ALBERI e ARBUSTI DA FRUTTO e a volte ....

PESCO, CILIEGIO,PERO, ALBICOCCO ECC

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  1. gheagabry
     
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    LA POMPIA



    La Pompia (per alcuni Citrus × mostruosa, termine non riconosciuto a livello accademico essendo questo agrume ancora poco studiato e in via di classificazione), o meglio, sa pompìa, è un agrume endemico della Sardegna, diffuso in particolare nei comuni di Siniscola, Posada, Torpè, Orosei. La pianta ha origine molto antica e nella cultura baroniese riveste un certo interesse di nicchia per le sue particolari possibilità di utilizzo nella tradizionale industria dolciaria locale.
    L’agrume, conosciuto solo in Sardegna, è sicuramente una specie modificatasi nel tempo all’interno della famiglia degli agrumi: risalire alle sue origini è molto complicato, a causa della forte compatibilità tra specie e generi, all’alta frequenza delle mutazioni delle gemme e alla lunga storia di coltivazione e diffusione.
    Cresce spontanea nelle macchie e negli agrumeti ed è arrivata sino a oggi perché è la materia prima fondamentale di alcuni dolci tradizionali di Siniscola. Della pompìa si usa solo la scorza per fare liquori, oppure la parte bianca sotto la scorza per fare le aranzate e una specie di canditi casalinghi: la polpa, e quindi il succo, sono troppo acidi, molto di più del limone.

    Anticamente questo strano e bitorzoluto frutto era usato quasi esclusivamente per produrre i dolci tipici della zona di produzione. In Baronia il suo utilizzo avveniva in un contesto di grande povertà: a fronte dell’utilizzo di un frutto di poco prezzo erano necessarie lunghe e laboriose preparazioni, che davano, però, un risultato di gran pregio. Era d’uso, da parte della popolazione povera, farne regalo ai notabili del Paese. Donarlo (considerato il lunghissimo tempo necessario alla trasformazione del frutto in prodotto commestibile), voleva dire aver fatto dei grandi sacrifici per portarlo in dono a qualcuno importante, a cui era necessario rendere omaggio. La lavorazione dolciaria antica realizzava due diversi prodotti: uno è “S’aranzada”, l’altro da “Sa pompìa intrea”
    I dolci di pompìa hanno tempi di lavorazione lunghissimi. Almeno sei ore di tempo, da quando si gratta via la scorza del frutto e lo si libera dalla polpa molto amara, cercando accuratamente di non danneggiare o rompere la parte bianca sottostante. Al termine non rimane che una sorta di palloncino vuoto che viene prima lessato, poi immerso nel miele millefiori e posto in una teglia a sobbollire per circa tre ore. Al termine si fa raffreddare e si pone su un piattino: sa pompìa intrea è pronta. Qualcuno la riempie di mandorle tritate, il nome del dolce in questo caso è sa pompìa prena. Con la pompìa candita, a filetti, si prepara anche s'aranzata: una torta composta di pezzetti di pompìa, mandorle, ancora miele millefiori e piccoli confettini colorati (sa trazea).

    ...storia, miti e leggende...


    La leggenda narra che l’introduzione del frutto nel bacino del Mediterraneo fu a seguito della disastrosa spedizione di Alessandro Magno in Asia.
    Le prime notizie certe della sua esistenza risalgono al Settecento. Un saggio sulla biodiversità vegetale e animale della Sardegna, del botanico sassarese Andrea Manca Dell’Arca, pubblicato nel 1780, parla di questo frutto che, in una statistica redatta per ordine del Viceré, risulta presente in alcune coltivazioni a Milis, in provincia di Oristano. Relative al secolo precedente, in alcune fonti iconografiche provenienti dalla corte medicea, si trovano raffigurazioni di varie tipologie di frutti a grandezza naturale, che individuano alcuni esemplari di Citrus mostruosa. Anche tornando indietro nella storia, pare che Sa Pompìa fosse già nota nella civiltà greca. Tra queste citazioni viene riportata una descrizione di questo frutto, attribuita a Teostrato di Ereso (discepolo di Aristotele, Ereso, 371 a.C. – Atene, 287 a.C.), che la descrive come una Citrus spinosa (Citrus medica cetra). Palladio, inoltre, segnala la coltivazione del cedro in Sardegna e Dioscoride descrive la cottura di un frutto bislungo e rugoso nel vino o nel miele, affermando che è mangiabile solo se trasformato.
    Rimanendo nelle fonti storiche è probabile che la Pompìa, data la documentata presenza a Milis nel 1760, si sia poi spostata da Milis verso il centro e la costa orientale dell’Isola. La sua diffusione nel tempo, comunque, restò limitata ad alcune zone della Baronia e oggi è conosciuta e apprezzata solo da un locale mercato di nicchia, attualmente, però, in espansione. (dal web)
     
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  2. gheagabry
     
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    "Per capire cosa significa 4.000 anni si può dire che quest'albero è nato 1500 anni prima di Gilgamesch, 2700 anni prima di Tutankamon e delle guerre puniche, o 2000 anni prima di Cristo ... insomma, un'eternità.
    Da allora, da quel lontanissimo giorno, da quell'alba primordiale, questo olivo ha lentamente iniziato a vivere, a crescere, fino a diventare il maestoso gigante che vedete.
    Ha visto passare tutta la nostra storia, quella conosciuta e documentata, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, anno dopo anno, secolo dopo secolo ... e lui è sempre rimasto lì, al sole e al vento, sotto la pioggia e a volte il gelo.
    Ha visto i primi uomini che costruivano i nuraghi ... forse avrà respirato i fumi del Vesuvio che sotterrò Pompei ... nella sua lunga vita è depositata tutta la storia del mediterraneo, la storia di tutti noi ..."
    (Pierpaolo Paradisi 23 November 2012, youruralnet)



    L'ULIVO di LURAS



    Quando lui nasceva in Sardegna, in Inghilterra stavano innalzando i menhir di Stonehenge, mentre nel Mediterraneo spopolava la potenza cretese, dal nord giungevano gli Achei nel Peloponneso e in Mesopotamia il re amurrita Subu-Abum fondava la città di Babilonia. Se potesse parlare chissà quali segreti saprebbe raccontarci sulla misteriosa civiltà nuragica con cui convisse quando aveva già circa tre secoli di vita oppure sui dolmen di cui è disseminato il territorio che lo ospita! Parliamo dell’ulivo selvatico di Luras, un comune di 2.715 abitanti della provincia di Olbia-Tempio nella regione storica della Gallura. E’ un giovane – si fa per dire – virgulto di olivastro (Olea europaea L. var. sylvestris Brot.) di appena quasi 4000 anni. E’ un esemplare della varietà selvatica dell’Olivo, quella spontanea in natura e originaria del Medio Oriente, dalla quale nei secoli sono state selezionate le diverse varietà di Olivo da olio; per questo motivo l’olivastro mostra una maggiore resistenza e vigoria delle varietà più selezionate, ed ha foglie molto più piccole dell’Olivo, come pure gli internodi e i frutti.
    Per la precisione “su grandhe donnumannu” (il grande nonno), che gli abitanti del luogo chiamano confidenzialmente “S’ozzastru” (ossia l’olivastro, per antonomasia) si trova nella località Santu Baltolu di Carana, presso la chiesetta di campagna dedicata a San Bartolomeo, dove in verità non è solo. A fargli compagnia ci sono altri esemplari ma molto più giovani di lui che vanta il primato di essere il più anziano d’Europa fra quelli della sua specie. Gli olivastri millenari di Santu Baltolu di Carana sono inseriti in un incantevole contesto naturale, sulle sponde del Lago Liscia, dove il contrasto tra la montagna granitica e lo stesso lago dà luogo a un’unità paesaggistica di assoluto valore. Il più vecchio, ossia l’olivastro di cui vi parliamo, presenta una circonferenza di circa 12 metri per un’altezza di 8 metri. Questo grande “patriarca della natura”, dichiarato nel 1991 Monumento naturale ed ormai inserito con grande risalto nelle più importanti guide naturalistiche, rientra oggi nella lista dei “Venti alberi secolari”, uno per ogni Regione italiana, da tutelare e dichiarare Monumento Nazionale con decreto ministeriale.

