminile, come quella della ricerca scientifica, resta contrastata dalla medesima autorità, e Ipazia non cessa di ispirare saggi, romanzi e polemiche come quelle attorno al film, del regista spagnolo Alejandro Amenàbar, Agorà.
    (Sylvie Coyaud)




    Su di lei non vi sono dati sicuri, non essendoci rimasto alcuno scritto: sono citati solo tre titoli di tre opere di matematica e di astronomia, trovati nella Biblioteca Vaticana nel Quattrocento: Commentario alla Aritmetica di Diofanto, Commentario al Canone astronomico e Commentario alle sezioni coniche d'Apollonio Pergeo, considerato il suo capolavoro All'insegnamento delle scienze esatte è certo che aggiunse quello della filosofia, commentando Platone, Aristotele e i filosofi maggiori.
    Il suo discepolo più illustre fu Sinesio di Cirene, filosofo neoplatonico, poeta e oratore, che poi divenne, forse tradendo l'insegnamento di Ipazia, vescovo cristiano di Tolemaide. Dopo la morte di Ipazia egli cercherà di fondere le dottrine gnostiche con quelle neoplatoniche, senza tuttavia perdere mai di vista la fondamentale concezione platonica alla quale si attenne da vicino in due opuscoli: uno "sugli Egizi", dove espose in forma allegorica le condizioni della corte di Costantinopoli, l'altro "sui Sogni" in cui sostenne la possibilità di servirsi del sogno a scopo divinatorio.
    Insegnava come Socrate per le strade e il prefetto romano Oreste si diceva che cercasse il suo consiglio nelle questioni di carattere pubblico e che addirittura fosse suo discepolo. Ipazia non teneva il suo sapere per sé, né lo condivideva soltanto con i suoi allievi. Al contrario, lo dispensava con grande liberalità a chiunque e per questo si conquistò grande considerazione fra i suoi concittadini. Ipazia insegnò ininterrottamente ad Alessandria per più di vent’anni.
    Molto importante per la sua formazione culturale fu un viaggio compiuto ad Atene, ove si aggregò alla scuola teosofica di Plutarco.

    Ipazia vedeva nel cristianesimo soprattutto il fanatismo e la violenza, in quanto il vescovo Teofilo aveva fatto distruggere, oltre a vari monumenti della civiltà greco-orientale, anche il famoso tempio di Serapide e l'annessa biblioteca.
    Seguace di un sistema eclettico di filosofia, Ipazia può essere considerata come una gnostica che cercò di difendere la rinascita del platonismo contro il cristianesimo. I neoplatonici, che si diffusero dal III al V sec., volevano la fusione di tutte le chiese in un unico organismo a sfondo più filosofico che teologico, o se vogliamo più intellettuale che ecclesiale.
    La scuola di Alessandria appartiene, stando alle fonti classiche, all’ultima grande corrente del neoplatonismo, fiorita tra la prima metà del V e la prima metà del VII secolo. La tendenza erudita, che aveva man mano acquistato rilevanza nelle scuole che la precedettero, era diventata qui prevalente, respingendo in secondo piano la speculazione prettamente metafisica. Il disinteresse per la costruzione della gerarchia emanatistica che era stata concepita nei suoi tre momenti della permanenza in sé, dell'uscita da sé e del ritorno in sé, aveva condotto all'abbandono di quel politeismo classico che in tale gerarchia era stato inquadrato, soprattutto ad opera della scuola siriaca.



