ALBERI - CONIFERE, LATIFOGLIE..

..nei boschi, nella giungla insomma proprio tutti

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    PERCHE' CADONO LE FOGLIE?

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    Il responsabile del colore delle foglie è il parenchima clorofilliano, un tessuto formato da cellule ricche di cloroplasti: “organelli citoplasmatici” che hanno il compito di attuare la fotosintesi che è il processo tramite cui la pianta produce le energie per il suo sostentamento tramite la luce solare, sfruttando acqua e anidride carbonica. I cloroplasti sono disposti per ottimizzare l’assorbimento della luce: la clorofilla, che dà il classico colore verde.

    Con la fine dell’estate, quando il sole si fa più raro e meno intenso e quando la temperatura cala, la pianta entra in una sorta di modalità a risparmio energetico. Si riduce l’afflusso di acqua verso le foglie, ormai invecchiate dopo mesi di intenso utilizzo, e di conseguenza i cloroplasti diventano meno vitali e interrompono la loro attività, perdendo il loro classico colore verde intenso. La foglia cambia quindi colorazione perché diventano visibili altre sostanze, che erano presenti anche prima ma che erano oscurate dal verde della clorofilla. Tra queste sostanze ci sono le xantofille e altri carotenoidi che hanno colori caldi che variano dal rosso al giallo.

    Con l’autunno le foglie delle piante passano dall’essere un’importantissima risorsa al diventare un inutile peso. Come ha spiegato il Washington Post nella sua sezione Kids Post, «una grande quercia può avere fino a 60mila foglie». La pianta fa quindi in modo che, una volta persa la loro funzione, le foglie si stacchino dai rami. Anche perché se ci restassero attaccate, qualora i liquidi al loro interno dovessero ghiacciare, potrebbero compromettere la capacità degli alberi di produrre energia.

    Le piante le cui foglie non cambiano colore e non cadono, hanno invece trovato una soluzione alternativa riducendo di molto la grandezza delle loro foglie, in certi casi trasformandole addirittura in “aghi” ciò permette di essere meno dispendiose da mantenere durante l’inverno, in molti casi tra l’altro ricoperte di sostanze che, come spiega il Washington Post, «funzionano un po’ come il liquido antigelo delle nostre automobili».


    tratto da www.ilpost.it
     
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    "Cosa vedi lì? - chiese la nonna ai suoi due nipoti.
    Un dinosauro! disse uno. - È una rana! disse l'altro.
    - No, è un dinosauro!
    Mentre il nonno avanzava fumando la pipa..."


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    La frazione “La Bletterie” si trova a 3,7 km a sud-ovest di Bourg de Saint-Nicolas des Biefs.
    Il sentiero delle streghe inizia all'incrocio della strada con il sentiero "La Bletterie".

    Il sentiero è un rettilineo, lungo circa 220 metri, leggermente scavato dall'acqua piovana, sale con un giusto dislivello nel bosco di Bois Noirs. Ad ogni passo ci si immerge nel cuore di un esercito di colossi che lanciano le loro lunghe sagome verso il cielo. I faggi, di oltre 400 anni, ricoperti di muschio, formano una siepe d'onore. Un antico sentiero lastricato di foglie secche che fanno da piedistallo da cui si ergono mazzi di rami enormi, tronchi imponenti e nodosi dove le coppie hanno inciso, per secoli, nella corteccia il loro amore. Sembra sia essere l'ultimo esempio di sentiero evidenziato dalle faggete intorno al paese di La Bletterie. Nei ricordi degli anziani abitanti, furono impiantati altri sentieri, forse rappresentando il segno di proprietà sui sentieri che partivano dal piccolo borgo. Tutti questi sentieri servivano boschi appartenenti alla comunità delle Bletterie, abbandonati intorno al 1750.