    (famedisud.it)

     
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  3. gheagabry
     
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    CILIEGIO DELLA JAMAICA



    La Muntingia Calabura o Ciliegio della Jamaica è una pianta da fiore originaria del Sud del Messico, del Perù e della Bolivia, insediata oggi in tutto l’America del Sud. Si tratta di un piccolo albero sempreverde di rapida crescita, alto fino a 10-12 m, dai rami che tendono a disporsi orizzontalmente, o verso il suolo, e dalle foglie ovato-lanceolate, piuttosto rugose al tatto, con apice appuntito e margini seghettati, di colore verde scuro superiormente, verde grigiastro inferiormente. I fiori, con 5 sepali verdi e 5 petali bianchi con diversi stami gialli, che hanno una vita molto effimera e si vedranno sbocciare al mattino e cadere alla sera. I frutti sono abbondanti, rotondi , grandi non più di 1,5 centimetri, tendenti al rosso o talvolta al giallo, con buccia sottile e tenera e con polpa succosa, morbida, dolce, dal sapore muschiato che ricorda quello di fico. Il suo gusto si può avvicinare a quello dello zucchero filato. Germina solo in presenza di luce e può fruttificare già al primo anno.
    Questi frutti sono venduti in molti mercati messicani e in Giamaica, in Brasile vengono piantati sulla riva dei fiumi perché i frutti, cadendo in acqua, attirano i pesci e fungono quindi da esca naturale. I frutti si trovano sull’albero quasi tutto l’anno, ad esclusione dei mesi più freddi nei climi rigidi.

    La Muntingia Calabura è la pianta che fornisce legna da ardere di ottima qualità, mentre dalla corteccia si ricava una fibra per cordami.
    E’ una tipica pianta pioniera, si adatta a qualsiasi tipo di suolo, anche povero, è può sopportare periodi di siccità. Parti della pianta vengono variamente utilizzate nella medicina tradizionale. Le foglie sono utilizzate in infusione per farne una bevanda ed i fiori sono utilizzati come antisettico.

    Il genere è dedicato al medico e botanico olandese Abraham Munting (1626-1683); il termine specifico è uno dei nomi con cui è nota localmente la specie.
    Nomi comuni: “calabur-tree”, “cotton candy berry”, “glade mallow”, “glademallow”, “Jamaica-cherry”, “jam tree”, “manzanil”, “Panama-berry”, “Singapore cherry”, “sirsen”, “strawberry-tree” (inglese); “bois de soie marron”, “bois d’orme”, “bois ramier”, “cerisier de Panama” (francese); “acuruco”, “bersilana”, “bolaina yamanaza”, “bolina”, “cacaniqua”, “capolin”, “capulín blanco”, “capulin de comer”, “cedrillo”, “chirriador”, “chitató”, “guácimo”, “guinda”, “hembra”, “iumanasa”, “jonote”, “mahaujo”, “majagua”, “majagüillo”, “majagüito”, “memiso”, “memizo”, “mullacahuayo”, “nigua”, “niguito”, “niguo”, “palman”, “pasito”, “tapabotija”, “yunanasa” (spagnolo); “calabura”, “pau de seda” (portoghese); “Jamaika-kirsche”, “Panama-beere”, “Singapur-kirsche” (tedesco).
     
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  4. gheagabry
     
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    Le piante e i fiori sono come i nostri progetti:
    alcuni non si sviluppano,
    altri crescono quando meno ce lo aspettiamo.
    (Romano Battaglia, Silenzio, 2005)


    IL MELO COTOGNO


    II melo cotogno è una pianta della famiglia delle rosacee, il cui nome botanico è cydonia oblonga. Si presenta come un alberello a fogliame caduco di altezza e volume contenuti, non supera i 6 metri di altezza. Il melo cotogno è un albero rustico che gradisce clima temperato, ma che sopporta bene il caldo e anche le basse temperature.
    Il suo tronco è scuro e contorto ha un apparto radicale superficiale mentre la chioma è globosa. Le sue foglie sono grandi, spesse, verde scuro con margine intero e finemente pelose (pubescenti). I fiori sono a cinque petali, di colore bianco, rosato o aranciato, simili a piccole rose semplici. Ha fioritura tardiva, dopo l’emissione delle foglie, a fine aprile primi di maggio.
    I suoi frutti maturano ad ottobre sono di dimensioni molto variabili, in alcune varietà sono di pezzatura molto grande, di forma piriforme o maliforme e di un bel colore giallo intenso a maturazione. La buccia del frutto del melo cotogno, che diviene liscia per essere raccolto, è fittamente ricoperta da una peluria che scompare a maturazione avvenuta. I frutti del melo cotogno hanno una maturazione scalare e sono pronti per essere raccolti quando ruotando il frutto questo si stacca con facilità dal suo luogo picciolo. Le mele cotogne non sono commestibili appena colte dall’albero; nonostante emanino un forte aroma di mela matura, la polpa risulta veramente molto dura, e il sapore è molto astringente, rendendole del tutto non commestibili. Si utilizzano però cotte. Il risultato della cottura da una purea compatta e densa, molto profumata e aromatica.

    Le mele cotogne, oltre ad avere un sapore unico e un aroma incredibile, sono anche dei frutti sani, che dovrebbero venire utilizzati più spesso nella cucina autunnale. Un tempo era tradizione offrire, specie nei periodi freddi, mele cotogne cotte nel vino che costituivano un caldo e corroborante. Le sue proprietà medicinali sono note dall’antichità. Le mele cotogne sono fonte di vitamine in special modo la A e la C e di sali minerali fra i quali il potassio, il fosforo, il calcio e il magnesio. Inoltre la cotogna è ricca di fibre, di tannini e di mucillagini che sono utili per la regolarizzazione del tratto intestinale.
    I semi sono poligonali, scuri, numerosi e spesso uniti fra di loro da mucillagine; sono apprezzati nella cosmesi perchè a causa delle mucillagini che li uniscono hanno un’apprezzabile attività protettiva contro la disidratazione della pelle e contrastano le rughe.

    Di melo cotogno se ne conoscono differenti varietà divise in due tipi che si distinguono per la forma del frutto. Se portano frutto allungato e simile a quello delle pere allora vengono chiamate varietà di pera cotogna se invece il frutto ha forma di mela allora abbiamo le varietà che vanno sotto il nome di mela cotogna. Alcune varietà sono autofertili vale a dire che basta una pianta sola per fruttificare ma altre invece sono autosterili quindi occorre avere vicino altre varietà di melo cotogno o pero cotogno per avere la fruttificazione.

    Il frutto è usato per la preparazione di confetture, gelatine, mostarde, distillati e liquori. Un liquore a base di cotogna denominato sburlon viene prodotto nel parmense e in particolare più precisamente nella Bassa vicino a Roccabianca.
    La condizione di limitata dolcezza della polpa non significa assenza di zuccheri, ma la loro presenza sotto forma di lunghe catene glucidiche, che danno l'effetto soggettivo della scarsa dolcezza; con la cottura, nella preparazione di confetture, e quindi con la frammentazione dei polisaccaridi la polpa assume una dolcezza intensa, e la liberazione di un profumo di miele. L'elevato contenuto di pectina produce un veloce addensamento della confettura o della gelatina, limitando i tempi di cottura.
    In epoca precedente la diffusione dello zucchero raffinato la confettura semisolida di cotogne era con il miele uno dei pochi cibi dolci facilmente disponibili e soprattutto ben conservabili. La parola marmellata viene dal portoghese marmelo che è il nome lusitano del cotogno.
    I frutti venivano anche posti negli armadi e nei cassetti per profumare la biancheria.
    Il frutto del cotogno è usato come nutrimento dalle larve (bruchi) di alcune specie di lepidotteri (farfalle) quali Bucculatrix bechsteinella, Bucculatrix pomifoliella, Coleophora cerasivorella, Coleophora malivorella.

    ...nella storia...


    Il melo cotogno è un albero antico, che ha subito poche modificazioni da parte dell’uomo; sembra che sia una dei primi frutti presenti nel frutteto, e quindi la gran parte delle “mele” di cui si parla in storie, tradizioni e leggende, dovevano essere con buona probabilità delle mele cotogne. È una delle più antiche piante da frutto conosciute: era coltivato già nel 2.000 a.c. dai Babilonesi, tra i Greci era considerato frutto sacro ad Afrodite - faceva parte dei frutti che gli sposi mangiavano per assicurarsi figli numerosi - e in epoca romana era ben noto, venendo citato da Catone, Plinio e Virgilio.
    Questo albero da frutto originario dell’Asia Minore, in particolare dell’Anatolia e della Persia, nel periodo antico si diffuse per tutto il bacino del Mediterraneo.
    Inoltre le mele cotogne erano considerate frutti preziosi perché color dell’oro.
    Esiodo, uno scrittore della Grecia antica, narra di come le Esperidi, bellissime ninfe che custodivano un giardino incantato, avessero soprattutto il compito di sorvegliare un albero che si trovava al centro del giardino e che portava frutti color dell’oro questa pianta da frutto era un albero di melo cotogno. Quindi l’antica tradizione greca a causa di questa leggenda chiamava il melo cotogno “chrisomelon”.
    Il melo cotogno era considerato un ottimo albero da frutto ai tempi della Roma antica e meli cotogni sono stati trovati dipinti in antichi affreschi a Pompei. Le cotogne erano apprezzate anche dagli antichi romani che ne ricavavano una bevanda prodotta dalla loro fermentazione che veniva addolcita con il miele.
    Nel Rinascimento si riteneva che se una donna incinta avesse spesso mangiato questi frutti il suo figliolo sarebbe stato “industrioso e di segnalato ingegno”

    Oggi in Italia il melo cotogno non è un albero da frutto coltivato in modo intensivo perché le sue mele, dure e non commestibili fresche ma solo dopo cottura, non incontrano il favore della grande distribuzione e quindi raramente si trovano sul mercato.
    Ne sopravvivono alberi vetusti presso antichi casolari oppure recentemente se ne vedono presso i giardini o gli orti degli appassionati che hanno riscoperto questo alberello.
     