    Dopo la morte del vescovo Teofilo, la cattedra vescovile fu occupata, nel 412, da suo nipote Cirillo, di idee fondamentaliste, specie contro i novaziani e i giudei, e che venne subito in urto col prefetto romano Oreste.
    Come noto il cristianesimo, che cessò d'essere perseguitato con l'editto di Costantino nel 313, diventando religione di stato con l'editto di Teodosio nel 380, iniziò a sua volta a perseguitare nel 392, quando furono distrutti i templi greci e bruciati i libri pagani. Vari scritti del cristianesimo primitivo, quali l'Epistola agli Ebrei, quella attribuita a Barnaba, la Didachè, secondo molti storici proverebbero che in Alessandria c'era una spiccata tendenza della stessa chiesa ufficiale verso lo gnosticismo. A questo tendenza intellettualistica aveva cercato di porre rimedio la scuola catechetica, ma la difesa non era stata condotta senza far gravi concessioni all'avversario, ammettendo, oltre all'interpretazione allegorica delle scritture, l'esistenza di una gnosi ortodossa, che rendeva perfetto chi la possedeva e l’innalzava al di sopra del semplice fedele.
    Cirillo si trova nella difficile situazione di porre un argine alla scuola catechetica che intreccia rapporti sempre più stretti con i rappresentanti neoplatonici alessandrini e la necessità di dettare la formula della retta fede in Oriente, in virtù di quella tradizione dottrinale che gli derivava da Demetrio. Ad Alessandria vi erano, allora, pagani e idolatri d'ogni culto, e cristiani di tutti gli scismi ed eresie, nonché una cospicua colonia di ebrei fatta oggetto di discriminazioni da parte dei cristiani. Gli ebrei, risentiti, si difesero e il patriarca Cirillo li cacciò dalla città saccheggiandone le sinagoghe. Il prefetto Oreste fece arrestare un seguace di Cirillo, sottoponendolo a pubblica punizione, ma una folla cristiana, per rappresaglia, ferì il prefetto. A motivo di ciò l'attentatore, che era monaco, fu giustiziato e Cirillo ne fece l'elogio come fosse stato martirizzato.
    Cirillo tentò di conciliarsi con Oreste, ma il tentativo fallì, forse anche a causa di Ipazia. Oreste invano sollecitava l'intervento dell'imperatore d'Oriente Teodosio II, il quale però era soggetto alla volontà della sorella Pulcheria, imperatrice di fatto e strettamente legata al cristianesimo di Cirillo.
    Cirillo, che mal sopportava la predicazione pagana di Ipazia, divenuta ad Alessandria la rappresentante più qualificata della filosofia ellenica, si convinse che l'ostacolo maggiore alla risoluzione della controversia fosse proprio lei. Pur non dando un espresso ordine, egli istigò il gruppo fanatico di monaci parabolani ed eremiti della Tebaide guidati da Pietro il Lettore a togliere di mezzo Ipazia. E così, dopo averla trascinata fino alla chiesa che prendeva il nome da Cesario, quasi volessero compiere una sorta di sacrificio umano, prima Pietro con una mazza ferrata, poi gli altri monaci con pugnali fatti di conchiglie, massacrarono il corpo di Ipazia e lo bruciarono. Era l'anno 415, il IV dell'episcopato di Cirillo.
    Gli assassini rimasero impuniti. Oreste chiese un'inchiesta; Costantinopoli non poté non concederla, e mandò ad Alessandria un tale Edesio, il quale non fece nulla, poiché si lasciò corrompere da Cirillo. Oreste ottenne soltanto dei provvedimenti per arginare l'ingerenza politica dei vescovi nei poteri civili. Cirillo in seguito verrà addirittura santificato come esempio di sicura ortodossia.
    Fu Damascio, filosofo neoplatonico (480/prima metà del sec.VI a.C.), quinto successore di Proclo nello scolarcato dell’Accademia, che per primo, nella Vita di Isidoro, incolpò Cirillo del delitto, arrivando addirittura a dire che prima di ucciderla le strapparono gli occhi dalle orbite. Nella Storia ecclesiastica dell'ariano Filostorgio, nato circa il 368 d.C. e dunque contemporaneo dei fatti narrati, si arriva a sostenere che l'assassinio non era opera di una amorfa folla fanatica, ma di quel clero cristiano che, ad Alessandria in modo particolare, voleva spadroneggiare su tutti. In ogni caso, la partenza frettolosa, successivamente, di molti dotti, segnò l'inizio del declino di Alessandria come il più grande centro di erudizione antica.
    Gli ultimi neoplatonici furono tolti di mezzo dall'imperatore Giustiniano, che chiuse la scuola platonica nel 529 d.C. Essi fuggirono in Persia presso Chosroe I, il quale era curioso di filosofia e garantì di professare liberamente il platonismo (531). Questo diritto fu addirittura sancito nel trattato di pace tra Giustiniano e Chosroe. E' degno di nota come, al crepuscolo ormai del pensiero greco, la libertà di filosofare venisse garantita ai Greci, contro il loro cristianissimo imperatore, dall'ultimo grande sovrano persiano, della dinastia dei Sassanidi.
    Ipazia viene ricordata, ancora oggi, come la prima matematica della storia, anzi, fu la sola matematica per più di un millennio: per trovarne altre, da Maria Agnesi a Sophie Germain, bisognerà attendere il Settecento. Ipazia fu anche l'inventrice dell'astrolabio, del planisfero e dell'idroscopio.
    Nel celebre affresco di Raffaello, La Scuola di Atene, l'unica figura femminile rappresentata è lei, che è anche l'unica filosofa, oltre all'autoritratto dell'autore, che guarda verso l'osservatore. Alcuni critici sostengono che il suo volto sia quello di Francesco Maria della Rovere.
    (homolaicus)