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    Un tempo era molto frequentato perché conduceva a Saint-Nicolas des Biefs dove gli artigiani del vetro svolgevano un'importante attività commerciale, ma era anche una fonte inesauribile di legna da ardere; gli abitanti praticavano la cosiddetta potatura del girino, i tronchi venivano potati da alcuni rami posti a circa 1,50 m da terra, i tagli raccolti in fasci venivano usati per il forno del pane del paese. Questi tagli multipli generavano ogni volta perle curative più o meno prominenti dando all'albero una silhouette tortuosa, i rami rimanenti erano feriti. Il plessage è una tecnica che localmente ha lasciato pochissime tracce della sua esistenza, consisteva nell'attraversare orizzontalmente i rami rimanenti per creare un intreccio.

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    Sono presenti, qua e là diverse tracce di "quinaudes" nei boschi e più precisamente in quelle di carbone di faggio. Questi sono grandi cerchi di terra nera che sono ex luoghi di produzione del carbone. Così i faggi venivano tagliati alla base, il ceppo poi scartato in più rami che, quando erano abbastanza grandi, venivano nuovamente tagliati. Queste successive potature hanno lasciato ai faggi carbonai le loro forme caratteristiche: un grosso ceppo alto circa 50 cm con germogli più giovani. I numerosi resti di carbonaie nelle faggete dell'ENS testimoniano l'intenso sfruttamento di questi boschi.

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    La tecnica della plissettatura fu praticata dalle comunità contadine, veniva utilizzata per il mantenimento della siepe, come la potatura. Il plessing consisteva nell'intagliare la base degli arbusti, quindi inclinarli in direzione del vento con un angolo da 30° a 45° e intrecciarli tra i piedi delle piante lasciate in posizione o, in mancanza, tra i picchetti.
    Questa pratica aveva lo scopo di rendere più fitte e solide le siepi per fare una recinzione, perché il ramo dentellato non moriva: la parte sdraiata continuava a vivere e altri germogli partivano dal basso.
    A causa della mancanza di manodopera, la manutenzione delle siepi di legno è stata progressivamente abbandonata per poi scomparire definitivamente in seguito all'esodo rurale degli anni 60. Gli alberi risparmiati hanno continuato a crescere e hanno prodotto ceppi che sono diventati dei veri e propri tronchi curvati che ne attestano la tecnica.

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    "La foresta parla.
    Lungo sussurro o silenzio pieno,
    lei recita a chi ha un buon udito
    i suoi canti, grattini e crepe,
    che sono alla base di tutta la poesia di questo Mondo.
    .... "
    Jordan Ray.

     
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    L'albero di Tule a Oaxaca, Messico, è l'albero con il tronco più grande del mondo. La sua circonferenza è di quasi 60 metri ed è alta 42 metri. La sua età approssimativa è di 2000 anni
    E' un cipresso palude messicano della famiglia Cupressaceae, nativo del Messico e delle regioni limitrofe.
    È noto anche come il "cipresso di Montézuma". Il suo nome in nahuatl è Ahuehuete.

     
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    Il legno è vivo.
    Questo è il ricordo del tempo.
    Guarda un albero, ha più decenza di un uomo.
    Nasconde tutta la sua bellezza sotto la corteccia.

    Gilles Bordes (La notte delle Pantere)

     
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    FORESTA GOBLIN, Nuova Zelanda

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    La Foresta dei Goblin, nota come Kamahi Walk, sembra uscita da un film fantasy. Sono principalmente gli alberi kamahi che hanno iniziato la loro vita appollaiati sui tronchi di altri alberi. I loro tronchi e rami sono cresciuti attraverso e intorno agli alberi esistenti, creando la caratteristica foresta nodosa e contorta. Muschi pendenti, epatiche e felci hanno aggiunto allo strano effetto.

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    Foresta di Dartmoor, Wistman's Wood

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    Nella parte nord della magnifica brughiera d Dartmoor, appare come per magia l'incredibile Bosco dei Druidi, fitto di contorte quercie secolari, che crescono su enormi massi granitici ricoperti di selvaggio muschio. Il sottobosco è costituito prevalentemente da felci e i maestosi alberi sono ricoperti in modo particolare da licheni e da altre piante che sono cresciute sulle quercie medesime. L'atmosfera ha qualcosa di ancestrale e ricorda il contesto fantastico di antiche avventure celtiche.
    Il fotografo del Devon Neil Burnell cattura un labirinto muschioso di radici nodose e rami contorti.