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  5. gheagabry
     
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    "Sono rimasti penduli segni
    di matura bontà
    sul caco, in fondo alla fascia.
    In alto, non colti, i cachi rimangono
    a contrappunto tra cielo e terra
    pizzicati da puntuti becchi
    d'uccelletti stanziali
    Altalenato assalto da esili rami.
    Dolcezza autunnale."
    (Giuseppe Amato)


    IL CACHI


    Diospyros kaki è un membro della famiglia delle Ebenacee, la stessa cui appartiene l’ebano: sono alberi che raggiungono altezze piuttosto elevate dai 15 ai 18 metri e una vita piuttosto lunga, fino a 50 anni. Le foglie ovali – bislunghe, estese e lucenti, sono caduche e poco appuntite. I fiori, esclusivamente femminili nelle piante coltivate, sono bianchi: la fruttificazione segue l’impollinazione, resa possibile da esemplari della medesima specie, provvisti di fiori maschili.
    Il frutto è una bacca sferica dal colore arancio carico: come le nespole, i cachi vengono raccolti immaturi, quando ancora la polpa è soda, asprigna ed estremamente astringente. Il frutto potrà essere consumato dopo la sua sovra maturazione, quando la polpa diviene molliccia, gelatinosa e dal colore tendente al brunastro.

    Il cachi è noto in botanica con il nome Diospyros kaki: il genere deriva dal greco ed è costituito da un accostamento di due parole “Diòs” (riferito al dio Giove) e “pyròs” (frumento); letteralmente, quindi, il cachi viene definito il frumento di Giove. La specie “kaki” fa riferimento, invece, al colore aranciato del frutto, tipico della terra arida e siccitosa dalla quale si sviluppa la pianta.
    Il Diospyros Kaki è una delle più antiche piante da frutta coltivate dall'uomo, conosciuta per il suo uso in Cina da più di 2.000 anni. In cinese il frutto viene chiamato 柿子 shìzi mentre l'albero è noto come 柿子树 shizishu. La sua prima descrizione botanica pubblicata risale al 1780. Tra i vari nomignoli con i quali viene ricordato il cachi, non può mancare “Mela d’Oriente” (essendo tipico dei paesi orientali) e “loto del Giappone”. Fu definito in passato “cibo degli dei”, per merito del suo sapore dolcissimo.
    È originario della zona centro-meridionale della Cina, ma comunque mai al di sotto dei 20° di latitudine Nord, e nelle zone più meridionali spesso in zone collinari o montane e quindi più fredde. Dalla Cina si è esteso nei paesi limitrofi, come la Corea, ed ha trovato larga diffusione nel vicino Giappone.

    ..storia, miti e leggende..



    La leggenda narra che la pianta del cachi incarna l'Albero delle sette virtù..riferite sostanzialmente alla dolcezza dei frutti, al legno robusto, alla longevità della pianta, all’impiego decorativo delle sue foglie, al fuoco prodotto dall’ardore dei suoi rami, alla possibilità data agli uccelli di nidificare tra i rami, ed alla sagoma ombreggiata creata dall’imponente albero.
    “Loto”, altro nome col quale è chiamato il cachi, è permeato di leggenda, legata al ricordo dei i lotofagi citati da Omero, cioè i mangiatori di loto, i quali offrivano agli ospiti questo frutto e quei poveretti perdevano la memoria della loro patria. Ma non si trattava del cachi bensì del giuggiolo o del bagolaro. E nemmeno del loto, ci si può riferire a quelle piante erbacee famose presso gli egiziani che da queste traevano nutrimento mangiandone i rizomi (Nymphaea lotus). Il nome "loto" deriva dal greco e gli stessi, con lotos, ed i romani poi, indicavano diverse piante esotiche; quindi al suo apparire in Europa non tutti vollero seguire l’abitudine inglese di chiamarlo cachi, ma preferirono ribattezzarlo “loto”, in memoria di antichi ricordi.

    Solo nel 1796 grazie al direttore inglese, del Giardino Botanico di Calcutta che porterà alcuni esemplari in Inghilterra, si diffuse n Gran Bretagna. Nel resto d’Europa comincerà a diffondersi a partire dalla seconda metà del 1800. Si narra che il primo albero di cachi nel Nostro Paese fu coltivato nel giardino di Boboli nel 1871.

    E' simbolo di pace. Al bombardamento atomico di Nagasaki il 9 agosto 1945 è miracolosamente sopravvissuto una piccolo alberello di cachi. Nel 1994 uno fitopatologo giapponese è riuscito a far nascere da quell’alberello alcune piante di seconda generazione ed il Museo del bombardamento atomico ha cominciato a distribuirle ai bambini in visita come segno di pace, di speranza e di rinascita.

    In Giappone, vi era un profondo legame religioso del Kaki con la Vita. Il Frutto del Kaki è ancora offerto come dono nei santuari shintoisti. Posto sull'altare di famiglia a Capodanno e nel giorno dei morti, quando le anime degli antenati tornano sulla terra. Al cimitero, viene offerto riso cotto sulle foglie di Kaki per i morti sconosciuti e senza nome, come per nati i bambini morti.
    Il cachi nella simbolica legata ai fiori e al regno vegetale esprime l’intuizione speciale di "non credere alle apparenze", probabilmente il significato scaturisce dalle peculiarità di questa succulenta bacca, così sgradevole quando è immatura e così zuccherosa quando ha perduto le sostanze che la rendono deliziosa.
     
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  6. gheagabry
     
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    IL TEREBINTO



    La Pistacia terebinthus, noto con il nome di Terebinto, è un arbusto tipico della macchia mediterranea che cresce spontaneamente lungo la costa marittima, generalmente, rimane molto piccolo e comunque non supera i 4 - 5 metri di altezza. E' una pianta dioica che porta fiori maschili e femminili su esemplari diversi.
    I fiori rossastri o rosati compaiono in primavera e in contemporanea all'emissione delle nuove foglie. La pianta aromatica presenta foglie caduche e produce piccoli frutti rossastri che a maturazione assumono un colore brunastro.
    Le piccole bacche sono commestibili e il loro sapore ricorda il pistacchio. Vengono conservati sott’olio o sotto aceto ed utilizzati per insaporire la carne.


    Sul terebinto s' innesta il pistacchio per formare i pistacchieti naturali. Il terebinto s'ibrida tanto col pistacchio (Pistacia vera), quanto col lentisco (P. lentiscus). Questa specie arborea, il terebinto, è stata la fortuna di Bronte: senza di esso il pistacchio non crescerebbe sulla sciara. Con un apparato radicale molto profondo è, infatti, capace di farsi strada fra le fessure della roccia lavica, crescendo agevolmente su terreni sciarosi e difficilmente coltivabili ed anche sulle fessure della roccia dove si fa largo fino a spaccarla. Viene utilizzata dagli agricoltori brontesi fin dall'antichità come portainnesto della pianta di pistacchio ("pistacia vera"). Il pistacchio si propaga innestando a gemma vegetante nel mese di giugno semenzali di P. terebinthus, in vivaio, in vaso o a dimora, con gemme prelevate da rami di due-tre anni di età. Ed il terebinto, resistente alla siccità ed a terreni dove altre piante non riuscirebbero a sopravvivere, a buon ragione è ritenuto quello che fornisce le migliori produzioni, e con cui si ottengono piante che producono un minor numero di frutti vuoti.

