DONNE...CONTROCORRENTE

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  1. gheagabry
     
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    Secondo quanto ci viene tramandato, è nell’ambito della scuola pitagorica (VI sec. A.C.) che le donne fecero la loro prima apparizione come seguaci e praticanti di filosofia. Giamblico(251-325 d.C.), nella sua Vita pitagorica, parla di ben 17 discepole di Pitagora! Intorno al 440 a.C., si distinse Aspasia di Mileto, che fu l’amante di Pericle e la sua casa fu il centro della vita letteraria e filosofica dell’Atene del V secolo.Tra le donne che fecero professione di filosofia incontriamo Diotima ,sacerdotessa di Mantinea. E’ famosa perché viene soprattutto ricordata in un dialogo platonico, il Simposio (201 d – 212 c), in cui Socrate dice di aver appreso da lei la teoria dell’amore.

    Diogene Laerzio ci parla di Ipparchia, che aderì alle teorie dei Cinici. Di lei viene esaltata la grande cultura filosofica e l’eleganza del ragionamento, paragonandola addirittura a Platone. Piuttosto discussa è la figura di Leonzia (Leonzio o Leontina) ,forse cortegiana di Epicuro, si dice abbia scritto una invettiva contro un altro celebre filosofo, Teofrasto.

    Comunque, la più rilevante figura di filosofa che viene tramandata dall’antichità greca è quella di Ipazia, di tendenze neoplatoniche, morta verso il 415 d.C. Fu figlia del matematico e astronomo Teone di Alessandria e si interessò lei stessa di scienze. Si recò ad Atene ed ebbe una notevole influenza negli ambienti filosofici unificando il pensiero matematico col neoplatonismo. Di religione pagana, ma fautrice della distinzione e autonomia fra filosofia e religione, acquistò prestigio anche negli ambienti politici, frequentando il prefetto romano Oreste. Ciò le attirò il rancore degli ambienti cristiani e un giorno Ipazia fu aggredita per strada e uccisa da un gruppo di fanatici. L’episodio della drammatica morte della donna ha colpito scrittori di diverse epoche: il più recente è stato Charles Péguy(1873-1814),che l’ha immortalata come l’ultima e pura erede del pensiero greco.

    Nel mondo romano vi fu ad esempio Plotina, consorte dell’imperatore Traiano (53-117 d.C.), che fu seguace della scuola epicurea e ne favorì il rilancio a Roma.
    (Ernesto Riva)



    IPPARCHIA

    Nacque a Maronia, località molto vicina all'attuale Tracia orientale, per poi trasferirsi, insieme alla sua famiglia, ad Atene. Sorella del cinico Metrocle, originaria di una famiglia di buona condizione, minacciò di uccidersi se non le fosse stato consentito di sposare il filosofo cinico Cratete di Tebe. Secondo Diogene Laerzio, Cratete, non riuscendo a dissuaderla,

    « toltisi i vestiti, di fronte a lei, disse: Lo sposo è questo; questi i suoi averi. Prendi una decisione in base a questo.
    Costui, infatti, non potrà essere tuo sposo, se non acquisirai anche il suo stesso modo di vivere. »

    (Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, a cura di Giovanni Reale, 2005, Bompiani, Milano, ISBN 88-452-3301-4)

    Nell'Antologia Palatina (VII, 413), è riportato un epigramma che la riguarda:

    « Io, Ipparchia,
    non scelsi opere di donne dalle ampie vesti,
    ma la dura vita dei cinici,
    non ebbi scialli ornati di fibbie,
    né alte calzature orientali,
    né retine splendenti nei capelli,
    ma una bisaccia col bastone,
    compagna di viaggio e adatta alla mia vita,
    e una coperta per giaciglio. »


    In un simposio, avrebbe confutato Teodoro l'ateo con questo ragionamento:

    « Se ciò che Teodoro fa non è ingiusto, neanche fatto da Ipparchia sarà ingiusto. Se Teodoro, colpendosi, non commette un'ingiustizia, neanche Ipparchia, colpendo Teodoro, commetterà ingiustizia. »

    Al rimprovero di questi di aver abbandonato i lavori dei telai, rispose di aver messo a frutto il tempo per la propria educazione, anziché sprecarlo nei telai




    “Quando ti vedo mi prostro davanti a te, alla tua parola, vedendo la casa astrale della Vergine, infatti verso il Cielo è rivolto ogni tuo atto, Hypatia sacra, bellezza della parola, astro incontaminato della sapiente cultura” (Pallada).