    Il Mistero avvolge, storicamente, la terrena vita di molte creature. La storiografia analizza minuziosamente, via via, biografie che riflettono, come da uno specchio di luce, enigmi che avvolgerebbero particolari soggetti venuti in essere, ad un certo punto del percorso evolutivo storico. Fu così che una fanciulla nella seconda metà del V secolo, vide rilucere nei suoi occhi cerulei l’aurora nella sapiente e popolosa città egizia di Alessandria, lambita dalle azzurre e violacee acque mediterranee. La stessa che nel futuro eone farà decantare sublimi versi al poeta Naguib Mahfour, nel 1976, declinando l’amore nei soavi sospiri: “Alessandria, finalmente! Alessandria goccia di rugiada. Esplosione di nubi bianche. Sei come un fiore in boccio bagnato dai raggi irrorati dall’acqua del cielo. Cuore di ricordi impregnati di miele, e di lacrime”.
    Della bella, affascinante fanciulla non è dato sapere, però, con precisione il suo genetliaco, cosa che rende, indiscutibilmente, più enigmatica tutta la leggenda, o storia, o racconto evolventesi tra una linea di verità e molte incertezze che sfumano, tuttavia, in una quanto oscura realtà. Una fonte sicura enuncia ch’ella sarebbe vissuta durante il regno di Arcadio – Flavio Arcadio imperatore di Bisanzio fino al 408, anno della sua dipartita – permettendo così di stabilire una cronologia storica oscillante tra il 355 ed il 368. In questo arco di tempo, dunque, dovrebbe aver fatto la sua comparsa terrena la rara ed eccellente creatura il cui nome suona come Hypatia di Alessandria.
    Secondo alcune epistole del suo allievo prediletto Sinesio, la morte di Hypatia sarebbe avvenuta non più tardi del 402. Certo è, ancora, che nel 393 Hypatia il filosofo sembra essere a capo dell’Accademia di matematica e filosofia di Alessandria, scuola precedentemente guidata dal Maestro Theone, padre della stessa Hypatia.
    Fonti certe di questa notizia provengono da Ammiano Marcellino (storico romano importantissimo di età Tardo imperiale 330/391) e da Sinesio di Cirene (370/413), suo discepolo come visto; filosofo, vescovo, scrittore bizantino, fu tra gli allievi più brillanti di Hypatia, tra i pochi che in verità anelavano al vero, concreto sapere senza riserve, ispirati a inseguire il pensiero filosofico e le arcane conoscenze, pur se presentandosi nelle vesti, insolite e rarissime, femminili.
    Ebbe a scrivere Socrate Scolastico (380/450), di religione cristiana, avvocato per professione, autore della Historia Ecclesiastica in sette libri: ”Ad Alessandria c’era una donna chiamata Hypatia, figlia del filosofo Theone, che otteneva tali successi nella letteratura e nella scienza da superare di gran lunga tutti i filosofi del suo tempo. Provenendo dalla scuola di Platone e Plotino lei spiegò i principi della filosofia ai suoi uditori, molti dei quali provenivano da lontano per ascoltare le sue lezioni”.
    Tra i molti uditori si trova lo stesso Sinesio di Cirene, il vescovo che citerà delle sue opere e vita. Il vescovo cristiano di Nikiu, Giovanni nella sua Cronaca, trova singolari parole, non troppo felici in vero, per descrivere la vita del filosofo donna: “In quei giorni apparve ad Alessandria un filosofo femmina, una pagana chiamata Hypatia, che si dedicò completamente alla magia, agli astrolabi e agli strumenti di musica, che ingannò molte persone con stratagemmi satanici”.





    Ipazia. La prima donna vittima di un delitto politico



    Nella primavera di sedici secoli fa, ad Alessandria d’Egitto, una donna fu assassinata. Fu aggredita per strada, spogliata nuda, trascinata nella chiesa «che prendeva il nome dal cesare imperatore», il Cesareo, come riferisce una delle fonti contemporanee ai fatti, lo storico ecclesiastico costantinopolitano Socrate Scolastico. Qui fu dilaniata con cocci aguzzi. Mentre ancora respirava le furono cavati gli occhi. Poi i resti del suo corpo smembrato vennero dati alle fiamme. A massacrarla furono fanatici cristiani, i cosiddetti parabalani, monaci-barellieri venuti dal deserto di Nitria, di fatto miliziani al servizio di Cirillo, allora potente e bellicoso vescovo della megalopoli d’Egitto fertile di grano e di intelletti, di matematica e poesia, musica, gnosi e filosofia. Il nome di quella donna era Ipazia e quel nome in greco evocava un’idea di “eminenza”. Chi fosse nei lati più segreti della sua eminente personalità e cosa avesse fatto per attirare su di sé la sadica violenza collettiva maschile che la uccise, non lo sappiamo quasi più. Sappiamo meglio chi non era, e di cosa certamente era incolpevole. Conosciamo le maschere che la propaganda o la fantasia o semplicemente l’incoercibile tendenza umana alla manipolazione e alla bugia hanno sovrapposto alla sua pura sembianza di filosofa platonica. La storiografia l’ha strumentalizzata, la letteratura l’ha trasfigurata e tradita: scienziata punita per le sue scoperte, eroina protofemminista, martire della libertà di pensiero, illuminista e romantica, libera pensatrice e socialista, protestante, massone, agnostica, vestale neopagana e perfino santa cristiana. Ma Ipazia non era nulla di tutto questo.



    Nell’Alessandria del V secolo, Ipazia apparteneva all’aristocrazia intellettuale della scuola di Plotino e dalla tradizione familiare aveva ereditato la successione ( diadoché) del suo insegnamento. Una cattedra pubblica, in cui insegnava «a chiunque volesse ascoltarla il pensiero di Platone e di Aristotele e di altri filosofi», come narrano le fonti antiche. In questo senso era anche una scienziata: la sapienza impartita nelle scuole platoniche includeva la scienza dei numeri e lo studio degli astri. Era dunque anche una matematica e un’astronoma, ma nel senso antico e prescientifico. Non fece alcuna scoperta, non anticipò nessuna rivoluzione copernicana, non fu un Galileo donna. Tutto quello che sappiamo è che costituì devotamente il testo critico del terzo libro dell’Almagesto di Tolomeo, perché suo padre Teone potesse svolgerne il commento, e compose di persona commentari didattici a quelli che erano i libri di testo dell’epoca: le Coniche di Apollonio di Perga e l’Algebra di Diofanto. Non certo per questo fu assassinata. Oltre che una filosofa platonica Ipazia era una carismatica. C’era, nelle accademie platoniche, un risvolto esoterico, che implicava la trasmissione di conoscenze “segrete” – nel senso di non accessibili ai principianti – che riguardavano il divino. Oltre all’insegnamento pubblico ( demosia), che teneva presso il Museo o altrove nel centro della città, sappiamo di riunioni “private” ( idia), che teneva nella sua dimora, in un quartiere residenziale fuori mano, verde di giardini. Fu nel tragitto in carrozza tra l’uno e l’altra che venne aggredita e uccisa. La furia di Cirillo, che secondo la testimonianza delle fonti coeve fu il mandante del suo assassinio, venne scatenata proprio dalla scoperta di queste riunioni. Perché queste riunioni portavano Ipazia al centro della vita non solo culturale ma anche politica di Alessandria. Perché stringevano in un sodalizio non solo intellettuale ma anche politico le élite pagane della città, convertite al cristianesimo per necessità, dopo che i decreti teodosiani lo avevano proclamato religione di Stato, ma unite dalla volontà di conservare le proprie tradizioni e convinzioni: quell’”educazione ellenica” che si chiamava ancora paideia, quel “modo di vita greco” che il discepolo prediletto di Ipazia, Sinesio, definiva «il metodo più fertile ed efficace per coltivare la mente».