    Questa pianta si chiama volgarmente spaccasasso (per il suo apparato radicale sviluppato e profondo che ben si adatta a terreni rocciosi) o di “Scornabeccu” (per le galle, a forma di corna di capra, che si sviluppano sulle sue foglie, e vale la pena ricordare che deriva dallo spagnolo cornicabra, corno di capra, con lo stesso significato) od anche col nome di “Cornucopia” (per la durezza del suo legno superiore al corno del becco). E' diffusa in tutta la regione mediterranea; in Italia si trova nei luoghi sassosi e rupestri del piano mediterraneo e submontano della Penisola e grandi isole, Capri e Isole Tremiti; sebbene più raro, cresce anche nell’Italia Settentrionale in un areale che va dai Colli Euganei e Berici ai laghi di Garda ed Iseo.
    In Oriente fornisce da incisioni della corteccia una trementina, detta trementina di Chio, conosciuta dagli antichi col nome di terebinthos. Le foglie dànno materiale conciante; assai ricche di tannino (circa 600%) sono le galle prodotte sulle foglie dalla puntura del Pemphigus cornicularius, dette carrube di Giudea.
    Il legno, specialmente quello della radice, è capace di bella pulitura e serve a confezionare piccoli oggetti come tabacchiere, ecc.


    Gli Egizi, per far salire al cielo le loro preghiere, usavano una resina che ricavavano per incisione dalla corteccia del terebinto, “Pistacia terebinthus”, un alberello diffuso sulle coste del Mediterraneo con foglie decidue e profumatissime. Anche gli Ebrei conobbero questo arbusto e lo considerarono una pianta sacra a Iahvè, tant’è vero che spesso viene citata nella Torah. Nella Bibbia è indicata come l’albero alla cui ombra venne a sedersi l’angelo del Signore (Gdc 6,11); la divina Sapienza è descritta come un terebinto che estende i suoi rami di maestà e bellezza (Sir 24,16)Si narra che queste specie vegetali furono create all’inizio del mondo e, secondo la tradizione, Abramo innalzò un altare nella valle di Ebron, presso un bosco di terebinti. Si cercava di seppellire i morti all’ombra di quest’albero che, a poco a poco, divenne il simbolo dell’immortalità.
     
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    Castagne, usi e proprietà

    Le castagne profumano d’autunno. Ne sono quasi le portavoce. Non sempre la loro raccolta è fruttuosa a causa del clima e dei parassiti, ma,a prescindere da questo, gli usi e le proprietà che si possono fare della castanea vulgaris sono tanti ed incredibili.

    castagne-prese-da-albero

    Usi delle castagne

    castagne-in-padella

    Noi dell’albero del castagno mangiamo ovviamente solo i frutti. Le caldarroste sono forse uno degli snack che chiunque, a qualsiasi età ricorda con affetto e con una certa acquolina in bocca. L’uso delle castagne è quasi prettamente culinario. Popolarmente esse venivano utilizzate anche come “medicinali”. Forse non lo sapete ma nel corso del medioevo, uno degli usi terapeutici più diffusi era quello relativo alla battaglia contro la gotta, il mal di gola e il mal di testa. Mentre l’acqua di cottura delle foglie e delle bucce delle castagne veniva fatta assmere a chi soffriva di dolori problemi di cuore.

    Esse venivano usate anche da chi aveva problemi di milza e di fegato. Mentre venivano usate contro il mal di stomaco con un pizzico di liquirizia. La loro farina veniva usata invece per combattere il flusso mestruale abbondante, per il mal di reni durante la gestazione e per evitare il rischio di aborto.

    Proprietà delle castagne

    caldarroste

    Le proprietà delle castagne sono molto simili a quelle dei cereali. Per molto tempo sono state chiamate “cereali che crescono sugli alberi”. Sebbene non ci mettiamo la mano sul fuoco, si dice che macerate o lessate nel vino siano un alimento afrodisiaco. Le castagne non contengono glutine quindi sono adatte chi soffre di celiachia. Posseggono buone quantità di acido folico e sono di solito consigliate quando una persona soffre di anemia.



    Le castagne tra l’altro contengono fosforo, e ciò le rende un alimento perfetto per la cura del sistema nervoso. Non abbiate quindi timore di provarle, ovviamente senza esagerare, nella foggia che più pensiate possa corrispondere al vostro gusto.

    www.pollicegreen.com/

     
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  8. gheagabry
     
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    IL NESPOLO



    Il nespolo comune appartiene alla famiglia delle Rosacee, alla sottofamiglia delle Pomoidee e al genere Mespilus. E' originario, secondo recenti studi, dell'areale caucasico, ma anche con primi nuclei di diffusione in Iran, in Turchia fino alla Grecia. Oggi e' diffuso in tutta Europa come pianta spontanea nei boschi di latifoglie o come rinselvatichita negli incolti.
    È un albero di piccola taglia, alto al massimo 5-6 m, con un tronco tortuoso, la corteccia dei rami da marrone scuro diventa chiara e poi, come sul tronco, grigiae liscia. Il portamento è irregolare ed ha una chioma tondeggiante. Le radici si sviluppano molto in superficie e lateralmente, i rami contorti sono spinescenti nella porzione terminale, una caratteristica non presente sulle piante adulte. Le foglie sono grandi, caduche, dure, intere ed ovoidali e hanno margine intero, dentellato solo all'apice; la pagina superiore è liscia e di color verde scuro, mentre quella inferiore è più chiara e leggermente pelosa; in autunno acquisiscono un colore ramato. I fiori, solitari e grandi, si trovano all’apice dei germogli dell’anno ed hanno cinque petali bianchi; la fioritura avviene a fine maggio, inizio giugno. È una specie autofertile con una buona allegagione, per cui non necessita di impollinatori essendo una pianta entomofila.

    "Col tempo e con la paglia maturano le nespole"


    Il frutto, la nespola, e' un falso frutto dato dall'ingros-
    samento del ricetta-
    colo attorno ai frutti veri e propri. I frutti sono pomi tondeggianti, detti anche nocule, con un'ampia depressione apicale, coronata da residui del calice, ha un corto peduncolo e una resistente buccia che per grana, colore e consistenza ricorda il cuoio. La nespola è divisa in cinque logge, nelle quali si trovano i 5 semi, duri e legnosi. Le piante nate da seme crescono molto lentamente e fruttificano al sesto o al settimo anno di vita. Per l'alto contenuto di tannini, i frutti non possono essere consumati alla raccolta. Necessitano di ammezzimento, una fermentazione di maturazione ottenuta deponendo i frutti all'interno di cassette di legno, ricoperte di paglia e poste in un locale fresco. I frutti devono essere consumati man mano che sono pronti in quanto il processo di fermentazione non si arresta e i frutti possono rapidamente degradarsi. In seguito all'ammezzimento la polpa diventa bruna, molle, zuccherina, di consistenza pastosa, leggermente acidulo e gradevole. Vengono consumati per dessert.
    Con la trasformazione si ottengono: marmellate, gelatine, salse e varie preparazioni culinarie. Vengono usati inoltre per la produzione di bevande alcoliche, quali brandy, liquori, schnaps. I frutti immaturi sono stati anche utilizzati per chiarificare vino e sidro.

    Linneo pensava, sbagliando, che la Germania fosse l'area d'origine. Le prime coltivazioni di nespolo risalgono al I millennio a.C. lungo le rive del Mar Caspio, da qui si diffuse in Asia Minore per raggiungere poi Grecia e Italia. I Greci antichi lo chiamavano méspilon e nespolo deriva dal latino Mespilium tradotto dal greco mespilon che si riferisce a biancospini orientali simili a questa pianta da frutto. Le meddhre (Mespilus germanica) erano frutti consacrati al dio greco Crono e al Dio latino Saturno perché era considerato utile arma di difesa contro le energie negative degli stregoni.
    Pare che il primo maggio, secondo la credenza, gli stregoni potevano privare la pianta del fogliame e renderlo sterile per non riprodurre i suoi frutti, ma solo se la pianta non era stata benedetta. Un tempo era un frutto molto apprezzato dai contadini perchè garantiva frutta nel cuore dell’inverno, giungendo a maturazione nella brutta stagione. Per lungo tempo il Nespolo Selvatico è stato trattato come una pianta dai poteri miracolosi. Gli erboristi lo utilizzavano normalmente per eseguire preparati in grado di curare un buon numero di patologie.

    Con l’imporsi d’attività agricole più redditizie si accantonò le piante che non avevano un preciso interesse economico e il nespolo finì relegato nell’orto dei conventi.
     
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    Alberi da frutto, il Carrubo

    carrubo

    La Ceratonia siliqua, meglio conosciuta come Carrubo, è una pianta da frutto appartenente alla famiglia delle Leguminose ed originaria – pare – di Asia Minore e Siria, sebbene la sua diffusione sia ormai estesa a tutte le zone temperate del Pianeta. Si tratta di una pianta caratterizzata da fusti che possono raggiungere i 10 metri di altezza e da foglie alterne e tondeggianti, di colore verde più o meno chiaro. I fiori sono riuniti in grappoli di colore verde rossastro e fanno la propria comparsa nel corso della stagione primaverile.