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    foto di Neil Burnell
     
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    fag

    Nel cuore della foresta viveva un vecchio albero. Nessuno sapeva quanti anni avesse. La
    circonferenza del tronco era tale che diciotto uomini non bastavano per
    abbracciarlo, le radici si spingevano nella terra per un raggio di
    cinquanta metri. Il suolo al riparo della chioma era straordinariamente
    fresco. La corteccia era dura come la pietra, tanto che premendovi il
    dito, il dito doleva. I rami ospitavano decine di migliaia di nidi e
    davano rifugio a centinaia di migliaia di uccelli, piccoli e grandi.
    Al mattino, il primo raggio di sole era come la bacchetta di un direttore
    d'orchestra che dava il la alla poderosa sinfonia dei canti di migliaia
    di uccelli, maestosa come il sorgere del sole dietro la cima della
    montagna. Allora tutte le creature della montagna e della foresta si
    alzavano lentamente su due o quattro zampe, in stupefatta meraviglia.

    Nel tronco dell'albero c'era un foro grande come un melone, a dieci
    metri da terra. Nel foro era deposto un piccolo uovo marrone. Nessuno
    poteva dire se l'avesse deposto un uccello. Alcuni pensavano che
    l'avesse forgiato la sacra aria della foresta unendosi all'energia vitale dell'albero.
    Erano passati trent'anni senza che l'uovo si
    schiudesse. In certe notti gli uccelli venivano svegliati da una nuvola
    sospesa davanti al foro, da cui emanava una luce abbagliante che
    illuminava tutta quella parte di foresta. Finalmente, una notte di luna
    piena, l'uovo si schiuse e ne uscì uno strano uccello. Era minuscolo,
    ed emise un debole cinguettio nella notte fredda. La luna era chiara e
    le stelle brillanti. L'uccellino pigolò per tutta la notte. Non era un
    verso di disperazione o di baldanza, ma di stupita sorpresa. Pigolò
    fino allo spuntare del sole. Il primo raggio luminoso animò la
    sinfonia, che eruppe nel canto di migliaia di uccelli. Da quel momento,
    l'uccellino non cinguettò più.
    Cresceva velocemente. Le madri-uccello
    portavano nel foro semi e chicchi. Ben presto il foro divenne troppo
    angusto, e l'uccello dovette cercare un posto più grande per vivere.
    Aveva imparato a volare, si procurava il cibo da solo e raccolse fili
    di paglia per costruire un nuovo nido. L'uovo era marrone, ma l'uccello
    era bianco come la neve. La sua apertura alare era ampia, e aveva un
    volo lento e silenzioso. Spesso raggiungeva in volo luoghi lontani,
    dove bianche cascate precipitavano giorno e notte come se fossero il
    respiro maestoso della terra e del cielo.
    A volte non faceva ritorno
    per molti giorni. Poi riposava nel nido per tutto un giorno e una
    notte, tranquillo e pensieroso. I suoi occhi brillavano: non persero
    mai l'espressione sorpresa che avevano sin dalla nascita.

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    Nell'antica foresta di Dai Lao, sul fianco di una collina, sorgeva una capanna da
    eremita, in cui un monaco viveva da quasi cinquant'anni. Spesso
    l'uccello volava sulla foresta di Dai Lao e di tanto in tanto vedeva il
    monaco scendere lentamente il sentiero verso il torrente, tenendo in
    mano un otre per l'acqua. Una volta vide un filo di fumo levarsi dalla
    capanna, e la collina immersa in un'atmosfera di calore: due monaci
    salivano il sentiero che dal ruscello portava alla capanna, parlando
    tra di loro. Quella notte l'uccello si fermò nella foresta di Dai Lao.
    Nascosto tra i rami di un albero, guardava il fuoco brillare nella
    capanna dove i due monaci conversarono per tutta la notte.

