ALBERI e ARBUSTI DA FRUTTO e a volte ....

PESCO, CILIEGIO,PERO, ALBICOCCO ECC

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  1. gheagabry
     
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    L'ARONIA MELACARPA

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    L'Aronia nera è una pianta appartenente alla famiglia delle Rosacee. Arbusto diffuso allo stato naturale in Canada e nelle regioni orientali degli stati Uniti, dove è conosciuto come "chokeberry", cioè bacca amara. A completo sviluppo forma arbusti alti anche 3-4 metri, utilizzati a scopo ornamentale per la buona adattabilità di questa pianta a suoli acidi e marginali.L'Aronia nera è stata introdotta da diverso tempo nelle nazioni dell'est europeo, dove viene coltivata su larga scala. Le foglie sono caduche e leggermente lanceolate di un bel colore verde brillante che, con l’avvicinarsi dell’autunno, assumono una vivace, e molto appariscente, colorazione rosso-arancio. Considerando anche le regioni dove è maggiormente diffusa, non soffre per nulla i rigidi inverni come non soffre le caldi estati. In primavera inoltrata, dopo la comparsa delle foglie, sbocciano all’apice sia dei rami principali, sia da quelli secondari, piccoli fiori riuniti da un lungo peduncolo in un particolare grappolo che appare molto rado. Sono fiori piuttosto piccoli, autoimpollinanti, con cinque petali bianchi disposti su un piano ben separati tra loro, con al centro diversi stami terminanti con vistose antere rosa carico tanto da far apparire il fiore quasi rosa. L’abbondante fioritura anche sui rami secondari, consente di avere fiori pure all’interno della pianta e questi, mescolati al colore brillante delle foglie, le conferiscono un pregevole effetto estetico.

    aronia-melanocarpa-fiori



    Nel corso dell’estate, compaiono, su ogni singolo fiore, numerose bacche nere ricoperte di pruina della grandezza di un mirtillo gigante americano, al cui interno si trovano diversi piccoli semi non fastidiosi, che giungono a maturazione in autunno e, con favorevoli condizioni atmosferiche, possono restare sulla pianta anche dopo la caduta delle foglie.

    I frutti sono piccoli pomi che somigliano, sia per la morfologia che per l'aroma, al Sorbo, e proprio per questo l'Aronia è conosciuta anche come Sorbo nero. I frutti sono utilizzati per preparazioni varie di tipo erboristico-fitoterapico, per uso alimentare, per produrre bevande e anche per l'estrazione di coloranti naturali.


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    Edited by gheagabry1 - 23/4/2020, 16:50
     
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  2. gheagabry
     
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    L' ALBERO DEL KIWI


    L’actinidia è stata definita “ la novità frutticola del XX secolo ”, perché nella storia dell’agricoltura, pochi sono gli esempi di piante esotiche, che hanno raggiunto in pochi anni una notorietà e un’espansione come questa specie.
    L'Actinidia è una pianta originaria di una vallata dello Yang-tze cinese dove vive spontanea; appartiene alla Famiglia delle Actinidiaceae, genere Actinidia, suddiviso in due sezioni: - Stellatae, che comprende l'Actinidia chinensis - Leiocarpae, comprendente l'Actinidia arguta. L' Actinidia chinensis è una specie più da mercato, mentre Actinidia arguta è ornamentale. La pianta è una liana rampicante a foglie caduche, di notevoli dimensioni, in grado di arrivare fino a 10 m di altezza. L'ancoraggio ai supporti, in natura costituiti da alberi o rupi, avviene attraverso il fusto stesso, che nella parte terminale si avvolge come un viticcio (alla maniera dei fagioli). Le foglie giovani sono a forma di cuore, appuntite, ed a maturità (quando inizia a fiorire) sono nettamente tondeggianti, spesso dorsalmente convesse. I giovani getti, i piccioli delle foglie e dei fiori sono ispidi e pelosi con peli bruni. I rami più vecchi sono dotati di una corteccia grigia ruvida e verrucosa, il tronco possiende una corteccia scabra e ruvida di colore marrone grigiastro mentre i rami giovani hanno consistenza erbacea.
    Il Kiwi è dioica e quindi vi sono piante maschio e piante femmina (che producono i frutti); molto raramente si sono rilevate piante ermafrodite. Il riconoscimento del sesso dei fiori non è agevole, dato che essi hanno una dioicità avanzata, ma non completa: nel fiore tanto maschile quanto femminile sono compresenti gli elementi dell'altro sesso ma in forma rudimentale e atrofica. Il sesso si può anche distinguere per il fatto che i fiori femminili sono distanziati tra di loro allo scopo di lasciare spazio allo sviluppo dei frutti e pertanto non sono raccolti a grappolo come quelli maschili. I frutti sono lunghe bacche ovali con buccia robusta coperta da peli; buccia e peli hanno consistenza suberosa con forti contenuti tannici.
    Il kiwi è sostanzialmente una vera e propria miniera alimentare per il suo elevato contenuto di vitamina C, elemento indispensabile alla vita e alla salute del corpo umano. Questa vitamina è un elemento indispensabile alla vita e alla salute del corpo umano, ma risulta molto delicata, in quanto si degrada facilmente col calore, la luce e all’aria. Per questo motivo, il kiwi è dotato di una robusta buccia esterna e di un intenso colore verde nella polpa, il cui pigmento, la clorofilla, è capace di proteggere l’integrità della vitamina C.

    ...la storia...


    La storia dell’actinidia nasce in Cina più di settecento anni fa nella valle del fiume Yang-Tse che ha dato al frutto il suo nome originario “Yangtao”. Il Gran Khan e altri Imperatori della Cina consideravano questo frutto una prelibatezza, apprezzandolo per il suo gusto delizioso, leggermente acidulo, e la sua polpa color verde smeraldo. Solo nel 1800 questa pianta varcò i confini cinesi ad opera di un collezionista della Società Britannica Reale di Orticoltura, il quale spedì in Inghilterra alcuni frutti e i loro semi. Questa pianta fu botanicamente descritta dal Lyndley nel 1836 e classificata, sotto il profilo tassonomico, da J.E. Planchon che la ascrisse al genere Actinidia, famiglia Actinidiaceae. Le prime piante di Actinidia furono coltivate nei dintorni di Londra nel 1847 da Robert Fortune per conto dell’Orto Botanico di Kew. Questa specie non entrò mai in produzioni commerciali, finché non venne di nuovo introdotta in Inghilterra da E. Wilson, direttamente dalla Cina, come frutti, i cui semi vennero propagati da un vivaio inglese e le piante di A. chinensis ottenute, vennero commercializzate nel resto d’ Europa nel 1903. In Nuova Zelanda, fatto curioso, fu introdotta nel 1904 da Isabel Fraser che, recatasi in Cina, nella zona di Ichang, per trovare la sorella missionaria, riportò in patria alcuni frutti. I semi di questi frutti furono affidati ad un bravo ed esperto vivaista, che riuscì a produrre delle piante che hanno rappresentato il materiale genetico di partenza di diverse varietà, oggi commercializzate in tutto il mondo. All’inizio, questa pianta, per il suo portamento rampicante, è stata coltivata come vite ornamentale e denominata “ Uva Spina Cinese”. Più tardi, negli anni Cinquanta lo studioso di orticoltura Wright, dopo lunghi e ripetuti studi sperimentali, riuscì ad ottenere la prima varietà commerciale. I Neozelandesi orgogliosi del loro nuovo “frutto”, nel 1959 lo battezzarono, per sua somiglianza, con il nome di kiwi, dal nome dell’uccello nazionale della Nuova Zelanda, uccello notturno, il quale possiede un corpo tozzo, non carenato, cattivo volatore, dal piumaggio di colore marrone come la buccia del frutto. I francesi hanno chiamato questo frutto “topo” per la somiglianza della forma ed il colore della buccia. La prima segnalazione della presenza di piante di Actinidia in Italia risale al 1934, nel catalogo “Allegra” di Catania. Agli inizi degli anni sessanta sono avvenute le prime esportazioni, dalla Nuova Zelanda verso gli Stati Uniti, e le prime coltivazioni di actinidia sono apparse in California agli inizi degli anni Settanta.
    (kiwilazio.wordpress.com)


    Il kiwi frutto si chiama kiwi perchè assomiglia al kiwi uccello! Secondo una leggenda Maori, il kiwi aveva in origine le ali come gli altri uccelli e come loro viveva tra le cime degli alberi dove arrivava la luce del sole. Un giorno Tanemahuta, dio della foresta, camminando tra gli alberi, si accorse che stavano morendo mangiati dagli insetti,e chiamò tutti gli uccelli della foresta affinché qualcuno di loro scendesse a vivere a terra per salvare gli alberi. Nessun uccello volle accettare di allontanarsi dal cielo, e tutti furono poi puniti diversamente per il loro egoismo. Il kiwi invece, unico uccello che accettò, consapevole che non avrebbe più potuto fare ritorno al cielo, fu premiato diventando l´uccello più amato e… il frutto più salutare tra tutti i frutti.
     