    I frutti sono lunghi e piatti, di colore verde, marrone o nerastro, a seconda della maturazione, e contengono dei semi scuri. Solitamente il Carrubo si coltiva come albero da frutto, ma avendo una chioma maestosa ed appariscente, non è escluso che si possa coltivare come pianta ornamentale all’interno del giardino. Nelle zone con inverni particolarmente freddi, è opportuno coltivare la Ceratonia siliqua in vaso.

    Ceratonia siliuqa (Carrubo)
    Fioritura: in primavera
    Impianto: in primavera o nel corso della stagione autunnale
    Tipo di pianta: albero da frutto
    Altezza max: 10 metri
    Esposizione
    Il Carrubo va coltivato in posizione luminosa, in modo che possa ricevere il sole diretto per diverse ore nel corso della giornata. Non tollera il freddo intenso ed è per questo che nelle zone con clima particolarmente rigido se ne sconsiglia la coltivazione.
    Terreno
    Si adatta a qualunque tipo di terreno, pur preferendo quello ben drenato.
    Innaffiatura
    Si accontenta dell'acqua piovana, richiedendo l'intervento umano solo in presenza di esemplari giovani o coltivati in vaso.
    Malattie e avversità
    Può essere attaccato da cocciniglie e coleotteri, da trattare con prodotti specifici. Attenzione anche alle malattie fungine, dovute per lo più all'eccesso di umidità.
    Concimazione
    Nella fase di messa a dimora ed al termine della stagione invernale si consiglia di utilizzare dello stallatico maturo. Durante il periodo vegetativo, invece, si può aiutare lo sviluppo della pianta fornendo del fertilizzante ricco di minerali.
    Moltiplicazione
    La Ceratonia siliqua si propaga per semina in primavera o nel corso della stagione autunnale.

    fonte:http://www.pollicegreen.com/

     
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  10. gheagabry
     
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    L'ARANCIO TRIFOGLIATO



    L'Arancio trifogliato o Ponciro (Poncirus trifoliata L. o Citrus triptera) è un agrume, della famiglia delle Rutaceae, assieme ai generi Citrus e Fortunella, originario della Cina settentrionale e centrale Il nome Ponciro deriva probabilmente dal francese pomme de Syrie (pomo della Siria). E' l'unico agrume a foglie decidue.
    Piccolo albero a crescita rapida, ha un portamento cespuglioso irregolare; è un folto arbusto o alberello che può raggiungere i 7 metri di altezza. È l'unica specie del genere Poncirus. Ha tre caratteristiche: diversamente da tutti gli altri agrumi, non è un sempreverde, sopporta il freddo (fino a -20 °C), e la buccia dei frutti è leggermente pelosa.
    È il migliore portainnesto per ibridi di tutti gli agrumi. Oltre a conferire alle nuove piante resistenza al freddo e alle malattie, sembra che le piante del Poncirus favoriscano raccolti più abbondanti. Va inoltre notato che le fortunelle, divenute di recente abbastanza importanti sui mercati mondiali, non fruttificano se non innestate sui Poncirus.
    Oltre a sfruttare i portainnesti, la pianta di arancio trifogliato viene coltivata anche alla stregua di pianta ornamentale: in particolar modo, viene impiegata per realizzare delle siepi

    Le foglie sono trifogliate, con una foglia centrale, può raggiungere i 5 cm di lunghezza, e due foglie laterali solitamente più piccole. I rami, all’ascella della foglia, presentano spine appuntite lunghe oltre i 5 cm ed hanno una crescita assurgente, ci possono essere dei brevi rametti non spinescenti.
    I fiori sono bianchi e simili a quelli dei Citrus, ma sono un po' più grandi e leggermente meno profumati. I boccioli fiorali si formano all'inizio dell'estate ma si aprono solo la primavera seguente, prima dell'emissione delle foglie.
    I frutti, globosi, di 3-4 cm di diametro, sono inizialmente verdi, tendenti al giallo a maturazione, ed hanno la buccia coperta da una leggera peluria.
    I frutti del ponciro risultano amari a causa della presenza di un olio amaro chiamato Ponciridin. Viene poco usato non solo per il suo sapore amaro ma anche perché possiede molti semi e poco succo. In cucina è usato per preparare confetture, marmellate e liquori.
    Questo frutto viene impiegato in medicina; i cinesi lo usano da moltissimo tempo contro le infiammazioni e le allergie.
    In occidente studi medici hanno dimostrato l’importanza del ponciro per la protezione e il trattamento della gastrite.

    Un uso antico di questo agrume è di mettere le scorze profumate della sua buccia nella biancheria per scacciarne gli insetti e dare un gradevole profumo.
     
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  11. gheagabry
     
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    "Il profumo è magia. E’ mistero.
    Ricreiamo l’odore di un fiore. Del legno. Dell’erba.
    Noi catturiamo l’essenza della vita. La Liquefiamo.
    Intrappoliamo ricordi.
    Facciamo sogni. Quello che facciamo è una meraviglia, un’arte,
    e noi abbiamo la responsabilità di farla bene.
    (MJ Rose)


    IL BERGAMOTTO


    Il bergamotto è un agrume del genere Citrus, appartenente alla famiglia delle Rutaceae. L’etimologia del termine “bergamotto” sembra avere diverse origini. Alcuni dicono che deriva dalla città spagnola di Berga, l’attuale Barcellona, altri dalla città di Pergamon, l’antica Troia, altri ancora dal turco Berg-a-mudi che significa “pero del Signore”, dalla forma a pera dei frutti di bergamotto.
    Non si conosce neanche, l'esatta genesi di questo agrume. Il colore giallo sembra derivi dalla mutazione genetica di preesistenti specie agrumarie, quali limone, arancia amara o limetta. Alcuni lo classificano come specie a sé stante (Risso e Poiteau), mentre altri lo indicano come sottospecie dell'arancio amaro (Swingle).
    Il Bergamotto ha poca resistenza in fatto di freddo e caldo eccessivi, teme gli sbalzi di temperatura, le nebbie primaverili, lo scirocco estivo, la siccità e le piogge prolungate. Ha bisogno di un clima mite, costante e umido, litoraneo, di una modesta altitudine e di un terreno ben al riparo dai venti.
    E' un albero modesto con rami nei quali raramente si riscontrano spine rudimentali all'ascella della foglia.
    I fiori, numerosi e bianchi, odoratissimi, con cinque petali, possono essere sia ascellari che terminali, per lo piu' riuniti in gruppi e sono ermafroditi. Il frutto e' simile a un’arancia, di colore dal verde al giallo, secondo la maturazione, ha buccia sottile e liscia e un peso che va dagli 80 ai 200 grammi. La polpa, suddivisa in 12-15 spicchi, fornisce un succo molto acido e amarognolo. I semi, in numero limitato, sono monoembrionici.
    A differenza, però, della maggior parte degli altri “citrus”, il frutto non viene mangiato anche se commestibile, ne messo in vendita al dettaglio, si trova solo dai contadini da novembre a marzo; è possibile ottenere delle spremute, si può tagliare a spicchi per farne delle insalate o come per il limone, metterlo nel tè. Il suo succo è molto amaro per la presenza di naringina e sembra essere attivo, grazie al contenuto in polifenoli. Il contenuto di acido citrico è pari a 66 g/l, tale quantità ha determinato negli anni passati l'utilizzo del succo come fonte di acido citrico naturale.
    Il suo utilizzo riguarda soprattutto gli oli essenziali che si ricvano dalla buccia dei frutti, dai fiori, dalle foglie e dai giovani rametti. L’olio essenziale viene estratto dalla buccia del frutto mediante un procedimento “a freddo” con dei rulli cilindrici che lo “grattugiano”. La buccia, durante la lavorazione viene costantemente “spruzzato” da sottili getti d’acqua “a pressione” che, lavando la scorza, trasportano l’olio essenziale nelle centrifughe per essere, successivamente, separato dall’acqua stessa. In epoche in cui i profumi ed i prodotti cosmetici erano composti esclusivamente da prodotti naturali, l’olio essenziale di bergamotto era considerato un componente “quasi” indispensabile nella composizione dei bouquet ed usato per amalgamare tutte le essenze contenute in esso e conservarne la fragranza nel tempo. L'olio essenziale di bergamotto è esportato in tutto il mondo per le sue proprietà. È un componente essenziale dell'acqua di colonia e delle acque di toilette. L’essenza di bergamotto fino agli anni ’70 era usata per la disinfezione di ferite infette per le sue spiccate proprietà micotiche contro i germi della pelle. Ma ci si accorse della pericolosità di certi componenti dell’olio essenziale, i bergapteni che possono causare reazioni pericolose della pelle, a seguito dell’esposizione anche breve alla luce solare, come ustioni, macchie cutanee e irritazioni. Recentemente si è trovato il modo di eliminare queste sostanze dannose lasciando intatti i principi attivi e quindi è possibile usare questa essenza senza timori.

