MITOLOGIA ITALICA

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  1. gheagabry
     
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    BONA DEA



    Sotto l'appellativo Bona Dea, che ha un significato generale di Grande Madre, si venerava un'antica divinità laziale, il cui nome non poteva essere pronunciato. In origine, questo non fu che un appellativo della dea romana Fauna, che formò, insieme con Faunus, una delle più antiche coppie degli dei indigeti del Lazio. Bona Dea Fauna era stata, come Fauno, una divinità della pastorizia e dei boschi, e anche, col nome di Fatua (Giustino XLIII; Macrob., Saturn; Servio, ad Aen), una dea che predice l'avvenire. La Bona Dea non trova una chiara caratterizzazione nemmeno esaminando le fonti antiche; in linea generale la versione più accreditata del mito la vuole moglie o figlia di Fauno, secondo la versione riportata da Lattanzio la dea è la moglie di Fauno, una moglie molto abile in tutte le arti domestiche e molto pudica, al punto di non uscire dalla propria camera e di non vedere altro uomo che suo marito. Un giorno però trovò una brocca di vino, la bevve e si ubriacò. Suo marito la castigò a tal punto con verghe di mirto che ne morì. Questo spiega l'esclusione del mirto dal suo tempio.
    Ella viene collocata quindi in quella che è la storia antica del Latium da cui proviene la genealogia degli eroi e dei principi, su cui si fonderà, in seguito, gran parte della propaganda imperiale romana, in particolare quella Giulio Claudia.
    La vera identità della dea traspare attraverso i vari miti che circondano la sua storia, così come ci vengono tramandati dagli autori antichi, oppure attraverso la tipologia del culto che veniva celebrato. Un'altra maniera per conoscere la dea è riscontrabile nella tipologia del culto a lei dedicato. La descrizione del culto ci mostra una divinità che opera pro populo, quindi, per la salute di tutta Roma.
    Quali rappresentanti al femminile dello stato, le donne dell’aristocrazia sono preposte alla celebrazione del culto, un culto che veniva svolto strettamente in privato escludendo qualunque figura maschile, compresi gli animali.
    Infatti, quando nel 62 a.C. Publio Clodio Pulcro si travestì da donna, per partecipare segretamente al culto che si celebrava nella casa di Giulio Cesare, seguì una grave crisi politica, dovuta a questa profanazione.

    Un tempio di Bona Dea, il cui ingresso era pure vietato agli uomini, sorse in Roma ai piedi dell'Aventino; restaurato da Livia, se ne celebrava l'anniversario della dedicazione il primo di maggio. In questo tempio, la dea assunse anche il nuovo aspetto, appartenente pur esso alla greca Damia, di divinità salutifera. In tale significazione, il culto di Bona Dea andò sempre più diffondendosi, nel periodo dell'impero: una piccola farmacia era annessa al suo tempio, e le donne ricorrevano volentieri allo aiuto della divinità e al consiglio di speciali collegi di sacerdotesse addette ai templi stessi e alle loro farmacie (sacerdotes Bonae Deae, a Roma: Corp. Inscr. Lat., VI, 2236 segg., 2240, 32461; magistrae o ministrae Bonae Deae in altre parti d'Italia; per es., Corp. Inscr. Lat., XIV, 4057; IX, 805; V, 757-759, 762).

    La festa di Bona Dea ricorreva una volta all'anno, a una data non fissa, ma sempre al principio di dicembre; si celebrava di notte, sul modello delle greche παννυχίδες, nella casa di un magistrato cum imperio; ivi convenivano le matrone romane, incaricate di compiere il rito per conto dello stato, pro populo, insieme con le Vestali e le matres familias dello stato: gli uomini erano rigorosamente esclusi. Al rito presiedeva la moglie del magistrato nella cui casa si allestiva la festa; ella assumeva in tale occasione, come sacerdotessa della dea, il nome di damiatrix. Il rituale e le formule del culto si mantenevano segreti: s'intende così come gli scrittori romani designino di solito tale festa col nome di mysteria. Come vittima, veniva offerta alla dea una scrofa; la sala della festa si ornava di tralci di vite, mentre non doveva comparirvi il mirto; nel rito, accompagnato da musica e da danze, aveva larga parte anche il vino, il quale però veniva sempre ricordato con falso nome (Macrob., Sat., I, 12, 25: vinum in templum eius non suo nomine soleat inferi, sed vas in quo inditum est mellarium nominetur et vinum lac nuncupetur).

    Ma sull'epiteto di Bona Dea venne ben presto ad innestarsi il culto di una divinità greca introdotta in Roma dalla Magna Grecia; e la nuova figura divina fece dimenticare l'antica. La dea greca che assunse a Roma il nome di Bona Dea fu Damia, divinità venerata specialmente nell'Argolide, e anche a Egina, a Sparta, a Tera e, in Italia, a Taranto. Il ricordo dell'antica Fauna Bona Dea non scomparve però del tutto; nelle campagne talvolta la si trova invocata come divinità tutoria di certi luoghi, in unione al Genius loci.

    Lo scandalo di Clodio


    L’originaria proibizione venne in seguito aggirata consentendo la partecipazione degli uomini, purché travestiti da donne. Nel dicembre del 62 a.C. un personaggio appartenente ad una delle più nobili famiglie romane, Publio Claudio Pulcro (meglio noto col gentilizio plebeo Clodio), amante della moglie di Cesare, si era introdotto nottetempo, durante la celebrazione dei riti della Bona Dea, travestito da donna, nella residenza di Cesare, pretore e pontefice massimo.
    Scoperto da una schiava per la voce, Clodio riuscì tuttavia a fuggire; Cesare, dopo aver ripudiato immediatamente la moglie, ormai compromessa, tentò di soffocare lo scandalo, ma non riuscì ad evitare l’istruzione di un processo, aizzato dalla forte riprovazione che il ‘sacrilegio’ perpetrato da Clodio (che venne poi assolto) suscitava nell’opinione pubblica.
     
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