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    La PITANGA



    Pitanga (Eugenia uniflora) un arbusto da frutto parente del nostro mirto, originario delle terre esotiche del Brasile. I frutti splendidi, piccoli gioielli costoluti e coloratissimi, sono spesso associati alle ciliegie, con cui però questa pianta non ha nulla a che spartire dal punto di vista botanico, da cui il nomignolo “ciliegie di Cayenna“.
    La Pitanga ha dalla sua non solo la bellezza dei frutti ma anche quella delle foglie sempreverdi. Arbusto di grande valore decorativo, ideale per siepi in quanto di crescita piuttosto modesta nei nostri climi, l’Eugenia ‘Etna Fire’ colpisce per il suo colore rosso rubino brillante delle foglie, che diventa sempre più intenso nel periodo invernale. La sua moderata resistenza al freddo la mette in grado di crescere anche dove avvengono sporadiche e brevi gelate.




    dal web
     
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    La JABUTICABA

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    La Jabuticaba conosciuta anche come Grape Tree (Albero dell'Uva) è un albero originario di Minas Gerais e produce i frutti direttamente dal tronco... è un piccolo albero sempreverde tropicale della famiglia del mirto. Il nome è derivato dalla lingua Tupi: Jabuticaba vuole dire cibo di Jabuti (colui che mangia poco). Questa particolarissima pianta è stata scoperta in Brasile e si è diffusa anche in altri due paesi dell’America Meridionale: Paraguay e Argentina. Nel tempo la pianta si è evoluta e i suoi frutti hanno iniziato a crescere direttamente sul tronco. Così come i frutti, naturalmente anche i fiori si presentano direttamente sul tronco dell'albero, i cui rami sono in ogni caso dotati di fogliame. I fiori appaiono su di esso per due volte all'anno, seguiti dai frutti. Si tratta di fiori bianchi di dimensioni ridotte, dai petali piuttosto piccoli, ma dai pistilli molto lunghi. La particolarità della crescita dei frutti dell'albero di Jabuticaba risiede nel fatto che tutti gli animali possano nutrirsi di essi, pur non essendo in grado di arrampicasi sull'albero per raggiungerne i rami. I frutti sono dunque raggiungibili facilmente da parte di tutti gli esseri viventi potenzialmente in grado di nutrirsene. Di conseguenza, ciò influirebbe positivamente sulla propagazione di tale specie, permettendo ai semi, attraverso gli animali, di spargersi nel terreno in zone lontane dall'albero di provenienza. Ogni frutto contiene quattro semi e presenta un diametro di circa quattro centimetri. Alla buccia dei frutti di Jabuticaba sono state attribuite proprietà curative

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    I frutti del Jabuticaba hanno una dimensione circa di 3-4 centimetri, un colore violaceo, una polpa bianca molto succosa e possono essere mangiati dagli uomini senza pericolo alcuno. frutti rotondi dal colore violaceo, che ricordano gli acini d'uva, sebbene le loro dimensioni siano maggiori. Vengono accostati all'uva proprio perché grazie ad essi, oltre ad altri alimenti come succhi di frutta o marmellate, in Brasile si è in grado di dare vita a del vero e proprio vino. I frutti possono inoltre essere gustati crudi. Il loro colore è violaceo, molto scuro e spesso tendente al nero.
    I frutti possono essere raccolti direttamente a mano staccandoli con delicatezza dal tronco dell'albero. Essi vengono sottoposti a processi di fermentazione per la preparazione non soltanto di vini, ma anche di liquori. Sono inoltre alla base di ricette per la realizzazione di fresche bevande estive.


    Edited by gheagabry1 - 23/4/2020, 17:04
     
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    Il CAMBUCI


    L'albero di cambuci, pianta nativa della foresta atlantica a rischio di estinzione, dà un frutto di forma ovoido-romboidale, con una cresta orizzontale che lo divide in due parti. È a questa sua forma particolare che si deve l'etimologia del nome: deriva infatti da kamu'si ' che significa vaso, barattolo o urna funeraria dei Tupi. L'albero di cambuci è una pianta originaria del Brasile, Foresta Atlantica, del versante montuoso verso la costa che guarda l'altipiano della città di São Paulo, e dell'altipiano stesso. Fin dall'epoca coloniale, il frutto viene usato come aromatizzante per la cachaça, benché molto ricco dal punto di vista nutrizionale e versatile dal punto di vista gastronomico.
    Si tratta di una pianta semidecidua, igrofita ed eliofita, della famiglia delle Mirtacee, parente quindi della guava, della pitanga, della guabiroba e della jabuticaba. Può arrivare a 8 metri di altezza, ma lo sviluppo della pianta è lento. Ha forma quasi piramidale, con tronco liscio e foglie ellittiche. I fiori, ermafroditi, bianchi ed eleganti, sbocciano da agosto a novembre; i frutti maturano da gennaio ad aprile. Una delle caratteristiche del frutto è che la buccia, verde e sottile, non cambia colore con il progredire della maturazione, diventa appena un po' più gialla. Si riconosce che il frutto è maturo quando diventa morbido e inizia a staccarsi dai rami.
    La bacca, di circa 6 centimetri di diametro, ha polpa cremosa, succulenta, con pochi semi. Lievemente dolce, ma molto acido, come il limone, il cambuci non è un tipo di frutto che si consuma facilmente al naturale. In compenso ha un sapore e un profumo forti, e per questo, fin dall'epoca coloniale, ne è diventato comune l'uso per aromatizzare la cachaça, impiego che ancor oggi è diffuso nei luoghi di coltivazione.
    Ricco di fibre, il cambuci è inoltre un'eccellente fonte di vitamina C, di altre vitamine e di sali minerali, oltre ad avere proprietà antiossidanti e tannini utili per contrastare i radicali liberi, per ritardare l'invecchiamento e per rafforzare il sistema immunitario.

    Benché i frutti servano da alimento per i jaú (pesci dei pimelodidi del Brasile), i paca, le scimmie e i tucani, i semi hanno breve germinabilità. Forse per questo, o forse ancora per la diminuzione della fauna nativa, la dispersione dei cambuci da parte di uccelli e animali frugivori non avveniva ad un ritmo tale da permettere il mantenimento della specie nei boschi. Fortunatamente l'albero sopravvive ancora in diversi frutteti domestici nelle città della Serra do Mar, come è il caso di Rio Grande da Serra, Paranapiacaba (un villaggio della città di Santo André), Salesópolis, Biritiba-Mirim, Paraibuna e altre città che conservano tracce di Foresta Atlantica. Gli abitanti sono stati incentivati a piantarlo e mantenerlo nei giardini domestici, grazie al recente interesse gastronomico e alla scoperta che il cambuci può essere usato in modo più versatile, e non semplicemente per dare aroma alla cachaça. Attualmente può infatti essere considerato un'alternativa di crescita economica e sostenibile per i comuni che lo hanno adottato come prodotto tipico. (fondazioneslowfood.it)
     
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    IL GOJI



    Più comunemente dette bacche di goji, ve ne sono due specie: il Lycium barbarum (寧夏枸杞 Níngxià gǒuqǐ) e il Lycium chinense (枸杞 枸杞 gǒuqǐ), entrambe della famiglia delle Solanaceae (che include tra le altre la patata, il pomodoro, la melanzana, il tabacco, il peperoncino e la Belladonna).

    Da noi è arrivato da poco e in sordina, come spesso capita alle novità vegetali, cresce spontaneamente nelle valli dell'Himalaya, della Mongolia, del Tibet e nelle province cinesi dello Xinjiang e del Ningxia. Le proprietà del Goji sono conosciute da centinaia di anni. Il Goji (Lycium barbarum L.) è un arbusto sempreverde che cresce verticalmente, anche fino ai 3 metri di altezza. Ha foglie lanceolate verde brillanti o grigio-verdi. Autofertile, in primavera si veste d’innumerevoli fiori viola chiaro semplice dalla vita molto breve (uno o due giorni) con diversi pistilli bianchi pronunciati. Dal fiore si origina un piccolo frutto color rosso/arancio vivo, pendulo, simile alla ciliegia, ma con forma ovale, che raggiunge la piena maturazione alla fine dell’estate. Oltre che essere mangiati freschi, le bacche di goji si prestano a essere essiccate al sole e disidratandosi si trasformano in un prodotto molto simile all’uva passa, conservabile sicuramente fino alla successiva raccolta, senza perdere le proprietà in esse contenute. Hanno un sapore lieve di ciliegio secco con una sfumatura di agrume. I frutti se consumati ancora acerbi potrebbero essere tossici.

    Il nome “Goji” nasce nel 1973 da alcuni ricercatori dell’istituto botanico tibetano Tanaduk Research Institute, che pare l’abbiano coniato per primi, prendendo ispirazione dal nome d’origine con il quale veniva identificato questo arbusto nei dialetti himalayani : “gǒuqǐ”. L’inizio della diffusione del nome “Goji” è poi seguita a partire dalle prime esportazioni fatte delle bacche di Goji. Le quali furono spedite all’estero la prima volta nel 1977 a scopo commerciale.