    Il frutto intero può essere candito; la polpa e gli scarti della buccia, che vengono chiamati "pastazzo", sono usati come alimento concentrato per gli animali d'allevamento. La buccia intera è usata al posto della carta da dolci, o per alcuni prodotti artigianali per realizzare souvenir come le famose tabacchiere. Messa a macerare in alcool etilico, costituisce la base del liquore denominato bergamino o bergamello. Il succo ricavato dal bergamotto maturo (giallo) è usato, a volte e in piccole quantità, dall'industria dei succhi di frutta per la sua nota amara.

    Verso la fine dell’800, poi, un lord inglese, Sir Grey, proprietario di vaste piantagioni di tè in India ebbe l’intuizione di aromatizzare le foglie del tè indiano con la fragranza dell’essenza del bergamotto. Nacque il tè “Earl Grey”, diventato nel corso dell’ultimo secolo, uno dei tè aromatizzati più bevuti al mondo.

    ...storia, miti e leggende...



    La mitologia greca narra che Paride diede in premio ad Afrodite una mela. Ma se diamo ascolto all'opinione di uno studioso calabrese, Saverio Siciliano, scopriremo che in realtà la più bella delle dee ricevette in dono un Bergamotto, il più raro dei frutti mediterranei. E non solo: fu la pianta stessa a chiedere alla sua dea di poter dimorare nella sola terra il cui clima le avrebbe consentito di crescere rigogliosa...quel litorale di fronte al quale Afrodite aveva fatto la sua comparsa nascendo dalla spuma del mare.

    Alcune leggende fanno derivare il bergamotto dalle isole Canarie, importato da Cristoforo Colombo; altre fonti danno la sua origine in Cina, Grecia, o dalla città di Berga in Spagna. Narra la storia di un moro di Spagna, che per 18 scudi ne vendette un ramo ai signori Valentino di Reggio (in Calabria), i quali lo innestarono su un arancio amaro in un loro possedimento nella contrada Santa Caterina. Già nel XIV secolo risultano tracce di un agrume esclusivo del sud della Calabria, Limon pusillus calaber. Secondo Gildemeister e Hoffmann, nel loro libro "Gli oli eterici" (Die etherischen Öle), il bergamotto venne introdotto fra il 1672 e il 1708. Nei registri commerciali dedicati all'Eau de Cologne della ditta profumiera Johann Maria Farina gegenüber dem Jülichs-Platz (ovvero "Giovanni Maria Farina di fronte alla piazza di Jülich"), altrimenti detta Farina Gegenüber, si trovano testimonianze dell'acquisto di bergamotti a partire dal 1714.La prima piantagione intensiva di alberi di bergamotto (bergamotteto) fu opera, nel 1750, del proprietario Nicola Parisi lungo la costa reggina, nel fondo di Rada dei Giunchi.
    Originariamente l'essenza veniva estratta dalla scorza per pressione manuale e fatta assorbire da spugne naturali, procedimento detto "a spugna", collocate in recipienti appositi chiamati concoline.
    Nel 1844, è documentata la prima vera industrializzazione del processo di estrazione dell'olio essenziale grazie a una macchina di invenzione del reggino Nicola Barillà, che garantiva una resa elevata in tempi brevi, ma anche un'essenza di ottima qualità se paragonata a quella estratta a spugna.

    Il suo uso nell'alimentazione risale almeno all'aprile del 1536, come risulta dal «menu di magro» offerto all'imperatore Carlo V, di passaggio per Roma, dal cardinale Lorenzo Campeggi
     
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  12. gheagabry
     
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    IL WAMPEE



    Clausena Lansium, noto anche come Wampee, è una specie un sempreverde molto profumato. Appartiene alla famiglia delle Rutacee ed è nativo del sud-est asiatico. Il nome deriva dal cinese "haung-p'i" -buccia gialla- e si riferisce ai suoi frutti color senape. L'albero può raggiunge un'altezza massima di 20 metri. Cresce in condizioni tropicali o subtropicali, ed è suscettibile al freddo. E' spontaneo in Cina, è coltivato in Vietnam, nelle Filippine, in Malesia e nell'Indonesia. Meno frequentemente, cresce in India, Sri Lanka e nel Queensland; viene coltivata anche in Florida e Hawaii. E' un albero slanciato ed è stato descritto come il frutto più bello del Siam (Thailandia).
    Le sue foglie sono di colore verde scuro e liscie; i fiori, molto profumati, sono di colore bianco, con quattro o cinque petali, di circa 3-4 mm di diametro. Il Wampee è coltivato per i suoi frutti, che si presentano come un vitigno. I frutti ingialliscono a maturazione e hanno un sottile pelle a volte fragile, un po' come la carta; sono ovali, lunghi circa 3 cm e 2 cm di diametro, e contiene i semi di dimensioni notevoli che occupano circa il 40-50% del volume. La frutta, quando è in via di sviluppo, appare in mazzi di un colore bruno dorato e di medie dimensioni. I frutti hanno un aroma di limone e lime molto piacevole. Possono essere consumati freschi come l'uva, o possono essere utilizzati per gelatine, marmellate, bevande, torte o altri scopi.

    Il frutto Wampee è definito come un rimedio popolare ed è citato all'interno del libro, "A Time Far Past: A Novel of Vietnam". Nel libro, una moglie raccomanda il suo sposo di usare la fruttta Wampee a vapore, petali e miele di rosa come trattamento per il freddo, per il loro bambino.
    I cinesi dicono che se uno ha mangiato troppi litchi, ha bisogno di mangiare il Wampee " contrasterà gli effetti negativi. I Lychees devono essere consumati quando si ha fame, e wampees solo a stomaco pieno". Dimezzato ed essiccato al sole, il frutto immaturo è un rimedio vietnamita e cinese per la bronchite. Fette sottili di radici essiccate sono venduti in farmacia orientali per lo stesso scopo. I decotti di foglie viene utilizzato come un lavaggio dei capelli per rimuovere forfora e conservare il colore dei capelli.
     
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  13. gheagabry
     
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    IL MELONE PEPINO


    Il Solanum muricatum è una pianta erbacea originaria delle Ande, apparte-
    nente alla grande famiglia delle Solanaceae, coltivata per il suo frutto, la caciuma (aymara e quechua è rispet-
    tivamente "kachuma" e "xachum"). In Italia è chiamato "melone-pepino" o "pera-melone". La terra di provenienza è molto probabilmente il Perù o la Colombia. Da lì si è diffuso in tutta l’America Latina e poi all’estero. Oggi si coltiva di più in Bolivia, Ecuador e in Nuova Zelanda.
    Arrivò in Europa probabilmente nel 1785. Tra i suoi primi coltivatori vi fu Ludovico XVI e i Royal Botanic Gardens a Kew, a Londra. Gli Indiani dell’America meridionale lo chiamarono cachuma, che tradotto significa “cetriolo da insalata”. Il nome inglese ”melon shrub” che tradotto significa il cespuglio del melone, esprime meglio il suo sapore.
    Il melone-pepino è una pianta cespugliosa, alta circa 1 m. Nel suo paese di provenienza è una pianta legnosa perenne che si coltiva fino all’altitudine di 2500 m s.l.m. Da noi si coltiva come pianta perenne.
    I suoi fiori assomigliano a quelli della patata; sono viola, o bianchi con le strisce viola e sono monoici. Più interessanti i frutti. grandi circa 15 cm, hanno una forma che assomigliano all’avocado o ad una pera più grande. Il frutto ha le dimensioni di un uovo d'oca Sono aromatici e dolciastri. Il colore che li caratterizza va dal giallio, giallo-marroni, viola scuri con delle strisce e molto spesso i semi sono assenti. Si moltiplica per talea, lunga circa 15 cm.

    I frutti crudi si possono consumare in un’insalata di frutta. Il melone-pepino, fatto in umido si usa più spesso come contorno; il pepino fritto è adatto come primo piatto. Lo si può aromatizzare con delle spezie come la cannella, la badiana, l' anice, con il succo di limone, melograno o maracuja.
    Il pepino ha un alto contenuto di potassio, che può aiutare a contrastare l'ipertensione, ed è anche ricco di vitamina A,B e C, protettive contro i tumori e le malattie cardiache.
    E' indicato anche nelle diete, avendo un potere calorico molto basso (solo 23 calorie per 100 grammi).
     