    Alle riunioni di questa sorta di massoneria in cui la classe dirigente alessandrina, pagana, cristiana e forse anche ebraica, si stringeva per fare fronte al cambiamento e tutelare i propri interessi nel trapasso dall’una all’altra egemonia di culto e pensiero, partecipavano anche i membri della classe dirigente inviati dal governo centrale di Costantinopoli. «I capi politici venuti ad amministrare la polis erano i primi ad andare ad ascoltarla a casa sua. Perché, anche se il paganesimo era finito, il nome della filosofia sembrava ancora grande e venerabile a quanti avevano le massime cariche della città». Anche il prefetto augustale Oreste apparteneva a quella cerchia più riservata, se non segreta, in cui Ipazia prodigava insegnamenti che le valevano gli appellativi sacerdotali di “madre, sorella, maestra, patrona”, “supremo giudice”, “signora beata dall’anima divinissima” che leggiamo riferiti a lei nell’epistolario di Sinesio. A quella cerchia Ipazia impartiva, insieme agli altri tipici delle accademie platoniche, un insegnamento sommesso particolarmente utile in quei tempi di transizione. Non era necessario tradire la propria fede o buona fede per convertirsi. L’Uno di Plotino e il Dio dei cristiani potevano identificarsi. Le religioni non dovevano lottare tra loro perché non differivano l’una dall’altra se non in dettagli fiabeschi destinati ai più semplici. I miti degli dèi dell’olimpo pagano, i dogmata o credenze “vulgate” dell’insegnamento cristiano, tra cui quella sulla resurrezione della carne, erano destinati a chi non era “filosofo”. «Riguardo alla resurrezione di cui tanto si parla sono ben lontano dal conformarmi alle opinioni del volgo», scrive in una delle sue lettere Sinesio, allievo di Ipazia ma anche vescovo cristiano di Tolemaide.
    Ipazia non era solo maestra e direttrice di coscienza dei quadri politici. Era una politica lei stessa. Le fonti la descrivono «eloquente e persuasiva (dialektike) nel parlare, ponderata e politica ( politike) nell’agire, così che tutta la città aveva per lei un’autentica venerazione e le rendeva omaggio». Lo stile dei suoi discorsi era così franco da essere secondo alcuni elegantemente insolente. Era spesso la sola donna in riunioni riservate agli uomini, ma la compagnia maschile non la metteva in imbarazzo né la rendeva meno impassibile e lucida nella sua dialettica. Ipazia interveniva in senso pacificatore negli affari della città e principalmente nelle lotte religiose che la insanguinavano. Difendeva, influenzando direttamente in questo il prefetto augustale Oreste, i diversi gruppi dai tentativi delle fasce fondamentaliste di ciascuno di sopraffare gli altri. In particolare, poco prima di venire assassinata, aveva difeso l’antica comunità ebraica di Alessandria dal devastante pogrom ordinato da Cirillo, la cui azione politica aveva due linee ben precise: la lotta economica contro gli ebrei, che dominavano il trasporto del grano da Alessandria a Costantinopoli, e la tendenza a «erodere e condizionare il potere dello Stato oltre ogni limite mai concesso alla sfera sacerdotale», come riportano le fonti. Solo questo la tolleranza filosofica di Ipazia non tollerava, e su questo l’Ipazia politica era inflessibile quanto era flessibile l’Ipazia filosofa: l’ingerenza di qualunque chiesa sul potere laico dello Stato. Bastò questo, con ogni probabilità, a motivare il suo assassinio, che fu a tutti gli effetti un assassinio politico. Nulla a che fare con la scienza o con il femminismo o con gli altri vari feticci in cui la storia del pensiero o della letteratura o della poesia, sempre guidata dal demone dell’attualizzazione e dal fantasma dell’ideologia, ha via via trasformato in sedici secoli il suo volto, irrigidendolo in tratti tanto schematici quanto lontani dalla verità, sovrapponendo un intrico di definizioni a quell’unica ancorché non universalmente accessibile parola che gli antichi riferivano a lei: filosofia.