    Chiamato “IL FRUTTO DELLA LONGEVITÀ”, il Goji è considerato un potente integratore naturale ..


    "La leggenda racconta che nel VII secolo d.C. sulle montagne dell’Himalaya, durante la dinastia Tang (circa 800 d.C.), attorno ad un pozzo in un tempio buddista vi erano delle piante le cui bacche mature non consumate, cadevano dentro. I Monaci che quotidianamente bevevano l’acqua del pozzo vivevano in ottima salute e molto a lungo…"

    .. note anche come bacche tibetane, possiedono delle proprietà quasi "miracolose" in virtù della sensazione di benessere che sono in grado di apportare a chi le consuma. Effetti benefici sono stati documentati negli ultimi decenni da studi scientifici a livello internazionali, le analisi compiute hanno dimostrato che le bacche di Goji sono particolarmente ricche di beta-carotene, vitamina C, B1 e B2 nonché di minerali, aminoacidi e sostanze dalle specifiche proprietà anti-invecchiamento e antiossidanti, che aiutano l'organismo a combattere con efficacia i radicali liberi.
     
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    Gelso, varietà e cure

    gelso-bianco

    Un albero da frutto facile da coltivare e capace di rallegrare il giardino sia in primavera che nel corso della stagione estiva. Parliamo del Gelso o Morus, una pianta arbustiva o arborea perenne, appartenente alla famiglia delle Moracee ed originaria del continente asiatico, anche se la sua diffusione è ormai estesa anche alle nostre latitudini.

    Si tratta di una pianta caratterizzata da fusti che possono raggiungere i 15 metri di altezza. Le foglie sono di colore verde brillante o verde scuro, mentre i fiori sono di colore bianco e fanno la propria comparsa nel corso della stagione primaverile. In estate il Gelso produce dei frutti simili a more di colore rosato o scuro, a seconda della specie. Il Gelso bianco presenta bacche acidule ed aspre, utilizzate in passato come lassativi. Le bacche del Gelso nero, invece, sono di gusto gradevole e sono ancora oggi usate nella preparazione di dolci e marmellate.

    Gelso (Morus)
    Fioritura: nel corso della stagione primaverile
    Impianto: in estate
    Tipo di pianta: arbustiva o arborea perenne
    Altezza max: 15 metri
    Esposizione
    Il Gelso predilige la collocazione in una zona luminosa del giardino, in modo che possa ricevere il sole diretto per molte ore nel corso della giornata. Non teme il freddo, ma tende a mostrare segni di sofferenza in presenza di gelate tardive o persistenti.
    Terreno
    Cresce bene su qualunque terreno, anche su quello povero, pietroso o argilloso. Nella fase della messa a dimora si consiglia comunque di aggiungere della sostanza organica al terriccio di coltivazione.
    Innaffiatura
    Il Gelso si accontenta dell'acqua piovana, richiedendo l'intervento umano in presenza di esemplari appena messi a dimora o nei periodi di elevata siccità.
    Malattie e avversità
    Gli afidi possono compromettere la salute e la bellezza della pianta. Attenzione agli eccessi di umidità, che potrebbero provocare la formazione di malattie fungine e marciumi radicali.
    Concimazione
    Nella fase della messa a dimora si può aggiungere dello stallatico maturo al terriccio di coltivazione. In seguito si interverrà con del fertilizzante a lenta cessione, da fornire ogni tre o quattro mesi.
    Moltiplicazione
    La propagazione del Gelso avviene nel corso della stagione estiva, prelevando delle porzioni di ramo e lasciandole radicare in un composto di terra, sabbia e sostanza organica.

     
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    Noce Pecan, albero da frutto

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    Il Pecan, detto anche Noce americana o Carya ovata, è un albero da frutto originario del continente americano, ma diffuso anche alle nostre latitudini. Si tratta di una pianta caratterizzata da un fusto eretto che può raggiungere i 30 metri di altezza. Le foglie sono di grandi dimensioni, composte a loro volta da diverse foglioline lanceolate di colore verde più o meno scuro.


    I fiori del Noce americano sono tondeggianti o allungati, a seconda del sesso, e fanno la propria comparsa nel corso della stagione primaverile. In autunno il Pecan produce dei frutti di medie dimensioni, circondati da un guscio carnoso. La coltivazione del Pecan è abbastanza semplice e non richiede accorgimenti particolari, se non in fatto di illuminazione, considerando che la pianta gradisce il sole diretto per diverse ore nel corso della giornata.

     
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    Ciavardello, albero da frutto

    sorbus-terminalis

    Un albero da frutto particolarmente apprezzato anche per l’aspetto decorativo della fioritura e del fogliame. Si tratta del Sorbus terminalis, meglio conosciuto come Ciavardello, una pianta caratterizzata da un fusto che può raggiungere i venti metri di altezza. le foglie sono molto simili a quelle dell’Acero, lobate, con margine seghettato e colorate di verde più o meno chiaro o rosso, a seconda della stagione.


    I fiori del Sorbus terminalis sono costituiti da petali di colore bianco crema e da antere gialle, sono particolarmente profumati e fanno la propria comparsa nel corso della stagione primaverile. I frutti del Ciavardello sono costituiti da pomi di colore rossastro, ricoperti di punti biancastri, e restano per lungo tempo a far bella mostra di sé sui rami. Gli stessi frutti sono utilizzati nella preparazione di sciroppi, marmellate e distillati.

    Ciavardello (Sorbus terminalis)
    Fioritura: nel corso della stagione primaverile
    Impianto: in primavera
    Tipo di pianta: arborea perenne
    Altezza max: 20 metri
    Esposizione
    Il Ciavardello predilige la collocazione in una zona luminosa del giardino, in modo che i raggi diretti del sole possano colpire la pianta per diverse ore nel corso della giornata. Tollera il freddo e si adatta anche alla coltivazione in zone con inverni rigidi.
    Terreno
    Cresce bene su qualunque terreno, anche su quello argilloso o povero.
    Innaffiatura
    Il Ciavardello si accontenta dell'acqua piovana, richiedendo l'intervento umano nei periodi di siccità prolungata o in presenza di esemplari appena messi a dimora. In generale, comunque, provvede in modo autonomo al proprio fabbisogno idrico.
    Malattie e avversità
    Oidio, mal di piombo ed alcuni tipi di funghi possono colpire la pianta e comprometterne la salute. In caso di attacco è necessario intervenire tempestivamente con prodotti specifici.
    Concimazione
    Nella fase della messa a dimora si consiglia di aggiungere del fertilizzante organico al terriccio di coltivazione.
    Moltiplicazione
    La propagazione avviene per lo più tramite semina nel corso della stagione primaverile.

    FONTE:http://www.pollicegreen.com/

     
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    L'ALBERO DEL POMODORO
    F1 OCTOPUS




    E' una varietà ibrida dei paesi dell’Est, (Estonia).

    Un albero di 3 metri di altezza che dovrebbe stare perennemente in serra e che produce pomodori dopo 7/8 mesi dal trapianto. Lo spazio che occupa è pari a 40 – 50 m2 con oltre 10.000 frutti rossi, rotondi, lisci, da 100 fino a 160 g e con un peso totale pari a 1.5 tonnellate. Si sviluppa come la vite ed ha bisogno di supporti per crescere

    Il pomodoro è un membro della famiglia della belladonna che include colture del Nuovo Mondo come patate e peperoncino , che si diffusero in tutto il mondo dopo Cristoforo Colombo li riportò in Spagna nel XV ° secolo. Ma mentre gli scienziati hanno scoperto traccie archeologiche tra cui microscopiche amidi su cocci di ceramica che indicano l'addomesticamento di molte colture provenienti dalle Americhe fin da 10.000 anni fa, la situazione diventa nulla quando si tratta di pomodoro.

    Conosciuta scientificamente come Solanum lycopersicum, il pomodoro moderno sembra avere le sue origini selvagge Ande peruviane e potrebbero essere stati addomesticati a Vera Cruz, in Messico. Varietà primitive crescono ancora nelle Americhe. In tutto ci sono circa 13 specie di "pomodori" e quattro per essere stretti alleati. Si potrebbe pensare che una di queste specie selvatiche conosciute sia "il pomodoro madre" ma purtroppo non è mai stato trovato. Il parente più prossimo è il pomodoro, ribesSolanum pimpinellifolium -che, in base a confronti genetici, si divide dal pomodoro di oggi di circa 1,4 milioni di anni fa.
    Così i ricercatori devono lavorare a ritroso, attraversando varietà di pomodoro e specie, al fine di comprendere come i vari geni influenzano forma e dimensione.



    Gli impianti ibridi F1 sono il risultato di un incrocio tra due varietà. Per esempio, due varietà di pomodori sono scelti perché ognuno ha caratteristiche particolari il coltivatore vuole coltivare.