    Ipazia

    Alessandria d'Egitto 370 ca. - 415



    Alla morte del padre Teone, matematico-astronomo, Ipazia ne eredita legittimamente il posto a capo della scuola neoplatonica d’Alessandria. Invece non prende marito, sentendosi già «sposata alla verità». I suoi scritti sono andati perduti, ed è difficile ricostruirne il pensiero; sono piuttosto le testimonianze dei contemporanei a dare notizia della sua fama. Sinesio, lo studente venuto da Cirene e futuro vescovo di Tolemaide la chiama «madre, sorella, maestra e benefattrice», e le fonti la ritraggono come una scienziata e filosofa dai talenti insoliti che partecipa attivamente alla vita politica: «Per la magnifica libertà di parola e di azione che le veniva dalla sua cultura, accedeva in modo assennato anche al cospetto dei capi della città e non era motivo di vergogna per lei lo stare in mezzo agli uomini: infatti, a causa della sua straordinaria saggezza, tutti la rispettavano profondamente e provavano verso di lei un timore reverenziale», lo scrive Socrate Scolastico. A un secolo di distanza Damascio , che pure la considera «inferiore in quanto donna» e quindi inadatta alla filosofia, esprime lo stesso giudizio: «di natura più nobile del padre, non si accontentò del sapere che viene attraverso le scienze matematiche a cui era stata introdotta da lui ma, non senza altezza d'animo, si dedicò anche alle altre scienze filosofiche. La donna, gettandosi addosso il mantello e uscendo in mezzo alla città, spiegava pubblicamente a chiunque volesse ascoltarla Platone o Aristotele o le opere di qualsiasi altro filosofo... era pronta e dialettica nei discorsi, accorta e politica nelle azioni, il resto della città a buon diritto la amava e la ossequiava grandemente, e i capi, ogni volta che si prendevano carico delle questioni pubbliche, erano soliti recarsi prima da lei, come continuava ad avvenire anche ad Atene. Infatti, se lo stato reale della filosofia era in completa rovina, invece il suo nome sembrava ancora essere magnifico e degno di ammirazione per coloro che amministravano gli affari più importanti del governo».
    Se poco si sa della vita di Ipazia, non mancano i dettagli circa la sua morte. La distruzione dei templi ellenici voluta dall’imperatore Teodosio I (al tramonto del IV secolo) è messa diligentemente in atto dal vescovo Teofilo. Questo attacco così altamente simbolico, è seguito da un breve periodo di tregua, che vede Ipazia ancora libera e influente. A Teofilo, morto nel 412, succede il nipote Cirillo, assai più bellicoso, il quale si dota di una milizia privata (i parabalanoi) e dopo uno scontro forse pretestuoso fra ebrei e cristiani, caccia gli ebrei dalla città. I pagani sanno che il loro turno sta per arrivare quando, nel 414 il prefetto Oreste, estimatore di Ipazia e inviso al vescovo, viene aggredito da un gruppo di monaci e ferito. Il colpevole è condannato a morte, ma Cirillo gli organizza funerali in pompa magna e lo proclama martire.