    Il rogo di Ipazia è stato da alcuni considerato il primo esempio di caccia alle streghe dell’inquisizione cristiana. In effetti il proselitismo armato di Cirillo contraddiceva in pieno la pur astratta idea di tolleranza propugnata cento anni prima dall’editto di Costantino del 313, così come la tendenza conciliatoria del cristianesimo con il paganesimo d’élite che il primo imperatore cristiano aveva appoggiato politicamente e sancito giuridicamente. Cirillo, rivendicando l’accesso della chiesa alla conduzione della politica, aspirava a un vero e proprio potere temporale, più vicino al promiscuo modello del papato romano che alla rigorosa separazione dei poteri sancita dal cesaropapismo bizantino.
    Anche per questo, forse, la posizione ufficiale della chiesa di Roma, malgrado la gravità e la natura quasi terroristica dell’antico assassinio di Ipazia, non ha mai voluto mettere in discussione Cirillo, la sua santità, la sua probità. Ancora a fine Ottocento Leone XIII lo ha proclamato dottore della chiesa. Nella celebrazione che ne ha fatto nel 2007 Benedetto XVI ha elogiato “la grande energia” del suo governo ecclesiastico. Più recentemente, una chiesa di San Cirillo Alessandrino è stata edificata a Roma nel quartiere di Tor Sapienza. Oggi nelle vicinanze di quella chiesa si inaugura il giardino che l’Ufficio Toponomastico del Comune di Roma ha dedicato a Ipazia, accogliendo una petizione che non solo chiedeva di intitolarle uno spazio pubblico, ma di individuarlo proprio in quell’area. Perché la tolleranza laica non impedisce certo di continuare ad annoverare tra i santi del calendario un integralista condannato come assassino dal tribunale della storia. Ma i fedeli cristiani hanno il diritto di ricordare la sua antica vittima e la spirale di conseguenze dell’intolleranza religiosa.

    (SILVIA RONCHEY, Repubblica.it)



    Edited by gheagabry - 11/3/2017, 20:15
     
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    La donna celtica cammina in pace,
    ma porta con sé, inosservate, le sue armi.
    Si considera come una parte della ragnatela del creato
    Ma anche una persona unica e degna di grande valore.
    Ama e rispetta la famiglia, gli amici, la comunità
    Ma trova ispirazione nella solitudine.
    Sa comandare, ma sa anche quando lasciarlo fare agli altri.
    Lavora per imparare, per insegnare, per condividere
    e mantenere i segreti, per cambiare restando uguale a se stessa,
    per essere umana e divina.
    Il pianeta ha bisogno di donne celtiche, che portino dentro di sé
    un inesauribile calderone pieno di forza interiore
    un utero da cui possa nascere un mondo nuovo e migliore.
    (Edain McCoy, Celtic Women Sprirituality)



    DONNE CELTICHE





    Nell’antica società celtica l’elite intellettuale era composta da druidi e druidesse dalle svariate conoscenze. La loro formazione durava circa vent’anni e consisteva nella memorizzazione di letteratura, poemi, storia, legge e astronomia.
    Spesso si è osservato che le fonti antiche non parlano di donne quali sacerdotesse o veggenti, fonti antiche che sono per lo più osservatori romani che paiono non far caso al ruolo delle donne celtiche nel potere tranne che nel caso di Tacito che finalmente nel I° secolo asserisce “i celti non fanno distinzione tra ruoli maschili e femminili”.
    Successivamente la leggenda ha mistificato molti dei ruoli femminili nella società celtica antica dando loro poteri mistici e stili di vita talmente straordinari da risultare alla fine troppo eccessivi per essere veri.
    Il risultato è che è molto difficile per noi oggi sapere se veramente queste donne avessero del potere o se fossero almeno druidesse.
    Donne come Boudica, Onomaris e altre donne di ruolo importante ma senza nome le cui tombe sono state trovate a Vix e Reinham mostrano che la donna celtica poteva avere anche più potere dell’uomo anche se le prove rimangono difficili da decifrare.
    E’ comunque accertato che il ruolo della donna era nettamente diverso da quello riservatole, nelle stesse epoche, da altre società. Ricoprivano qualsiasi ruolo, pare che donne-guerriero furono presenti tra i Celti fino al IX secolo poi furono bandite per legge, ma in alcune sepolture sono state trovate armi e armature; inoltre secondo la leggenda a istruire nelle armi Cu Chulainn fu una donna: Scathacht.



    La donna poteva ereditare, quindi se aveva possedimenti maggiori del marito diventava automaticamente capo famiglia. Poteva anche avere figli da uomini diversi senza alcun problema dato che la successione era matrilineare.
    Oltre all’esempio famosissimo di Boudicca, Plutarco nel “De mulierum virtute” cita altre due donne estremamente combattive: Chiomara e Camma.

    Chiomara regina-guerriera

    La regina Chiomara, moglie di Ortagion della tribù degli Tolistoboii è raccontata anche dallo storico Polibio il quale ci dice che la sua tribù era alleata dei galati contro lo strapotere di Roma nel periodo del 189 a. C. circa.
    Chiomara durante un combattimentimento venne catturata dai romani e successivamente rapita da un centurione il quale chiese un riscatto a Ortagion, avendo scoperto il rango elevato della donna.
    Lo scambio si svolse sulla riva di un fiume, ma mentre il centurione si abbassava per prendere l’oro Chiomara lo decapitò e donò la testa al marito sostenendo che fosse una buona cosa che fosse in vita un solo uomo in intimità con lei. Polibio sostiene di aver avuto una conversazione con lei a Sardis e ne sottolinea il buon senso e l’intelligenza.