    Tuttavia, quando i semi sono presi dai frutti di questa unione, il pomodoro a impollinazione incrociata, questi semi non saranno in grado di riprodurre nuovamente questa varietà incrociate, ma torneranno all'origine.




    dal web
     
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  11. gheagabry
     
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    Bell'isola dai mirti verdi, piena di fiori dischi
    venerata in tutti i tempi da ogni nazione
    dove i sospiri dei cuori in adorazione
    fluttuano come l'incenso in un giardino di rose
    o come l'eterno tubar di un colombo.
    (Charles Baudelaire, da: "I fiori del male")


    IL MIRTO

    mirto


    Il mirto è un arbusto appartenente alla famiglia delle myrtaceae. Questa famigliia è oltremodo ampia. La famiglia delle myrtaceae, infatti, comprende una centinaia di generi e fino a tremila specie. Questa famiglia è diffusissima in quasi tutto il mondo. Essa è presente nelle zone temperate, in quelle tropicali e subtropicali. Sono diffusissime naturalmente in tutto il sud Europa (Grecia, Francia mediterranea, Italia e Spagna). Inoltre in alcune zone inglesi ed irlandesi mitigate da particolari correnti atlantiche. Questa pianta è diffusissima, quindi, nelle regioni mediterranee, infatti il mirto è una pianta particolarmente comune nella macchia mediterranea. Poco frequente è tuttavia la presenza di questo arbusto nella macchia mediterranea alta. Particolarmente rinomate sono le macchie di vegetazione di mirto sarde e corse. Il mirto è una pianta che ha un portamento arbustivo o al massimo di piccolo albero. Questa pianta raggiunge, infatti, massimo i trecento centimetri di altezza. La corteccia tende a cambiare col passare del tempo. Infatti negli esemplari giovani la corteccia è rossiccia col passare del tempo la corteccia tende a diventare giallastra. Le foglie del mirto sono opposte, molto resistenti, permanenti, ovali, acute, glabre e lucide. Superiormente si presentano verde scure con numerosi punti traslucidi nelle vicinanze delle glandole aromatiche. I fiori che nascono da questo arbusto sono solitari, si sviluppano in modo ascellari, sono molto profumati, hanno dei lunghi penduncoli. I fiori del mirto possono assumere vari colori, possono essere di colore bianco o roseo.

    ...storia, miti e leggende...

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    Il nome Mirto deriva dal latino myrtus, greco myrtos, di origine semitica, derivante dalla stessa radice di myron, che significa “essenza profumata”. Secondo la mitologia greca il Mirto prende il nome da Myrsine, fanciulla uccisa da un giovane invidioso in quanto da lei battuto nei giochi ginnici; Pallade Atena, impietosita dalla triste fine della ragazza, decise così di trasformarla in un arbusto odoroso. Un’altra leggenda narra che Bacco, dovendo recarsi negli Inferi per liberare la madre Selene uccisa dai fulmini di Giove, avrebbe promesso di lasciare in cambio una pianta di Mirto. Per questo motivo all’arbusto viene assegnato un significato funereo, peraltro piuttosto raro in campo iconografico , mentre l’uso di decorare con le sue fronde urne sepolcrali e cimiteri è ancora attuale. In seguito divenne simbolo della colonizzazione greca: gli emigranti ellenici portavano con sé rami di mirto a dimostrare che così intendevano porre fine a un periodo della loro vita. Sempre secondo i Greci, Venere, uscita nuda dal mare e inseguita da un gruppo di satiri, trova rifugio in un boschetto di Mirti; per Ovidio, invece, la dea dell’amore, nata dal mare, approda sulla spiaggia di Citera e con rami di Mirto copre la sua nudità; per questo l’arbusto fu dedicato alla dea e se ne piantarono boschetti sacri. Attraverso la figura di Enea, mitico antenato dei Romani e figlio della stessa Venere, la leggenda passò in Italia, tanto che la bellissima dea divenne protettrice di Roma; mentre secondo Tito Livio la città era nata nel punto dove era spuntato l’arbusto. Plinio racconta come anche nell’Urbe fossero stati piantati alberi sacri di Mirto, soprattutto nei luoghi pubblici. Le fronde del Mirto divennero simbolo di vittoria: durante l’ovazione o trionfo minore, decretato dal senato per una guerra vinta senza spargimento di sangue, il vincitore, vestito di bianco, saliva al Campidoglio con una corona di Mirto e sacrificava una pecora (da cui appunto il termine ovazione, da ovis, pecora). Rami di Mirto venivano offerti, sempre dai Romani, a Venere nei sacrifici delle calende di aprile, mentre durante i banchetti un rametto profumato di Mirto passava da un commensale all’altro come testimone per il brindisi e incitamento al canto. Secondo Plutarco, scrittore di origine greca, ma fine conoscitore della società romana, l’uso conviviale sarebbe derivato proprio dai greci. Virgilio, che ben conosceva il nostro territorio, fa riferimento al Mirto come elemento caratterizzante della costa ionico-tarantina. Nel famosissimo passo delle Georgiche dedicato alla campagna nei pressi del fiume Galeso (breve corso d’acqua che sfocia nel Mar Piccolo di Taranto) per i mirti usa l’espressione “amantis litora myrtos”, cioè “i mirti innamorati delle spiagge”, avendo osservato come essi preferiscano vivere in zone calde e soleggiate. Nella seconda ecloga delle Bucoliche loda l’aroma del Mirto: “…e coglierò voi, allori e mirti che crescete vicini, perché così disposti mischiate soavi profumi.”; mentre nella settima ecloga ci ricorda che il Mirto teme il gelo: “…mentre difendevo dal freddo il tenero mirto” e che è pianta sacra a Venere: “il pioppo è gratissimo a Ercole, la vite a Bacco, il mirto a Venere bella, a Febo il suo alloro”; come ci dice anche Fedro, con quasi identiche parole, in una delle sue bellissime favole: “Piacque a Giove la quercia. Poi a Venere il mirto, a Febo il lauro, ed a Cibele il pino, e l’arduo pioppo ad Ercole”.
    Come si può ben vedere l’immagine del Mirto ha sempre avuto una valenza positiva e come pianta sacra a Venere è divenuta simbolo di fecondità: gli sposi durante il banchetto nuziale erano soliti portare corone di Mirto sul capo e lo stesso Plinio definisce questo arbusto myrtus coniugalis.
    Catone distingueva tre varietà di Mirto: la Nera, la Bianca e la Coniugale, e negli ultimi secoli dell’Impero Romano il Mirto era l’albero propiziatorio per la casa dei giovani sposi e se ne facevano ghirlande per le feste nuziali. La tradizione si rinnova ancora oggi in alcune regioni dove, nei mesi estivi, si usano rametti di Mirto fiorito al posto dei fiori d’arancio per il bouquet della sposa. Da parte loro gli inglesi citano un vecchio detto: “Myrtle for remembrance” (Mirto per ricordare) quando ne mettono i rami nei mazzi di fiori preparati in occasione dei matrimoni.
    In virtù della delicatezza e del colore bianco del suo fiore, il Mirto è stato accostato anche alla Vergine Maria, in riferimento alla sua purezza e umiltà. Durante il Rinascimento, infine, il Mirto fu associato alla fedeltà e all’amore eterno e come tale viene raffigurato nelle allegorie matrimoniali.


    L’infuso, il decotto e il vino medicato dei frutti aromatici raccolti in autunno, hanno proprietà rinfrescante, balsamica, astringente ed emostatica; mentre per uso topico il decotto viene utilizzato per irrigazioni antisettiche e antileucorreiche. Dalla pianta si ricava per distillazione un preparato denominato Acqua d’oro che viene utilizzata per le gengiviti, pelli screpolate e per le contusioni. Il mirtolo, contenuto nell’olio essenziale di Mirto, è stato anche indicato nelle febbri malariche come efficace succedaneo della chinina.
    Ippocrate prescrive alle donne affette da afte ed ulcere ai genitali, irrigazioni con acqua di Mirto o con vino in cui sia stato cotto del Mirto.... Plinio ricorda l’olio di Mirto con cenere di lepre per arrestare la caduta dei capelli, o con cenere di zoccolo di mulo per chiudere le chiazze alopeciche; vino di Mirto con cenere di lumache africane per la dissenteria e tordi con bacche di Mirto per i disturbi urinari.... Dioscorìde Pedànio, citato dal senese Mattioli nel XVI secolo, raccomanda l’olio di Mirto come utile per le ulcere del capo, le scottature, “le fracassature delle membra e proibisce il cascar de i capelli.”
    Antichi testi di medicina assicurano che lo sciroppo mirtino di Mesuè, medico siriano vissuto nell’XI secolo, “giova alla diarrea ostinata” e che l’Unguento della Contessa, con bacche ed olio di Mirto, e molti altri ingredienti, “ritiene il feto; proibisce l’Aborto; rimedia alle Hemorroidi; vale nella Gonorrea”. Il medico arabo Avicenna prescriveva lo sciroppo di Mirto contro la tosse e la dissenteria, le punture di ragni e scorpioni, esaltando le qualità antisettiche e balsamiche che anche la moderna industria farmaceutica sfrutta, estraendo un olio essenziale dalle foglie.