    Spiccò il volo e salì in alto, sempre più in alto, sopra l'antica foresta. Per
    giorni e giorni solcò il cielo senza mai posarsi. Sotto di lui c'era il
    vecchio albero; ancora più sotto, le creature della montagna e della
    foresta si nascondevano nell'erba, tra i cespugli e nella chioma degli
    alberi. Da quando aveva ascoltato i discorsi tra i due monaci, la sua
    perplessità era aumentata. Da dove vengo? Dove andrò? Quante migliaia
    di anni vivrà ancora il vecchio albero?
    L'uccello aveva udito i monaci
    parlare del Tempo. Che cos'è il Tempo? Perché il Tempo ci ha condotti
    qui, e perché ci porterà via? Il chicco che mangio ha una sua deliziosa
    natura, ma potrò mai scoprire la natura del Tempo? L'uccello avrebbe
    voluto cogliere un pezzetto di Tempo e posarlo nel nido per poterne
    esaminare la natura. Sì, anche se ci fossero voluti mesi o anni.

    Di nuovo volò in alto, sempre più in alto, sopra l'antica foresta. Era
    come un palloncino che scivolava nel nulla. Sentì che la sua natura era
    vuota come quella di un palloncino. La vacuità della sua natura era la
    base stessa della sua esistenza, ma anche la causa della sua
    sofferenza. "Tempo, se non posso trovare te posso almeno trovare me
    stesso", pensò l'uccello.
    Per molti giorni restò tranquillamente nel
    nido: aveva portato con sé una briciola di terra della foresta di Dalai
    Lao. L'aveva presa per esaminarla. Era stato profondamente colpito
    dalle parole che il monaco della foresta di Dai Lao aveva detto
    all'amico: "Il Tempo è fisso nell'Eternità, dove l'Amore e l'amato sono
    Uno. Ogni filo d'erba, ogni zolla di terra, ogni foglia è Uno con quell'Amore".
    L'uccello non era stato capace di trovare il Tempo.
    Neppure la briciola di terra raccolta nella foresta di Dai Lao rivelava
    qualcosa. Che il monaco avesse mentito all'amico? Il Tempo è fisso
    nell'amore, ma dov'è l'Amore? Ricordò le cascate che precipitavano
    senza sosta nella foresta settentrionale. Ricordava i giorni passati ad
    ascoltare dal mattino alla sera il loro fragore. Immaginava di cadere
    come una cascata, giocava con la luce che scintillava sull'acqua,
    accarezzava le pietre e le rocce che la cascata bagnava. In quei
    momenti l'uccello si sentiva cascata, sentiva che il continuo fragore
    dell'acqua che precipitava proveniva da lui.

    Un giorno, sorvolando la
    foresta di Dai Lao, non vide più la capanna. La foresta era bruciata, e
    della capanna rimaneva soltanto un mucchietto di cenere. Angosciato,
    l'uccello spiccò un volo di perlustrazione. Il monaco non si vedeva
    più. Dov'era andato? Dappertutto, cadaveri di animali e di uccelli.
    Forse il fuoco aveva divorato anche il monaco?
    L'uccello era sconcertato. Dove sei, Tempo? Perché ci porti qui e poi ci trascini
    via? "Il Tempo è fisso nell'Eternità", aveva detto il monaco. Se era
    così, forse l'Amore aveva ripreso il monaco dentro di Sé.

    Di colpo l'angoscia lo invase. Volò rapidamente all'antica foresta. Grida
    disperate di uccelli. Crepitii. La foresta bruciava. Volò più veloce,
    ancora più veloce. Il fuoco lambiva il cielo. L'incendio era scoppiato
    vicino al vecchio albero. Centinaia di migliaia di uccelli strillavano atterriti.
    Il fuoco minacciava già il vecchio albero. L'uccello sbatté
    le ali con tutta la sua forza credendo di poter spegnere il fuoco, ma
    le fiamme si levavano sempre più alte. Si affrettò al ruscello, bagnò
    le penne nell'acqua e corse a spruzzarla sulla foresta. Le gocce
    sfrigolarono. Non bastava, non bastava. Neppure intridere tutto il suo
    corpo d'acqua sarebbe bastato per spegnere il fuoco.