    Nel marzo 415 , un gruppo di monaci si apposta vicino alla casa di Ipazia, in attesa del suo rientro. «Tiratala giù dal carro, la trascinarono fino alla chiesa che prendeva il nome da Cesario; qui, strappatale la veste, la uccisero usando dei cocci. Dopo che l'ebbero fatta a pezzi membro a membro, trasportati i brani del suo corpo nel cosiddetto Cinerone, cancellarono ogni traccia bruciandoli».
    Socrate Scolastico, da cristiano, non incolpa il vescovo. Lo fa Damascio, il filosofo pagano per il quale Cirillo «si rose a tal punto nell'anima che tramò la sua uccisione, in modo che avvenisse il più presto possibile, un'uccisione che fu tra tutte la più empia».
    Da allora Ipazia scompare dalla storia, se non per prestare alcune sue doti a santa Caterina di Alessandria. Nel Settecento, ricompare in una disputa tra cattolici ed anglicani inglesi: di facili costumi - per i primi (che ci faceva, altrimenti, per le strade di Alessandria?), vittima del fanatismo per i secondi, così come nella voce Eclectiques , dell’Encyclopédie e per per Voltaire, Henry Fielding, Edward Gibbon e altri Illuministi.
    Nel poema epico Ipazia o delle filosofe (1827), la contessa Diodata Saluzzo Roero tenta di ribaltare questa interpretazione. La sua Ipazia si converte al cristianesimo e muore da santa: «languida rosa sul reciso stelo/Nel sangue immersa la vergine giacea/Avvolta a mezzo nel bianco suo velo/Soavissimamente sorridea/Condonatrice dell’altrui delitto/Mentre il gran segno redentor stringea».
    Similmente di bianco vestita, ma viva e fieramente pagana, l’aveva descritta in due delle sue “poesie antiche” il poeta rivoluzionario Leconte de Lisle, in - Hypatie - per colpa di un uomo nato in Galilea, lo «spirito di Platone e il corpo d’Afrodite» erano «partiti per sempre nei bei cieli dell’Ellade»; in Hypatie et Cyrille - invece, il vescovo alla filosofa può offrire solo la scelta fra tra il silenzio e la vita.
    La questione della libertà di pensiero femminile, e di azione, in rapporto all’autorità politica e religiosa resta scabrosa: Ipazia compare nel teatro e nel romanzo dell’Otto e del Novecento, forse anche - suo malgrado - perché facilmente le calzano i tratti della martire eroica, tanto più martire quanto più la sua autorevolezza intellettuale è indiscussa. Marcel Proust (All’ombra delle fanciulle in fiore), Umberto Eco (Baudolino), Hugo Pratt in un album di Corto Maltese le rendono omaggio, mentre prendono il suo nome associazioni di femministe, filosofe e scienziate. Nel XXI sec. l’autonomia femminile, come quella della ricerca scientifica, resta contrastata dalla medesima autorità, e Ipazia non cessa di ispirare saggi, romanzi e polemiche come quelle attorno al film, del regista spagnolo Alejandro Amenàbar, Agorà.
    (Sylvie Coyaud)




    Su di lei non vi sono dati sicuri, non essendoci rimasto alcuno scritto: sono citati solo tre titoli di tre opere di matematica e di astronomia, trovati nella Biblioteca Vaticana nel Quattrocento: Commentario alla Aritmetica di Diofanto, Commentario al Canone astronomico e Commentario alle sezioni coniche d'Apollonio Pergeo, considerato il suo capolavoro All'insegnamento delle scienze esatte è certo che aggiunse quello della filosofia, commentando Platone, Aristotele e i filosofi maggiori.
    Il suo discepolo più illustre fu Sinesio di Cirene, filosofo neoplatonico, poeta e oratore, che poi divenne, forse tradendo l'insegnamento di Ipazia, vescovo cristiano di Tolemaide. Dopo la morte di Ipazia egli cercherà di fondere le dottrine gnostiche con quelle neoplatoniche, senza tuttavia perdere mai di vista la fondamentale concezione platonica alla quale si attenne da vicino in due opuscoli: uno "sugli Egizi", dove espose in forma allegorica le condizioni della corte di Costantinopoli, l'altro "sui Sogni" in cui sostenne la possibilità di servirsi del sogno a scopo divinatorio.
    Insegnava come Socrate per le strade e il prefetto romano Oreste si diceva che cercasse il suo consiglio nelle questioni di carattere pubblico e che addirittura fosse suo discepolo. Ipazia non teneva il suo sapere per sé, né lo condivideva soltanto con i suoi allievi. Al contrario, lo dispensava con grande liberalità a chiunque e per questo si conquistò grande considerazione fra i suoi concittadini. Ipazia insegnò ininterrottamente ad Alessandria per più di vent’anni.
    Molto importante per la sua formazione culturale fu un viaggio compiuto ad Atene, ove si aggregò alla scuola teosofica di Plutarco.