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    .....in cucina e altri usi .....


    Con le foglie del Mirto si aromatizzano gli arrosti e Plinio indica la salsa di bacche di Mirto come perfetta per accompagnare il maiale arrosto. Il fumo dei rametti di Mirto sulla brace del barbecue conferisce un piacevole aroma alla grigliata; i frutti possono essere utilizzati come sostituti del pepe mentre con i fiori di Mirto taluni ornano le macedonie di frutta. Insieme con il finocchio selvatico e l’alloro serve a profumare la salamoia delle olive nere “all’acqua”, con il metodo nostrano, mentre in Corsica ed in Sardegna si prepara un liquore dalle virtù digestive, facendo fermentare le bacche in acqua e zucchero.
    Un’altra ricetta inebriante è quella dell’infusione di bacche di Mirto in alcool, con un procedimento simile alla preparazione del Gin, che si ottiene invece dalle bacche di Ginepro. Il “vino” di Mirto era molto apprezzato già in epoca romana ed è citato da Plinio, Dioscorìde e da Columella. L’autore del De re rustica, che visse anche a Taranto nel I secolo d.C., lo descrive come un macerato di bacche in un buon mosto d’uva, con aggiunta di miele. Questa miscela aromatica e dolcissima si usava a volte per migliorare uve poco zuccherine e ottenere vini più alcolici.
    Ma è Catone a fornirci la precisa ricetta: mezzo moggio (poco più di quattro chili) di bacche di Mirto in una urna (tredici litri circa) di mosto, dicendolo adatto alla durezza di stomaco, al mal di reni ed alle coliche. Agli inizi del Rinascimento42 si chiama mortadella una salsiccia di carne di vitello, molto diversa da quella che oggi si prepara con il maiale, aromatizzata con il Mirto; già i romani però apprezzavano il myrtatum, un insaccato speziato con Mirto.
    Pesce di murta era detto il pesce che in Sardegna, in epoche antiche, si usava cuocere in un brodo di Mirto, per meglio conservarlo e poterlo trasportare facendone commercio.

    Nella Mesopotamia del II millennio a.C. era uso ungersi con olio profumato al Mirto, in quanto considerato una fonte di salute e benessere; il profumo diventava così un segno d’amore ed un rito purificatorio. Sappiamo, ad esempio, che prima di essere presentata al re persiano Assuero, l’ebrea Edissa (la Ester della Bibbia) dovette sottoporsi a due riti di purificazione consistenti in sei mesi di bagni di vapore profumati e di applicazioni, sul corpo, dell’olio di Mirto e, successivamente per altri sei mesi, di fumigazioni di Storace, Zafferano, Narciso e Cinnamomo. Plinio annota l’utilizzo dell’olio di Mirto, con cenere di corno di capra, contro l’eccessiva sudorazione. Gli speziali del Medioevo ricavavano dalle cortecce, dalle foglie e dai fiori del Mirto un distillato, detto Acqua angelica, lozione cosmetica detergente e tonica utilizzata nella preparazione di saponette o per aromatizzare tè, vini e liquori; con le bacche si può preparare un decotto per dare lucentezza ai capelli neri. Tra le curiosità legate all’uso del Mirto ricordiamo quanto riporta il cronista che commentò per i posteri il pranzo nuziale di Costanzo Sforza, signore di Pesaro, con Camilla d’Aragona, nella seconda metà del quattrocento: al levar delle mense i servitori spazzarono il pavimento con scope di Mirto profilate d’oro!
    In tempi trascorsi, nelle campagne, si usava mettere rami di Mirto nella biancheria per profumarla, mentre dalla macerazione dei fiori in olio e vino bianco pare si possa ottenere un ottimo rimedio per le zecche dei cani. Foglie, radici e corteccia contengono tannini usati per conciare cuoio fine, a cui danno un buon profumo. Quando il tronco della pianta raggiunge sufficienti dimensioni, il legno del Mirto, duro, compatto e di grana fine, è apprezzato per lavori di torneria ed intaglio, e per ottenere manici di attrezzi o di ombrelli; buon combustibile, fornisce un ottimo carbone48. Per finire, dalla spremitura dei frutti (che come abbiamo già visto sono ricchissimi di semi) in appositi frantoi, si otteneva in passato un combustibile adatto a rifornire lumi ad olio di Mirto.
    (Francesco Lacarbonara, culturasalentina)


    Edited by gheagabry1 - 3/5/2020, 18:26
     
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    “....Così, verso il tramonto quando il pastore si metteva a suonare collo zufolo di Sambuco, la cavalla mora si accostava masticando il trifoglio...”
    (Giovanni Verga)


    IL SAMBUCO



    Il sambuco comune o Sambucus nigra è un arbusto o più spesso un albero di media grandezza, presente in tutto il continente euroasiatico fino a circa 1400 metri di quota. Fa parte della numerosa famiglia delle caprifoliaceae. Si presenta come un grande arbusto che prospera facilmente in formazioni cespugliose caratterizzate dai rami vecchi ricadenti. La corteccia è grigia, ma anche giallastra nelle parti vecchie, verde nei rami nuovi con particolari lenticelle orizzontali. Le foglie sono opposte e composte, formate da cinque o sette foglioline picciolate, anche di grandi dimensioni, di forma ellittica con margine seghettato. Il colore è verde intenso e sono fra le prime ad aprirsi in primavera. I fiori sbocciano in primavera-estate, sono piccoli, odorosi, biancastri, a 5 lobi petaliformi, riuniti numerosissimi in infiorescenze ombrelliformi molto ampie. I frutti sono piccole bacche globose nero-violacee (S. nigra) o rosse (S. racemosa) che contengono un succo di colore viola scuro che viene impiegato per colorare vini e come esca per la pesca dei cavedani.
    Il termine Sambuco deriverebbe dal greco “sambyké”, nome di una specie di strumento a corde, di forma triangolare, costruito con i rami cavi dell’arbusto.

    Del sambuco si usa praticamente tutta la pianta. Il legno serve per fabbricare gli strumenti musicali a fiato, mentre quello delle radici viene usato per gli stetoscopi. Il midollo è impiegato tuttora per includere le particelle di organi da sezionare per studiarle al microscopio. Inoltre questo tipo di legno viene utilizzato per costruire le palline formanti il pendolo di Canton (il primo strumento per rilevare lo stato di elettrizzazione di un corpo); oppure viene impiegato per costruire giochi popolari di origine contadina come lo "scioparolo" (in Veneto "schioppo/fucile") dove tagliandone un ramo di diametro 4-5 cm e di lunghezza 20-25 cm viene tolto il midollo ed inserito al posto di esso un ramo poco più lungo e di pari diametro del midollo appena tolto. Facendo scorrere velocemente al suo interno il rametto fa partire una pallina di canapa arrotolata precedentemente inserita e posta estremità dello "scioparolo". Era un gioco povero e antico di cui oramai si sono quasi perse le tracce. Viene scelto questo tipo di legno per la sua estrema leggerezza.
    Le bacche servono per tingere le fibre naturali nelle varie tonalità di viola. Mordenzando con allume di potassio e cremortartaro si ottiene il viola più o meno carico, se però si aggiunge al bagno-colore l’acido ossacilico si ottiene il violetto rossastro, se invece si aggiunge l’aceto bianco si ottiene il colore Magenta. I fiori vengono usati in cucina per un’enorme varietà di pietanze. A Palazzo Adriano (PA), i fiori freschi vengono usati per la realizzazione di un pane tipico, chiamato in dialetto "Pani cu Savucu" pane con il Sambuco.

    Tutte le parti della pianta sono tossiche per la presenza di cianuro e vari alcaloidi. Fanno eccezione i fiori e le bacche mature (ma non i semi al loro interno). Nella preparazione di marmellate, la cottura o la macerazione delle bacche sono sufficienti a far sì che i composti cianogenetici si volatilizzino completamente. Le bacche non sono tossiche per i pesci (i cavedani ne vanno matti).
    Mai confondere il Sambucus nigra con il suo simile Sambucus ebulus, o ebbio. Questo si distingue dal primo in quanto i suoi fusti erbacei sono molto sviluppati, anziché, legnosi, e fiori dall’odore di mandorle amare, ha frutti velenosi.

    ....storia, miti e leggende....



    Era già conosciuto dai popoli preistorici, i quali probabilmente preparavano, con le sue drupe, robuste bevande fermentate o tinture per tessuti, come testimoniano i grandi ammassi di semi trovati durante scavi archeologici.