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  14. gheagabry
     
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    "..nell'ombra di un giardino c'è il limone
    coi rami polverosi,
    e limoni d'un giallo impallidito
    nello specchio dell'acqua della fonte.."
    (Antonio Machado)


    IL LIMONE



    Il limone è un albero da frutto che appartenente al genere Citrus e alla famiglia delle Rutaceae. Secondo alcuni studi genetici, il limone è un antico ibrido, probabilmente tra il pomelo e il cedro, ma da secoli è una specie autonoma. E' una pianta sempreverde. Il termine generico probabilmente deriva da una lingua pre-indoeuropea, in greco 'citron' e in latino 'citrus', per indicare il cedro, agrume di origine indiana introdotto in Persia e poi in Grecia da Alessandro Magno. Il termine specifico deriva probabilmente da un vocabolo arabo o persiano ('limúm') di provenienza orientale, introdotto in Occidente dagli arabi e dai crociati insieme alla pianta; dal greco 2limonum" = prato, luogo erboso, perchè quando il frutto è acerbo ha il color verde, simile a quello dei prati.
    Il limone viene coltivato in tutto il mondo nella fascia subtropicale, dove il clima è sufficientemente caldo ed umido ed è un importante prodotto di esportazione per molti paesi al di fuori dell'Unione Europea nel periodo "fuori stagione".
    L'albero del limone è alto fino a 6 metri, ha la corteccia scura ed i rami sono normalmente spinosi. Le foglie sono alterne, rossastre da giovani e poi verde scuro sopra e più chiare sotto; il picciolo è leggermente alato.
    I fiori, dolcemente profumati, possono essere solitari o in coppie, all'ascella delle foglie; in condizioni climatiche favorevoli sono prodotti praticamente tutto l'anno. Il bordo dei petali è violetto. I frutti sono ovali oppure oblunghi. Normalmente la buccia è gialla, può essere da molto ruvida a liscia, più o meno foderata all'interno con una massa bianca spugnosa detta albedo.
    Ci sono varietà variegate di verde o di bianco: ricca di olii essenziali, può essere più o meno sottile: la polpa è divisa in otto-dieci spicchi; generalmente è molto aspra e succosa: molte varietà sono prive di semi. La fioritura avviene in primavera, con la produzione del frutto invernale, e in settembre, da cui derivano i cosiddetti verdelli che maturano nell'estate seguente. In clima favorevole, il limone fiorisce e fruttifica due volte l'anno. La fioritura dura almeno due mesi e il frutto maturo può attendere altri due mesi sull'albero prima di venir colto, il che favorisce una raccolta sistematica. La fioritura primaverile produce i frutti migliori, la cui raccolta dura poi tutto l'inverno, da novembre ad aprile o maggio.
    I limoni sono coltivati in tutto il mondo in innumerevoli varietà che probabilmente neanche i botanici riescono a registrare correntemente. Le differenze tra di esse sono infatti riscontrabili prevalentemente nell'aspetto esteriore, mentre rimangono praticamente invariate sia le loro qualità alimentari. Quasi ignote le varietà del limone rosso e del limone dolce che danno frutti sempre agri, ma nel contempo abbastanza dolci da poter essere mangiati come frutta fresca.

    Anche in farmacologia il limone è molto apprezzato e le sue parti utilizzate sono il succo e la scorza. Il suo uso come farmaco era consolidato quando ancora non si sapeva nulla delle vitamine. Innanzi tutto ne veniva apprezzato il succo quale antiemorragico, disinfettante, ipoglicemizzanti (tende a far diminuire il glucosio nel sangue).
    In Sicilia, dove esiste da sempre il problema dell'acqua potabile, era in voga l'uso di immettere nelle riserve d'acqua vari limoni tagliati a metà. La gente sapeva per esperienza che i limoni disinfettano l'acqua e la ricerca moderna ha dato ragione. L'elevata concentrazione di vitamina C contenuta nel limone rende questo frutto di notevole importanza per la tutela della salute. Il limone rappresenta il 71% del fabbisogno giornaliero di vitamina C per una persona adulta, ed il 7% del fabbisogno di potassio, l'1% di calcio ed il 9% di magnesio.

    "La Media dona i suoi aspri succhi
    E il sapore persistente del frutto salubre
    Del quale non c'è più efficace rimedo..
    ..E' questo un albero di aspetto assai simile all'alloro e se non diffondesse all'intorno un aroma diverso sarebbe un alloro; nessun vento gli strappa le foglie; ha fiori molto tenaci..."
    (Virgilio, 60 a.C.)

    ..storia..

    Le diverse ipotesi che si fanno al proposito, concordano nell’individuare la zona sui contrafforti dell’Himalaya, da qui emigrò nella Media e nella Mesopotamia in quel vasto territorio compreso fra il Tigri e l’Eufrate fino a comprendere anche l’India.Il suo nome scientifico Citrus Medica o Agrume della Media (antico nome della Persia) ricorda il suo luogo d'origine: l'attuale Iran. La presenza del limone nella valle dell’Indo é databile già al 2500 a.C., anno in cui un pendente a forma di questo agrume é stato ritrovato durante gli scavi archeologici condotti nella suddetta valle.
    La descrizione delle sue proprietà si può ritrovare nei testi antichi di medicina indiani del terzo millennio a.C. dove viene denominato frutto purificatore dell'alito. Dall'India il limone si diffuse in Cina e nell'Asia Sudoccidentale. La coltivazione si propagò in Mesopotamia e da quelle regioni il popolo ebraico la importò fino in Palestina.
    Alcune affermano che i primi luoghi in cui sia cresciuto siano la Cina, dove veniva coltivato già prima della Dinastia Song (960-1279 d.C.), la regione indiana dell'Assam e il nord della Birmania. Gli antichi Egizi lo utilizzavano per imbalsamare le mummie e spesso lo riponevano nelle tombe. I Greci lo utilizzavano a scopo ornamentale e usavano coltivare gli alberi di limone vicino agli ulivi per preservare questi ultimi da attacchi parassitari. Le prime descrizioni del limone a scopo terapeutico risalgono alle opere di Teofrasto, allievo di Aristotele, che viene considerato il fondatore della fitoterapia.Lo consideravano simbolo di fecondità e lo usavano durante le cerimonie nuziali. I Romani scoprirono il limone grazie alle numerose comunicazioni marittime verso l’India, attraverso il Mar Rosso, nel I secolo dopo Cristo. A testimone sono le raffigurazioni di limoni presenti in alcuni mosaici a Cartagine e affreschi a Pompei, ma secondo altri studiosi è possibile che gli autori avessero semplicemente importato gli agrumi o visti nei loro paesi di origine. Plinio il Vecchio parlò del limone nella sua “Naturalis Historia” e ne parlava, tra l'altro, come di un antidoto verso diversi veleni; forse per questo si ritiene che anche Nerone ne fosse un assiduo consumatore, ossessionato come era dal timore di un suo possibile avvelenamento.Viene ricordato nelle fonti letterarie di Virgilio, che nelle sue "Georgiche" parla della "mela dei Medi", nome con cui i Romani indicavano il limone, che usavano anche come un potente anti-veleno. Dai Romani il limone soltanto in un secondo momento venne apprezzato, probabilmente a causa del suo sapore acre ed acido; poi fu considerato un frutto ricercato e prezioso, la cui coltivazione, comunque, scomparve con il crollo del relativo impero.
    Tolkowsky (1938) ritiene di ravvisare un frutto rassomigliante al limone negli antichi testi in Sàncristo; veniva indicato col nome di "Jambila" o "Jambira" usato anche per indicare il cedro.
    Gli Arabi impian-
    tarono nuova-
    mente il limone nelle varie regioni del bacino del Mediter-
    raneo. Lo scoprirono grazie alle espansioni della Mezzaluna verso Oriente, da qui poi il limone seguì il percorso di questo popolo fino in Occidente. Un antico testo, "Nabatean Agriculture" scritto nel 903 da Ibn el- Wahshiyah ma, pervenutoci in frammenti cita il limone che viene chiamato "hasia". Gli arabi conobbero anche le qualità medicinali del limone. Si deve ad un medico arabo, Ibn Jamiya, la pubblicazione di un Trattato sul limone nel quale, oltre ad una serie dettagliata di informazioni , si parla della limonata e delle qualità medicamentose. Veniva, già all’epoca, usato come disinfettante nelle infenzioni da mal di gola in sostituzione dell’aceto. Una notizia curiosa, derivante dalla superstizione, cita un altro arabo, Ibn al-Awwâm vissuto nella seconda metà del XII sec, il quale affermò che le piante di limone amano il sangue delle capre e quello di altri animali e non disdegnano quello umano.
    In Europa la prima coltivazione di limoni arrivò in Sicilia, dopo il X secolo e più tardi a Genova nella metà del XV secolo). I limoni compaiono nelle Azzorre nello stesso periodo, nel 1493, ad opera Cristoforo Colombo, che portò i semi del limone fino all'isola di Hispaniola.
    Ci sono anche alcune pagine di un cronista crociato, Jacques de Bitry, il quale elenca diverse varietà di poma citrina, fra le quali i limones. Un altro documento storico, la Historia hierosolimitana, parla della presenza di frutti dal sapore sgradevole e acido, ma il cui succo é ottimo per il condimento del pesce e della carne e come stimolante dell’appetito (Sunt proeterea aliae arbores fructus acidos, pontici videlicet saporis, ex se procreantes, quos appellant limones).
    Nel Rinasci-
    mento, il limone era abba-
    stanza conosciuto ed apprezzato, usato in medicina, in cucina e perfino nella compo-
    sizione di versi poetici, ma, più frequentemente in pittura. Il limone é una specie molto sensibile alle basse temperature e nel Rinascimento, per ovviare sorsero le cosiddette "limoniere". Queste ultime erano dei locali chiusi e non riscaldati ma riparati da ampie vetrate dove gli alberi di limone venivano piantate in vaso, adattandosi così ad una vita artificiosa e facendo da ornamento come nelle ville medicee, quelle di Bòboli, quelle Vaticane, ecc.. In Francia, non è da escludere che la costruzione di queste serre sia stata incoraggiata dalle due regine italiane, Caterina e Maria de' Medici. Le serre più belle furono costruite a Versailles per volere di Luigi XIV;si racconta che, durante una campagna militare, il re scrisse al ministro Colbert per avere notizie sulla salute delle piante che decoravano la Galleria degli Specchi e i saloni delle feste, diffondendo il loro delicato profumo. In questo periodo si sviluppò notevolmente l’industria di estrazione delle essenze.Il prete gesuita Baptista Ferrarius, pubblicò nel 1646, un interessante opera sugli agrumi, composta da quattro libri, in cui il terzo tratta del limone con altri frutti come le lime e le limette. Da questo momento si svolgerà un ruolo primario nell’ambito dell’economia delle moltissime aziende che baseranno i loro proventi sulla coltura, lavorazione ed esportazione del limone. Per la prima volta, viene utilizzata l’acqua di colonia, il cui procedimento fu inventato da un calabrese, Paolo Feminis, emigrato in Germania nel 1690.