    Strida di centinaia di migliaia di uccelli. Strida di piccoli senza penne per
    volare via. Il fuoco aveva attaccato il vecchio albero. Perché non
    pioveva? Perché i monsoni che si rovesciavano sulla foresta
    settentrionale non cadevano anche lì? L'uccello si lasciò scappare un
    grido lacerante. Era un grido colmo di dolore e d'amore, e diventò
    l'impetuoso fragore di una cascata.
    Di colpo l'uccello sentì la
    totalità della sua esistenza. Solitudine e vuoto si dissolsero come un
    miraggio. La figura del monaco. L'immagine del sole dietro la cima
    della montagna. L'immagine di fiumi d'acqua che precipitavano senza
    fine attraverso migliaia di vite. Il grido dell'uccello era il fragore
    dell'acqua. Senza paura, si lasciò cadere sulla foresta in fiamme come
    una maestosa cascata.

    Il mattino spuntò silenzioso. I raggi del sole
    splendevano come sempre, ma non accesero nessuna sinfonia, nessuna voce
    si alzò dalle migliaia di uccelli. Intere parti di foresta erano
    carbonizzate. Il vecchio albero era in piedi, ma più di metà della sua
    chioma era bruciata. Grandi uccelli morti, piccoli uccelli morti. Il
    mattino nella foresta era silenzioso.
    Gli uccelli scampati alle fiamme
    si chiamavano con voci incredule. Si chiedevano per quale miracolo, il
    giorno prima, il cielo sereno avesse lasciato cadere un improvviso
    nubifragio che aveva estinto l'incendio. Ricordavano di aver visto
    l'uccello che spruzzava acqua dalle ali. Avevano riconosciuto il bianco
    uccello del vecchio albero. Coprirono in volo tutta la foresta alla
    ricerca del suo corpo, ma non lo trovarono.

    Forse era volato via.
    Forse era stato bruciato dal fuoco. Il vecchio albero, coperto di
    ustioni, non disse nulla. Gli uccelli alzarono la testa verso il cielo
    e cominciarono a ricostruire i nidi nella chioma ferita del grande
    albero. Avrà nostalgia il grande albero del piccolo uccello che la
    sacra aria della montagna e l'energia vitale di quattromila anni
    avevano partorito? Uccello, dove sei andato? Ascolta questo monaco:
    anch'io credo che il Tempo abbia restituito l'uccello all'Amore da cui
    provengono tutte le cose.


    Thich Nhat Hanh

     
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    “…neanche un albero qui cresce

    Ma solo quello che si nutre col Fluido Magico

    Delle Anime umane

    che s’arrampicano sulla sua corteccia

    Per danzare a mezzanotte

    Alla luce dei pallidi raggi della Luna “

    ( Nathaniel Lee, Oedipus )




    Fitzroya cupressoides o cipresso della Patagonia, questo il nome di una conifera secolare del Parco Nazionale cileno Alerce Costero che, se dimostrato, potrebbe essere l’albero vivente più antico di tutto il Pianeta.

    Gli esperti ritengono che l’età di questo cipresso conosciuto anche come Alerce Milenario superi i 5000 anni, forse anche i 5400, ma il suo tronco spesso quattro metri rende difficile qualunque tipo di analisi. Al momento il ricercatore cileno Jonathan Barichivich si sta occupando della corretta datazione della conifera e pubblicherà a breve uno studio al riguardo.

    Ai metodi tradizionali lo studioso ha associato dei modelli computerizzati che tengono conto anche dei fattori ambientali per calcolare l’età del cipresso.

    "Abbiamo sviluppato un metodo statistico per simulare la crescita in una parte che non siamo riusciti a campionare. In 90 centimetri contiamo 2.400 anni di età ed è solo il 43% del raggio dell’albero. Il metodo ci consente di stimare la distribuzione delle probabilità delle età e in un intervallo da 3.500 a 6.000 anni, c’è una probabilità dell’80% che questo albero abbia più di 5.000 anni. Ci aspettavamo che l’età fosse superiore ai 4mila anni, ma oltre i 5mila la verità è che siamo rimasti sorpresi"
    (Barichivich)


    Questo cipresso della Patagonia possa avere per l’esattezza e fino a 5.484 anni. Se i dati saranno confermati supererebbe un pino conico della California che di anni ne ha ben 4.853 anni. Quest’ultimo, noto come Matusalemme, detiene attualmente il record di albero vivente più antico di sempre.
     