    Nella mitologia Sambyke era, prima di essere il nome della pianta, il nome di una ninfa amata invano da Pan che preferì la morte all’amore del dio. Come già altre volte il mito provvide a trasformarla in pianta e dai suoi rami Pan trasse un flauto, sambyke appunto, che suonato gli dava l’illusione di poterla baciare. Il poeta Virgilio lo descrive macchiato dal succo delle bacche. Jacque Brosse nel suo Storie e Leggende degli Alberi,afferma che il suo nome greco è duplice, si chiama sia acté o actea, sia dendrôdès. Acté significa "nutrimento di Demetra", ossia il grano, ed è derivato proabilmente dall'antico radicale indoeuropeo açnati che significa "mangiare", il che fa supporre che le bacche fossero nutrimento per gli uomini antichi. Quando a dendrôdès significa invece "della natura degli alberi", e dato che si usava questo termine per riferirsi alle ninfe delle querce, questo fa pensare che il sambuco era ritenuto un albero sacro, o un dono degli dei stessi. Un'antica credenza riteneva che fosse appunto sacro alla Dea e che avrebbe attratto una maledizione su chi avesse mai osato bruciarlo. E' infatti il decimo legno cantato nel Rede della Thompson, che recita: "Il sambuco della Signora è l'eletto, non lo bruciare o sarai maledetto." . Questo deriva appunto dal folklore inglese, secondo il quale bruciare il sambuco porta il diavolo in casa. Una trasposizione dell'infausto dissacrare una pianta sacra antica che crea quindi una forte spaccatura tra il bene e il male. Questo deriva anche dal fatto che il sambuco è il tredicesimo albero del calendario lunare arboreo britannico. In Inghilterra si sosteneva addirittura che il Sambuco non fosse un arbusto qualsiasi, ma addirittura una fattucchiera con le sembianze di una pianta.
    La leggenda penalizza il sambuco presso i popoli dell’area cristiana. Secondo alcuni fu proprio un sambuco l'albero sul quale si impiccò Giuda Iscariota, tormentato dal tradimento perpetrato nei confronti di Gesù Cristo. Il segno sarebbe rimasto nel portamento dei rami che per la vergogna subita non si elevano più eretti come un tempo, ma reclinano verso il basso. Fu proprio nel tredicesimo secolo che fu pubblicato inoltre un sermonario francese che di indignava contro le donne contadine che portavano offerte al sambuco demoniaco. Queste note pare siano stati uno dei motivi per cui poi il numero tredici divenne un numero sventurato.

    In antichità si riteneva fosse una panacea, nonostante si pensasse che l'odore eccelso dei suoi fiori avesse un effetto soporifero eterno e che conducesse negli inferi. Dormire sotto un sambuco poteva rivelarsi fatale dal momento che si riteneva che le sue cavità fossero abitate dalle fate (o secondo alcuni dalle streghe) e che avrebbero rapito l'anima di chiunque si fosse addormentato alle sue radici. “Holder”, il suo nome tedesco, potrebbe derivare dalla parola “Holdo” che significa spirito protettore degli antenati defunti. I “guote Holder” sono cosi gli spiriti buoni e gli “Unhold” i Lari maligni. Nell’antica storia dei Celti si racconta che nel sambuco dimorasse una fata dai lunghi capelli d’oro dal nome Holda; con lei, nascosti tra i cespugli, c’erano solo gli elfi. Holda era una fata del folklore germanico medievale che abitava nei sambuchi situati vicino a laghi e corsi d’acqua. Talvolta Holda poteva apparire come una vecchia strega.
    La venerazione ed il rispetto per la pianta sono testimoniati dal fatto che, fino alla fine dell´800, i contadini tedeschi incontrando il sambuco nei campi si alzavano il cappello; addirittura prima di raccogliere le sue foglie o i fiori, le persone chiedevano il permesso al sambuco, per non irritarlo.
    Ritenendo che proteggesse dal morso dei serpenti, molti ne tenevano un pezzetto in tasca, e nella Stiria ci si rivolgeva al sambuco come ad un sacerdote. Nella medicina tradizionale il sambuco era considerato un rimedio che guariva ogni male. In quella tirolese il sambuco venne chiamato “farmacia degli dei”. Sette volte il contadino si inchinava davanti all´albero perchè sette sono i doni salutari. In sette parti il Sambuco donava se stesso per il bene della povera gente: la sua resina, il decotto di radice, la sua corteccia, i suoi germogli, le sue foglie, i suoi fiori, i suoi frutti
    Intorno alle fortezze, ai masi ed ai monasteri si piantavano sambuchi perché si diceva che proteggevano case, bestiami e abitanti da serpenti e da mali. Secondo vecchie tradizioni germaniche, un´infiorescenza piccola e sottile indicava un anno di siccità; se invece era grassa e robusta ci si poteva aspettare un buon raccolto.
    Nelle leggende germaniche, il flauto magico era un ramoscello di sambuco svuotato dal midollo al cui suono, richiamando l´attenzione degli spiriti del bosco, tutti i mali sarebbero scomparsi insieme alla sfortuna, alle negatività ed alla tristezza. Per esprimere i suoi poteri eccezionali doveva però essere tagliato in un luogo dove non fosse possibile udire il canto del gallo. Le sue doti erano talmente conosciute che la famosa opera "Il Flauto magico" non era altro che un ramoscello di Sambuco, svuotato del suo midollo, infatti, nella nota opera di Mozart, si racconta che la Regina della Notte fece dono a Tamino di un flauto, e subito lo strumento divenne d’oro: nei momenti di pericolo, se suonato, liberava gli sventurati da situazioni pericolose o difficili. Una favola di Hans Christian Andersen ha per titolo “Madre Sambuco” in cui, si ribadisce la tradizione di utilizzare tè ai fiori di sambuco contro le malattie da raffreddamento.
    Il sambuco ha un ruolo da protagonista anche in una delle migliori commedie nere del cinema americano “Arsenico e vecchi merletti” diretto da Frank Capra; vino avvelenato aromatizzato al sambuco veniva somministrato dalle zie del protagonista Cary Grant, Abby e Martha, ai propri inquilini per avvelenarli con “un sorriso sulle labbra” prima di seppellirli in cantina Il legno di Sambuco serviva anche a tener lontano i ladri.
    (dal web)
     
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  13. gheagabry
     
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    E ancora tu tra file di alberi
    che cuciono colline di uva bianca
    e tu sei stanca un giorno intero a bere vino
    e un contadino col bicchiere in mano lì vicino.
    (Claudio Baglioni, Fotografie, 1981)


    LA VITE


    La vite (dal latino “vite”, derivato dall’indoeuropeo viere = curvare, intrecciare) è un arbusto rampicante, diffuso in vaste aree del nostro pianeta comprese tra il 20° e 50° grado di latitudine Nord e il 20° e 40° di latitudine Sud. E’ una pianta molto resistente, in grado di resistere fino a 15°C sotto zero in inverno, ma che predilige temperature comprese fra 8° e 13°C per il germogliamento, fra 16 e 20°C per la fioritura e fra 18°C e 23°C per la maturazione.

    Il ciclo biologico della vite è costituito dal germogliamento, la fioritura, l’allegagione, l’invaiatura e la maturazione. Ciascuna varietà di vite (vitigno) ha dei periodi caratteristici per ciascuna di queste fasi biologiche, tali periodi vengono denominati "epoche fenologiche".
    La radice nelle viti nate da seme è a fittone; in quelle originate per talea è fascicolata. Raggiunge una profondità compresa tra i 30 e gli 80 cm, ma si espande molto lateralmente (fino a 20 m). Il fusto è detto anche ceppo. I rami, detti tralci, presentano molti nodi, sui quali si inseriscono le foglie, alterne. Dopo il 3°- 4° nodo da una parte si forma una foglia e dall'altra un grappolo o un viticcio che si avvolge attorno a qualche sostegno. Dai nodi si formano anche altri germogli dette femminelle. Le foglie hanno un lungo picciolo, sono tipicamente palmate, ma forma e dimensioni possono variare. L'infiorescenza della vite è un grappolo composto.
    L'asse centrale è detto rachide; su di esso si inseriscono le ramificazioni laterali, i racimoli che portano i fiori. Il fiore, poco appariscente, di colore giallo-verde è generalmente ermafrodita, con 5 stami ed un pistillo a forma di fiasco. La corolla è formata da 5 petali che si uniscono in alto a formare una specie di cappuccio. I fiori sono ermafroditi e l’impollinazione è anemofila ossia avviene grazie al trasporto del polline da parte del vento.
    Il germogliamento, ossia lo schiudersi delle gemme, avviene nel mese di marzo. Vi sono tre tipi di gemme: le gemme pronte o estive che danno origine solo a rami improduttivi (detti femminelle), le gemme dormienti o ibernenti che si apriranno l’anno successivo in primavera per produrre germogli con fiori e frutti, le gemme latenti che restano inattive anche per parecchi anni e si schiudono solo in caso di necessità, ad esempio dopo una gelata, per dare origine a rami improduttivi detti polloni. La fioritura, ossia la formazione dei fiori, avviene fra la fine di aprile e l’inizio di giugno a seconda della latitudine. L’allegagione è la trasformazione dei fiori in frutti (acini) e avviene solitamente a luglio. Solo una piccola parte dei fiori (circa il 15-20%) si trasforma in frutti, gli altri cadono (colatura) o si allungano trasformandosi in viticci (filatura), entrambi i fenomeni sono una forma di autoregolazione della pianta per evitare di disperdere le proprie disponibilità nutritive. In alcuni casi particolari, quali carenze nutritive o avversità climatiche, si aggiunge un terzo fenomeno detto acinellatura che consiste nell’arresto della crescita di acini già formati. Nella fase dell’invaiatura, i frutti formati crescono di dimensioni e si colorano di rosso o di giallo a seconda del tipo di uva, in questo periodo l’uva contiene pochi zuccheri ed è ricca di acidi. Nel periodo che va dall’invaiatura alla raccolta avviene la maturazione, che dura circa 40-50 giorni. In questo periodo l’acino aumenta di volume, continua a colorarsi e soprattutto si arricchisce di zuccheri. Inoltre si forma sulle bucce una sostanza cerosa bianca detta pruina, la quale protegge gli acini dagli agenti atmosferici avversi e trattiene dei microrganismi trasportati dal vento che si chiamano lieviti e che sono i responsabili della fermentazione.
    Il primo raccolto dell’uva avviene solo dopo tre anni dalla piantagione ed è piuttosto scarso. La produzione comincia ad essere soddisfacente solo dopo 5 anni, la qualità del vino migliora progressivamente con l’età della vite, ma quando la pianta raggiunge i 30 - 50 anni la produzione comincia a diminuire fino ad essere non conveniente col protrarsi degli anni.