    In seguito alla scoperta dell’America ad opera di Cristoforo Colombo la coltivazione del Limone e degli altri agrumi venne introdotta nel nuovo mondo dagli Spagnoli e dai missionari, pare infatti che fu proprio Colombo, nel 1493, a piantare i primi alberi di limone nell'isola di Haiti. La coltivazione intensiva degli agrumi si diffuse in Florida e in California, dove nel XIX secolo vennero generate delle qualità particolarmente resistenti al clima diverso da quello “mediterraneo”.

    Nei tempi più antichi, fu fatta molta confusione fra limone, lima e limetta. I trattati di agrumicoltura più antichi, come il Traité du Citrus (1811) di Gallesio, o il El cultivo de los agrios (1960) di Gonzales-Sicilia, riportano chiaramente tale confusione, in quanto attestano che il limone era "della grossezza di una ciliegia però molto acida". Più tardi gli studi condotti dal Laufer affermano che per primi furono due autori arabi a parlare del limone, da essi definito "limunak", come di un frutto pari alla grossezza di una mela e non di una ciliegia come affermato prima.


    " ..Pendono a un ramo, un con dorata spoglia,
    L'altro con verde, il novo e 'l pomo antico.."
    (Torquato Tasso)


    ...miti, leggende e curiosità ...


    Secondo antiche leggende, Gea la dea Terra per onorare le nozze tra Era e Zeus produsse degli alberi dai Pomi d’oro, emblema di fecondità e amore. Giove, nel timore di un loro possibile furto li trasportò in un'isola del grande Oceano, nel magico giardino delle Ninfe Esperidi, Aretusa, Egle ed Espere, ai confini del mondo, ai piedi del cielo retto dal padre Atlante ,nel giardino dove cresceva l'albero dai “pomi d'oro”, custodito dal drago Ladone, figlio di Tifone e Echidna. Da cui il solare frutto degli agrumi prese nome Esperidio. Eracle, l'Ercole dei Romani, per volere di Euristeo dal quale avrebbe ottenuto l'immortalità, nella sua XI fatica ebbe come compito quello di rubare i preziosi pomi. Il mito, nella versione di Apollodoro, racconta che Eracle, consapevole del desiderio del padre delle Esperidi di cogliere i pomi, gli giocò un inganno, offrendosi al suo posto come reggitore del cielo: Atlante rubò i pomi, ma una volta compiuto il furto, Eracle, con la scusa di prendere un cuscino da porre sulle spalle, lo richiamò a reggere il celeste fardello. Atlante ingenuamente acconsentì, posò i pomi per terra e recuperò l'ingente volta, mentre il vigoroso eroe afferrò i pomi e li consegnò ad Euristeo.Un'altra versione del mito vuole a custode dei frutti dorati, per volere di Era, un serpente a cento teste, figlio di Forco e Ceta. Il mito narra che, per cogliere i frutti, Eracle uccise il serpente, provocando la disperazione di Era. Questa, per omaggiare la creatura cui era tanto affezionata, decise di trasformarla in costellazione: la costellazione del Serpente. I pomi vennero restituiti da Euristeo alla moglie di Zeus e le Esperidi, afflitte per aver perduto i frutti di cui erano custodi, si trasformarono ciascuna in un albero, comunemente noti come emblema di tristezza: pioppo nero, salice e olmo.
    Le leggende raccontano di frutti dalle proprietà divine contro il veleno. I condannati a morte per salvarsi dai morsi velenosi di terribili aspidi, lo consumavano in segreto. Virgilio narra della magica mela della Media che salvava dagli avvelenamenti di matrigne malvagie. Per le sue proprietà antireumatiche e antisettiche era considerato un frutto sacro nei paesi arabi e veniva impiegato come antidoto contro i veleni e … per tenere lontano i demoni. Alessandro Magno era solito consumare questo frutto durante le sue campagne di guerra nelle terre persiane, da qui l'appellativo di "mela persiana".
    Gli Ebrei lo citano nel Levitico dove viene chiamato albero della purezza o albero della vita per il suo essere sempre splendidamente verde.

    In Francia i limoni rappresentarono, fino al XVIII secolo, il tradizionale dono che gli scolari portavano ai loro maestri nell'ultimo giorno dell'anno scolastico, che coincideva con la festa di San Dionigi. Per popoli del Nord, gli agrumi hanno sempre rappresentato una delle attrattive del Mezzogiorno caldo e assolato , la terra dove nascono i limoni, tanto che i frutti furono scelti per decorare il nordico Albero di Natale.
     
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  15. gheagabry
     
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    IL MELO DEL BENGALA



    Il Melo del Bengala (Aegle marmelos), chiamato anche "cotogno del Bengala", appartiene alla famiglia delle Rutaceae. Si sviluppa spontaneamente nelle foreste asciutte, sulle colline e le pianure del nord, centro e sud dell'India, nel sud del Nepal, Sri Lanka, Myanmar (Birmania) , Pakistan, Bangladesh, Vietnam, Laos, Cambogia e Thailandia.
    E 'coltivato in tutta l'India, così come in Sri Lanka, la penisola settentrionale malese, Java, le Filippine, e Fiji.
    In India dicono che sia in grado di crescere in luoghi che molti altri alberi non potrebbero assolutamente.E' un albero di medie dimensioni, snello, aromatico, e cresce fino a 18 metri di altezza. Presenta ciuffetti con tre foglioline e ha spine abbastanza sviluppate.

    Il frutto ha un guscio legnoso, liscio, di colore grigio o giallo e la buccia è verde. La scorza è così resistente che deve essere rotta con un martello o un machete. La polpa gialla fibrosa è molto aromatica; sono di solito consumati per la preparazione di ottime marmellate profumate di rosa o bevande energetiche.
    I frutti ricchi di proteine, vitamine e composti aromatici, sono ampiamente utilizzati anche nella preparazione di diversi "medicinali", dalle popolazioni rurali. Le sue proprietà medicinali sono state ampiamente descritte in un trattato medico antico, in sanscrito, il Charaka Samhita. Nella medicina Ayurveda è chiamata Bilva ed è considerato come il "frutto della ricchezza" per i suoi molteplici usi e benefici medicamentosi.Tutte le parti di questa specie: radici, foglie, tronco, frutti e semi, vengono utilizzati per le l'estrazioni di preziosi composti medicinali. L'albero è considerato sacro dagli induisti che lo chiamano "sivadruma" cioè "sacra a Siva"


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118 replies since 13/2/2011, 11:34   75777 views
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