    Camma

    Sempre Plutarco ci narra la storia di questa giovane; Camma era la giovane moglie di Sinatos, tetrarca della Galazia, famosa per la sua bellezza e la sua virtù, amava molto il marito e si dedicava completamente a lui. La sua bontà e la sua dolcezza la resero famosa e amata. Ciò che la rendeva ancor più famosa era il fatto che fosse una sacerdotessa di Artemide, divinità molto rispettata e venerata dai galati. Synoirx, lontano parente di Sinatos e tetrarca lui stesso, la vide e se ne invaghì e per poterla avere senza violenza pensò di ucciderle il marito. Senza lasciar passare troppo tempo chiese la mano di Camma che però si chiuse nel tempio a pregare e a pensare a come vendicarsi. Dopo molto tempo, molte preghiere e molte pressioni da parte di parenti e amici, Camma acconsentì a sposare Synorix.
    Lo fece chiamare per dichiararsi davanti alla Dea, lo accolse gentilmente e lo accompagnò all’altare dove li attendeva una coppa di idromele per suggellare l’unione; l’idromele però era avvelenato, preparato da lei stessa.
    Camma ne bevve una lunga sorsata e invitò Synorix a fare lo stesso e dopo che lui ebbe bevuto scoppiò in una risata isterica e si prostrò davanti alla Dea: “Mi sei testimone, è per vedere questo giorno che sono sopravvissuta alla morte di Sinatos, senza trovare nella vita nulla di buono che non fosse la vendetta. Ora che l’ho avuta, torno dal mio sposo.
    Per te, più esecrabile degli uomini invece che il talamo nuziale si preparerà la tomba”.

    Altre donne sono passate attraverso i filtri censori dei narratori, ma per lo più relegate nel mito come Fedelma druidessa e consigliera della regina Medb della corte di Connacht, la quale le predisse la vittoria su Cu Chulainn e le confermò i poteri di Scathach colei che aveva addestrato Cu Chulainn alle armi.

    L’introduzione della religione cristiana viene indicata dalla professoressa Margaret Minor come la fine dell’egualitarismo della società celtica.
    Le donne non poterono più avere alcun ruolo di potere e furono obbligate a “rientrare nei ranghi”
    “le donne druido furono ridotte, nelle storie antiche, al rango di figure demoniache simili alle streghe” (Ellis, Celtic women, p.221).



    La tomba trovata a Vix in Francia ha scatenato molte discussioni sul ruolo della donna nella società celtica. La tomba è datata tra il VI e il V secolo a.C. e se per alcuni è semplicemente la tomba di una principessa, altri hanno affermato essere una druidessa, è certo comunque, data l’opulenza dei reperti, che in effetti la donna avesse raggiunto alti livelli di autorità all’interno della sua comunità. Molti gioielli d’oro sono stati ritrovati indossati dalla donna e che erano segno, anche per le forze dell’altro mondo, che la persona era di elevato rango sociale. Ed è soprattutto per questa ragione che si potrebbe facilmente sostenere la teoria che fosse anche una druidessa di grande potere, tanto da doverlo esibire anche agli dei in una vita successiva.
    Nell’area di Vix successivamente sono stati ritrovati diversi altri tumuli eretti in onore di principesse (es. il tumulo di Sainte-Colombe), tutte riccamente agghindate con importanti gioielli, tanto da far dire al prof. Moscati che in alcuni casi risultano “persino più magnifiche di quelle della maggioranza dei capi guerrieri loro contemporanei” (I Celti – S. Moscati - Bompiani 1991).
    (Mikayla,celticword)




    Boudica (o Boadicea)

    Britannia 33? - 60-61?