    Ogni anno la vite, quando è a riposo vegetativo, deve essere potata per ottenere una buona produzione sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Con la potatura vengono eliminati i tralci che hanno già dato il frutto, se non fossero tagliati la pianta crescerebbe a dismisura e si spoglierebbe della vegetazione fruttifera, la vite è un vegetale parente della liana.

    ....storia, miti e leggende....


    La vite è una pianta antichissima che da milioni di anni è presente nelle zone temperate del pianeta; solo da qualche migliaio di anni però si è cominciato a produrre vino. Hanno incominciato i sumeri, poi gli egiziani e greci e quindi gli etruschi. Internamente alla cultura greca si è soliti associare il vino a Dioniso e in effetti diversi miti ellenistici sull’origine del vino vedono coinvolta questa figura del pantheon olimpico. Tuttavia, né Dioniso era inizialmente associato al vino, né la scoperta del vino è contemporanea all’arrivo di questa divinità presso i Greci. Come dimostrano i dati archeobotanici, la scoperta del vino è di gran lunga antecedente la formazione della cultura greca classica e anche arcaica. Probabilmente i miti più antichi sono quelli che non associano la scoperta del vino a Dioniso; miti di cui ci sono pervenuti solo pochi e dispersi elementi. In uno di questi, un ceppo di vite fu partorito da un animale, una cagna, come riportato da un passo dei Deipnosofistas di Ateneo (scritto negli anni 192-195 d.C.):

    “Ecateo di Mileto, che assicura che la vite fu scoperta in Etolia, dice anche quanto segue: ‘Oresteo, il figlio di Deucalione, si recò in Etolia per ricevere il governo reale, e una sua cagna partorì uno ceppo. Egli ordinò di interrarlo e da questo nacque una vite abbondante in uva; per questo chiamò suo figlio Fitio (Concepitore). Da questo nacque Eneo, che ricevette il suo nome dalla vite”, dato che gli antichi greci, dice Ateneo, chiamavano le viti oínai.’” (Ateneo, II, 35B).

    Oresteo era un cacciatore e il suo nome significa “uomo delle montagne”. La cagna che partorisce il ceppo dalla quale nascerà la prima vite è una rappresentazione simbolica del “cane” della costellazione di Orione, cioè la stella Sirio. Si riteneva che l’apparizione stagionale di questo astro fosse responsabile della maturazione della vite. E’ stato fatto notare che “il sottinteso del mito di Oresteo consiste in un rapporto di equivalenza tra la gestazione della cagna e il processo di maturazione della pianta nella terra (Massenzio, 1969, p. 51). Nel mito Oresteo è figlio di Deucalione, che fu l’unico uomo sopravissuto al diluvio insieme all’unica donna sopravvissuta, Pirra. Quindi, l’origine della vite è collocata ai tempi mitici degli inizi di una nuova generazione umana, l’ultima secondo l’ordine cronologico dell’antropogonia greca. Anche Pausania, nella sua Guida alla Grecia (X, 38, 1), riportava la tradizione locrese che la cagna di Oresteo partorì il ceppo da cui nacquero i primi tralci di vite; ma vi aggiunge che dal ceppo fuoriuscirono, in forma di rami (ozoi), anche gli uomini della stirpe di Locri, che per questo motivo presero il nome di Ozolii, nome etimologicamente associato alla parola ozos, “ramo”.
    Un altro mito molto antico, di origine tessalica, associa la scoperta del vino a un secondo animale, un caprone, e appartiene al ciclo mitologico legato alla figura di Eneo (Oineo). Uno dei suoi pastori, dal nome molto indicativo di Stafilo (“grappolo d’uva”), si accorse che uno dei suoi capri si allontanava frequentemente dal gregge per brucare da una pianta di vite i grappoli d’uva presso il fiume Acheloo e quando si ricongiungeva con il gregge apparivo sazio e con un comportamento bizzarro. Accortosi di ciò, Stafilo raccolse i grappoli d’uva e li portò a Eneo, il quale ebbe l’idea di schiacciare i grappoli d’uva e di miscelarne il succo con l’acqua del fiume, ricavandone in tal modo il primo vino (riportato in I Mitografo Vaticano, 87 Ku e in Servio, In Verg. Georg., 1, 8). In alcune versioni Stafilo viene chiamato Orista, forma deformata del nome di Oresteo (Kerenyi, 1985, I, p. 121). E’ stato tramandato anche un altro mito associato alla figura di Stafilo e cronologicamente conseguente alla scoperta del vino, dove delle scrofe fungono da protagonista. Diodoro Siculo ce ne ha tramandato la seguente versione:
    “Vi è a Castabo del Chersoneso un tempio sacro alla Semidea, le cui peripezie non è opportuno tacere. Molti e differenti racconti sono stati tramandati su di lei, esporremo quello che si è imposto ed è condiviso dagli indigeni. Dicono che da Stafilo e da Crisotemide nacquero tre figlie che si chiamavano Molpadia, Roiò, Parteno. … Le sorelle della sedotta [Roiò, sedotta da Apollo], Molpadia e Parteno, si addormentarono mentre facevano la guardia al vino del padre (il vino era una scoperta recente per gli uomini); fu proprio in quel momento che alcune scrofe, da loro allevate, entrarono e ruppero la giara che conteneva il vino: ed esso andò perduto. Quando le ragazze si resero conto dell’accaduto, temendo la severità del padre, fuggirono sulla costa e si precipitarono da alte rocce. Apollo, per l’affetto che lo legava alla sorella, le afferrò e le trasportò nelle città del Chersoneso. Fece in modo che colei che si chiamava Parteno avesse onori e un santuario a Bubasto del Chersoneso; Molpadia, giunta a Castabo, fu chiamata Semidea, perché il dio vi aveva fatto la sua apparizione e fu venerata da tutti coloro che abitavano il Chersoneso. Nel corso dei sacrifici in suo onore, fanno le libagioni con una miscela di latte e miele a causa dell’incidente occorso al vino; a colui che abbia toccato o mangiato un maiale, non è lecito avvicinarsi al tempio.” (Diodoro Siculo, Biblioteca storica, V, 62).
    In questo racconto non viene specificato il motivo della rottura della giara di vino da parte delle scrofe, ma non va esclusa a priori la possibilità che questi animali si scaraventino contro la giara poiché attratte dal vino e dal suo effetto. Esiste un’altro mito sull’origine della vite e del vino, riportato tardivamente dal poeta latino Ovidio: Bacco si era innamorato di un giovinetto di nome Ampelo (che significa “vite”), che era figlio di un satiro e di una ninfa e che viveva sull’Ismaro, un monte della Tracia rinomato per la qualità dei suoi vitigni. Ad Ampelo Bacco fece dono del primo grappolo d’uva, che sporgeva dai rami di un’olmo. Ma il giovane, cercando di raccogliere altri grappoli, cadde e morì. Bacco, addolorato, trasformò il giovane in una stella della costellazione del Vendemmiatore, che deve il suo nome al fatto di apparire in autunno al tempo della vendemmia. (samorini.it)


    E scorre il silenzio
    in filari di fiocchi di sole,
    spruzzati sugli alberi nudi
    E soffia il vento,
    calmo, sull’acqua del lago,
    tutto s’increspa nel muto arrivare
    S’intrecciano foglie d’ulivo,
    si uniscono al mirto, all’alloro,
    in filari di fiocchi di sole
    Neanche il passo è veloce,
    langue, rallenta e procede,
    schiva il sasso e ristà
    Alzo gli occhi alla luce,
    seguo il tempo che viene,
    che va, in filari di fiocchi di sole
    Giro in tondo alla vita,
    fra filari di vite,
    in filari di viti e di fiocchi di sole…

    (fiorderica, ozoz.it il 18.4.2006 20:28:00)

     
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  14. rosaeah
     
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    ciao .