    Ipazia vedeva nel cristianesimo soprattutto il fanatismo e la violenza, in quanto il vescovo Teofilo aveva fatto distruggere, oltre a vari monumenti della civiltà greco-orientale, anche il famoso tempio di Serapide e l'annessa biblioteca.
    Seguace di un sistema eclettico di filosofia, Ipazia può essere considerata come una gnostica che cercò di difendere la rinascita del platonismo contro il cristianesimo. I neoplatonici, che si diffusero dal III al V sec., volevano la fusione di tutte le chiese in un unico organismo a sfondo più filosofico che teologico, o se vogliamo più intellettuale che ecclesiale.
    La scuola di Alessandria appartiene, stando alle fonti classiche, all’ultima grande corrente del neoplatonismo, fiorita tra la prima metà del V e la prima metà del VII secolo. La tendenza erudita, che aveva man mano acquistato rilevanza nelle scuole che la precedettero, era diventata qui prevalente, respingendo in secondo piano la speculazione prettamente metafisica. Il disinteresse per la costruzione della gerarchia emanatistica che era stata concepita nei suoi tre momenti della permanenza in sé, dell'uscita da sé e del ritorno in sé, aveva condotto all'abbandono di quel politeismo classico che in tale gerarchia era stato inquadrato, soprattutto ad opera della scuola siriaca.



    Dopo la morte del vescovo Teofilo, la cattedra vescovile fu occupata, nel 412, da suo nipote Cirillo, di idee fondamentaliste, specie contro i novaziani e i giudei, e che venne subito in urto col prefetto romano Oreste.
    Come noto il cristianesimo, che cessò d'essere perseguitato con l'editto di Costantino nel 313, diventando religione di stato con l'editto di Teodosio nel 380, iniziò a sua volta a perseguitare nel 392, quando furono distrutti i templi greci e bruciati i libri pagani. Vari scritti del cristianesimo primitivo, quali l'Epistola agli Ebrei, quella attribuita a Barnaba, la Didachè, secondo molti storici proverebbero che in Alessandria c'era una spiccata tendenza della stessa chiesa ufficiale verso lo gnosticismo. A questo tendenza intellettualistica aveva cercato di porre rimedio la scuola catechetica, ma la difesa non era stata condotta senza far gravi concessioni all'avversario, ammettendo, oltre all'interpretazione allegorica delle scritture, l'esistenza di una gnosi ortodossa, che rendeva perfetto chi la possedeva e l’innalzava al di sopra del semplice fedele.
    Cirillo si trova nella difficile situazione di porre un argine alla scuola catechetica che intreccia rapporti sempre più stretti con i rappresentanti neoplatonici alessandrini e la necessità di dettare la formula della retta fede in Oriente, in virtù di quella tradizione dottrinale che gli derivava da Demetrio. Ad Alessandria vi erano, allora, pagani e idolatri d'ogni culto, e cristiani di tutti gli scismi ed eresie, nonché una cospicua colonia di ebrei fatta oggetto di discriminazioni da parte dei cristiani. Gli ebrei, risentiti, si difesero e il patriarca Cirillo li cacciò dalla città saccheggiandone le sinagoghe. Il prefetto Oreste fece arrestare un seguace di Cirillo, sottoponendolo a pubblica punizione, ma una folla cristiana, per rappresaglia, ferì il prefetto. A motivo di ciò l'attentatore, che era monaco, fu giustiziato e Cirillo ne fece l'elogio come fosse stato martirizzato.
    Cirillo tentò di conciliarsi con Oreste, ma il tentativo fallì, forse anche a causa di Ipazia. Oreste invano sollecitava l'intervento dell'imperatore d'Oriente Teodosio II, il quale però era soggetto alla volontà della sorella Pulcheria, imperatrice di fatto e strettamente legata al cristianesimo di Cirillo.
    Cirillo, che mal sopportava la predicazione pagana di Ipazia, divenuta ad Alessandria la rappresentante più qualificata della filosofia ellenica, si convinse che l'ostacolo maggiore alla risoluzione della controversia fosse proprio lei. Pur non dando un espresso ordine, egli istigò il gruppo fanatico di monaci parabolani ed eremiti della Tebaide guidati da Pietro il Lettore a togliere di mezzo Ipazia. E così, dopo averla trascinata fino alla chiesa che prendeva il nome da Cesario, quasi volessero compiere una sorta di sacrificio umano, prima Pietro con una mazza ferrata, poi gli altri monaci con pugnali fatti di conchiglie, massacrarono il corpo di Ipazia e lo bruciarono. Era l'anno 415, il IV dell'episcopato di Cirillo.
    Gli assassini rimasero impuniti. Oreste chiese un'inchiesta; Costantinopoli non poté non concederla, e mandò ad Alessandria un tale Edesio, il quale non fece nulla, poiché si lasciò corrompere da Cirillo. Oreste ottenne soltanto dei provvedimenti per arginare l'ingerenza politica dei vescovi nei poteri civili. Cirillo in seguito verrà addirittura santificato come esempio di sicura ortodossia.
    Fu Damascio, filosofo neoplatonico (480/prima metà del sec.VI a.C.), quinto successore di Proclo nello scolarcato dell’Accademia, che per primo, nella Vita di Isidoro, incolpò Cirillo del delitto, arrivando addirittura a dire che prima di ucciderla le strapparono gli occhi dalle orbite. Nella Storia ecclesiastica dell'ariano Filostorgio, nato circa il 368 d.C. e dunque contemporaneo dei fatti narrati, si arriva a sostenere che l'assassinio non era opera di una amorfa folla fanatica, ma di quel clero cristiano che, ad Alessandria in modo particolare, voleva spadroneggiare su tutti. In ogni caso, la partenza frettolosa, successivamente, di molti dotti, segnò l'inizio del declino di Alessandria come il più grande centro di erudizione antica.
    Gli ultimi neoplatonici furono tolti di mezzo dall'imperatore Giustiniano, che chiuse la scuola platonica nel 529 d.C. Essi fuggirono in Persia presso Chosroe I, il quale era curioso di filosofia e garantì di professare liberamente il platonismo (531). Questo diritto fu addirittura sancito nel trattato di pace tra Giustiniano e Chosroe. E' degno di nota come, al crepuscolo ormai del pensiero greco, la libertà di filosofare venisse garantita ai Greci, contro il loro cristianissimo imperatore, dall'ultimo grande sovrano persiano, della dinastia dei Sassanidi.
    Ipazia viene ricordata, ancora oggi, come la prima matematica della storia, anzi, fu la sola matematica per più di un millennio: per trovarne altre, da Maria Agnesi a Sophie Germain, bisognerà attendere il Settecento. Ipazia fu anche l'inventrice dell'astrolabio, del planisfero e dell'idroscopio.
    Nel celebre affresco di Raffaello, La Scuola di Atene, l'unica figura femminile rappresentata è lei, che è anche l'unica filosofa, oltre all'autoritratto dell'autore, che guarda verso l'osservatore. Alcuni critici sostengono che il suo volto sia quello di Francesco Maria della Rovere.
    (homolaicus)