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    La timidezza della corona



    In una calda giornata di Marzo del 1982, il biologo Francis “Jack” Putz passeggiava nella foresta tra gli alberi di mangrovia nera in cerca di refrigerio dalla calura pomeridiana. Assonnato dopo il pranzo e stanco per le ore di lavoro sul campo nel Guanacaste National Park in Costa Rica, Putz decise di sdraiarsi per riposare.

    Guardò in alto verso il cielo: il vento agitava le cime delle mangrovie sopra di lui, facendo sì che le estremità degli alberi vicini si scontrassero, perdendo alcune foglie e spezzando alcuni dei rami più esterni. Putz notò che questa “potatura reciproca” aveva lasciato tracce di spazio vuoto tra le chiome.

    Questa rete formata dagli spazi vuoti tra le cime degli alberi, nota come la “timidezza della corona”, è stata documentata in foreste di tutto il mondo. Dalle mangrovie del Costa Rica agli imponenti alberi della canfora del Borneo in Malesia, tutti disegnano linee di spazi vuoti tra le reciproche verdi chiome. Ma gli scienziati ancora non comprendono appieno il motivo per cui così spesso le cime degli alberi evitano di toccarsi.

    40 anni fa, sotto le mangrovie, mentre si apprestava al suo riposino post pranzo, Putz pensò che anche gli alberi hanno bisogno del proprio spazio personale, ed è stato un ragionamento fondamentale verso la spiegazione dell’origine del “comportamento schivo” dei rami degli alberi.

    “Faccio spesso grandi scoperte durante il momento del sonnellino”, afferma.

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    Oggi, un corpus crescente di ricerche continua a sostenere le prime osservazioni di Putz e dei suoi colleghi. Il vento, a quanto pare, svolge un ruolo cruciale nell'aiutare molti alberi a mantenere le distanze. I confini “scavati” dagli scontri tra i rami possono migliorare l’accesso delle piante alle risorse, come ad esempio alla luce. Gli spazi tra le cime degli alberi potrebbero anche ridurre la diffusione di insetti che mangiano le foglie, piante rampicanti parassite o malattie infettive.

    In un certo senso, la “timidezza della corona” è la versione arborea del distanziamento sociale, afferma Meg Lowman, biologa forestale e direttrice della TREE Foundation. “Impedendo alle piante di toccarsi fisicamente si può aumentare la loro produttività”, afferma. “Questo è il lato positivo dell’isolamento...gli alberi stanno in effetti proteggendo la propria salute”.

    nel 1984 il team di Putz pubblicò una ricerca che indica che in alcuni casi la “timidezza della corona” può essere semplicemente il risultato di una “battaglia” tra gli alberi mossi dal vento, ognuno dei quali fa a gara per far germogliare nuovi rami e parare i colpi degli alberi vicini. Questa ricerca mostrava che più le mangrovie erano soggette al movimento indotto dal vento, più le loro chiome apparivano distanziate dagli esemplari vicini. Questi sono alcuni dei primi risultati a sostegno della cosiddetta “ipotesi di abrasione” per spiegare le strutture di questi alberi.

    Circa due decenni dopo, un team guidato da Mark Rudnicki, biologo presso la Michigan Technological University, misurò le forze che muovevano i Pinus contorta ad Alberta, in Canada. Scoprirono che le foreste ventose piene di tronchi alti, affusolati e di altezza simile erano particolarmente inclini al fenomeno della timidezza della corona. E quando Rudnicki e il suo team usarono corde di nylon per evitare che i pini vicini si scontrassero, questi crescevano intrecciando le chiome, riempiendo gli spazi tra le loro corone.

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    Indipendentemente da come si verifichi il fenomeno della timidezza della corona, la separazione tra le chiome probabilmente porta dei vantaggi. “Le foglie sono come i diamanti più preziosi dell’albero, vanno protetti a tutti i costi”, afferma Lowman. “Quando un’intera fronda viene eliminata, è un terribile disastro per l’albero”.