    Sono nuovo di isolafelice.forumcommunity.net e ho un problema pure iniziato ....

    Non posso postare una foto.

    Poiché le immagini vengono caricate a questo forum .

    Grazie.



    ciao. ho letto solo ora non riesco a capire che problema hai?

    lo staff


    Edited by gheagabry - 27/12/2013, 20:39
     
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  15. gheagabry
     
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    Le illusioni cadono una dopo l'altra come le bucce di un frutto,
    e il frutto è l'esperienza.
    Ha un sapore amaro; ma ha qualcosa di aspro che fortifica.
    (Gérard de Nerval, Angélique, 1854)



    L'ARANCIO AMARO



    L'Arancio amaro (Citrus × aurantium L.), detto anche Melangolo, è un ibrido del genere Citrus, che raggruppa gli agrumi, appartiene alla famiglia delle Rutacee. Citrus: dal nome latino del Cedro della Media (Citrus medica L.); aurantium dal sanscrito e dall'arabo e significa appunto arancio. In persiano, nāranğ da cui deriva arancia, che letteralmente significa "frutto favorito degli elefanti". La pianta deriva probabilmente da un ibrido tra il pomelo (Citrus Maxima) ed il mandarino (Citrus Reticulata) ma vive ormai, da forse un millennio, di vita propria e si riproduce per innesto o per talea.
    È un albero di modeste dimensioni, in grado di raggiungere un’altezza di 10 m, con una chioma densa e tondeggiante. I rami più vigorosi presentano delle lunghe spine all’ascella della foglia, le radici sono fittonanti e si sviluppano in profondità. Le foglie sono sempreverdi, coriacee, di colore verde intenso e lucido, ovate e appuntite all'apice, nettamente riconoscibili perché hanno la caratteristica di avvolgere ad ala il picciolo che le collega ai rami. I fiori sono ermafroditi, con cinque petali bianchi, solitari o più spesso riuniti in mazzetti agli apici dei rami e, come le foglie, presentano un profumo molto intenso e sono ricchi di oli essenziali.
    I frutti sono buoni, ma si trovano raramente sul mercato, in quanto sono prevalentemente consumati nell'industria alimentare e farmaceutica. Nell'alimentazione, la polpa viene utilizzata per marmellate e frutta candita, mentre la buccia viene impiegata nella produzione di liquori (curaçao, amari e simili). L'industria farmaceutica utilizza soprattutto la buccia per la preparazione di vari digestivi e tonici. La polpa è acida, amarognola e ricca di semi. I frutti di colore arancio, resistono a lungo sulla pianta. L'Arancio amaro ha una resistenza alle basse temperature molto più alta rispetto all'arancio dolce.
    L'arancio amaro si differenzia da quello dolce (Citrus Ssinensis) per le spine più lunghe all'ascella delle foglie, per il colore più scuro delle foglie, per un profumo più intenso delle foglie e dei fiori, per la buccia più colorata e più ruvida del frutto, ma soprattutto per il particolare gusto dolceamaro della polpa. Le foglie soprattutto i fiori, chiamati anche zagare (dall'arabo "fiore bianco"), contengono numerose sostanze aromatiche.
    Il principale alcaloide di interesse scientifico contenuto nell’arancio amaro è la sinefrina, un acceleratore del metabolismo che dovrebbe aiutare l’organismo a bruciare i grassi. Dalla buccia dell’arancio amaro si ricava l’olio essenziale utilizzato come antiinfiammatorio e disinfettante. Il Ministero della Sanità impone di non superare nell'ambito dell'integrazione alimentare un dosaggio giornaliero di arancio amaro frutti immaturi equivalente a 30 mg/die di sinefrina.

    Molte sono le cultivar. Singolare è la "Bizzarria". Il Citrus aurantium bizzarria è una varietà molto rara, dalle caratteristiche genetiche del Citrus aurantium ma con la peculiarità di produrre frutti sia dell'arancio amaro che del limone cedrato o addirittura frutti che presentano contemporaneamente entrambi gli aspetti ma partiti in modo irregolare. Si tratta di una chimera periclinale da innesto in cui si sono fuse le caratteristiche di entrambe le piante con conseguente mutazione gemmaria.
    Nella varietà Salicefolia (a foglie di salice) le foglie sono strette e lunghe, mente i frutti sono uguali a quelli dell'arancio amaro classico.
    L'arancio amaro Corniculata è una antica varietà nota in Italia fin dal XVII secolo. Presenta frutti con buccia piuttosto rugosa, polpa di sapore acido-amarognolo e con protuberanze che assomigliano a dei piccoli ‘corni', da cui il nome.

    ...storia, miti e leggende...



    Le piante di arancio sono originarie dell’Estremo Oriente, precisamente della Cina meridionale e del Nord della Birmania, sotto il nome di Zhi-Shi, dove veniva usato in campo medico gia’ nel 1000 a.C., e si diffuse in Europa ad opera dei Portoghesi e degli Arabi, sembra tra il VII e XII secolo; cresce spontaneamente in India; in Italia e soprattutto in Sicilia sembra sia stato portato dai Crociati nel XII Secolo. I Greci conobbero gli agrumi al massimo nel IV secolo sotto forma di cedri, e i limoni qualche secolo dopo, ma né loro né i Romani sospettarono mai l’esistenza delle arance, comparse in Europa solo verso l’anno Mille.
    Dai fiori dell'Arancio amaro si estrae un olio essenziale che viene commercializzato col nome di essenza di zagara, chiamata anche “neroli” perché, sul finire del 1600, la duchessa di Neroli, moglie di Flavio Orsini, ne faceva largo uso per profumare i suoi guanti. Inoltre dalle sue foglie si estrae un altro olio essenziale detto essenza di "petitgrain". Entrambi sono usati in profumeria. I fiori d’arancio (la zagara) sono ritenuti simbolo di matrimonio perché si pensava fossero arance i frutti d’oro donati dalle Esperidi in occasione del matrimonio di Giove e Giunone.


    Originario dell’Estremo Oriente, l’arancio amaro evoca da sempre un simbolismo paradisiaco. Secondo una interpretazione rinascimentale, le arance amare sarebbero state i pomi d’oro che Eracle conquistò nel giardino delle Esperidi, dopo aver ucciso il drago che le custodiva. Nel Rinascimento le arance amare compaiono in un altro episodio mitologico, come dice il Poliziano che narra di Atlanta: “Raggia davanti all’uscio una gran pianta, / che fronde ha di smeraldo e pomi d’oro:/ e pomi ch’arrestar ferno Atlanta,/ ch’ad Ippomene dierno il verde alloro”. Atlanta, figlia di Scheneo, re di Siro, abile cacciatrice, insuperabile nella corsa, aveva deciso di rimanere vergine. Ma il padre non era dello stesso parere e, poiché molti la chiedevano in sposa, stabilì che ogni pretendente si misurasse con lei in una gara: l’aspirante marito doveva fuggire mentre Atlanta, armata di lancia, lo inseguiva. Se il pretendente fosse stato raggiunto, sarebbe stato ucciso e la sua testa appesa all’entrata dell’arena. Fra i candidati vi era Ippomene, cui Afrodite aveva donato tre pomi d’oro purissimo, suggerendogli di gettarli a terra durante la corsa. Atlanta, incuriosita, rallentò l’andatura per raccogliere quei frutti e perse la gara. Sulla scia di questa leggenda il colore del frutto, simile a quello dell’oro, ha ispirato al rinascimentale Mattioli una fantasiosa etimologia secondo la quale il nome di “aranci” sarebbe la traduzione di “Aurantia Pom”, ovvero “pomi d’oro”. In realtà la parola proviene dal persiano, Narang, derivato dal Sanscrito Naraganja.

    Da sempre è considerato alberello bene augurante. In Cina sembra che, fin dal dodicesimo secolo, un carico di frutti partisse all'inizio di ogni anno da Pechino diretto ad uno dei templi di Foochow per celebrare sacrifici agli dei. L'offerta di arance il primo giorno dell'anno significava augurio di felicità, prosperità e abbondanza. Nei paesi di religione cattolica, l'arancio assume un duplice valore: i frutti e i fiori, da un lato, sono considerati simbolo di purezza e generosità, dall'altro, se associati alla Madonna, diventano l'emblema del peccato originale. Le streghe di tutta Europa indicavano l'arancio come il cuore delle loro vittime. Risale ai tempi delle crociate l'usanza di impiegare i fiori d'arancio per addobbare gli abiti delle spose. I cavalieri orientali li regalavano il giorno delle nozze alla propria sposa; le tradizioni saracene attribuiscono ai fiori d'arancio valore di fecondità.
     
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118 replies since 13/2/2011, 11:34   75777 views
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