    Il Mistero avvolge, storicamente, la terrena vita di molte creature. La storiografia analizza minuziosamente, via via, biografie che riflettono, come da uno specchio di luce, enigmi che avvolgerebbero particolari soggetti venuti in essere, ad un certo punto del percorso evolutivo storico. Fu così che una fanciulla nella seconda metà del V secolo, vide rilucere nei suoi occhi cerulei l’aurora nella sapiente e popolosa città egizia di Alessandria, lambita dalle azzurre e violacee acque mediterranee. La stessa che nel futuro eone farà decantare sublimi versi al poeta Naguib Mahfour, nel 1976, declinando l’amore nei soavi sospiri: “Alessandria, finalmente! Alessandria goccia di rugiada. Esplosione di nubi bianche. Sei come un fiore in boccio bagnato dai raggi irrorati dall’acqua del cielo. Cuore di ricordi impregnati di miele, e di lacrime”.
    Della bella, affascinante fanciulla non è dato sapere, però, con precisione il suo genetliaco, cosa che rende, indiscutibilmente, più enigmatica tutta la leggenda, o storia, o racconto evolventesi tra una linea di verità e molte incertezze che sfumano, tuttavia, in una quanto oscura realtà. Una fonte sicura enuncia ch’ella sarebbe vissuta durante il regno di Arcadio – Flavio Arcadio imperatore di Bisanzio fino al 408, anno della sua dipartita – permettendo così di stabilire una cronologia storica oscillante tra il 355 ed il 368. In questo arco di tempo, dunque, dovrebbe aver fatto la sua comparsa terrena la rara ed eccellente creatura il cui nome suona come Hypatia di Alessandria.
    Secondo alcune epistole del suo allievo prediletto Sinesio, la morte di Hypatia sarebbe avvenuta non più tardi del 402. Certo è, ancora, che nel 393 Hypatia il filosofo sembra essere a capo dell’Accademia di matematica e filosofia di Alessandria, scuola precedentemente guidata dal Maestro Theone, padre della stessa Hypatia.
    Fonti certe di questa notizia provengono da Ammiano Marcellino (storico romano importantissimo di età Tardo imperiale 330/391) e da Sinesio di Cirene (370/413), suo discepolo come visto; filosofo, vescovo, scrittore bizantino, fu tra gli allievi più brillanti di Hypatia, tra i pochi che in verità anelavano al vero, concreto sapere senza riserve, ispirati a inseguire il pensiero filosofico e le arcane conoscenze, pur se presentandosi nelle vesti, insolite e rarissime, femminili.
    Ebbe a scrivere Socrate Scolastico (380/450), di religione cristiana, avvocato per professione, autore della Historia Ecclesiastica in sette libri: ”Ad Alessandria c’era una donna chiamata Hypatia, figlia del filosofo Theone, che otteneva tali successi nella letteratura e nella scienza da superare di gran lunga tutti i filosofi del suo tempo. Provenendo dalla scuola di Platone e Plotino lei spiegò i principi della filosofia ai suoi uditori, molti dei quali provenivano da lontano per ascoltare le sue lezioni”.
    Tra i molti uditori si trova lo stesso Sinesio di Cirene, il vescovo che citerà delle sue opere e vita. Il vescovo cristiano di Nikiu, Giovanni nella sua Cronaca, trova singolari parole, non troppo felici in vero, per descrivere la vita del filosofo donna: “In quei giorni apparve ad Alessandria un filosofo femmina, una pagana chiamata Hypatia, che si dedicò completamente alla magia, agli astrolabi e agli strumenti di musica, che ingannò molte persone con stratagemmi satanici”.