    Il fogliame più rado potrebbe anche aiutare a far penetrare la luce del sole fino a raggiungere il suolo della foresta, nutrendo la vegetazione che cresce a terra e gli animali che a loro volta sostengono la vita arborea. Putz pensa che gli spazi vuoti tra le chiome possano persino aiutare gli alberi a evitare le invasive piante rampicanti legnose chiamate liane, comuni nelle foreste tropicali e temperate di tutto il mondo, o a proteggere le piante da microbi patogeni e insetti incapaci di volare che usano la canopia come passaggio tra gli alberi

    www.nationalgeographic.it/scienza/2020/07/
     
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    L'albero della neve

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    Il Chionanthus virginicus è un albero originario delle savane e delle pianure degli Stati Uniti nordorientali e, dal sud del Massachusetts alla Florida e ad ovest dell'Oklahoma e del Texas .

    È un arbusto deciduo o un piccolo albero che cresce fino a 10-11 metri di altezza. La corteccia è squamosa, marrone sfumata di rosso. I germogli sono di colore verde chiaro, inizialmente lanuginosi, poi diventano marrone chiaro o arancione. Le gemme sono marrone chiaro, ovali, acute, lunghe 3 millimetri. Le foglie sono opposte, semplici, ovali o oblunghe, lunghe da 7,5 a 20 centimetri. Sono glabri sopra e finemente lanuginosi sotto, in particolare lungo le vene, e ingialliscono in autunno. I fiori hanno una corolla bianca pura, profondamente quadrilobata, i lobi filiformi, lunghi da 1,5 a 2,5 centimetri e larghi 3 millimetri; sono prodotti in pannocchie ascellari pendenti lunghe da 10 a 25 centimetri quando le foglie sono per metà cresciute, da metà a fine maggio a New York City, prima nel sud.

    Di solito è dioico, anche se le piante occasionali portano fiori di entrambi i sessi. Il frutto è una drupa ovoidale da blu scuro a viola lunga da 1,5 a 2 centimetri, contenente un singolo seme (raramente due o tre), matura tra la fine dell'estate e la metà dell'autunno.

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    Il nome specifico fu originariamente citato da Linneo come Chionanthus virginica, trattando il genere come femminile; tuttavia, secondo le disposizioni dell'ICBN , il genere è correttamente trattato come maschile, dando la specie che termina come virginicus. Altri nomi inglesi usati occasionalmente negli Appalachi includono Grancy Grey Beard e Old Man's Beard.


    Le radici e la corteccia essiccate venivano utilizzate dai nativi americani per curare le infiammazioni della pelle. La corteccia frantumata è stata utilizzata nel trattamento di piaghe e ferite.



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    10-il_bosco_dei_castagni_secolari_di_brallo_3




    Il territorio di Brallo di Pregola è una zona geograficamente più vicina a Genova che a Milano. Il comune pavese, immerso in un contesto paesaggistico di grande valore, si trova a cavallo tra l’Oltrepò e l’emiliana Val Trebbia.

    Tra le sue ricchezze naturalistiche, i protagonisti assoluti sono i boschi di castagni secolari. Al loro interno incredibili esemplari stupiscono per le intricate forme assunte: si vive la sensazione di attraversare foreste incantate.

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    Una delle selve castanili più interessante si trova, in pochi minuti, scendendo dalla località Bralello lungo il Sentiero dei Briganti, che collega Brallo (950 m s.l.m.) al paese di Fego (550 m s.l.m.); qui ci si ritrova circondati da castagni con enormi tronchi. Decine sono gli esemplari monumentali ed almeno una dozzina d’essi supera i 5 metri di circonferenza. Il più imponente presenta un fusto con una circonferenza di 9 metri (diametro di 290 cm). Un’ulteriore area con esemplari secolari si trova nella frazione Ponti, raggiungibile da Brallo percorrendo la strada che porta alle pendici del Monte Lesima (1724 m s.l.m.), il punto più alto della zona appenninica lombarda.

    La presenza di così tante piante giganti la si deve alla coltura delle castagne, che nei secoli passati erano fondamentale risorsa alimentare nelle aree collinari e di media montagna. Tale era l’importanza, soprattutto per la produzione di farina, che la specie veniva soprannominata “l’albero del pane”.

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    (www.visitpavia.com/it/i-castagni-secolari-di-brallo)
     
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