    La storia di Boudica è documentata solo attraverso tre resoconti scritti che si possono considerare fonti ufficiali, uno dei quali è noto solo nella traduzione di 900 anni successiva. I primi due sono di Tacito (55 d.C. – 120 d.C.): l’Agricola, biografia del suocero composta nel 98 d.C., e gli Annali, di circa 15-20 anni dopo. La terza fonte è Dione Cassio (163 d.C.- 235 d.C.), e ci è pervenuta attraverso i compendi redatti a fini divulgativi nella seconda metà dell’XI secolo dal monaco Sifilino di Trapezunte (oggi Trebisonda).
    La sua vicenda si snoda intorno alla metà del I secolo, e il suo nome Boudica, secondo la storia, o Boadicea, secondo la leggenda, ha probabilmente origine dal gallese bouda, vittoria. Di stirpe reale, nel 49 d.C. è già sposa del re degli Iceni, popolo di origine celtica che vive nei territori che oggi corrispondono grossomodo al Norfolk e al Suffolk settentrionale. Questo popolo, già da un secolo spontaneamente sottomesso ai Romani, tenta una ribellione intorno al 49–50 d.C., senza ottenere alcun successo. Il re Prasutago riesce comunque a mantenere per il suo popolo la condizione di tribù semi-indipendente, ovvero di Stato satellite il cui capo aveva nei confronti di Roma diritti e doveri precisi. Morto nel 60, il re lascia le sue terre e i suoi possedimenti personali in parte all’imperatore di Roma e in parte alla moglie, che avrebbe dovuto curarne la tutela per le figlie. Probabilmente in questo modo sperava di garantire una successione pacifica.
    Ma per volontà del procuratore romano Cato Marciano, amministratore capo della provincia, vengono confiscati e annessi non solo tutte le proprietà ed il tesoro del re, ma anche quelli dei notabili e dei membri della corte: «tanto il regno quanto la casata furono saccheggiati quasi fossero bottino di guerra» (Tacito).
    Boudica protesta con forza: per tutta risposta, i Romani la umiliano esponendola nuda in pubblico e frustandola, mentre le giovani figlie vengono stuprate (Tacito). Purtroppo i nomi di queste due fanciulle ci sono ignoti. Gli storici danno spesso per scontato che una qualche provocazione da parte degli Iceni abbia preceduto la brutalità dei Romani nei confronti delle donne della famiglia di Prasutago. Ciò è possibile, data la naturale inclinazione degli Iceni alla ribellione, ma Tacito non ne parla. Anzi, specifica proprio quanto queste crudeltà abbiano indotto gli Iceni a prendere le armi.
    Così nel 60 o 61, mentre il proconsole romano Gaio Svetonio Paolino conduce la sua campagna contro i druidi dell'isola di Anglesey (Galles settentrionale), gli Iceni e i loro vicini, i Trinovanti, si ribellano sotto la guida di Boudica, furiosa per l'affronto subito e desiderosa di vendetta.
    Dione Cassio la descrive così: una gran massa di capelli fulvi che le scendono fino alla cintola, alta statura quasi spaventevole a vedersi, espressione feroce, voce straordinariamente aspra, una lancia in pugno per apparire ancora più terribile, vestita di una tunica di diversi colori e mantello fermato da una spilla.
    Il discorso che Boudica fa al proprio popolo è stato non poco maltrattato dagli storici e non vale la pena di riportarlo. È invece interessante il gesto che le viene attribuito alla fine del discorso, allorché libera una lepre che tiene nascosta tra le pieghe dell’abito, come una specie di presagio. La folla vede l’animale imboccare nella fuga la direzione propizia ed esplode in grida di giubilo, poiché evidentemente si tratta di un auspicio favorevole alla rivolta.
    Poi Boudica si rivolge a una dea «ti ringrazio, Andraste, e a te mi rivolgo come donna che parla ad una donna». Questa dea, della quale non sono note altre invocazioni, è probabilmente una divinità femminile delle popolazioni della Gallia sudorientale e una generica dea della vittoria venerata dai Britanni. Fatto sta che quando libera la lepre e invoca la dea, Boudica assume su di sé i ruoli di sacerdotessa, profetessa e condottiera; diventa, insomma, una figura di santa, armata, ispiratrice.
    Ecco dunque Boudica, regina e condottiera degli Iceni, piombare con il suo carro sulla sventurata Camulodunum, l’odierna Colchester, cittadina sorta circa 12 anni prima non come postazione militare, ma come insediamento di veterani dell’esercito. Poiché gli ex militari avevano cacciato gli abitanti delle “colonie” dalle proprie case e li avevano dichiarati prigionieri e schiavi, trattandoli molto duramente, c’era in quei luoghi grande risentimento nei confronti dei Romani.
    Fu l’apparente repentinità dell’attacco alla città indifesa a determinare le tragiche conseguenze, ma l’attacco dei Britanni non avrebbe dovuto cogliere i Romani di sorpresa né la città avrebbe dovuto trovarsi così completamente sguarnita. Il tempio sopravvive due giorni al saccheggio della città. Qui si erano rifugiati i veterani in un ultimo, disperato tentativo di resistere fino all’arrivo dei rinforzi, che non arrivarono mai. Sono state rinvenute armi e armature evidentemente da tempo fuori uso perché incrostate di ruggine, che quei vecchi soldati dovevano aver precipitosamente tirato fuori ed indossato. Il tempio sfarzoso viene raso al suolo ed incendiato, i veterani e le loro famiglie trucidati.
    Scrisse Dione Cassio «E, per giunta, questa rovina venne ai romani da una donna, fatto che causò loro la più grande vergogna».
    L'esercito ribelle incendia e rade al suolo anche Londinium (Londra), abbandonata a sé stessa da Paolino, il quale non ha sufficienti truppe per affrontare i ribelli. La stessa sorte tocca poi a Verulamium (oggi St. Albans).
    Riorganizzate le truppe, Paolino si scontra con Boudica nella battaglia di Watling Street (ubicazione non ancora identificata con certezza). Nonostante fossero inferiori di numero, i Romani, sfruttando la loro superiorità tattica sconfiggono i ribelli. Boudica non muore sul campo di battaglia, ma si suicida poco dopo, probabilmente avvelenandosi. Resta invece ignota la sorte delle figlie.
    E’ singolare che nella memoria di Boudica sia stato epurato il suo esser guerriera, la violenza che fu in grado di scatenare. Boadicea, come è giusto chiamarla ora in riferimento alla futura leggenda, viene spesso raffigurata come eroina partigiana di grande nobiltà d’animo, solo idealmente combattiva. Nelle figurazioni monumentali - quali quella sul ponte del Tamigi, proprio di fronte al Big Ben - appare sul temibile cocchio falcato (peraltro mai esistito), ma da quel cocchio non la vediamo mai scendere per metter fine, di persona, ad una vita romana.
    (Paola Busolo)




    E' da due grandi autori dell'antichità, lo storico latino Tacito, negli “Annali” e nell’”Agricola”, e lo storico greco Dione Cassio, nella “Storia romana”, sche possiamo ricavare informazioni riguardo alla regina-guerriera Boudica, la famosa donna che assommò in sé l’autentica cifra delle donne celte, ma , in generale, dello straordinario popolo dei Celti: la fierezza.
    Boudica (Vittoria), spesso erroneamente ortografata con due “c”, Boudicca, chiamata anche Budiga o Boadicea, di cui si ignorano le origini, probabilmente, però, nobili, era alta, bella, con lunghi capelli fiammeggianti, intorno al collo portava il torquis, la pesante collana celtica considerata simbolo di nobiltà e del legame con l’aldilà; coraggiosa e fiera, incitava gli uomini alla battaglia, spostandosi sul carro ( per i Celti simbolo di potere e poderosa arma di battaglia per la velocità e la notevole capacità di penetrazione in battaglia fra le schiere avverse).