    Ipazia. La prima donna vittima di un delitto politico



    Nella primavera di sedici secoli fa, ad Alessandria d’Egitto, una donna fu assassinata. Fu aggredita per strada, spogliata nuda, trascinata nella chiesa «che prendeva il nome dal cesare imperatore», il Cesareo, come riferisce una delle fonti contemporanee ai fatti, lo storico ecclesiastico costantinopolitano Socrate Scolastico. Qui fu dilaniata con cocci aguzzi. Mentre ancora respirava le furono cavati gli occhi. Poi i resti del suo corpo smembrato vennero dati alle fiamme. A massacrarla furono fanatici cristiani, i cosiddetti parabalani, monaci-barellieri venuti dal deserto di Nitria, di fatto miliziani al servizio di Cirillo, allora potente e bellicoso vescovo della megalopoli d’Egitto fertile di grano e di intelletti, di matematica e poesia, musica, gnosi e filosofia. Il nome di quella donna era Ipazia e quel nome in greco evocava un’idea di “eminenza”. Chi fosse nei lati più segreti della sua eminente personalità e cosa avesse fatto per attirare su di sé la sadica violenza collettiva maschile che la uccise, non lo sappiamo quasi più. Sappiamo meglio chi non era, e di cosa certamente era incolpevole. Conosciamo le maschere che la propaganda o la fantasia o semplicemente l’incoercibile tendenza umana alla manipolazione e alla bugia hanno sovrapposto alla sua pura sembianza di filosofa platonica. La storiografia l’ha strumentalizzata, la letteratura l’ha trasfigurata e tradita: scienziata punita per le sue scoperte, eroina protofemminista, martire della libertà di pensiero, illuminista e romantica, libera pensatrice e socialista, protestante, massone, agnostica, vestale neopagana e perfino santa cristiana. Ma Ipazia non era nulla di tutto questo.



    Nell’Alessandria del V secolo, Ipazia apparteneva all’aristocrazia intellettuale della scuola di Plotino e dalla tradizione familiare aveva ereditato la successione ( diadoché) del suo insegnamento. Una cattedra pubblica, in cui insegnava «a chiunque volesse ascoltarla il pensiero di Platone e di Aristotele e di altri filosofi», come narrano le fonti antiche. In questo senso era anche una scienziata: la sapienza impartita nelle scuole platoniche includeva la scienza dei numeri e lo studio degli astri. Era dunque anche una matematica e un’astronoma, ma nel senso antico e prescientifico. Non fece alcuna scoperta, non anticipò nessuna rivoluzione copernicana, non fu un Galileo donna. Tutto quello che sappiamo è che costituì devotamente il testo critico del terzo libro dell’Almagesto di Tolomeo, perché suo padre Teone potesse svolgerne il commento, e compose di persona commentari didattici a quelli che erano i libri di testo dell’epoca: le Coniche di Apollonio di Perga e l’Algebra di Diofanto. Non certo per questo fu assassinata. Oltre che una filosofa platonica Ipazia era una carismatica. C’era, nelle accademie platoniche, un risvolto esoterico, che implicava la trasmissione di conoscenze “segrete” – nel senso di non accessibili ai principianti – che riguardavano il divino. Oltre all’insegnamento pubblico ( demosia), che teneva presso il Museo o altrove nel centro della città, sappiamo di riunioni “private” ( idia), che teneva nella sua dimora, in un quartiere residenziale fuori mano, verde di giardini. Fu nel tragitto in carrozza tra l’uno e l’altra che venne aggredita e uccisa. La furia di Cirillo, che secondo la testimonianza delle fonti coeve fu il mandante del suo assassinio, venne scatenata proprio dalla scoperta di queste riunioni. Perché queste riunioni portavano Ipazia al centro della vita non solo culturale ma anche politica di Alessandria. Perché stringevano in un sodalizio non solo intellettuale ma anche politico le élite pagane della città, convertite al cristianesimo per necessità, dopo che i decreti teodosiani lo avevano proclamato religione di Stato, ma unite dalla volontà di conservare le proprie tradizioni e convinzioni: quell’”educazione ellenica” che si chiamava ancora paideia, quel “modo di vita greco” che il discepolo prediletto di Ipazia, Sinesio, definiva «il metodo più fertile ed efficace per coltivare la mente».