    Era di statura imponente, dall’aspetto terribile, di sguardo lampeggiante ferocissimo e di voce glaciale; una gran massa di capelli fulvi le calava sulle spalle; intorno alla sua gola c’era una grossa collana d’oro e indossava una tunica di vari colori con sopra un mantello fermato da una fibbia. Questo era il suo invariabile abbigliamento.
    (Dione Cassio, “Storia romana”, 62.3-6)


    Boudica era la sposa di Prasutagus, re di una potente tribù, gli Iceni, le cui terre si trovavano nell’Inghilterra orientale, nelle odierne contee di Norfolk e Suffolk, che si era sottomesso all’imperatore Claudio. Quando Prasutagus morì, nel 60 d.C., senza eredi maschi, lasciò tutte le sue ricchezze alle due figlie e all'imperatore Nerone, sperando, così, di ottenere protezione per la sua famiglia, ed invece i Romani, per annettersi il regno, occuparono e saccheggiarono i suoi territori ed umiliarono la sua famiglia, picchiando la moglie e stuprando le figlie; allora Boudica si armò contro gli invasori.
    Il re degli Iceni, Prasutago, famoso per un’ opulenza che risaliva a molti anni, aveva lasciato come suoi eredi due figlie e l’imperatore, pensando che con tale atto d’omaggio egli avrebbe preservato il suo regno e la sua famiglia da ogni offesa. Accadde, tuttavia, il contrario, al punto che il regno fu devastato dai centurioni, la casa dei servi, come se si fosse trattato di preda di guerra. La moglie di lui, Budicca, fu bastonata e le figlie furono violentate…
    (Tacito, “Annali”, 14. 31)



    Budicca, portando sul carro dinnanzi a sé le due figlie, scorreva le file e a ciascuna delle genti alle quali si avvicinava dichiarava che era pur consuetudine per i Britanni combattere agli ordini di donne, ma che in quel momento essa non voleva vendicare, come discendente di nobili antenati, la perdita del regno e delle ricchezze, ma, come una donna qualunque, chiedeva vendetta per la perdita della libertà, per l’offesa recata al suo corpo fustigato, per il violato pudore delle sue figlie. Le brame dei Romani erano giunte a tal punto da non lasciare inviolati né i corpi, né la vecchiezza, né la verginità. Era pur giunta l’ora delle giuste vendette degli dei; la legione che aveva osato attaccare battaglie era stata tagliata a pezzi, gli altri stavano nascosti negli accampamenti, o spiavano la possibilità di una fuga. I Romani non avrebbero neppure potuto sopportare il fragore e le grida di tante migliaia d’uomini, e neppure la violenza degli assalti; se i Britanni avessero considerato la forza dei loro eserciti e le ragioni della guerra, avrebbero dovuto, in quella battaglia, o vincere o morire. Questo, lei, donna, aveva comandato a sé; gli uomini conservassero pure la vita e si piegassero a servire.
    (Tacito, “Annali”, 14. 35)


    … sotto il comando di Budicca, donna di stirpe regia (essi, infatti, nel conferimento del supremo potere non badano al sesso).
    (Tacito, “La vita di Agricola”, 1. 16)




    Desiderosa di giustizia, per lavare l’oltraggio subito, ed anche per ribellione contro le continue vessazioni dei Romani, Boudica organizzò un grande esercito, con il quale riuscì a cacciare i nemici da Camulodunum (Colchester) e a riprendersi Londinium (Londra) e Verulanium (St. Albans); ben presto, però, i nemici si riorganizzarono e riconquistarono il suo regno, falcidiando 80.000 dei 100.000 britannici (i Romani, invece, persero 400 uomini su 1.200).
    Costretta ad arrendersi, fu condotta in carcere, ma qui, pur di non sottomettersi ai nemici, si uccise, ingerendo del veleno.
    E la mitica regina guerriera, che tanto aveva colpito i due grandi autori latini per il coraggio “virile”, amata ai nostri giorni dalle femministe per l’ardente sete di libertà, considerata nei libri scolastici inglesi una delle eroine della patria, conosciuta come la prima regina d'Inghilterra, immortalata trionfante, insieme alle figlie, mentre guida il suo carro da guerra, in una statua in bronzo (eretta nel 1902, opera dello scultore Thomas Thorneycroft), che troneggia, oggi, sul Tamigi, a Londra, ai piedi del Big-Ben, all’estremità nord del ponte di Westminster, non ha mancato di regalare altre emozioni quando, nel 2004, nei dintorni di Hunstanton, a Norfolk, è stato ritrovata la seconda parte (la prima era stata ritrovata 40 anni prima) di una collana che gli storici ritengono appartenuta proprio a lei.





    Edited by gheagabry - 19/4/2012, 22:36
     
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