    Alle riunioni di questa sorta di massoneria in cui la classe dirigente alessandrina, pagana, cristiana e forse anche ebraica, si stringeva per fare fronte al cambiamento e tutelare i propri interessi nel trapasso dall’una all’altra egemonia di culto e pensiero, partecipavano anche i membri della classe dirigente inviati dal governo centrale di Costantinopoli. «I capi politici venuti ad amministrare la polis erano i primi ad andare ad ascoltarla a casa sua. Perché, anche se il paganesimo era finito, il nome della filosofia sembrava ancora grande e venerabile a quanti avevano le massime cariche della città». Anche il prefetto augustale Oreste apparteneva a quella cerchia più riservata, se non segreta, in cui Ipazia prodigava insegnamenti che le valevano gli appellativi sacerdotali di “madre, sorella, maestra, patrona”, “supremo giudice”, “signora beata dall’anima divinissima” che leggiamo riferiti a lei nell’epistolario di Sinesio. A quella cerchia Ipazia impartiva, insieme agli altri tipici delle accademie platoniche, un insegnamento sommesso particolarmente utile in quei tempi di transizione. Non era necessario tradire la propria fede o buona fede per convertirsi. L’Uno di Plotino e il Dio dei cristiani potevano identificarsi. Le religioni non dovevano lottare tra loro perché non differivano l’una dall’altra se non in dettagli fiabeschi destinati ai più semplici. I miti degli dèi dell’olimpo pagano, i dogmata o credenze “vulgate” dell’insegnamento cristiano, tra cui quella sulla resurrezione della carne, erano destinati a chi non era “filosofo”. «Riguardo alla resurrezione di cui tanto si parla sono ben lontano dal conformarmi alle opinioni del volgo», scrive in una delle sue lettere Sinesio, allievo di Ipazia ma anche vescovo cristiano di Tolemaide.
    Ipazia non era solo maestra e direttrice di coscienza dei quadri politici. Era una politica lei stessa. Le fonti la descrivono «eloquente e persuasiva (dialektike) nel parlare, ponderata e politica ( politike) nell’agire, così che tutta la città aveva per lei un’autentica venerazione e le rendeva omaggio». Lo stile dei suoi discorsi era così franco da essere secondo alcuni elegantemente insolente. Era spesso la sola donna in riunioni riservate agli uomini, ma la compagnia maschile non la metteva in imbarazzo né la rendeva meno impassibile e lucida nella sua dialettica. Ipazia interveniva in senso pacificatore negli affari della città e principalmente nelle lotte religiose che la insanguinavano. Difendeva, influenzando direttamente in questo il prefetto augustale Oreste, i diversi gruppi dai tentativi delle fasce fondamentaliste di ciascuno di sopraffare gli altri. In particolare, poco prima di venire assassinata, aveva difeso l’antica comunità ebraica di Alessandria dal devastante pogrom ordinato da Cirillo, la cui azione politica aveva due linee ben precise: la lotta economica contro gli ebrei, che dominavano il trasporto del grano da Alessandria a Costantinopoli, e la tendenza a «erodere e condizionare il potere dello Stato oltre ogni limite mai concesso alla sfera sacerdotale», come riportano le fonti. Solo questo la tolleranza filosofica di Ipazia non tollerava, e su questo l’Ipazia politica era inflessibile quanto era flessibile l’Ipazia filosofa: l’ingerenza di qualunque chiesa sul potere laico dello Stato. Bastò questo, con ogni probabilità, a motivare il suo assassinio, che fu a tutti gli effetti un assassinio politico. Nulla a che fare con la scienza o con il femminismo o con gli altri vari feticci in cui la storia del pensiero o della letteratura o della poesia, sempre guidata dal demone dell’attualizzazione e dal fantasma dell’ideologia, ha via via trasformato in sedici secoli il suo volto, irrigidendolo in tratti tanto schematici quanto lontani dalla verità, sovrapponendo un intrico di definizioni a quell’unica ancorché non universalmente accessibile parola che gli antichi riferivano a lei: filosofia.



    Il rogo di Ipazia è stato da alcuni considerato il primo esempio di caccia alle streghe dell’inquisizione cristiana. In effetti il proselitismo armato di Cirillo contraddiceva in pieno la pur astratta idea di tolleranza propugnata cento anni prima dall’editto di Costantino del 313, così come la tendenza conciliatoria del cristianesimo con il paganesimo d’élite che il primo imperatore cristiano aveva appoggiato politicamente e sancito giuridicamente. Cirillo, rivendicando l’accesso della chiesa alla conduzione della politica, aspirava a un vero e proprio potere temporale, più vicino al promiscuo modello del papato romano che alla rigorosa separazione dei poteri sancita dal cesaropapismo bizantino.
    Anche per questo, forse, la posizione ufficiale della chiesa di Roma, malgrado la gravità e la natura quasi terroristica dell’antico assassinio di Ipazia, non ha mai voluto mettere in discussione Cirillo, la sua santità, la sua probità. Ancora a fine Ottocento Leone XIII lo ha proclamato dottore della chiesa. Nella celebrazione che ne ha fatto nel 2007 Benedetto XVI ha elogiato “la grande energia” del suo governo ecclesiastico. Più recentemente, una chiesa di San Cirillo Alessandrino è stata edificata a Roma nel quartiere di Tor Sapienza. Oggi nelle vicinanze di quella chiesa si inaugura il giardino che l’Ufficio Toponomastico del Comune di Roma ha dedicato a Ipazia, accogliendo una petizione che non solo chiedeva di intitolarle uno spazio pubblico, ma di individuarlo proprio in quell’area. Perché la tolleranza laica non impedisce certo di continuare ad annoverare tra i santi del calendario un integralista condannato come assassino dal tribunale della storia. Ma i fedeli cristiani hanno il diritto di ricordare la sua antica vittima e la spirale di conseguenze dell’intolleranza religiosa.

    (SILVIA RONCHEY, Repubblica.it)



    Edited by gheagabry - 11/3/2017, 20:15
     
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