Colin Firth

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    Colin Firth




    Colin Andrew Firth (Grayshott, 10 settembre 1960) è un attore britannico.

    Biografia


    Nato nell'Hampshire, figlio di professori universitari, trascorre la sua infanzia con i nonni missionari in Nigeria. Ritorna in Gran Bretagna per studiare recitazione alla "Drama Centre di Chalk Farm". Terminati gli studi inizia a lavorare in teatro, affrontando una gavetta che lo porta a debuttare sul grande schermo nel 1984 con il film Another Country - La scelta che lo vede recitare al fianco di Rupert Everett, con il quale aveva già lavorato a teatro nell'omonima pièce.

    Lavora in molti spot pubblicitari e serie tv come Orgoglio e pregiudizio tratto dal libro omonimo di Jane Austen. Nel 1996 recita ne Il paziente inglese di Anthony Minghella, seguito da Febbre a 90°, Segreti e Shakespeare in Love.

    La scrittrice Helen Fielding pensò a Firth, quando scrisse il personaggio di Mr. Darcy, tanto che lo volle a tutti i costi nella versione cinematografica dei suoi romanzi, infatti nel 2001 recita in Il diario di Bridget Jones seguito a Che pasticcio, Bridget Jones! del 2004.

    Nel 2003 è nel cast di L'importanza di chiamarsi Ernesto, seguito da La ragazza con l'orecchino di perla con Scarlett Johansson e dalla commedia corale Love Actually - L'amore davvero.

    Nel 2007 interpreta Ambrosio Aureliano nel film L'ultima legione e sarà accanto a Meryl Streep in Mamma Mia!, trasposizione cinematografica dell'omonimo musical.

    Vita privata

    Colin Firth ha avuto una lunga relazione con l'attrice Meg Tilly, conosciuta sul set di Valmont di Milos Forman, dal quale ha avuto un figlio, Will, nato nel 1990.

    Il 21 giugno 1997 ha sposato la documentarista e produttrice italiana Livia Giuggioli, con la quale vive tra Londra e Roma assieme ai loro due figli, Luca (nato nel 2001) e Matteo (nato nel 2003).

    filmografia

    * Another Country - La scelta (Another Country, 1984)
    * Un mese in campagna (A Month in the Country, 1987)
    * Apartament Zero (1989)
    * Valmont (1989)
    * Le ali del successo (Wings of Fame, 1990)
    * The Hour of the Pig (1993)
    * Amiche (Circle of Friends, 1995)
    * Orgoglio e pregiudizio (Pride and Prejudice, 1995) - miniserie tv
    * Il paziente inglese (The English Patient, 1996)
    * Febbre a 90º (Fever Pitch, 1997)
    * Segreti (A Thousand Acres, 1997)
    * Shakespeare in Love (1998)
    * La mia vita fino ad oggi (My Life So Far, 1999)
    * La fidanzata ideale (Relative Values, 2000)
    * Conspiracy - Soluzione finale (Conspiracy, 2001) - film tv
    * Il diario di Bridget Jones (Bridget Jones's Diary, 2001)
    * Four Play (Londinium, 2001)
    * L'Importanza di chiamarsi Ernesto (The Importance of Being Earnest, 2002)
    * Hope Springs (2003)
    * La ragazza con l'orecchino di perla (Girl with a Pearl Earring, 2003)
    * Una ragazza e il suo sogno (What a Girl Wants, 2003)
    * Love Actually - L'amore davvero (Love Actually, 2003)
    * Che pasticcio, Bridget Jones! (Bridget Jones: The Edge of Reason, 2004)
    * False verità (Where the Truth Lies, 2005)
    * Nanny McPhee - Tata Matilda (Nanny McPhee, 2006)
    * L'ultima legione (The Last Legion, 2007)
    * Quando tutto cambia (Then She Found Me, 2007)
    * St. Trinian's (2007)
    * Un marito di troppo (The Accidental Husband, 2008)
    * Mamma Mia! (2008)
    * Genova (2008)
    * Easy Virtue (2008)
    * Dorian Gray (2009)


    Fonte Wikipedia
     
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  2. tomiva57
     
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    Another Country - La scelta




    Titolo originale Another Country

    Anno 1984
    Durata 90 min
    Genere drammatico
    Regia Marek Kanievska
    Musiche Michael Storey

    Interpreti e personaggi

    * Rupert Everett: Guy Bennett
    * Colin Firth: Tommy Judd
    * Cary Elwes: James Harcourt
    * Michael Jenn: Barclay
    * Robert Addie: Delahay
    * Rupert Wainwright: Donald Devenish
    * Tristan Oliver: Fowler
    * Frederick Alexander: Menzies
    * Adrian Ross-Magenty: Wharton
    * Anna Massey: Imogen Bennett
    * Betsy Brantley: Julie Schofield



    Premi.- Festival di Cannes 1984: Premio per il miglior contributo artistico (Peter Biziou)


    Another Country - La scelta è un film del 1984 diretto da Marek Kanievska. La pellicola è la trasposizione dell'omonima pièce teatrale di Julian Mitchell, ispirata alla vita collegiale di Guy Burgess, spia britannica al servizio dell'Unione Sovietica. Gli attori Rupert Everett e Colin Firth avevano già partecipato alla rappresentazione dell'opera a teatro, Everett nell'originale del 1981, Firth nel 1983.

    Il film è stato presentato in concorso al 37º Festival di Cannes.

    Trama

    Nei primi anni ottanta in Russia, un anziano Guy Bennett viene intervistato e racconta della sua adolescenza nel prestigioso e rigido college di Eton negli anni trenta.

    Il giovane Bennett, omosessuale disinibito, è amico di Tommy Judd, marxista, e sogna di diventare un diplomatico, magari ambasciatore a Parigi. Un loro compagno, Martineau, viene scoperto da un insegnante a masturbarsi con un amico, e in seguito si suicida: questo "scandalo" contribuisce all'odio nei confronti di Bennett da parte di Fowler, studente più anziano e coordinatore della loro casa comune. A Judd viene offerta l`occasione di diventare un prefetto, cosa che avrebbe aiutato Bennett, ma non sarebbe stata coerente con il suo odio per un simile "sistema di oppressione". Quando finalmente Judd accetta, Fowler riesce ad impedirlo. Quest'ultimo, quando intercetta una lettera d'amore di Bennet indirizzata ad un altro ragazzo, James Harcourt, punisce duramente Bennett, il quale vede così svanire i suoi sogni di diventare uno dei pupilli della scuola, una base necessaria per intraprendere la carriera diplomatica.

    L'anziano Bennett racconta infine di come lui sia fuggito in Russia, e Judd sia morto durante la guerra civile spagnola.




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  4. gheagabry
     
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    «Io sono un ufficiale di marina, non sono capace di fare il re»

    IL DISCORSO DEL RE


    Titolo originale The King's Speech
    Lingua originale inglese
    Paese di produzione Regno Unito, Australia
    Anno 2010
    Durata 118 min
    Colore colore
    Audio Dolby Digital
    Rapporto 1:1,85
    Genere biografico, drammatico, storico
    Regia Tom Hooper
    Sceneggiatura David Seidler
    Produttore Iain Canning, Emile Sherman, Gareth Unwin, Peter Heslop (co-produttore),
    Simon Egan (co-produttore), Charles Dorfman (produttore associato)
    Produttore esecutivo Geoffrey Rush, Tim Smith, Paul Brett,
    Mark Foligno, Harvey Weinstein, Bob Weinstein
    Casa di produzione See-Saw Films, Bedlam Productions
    Distribuzione (Italia) Eagle Pictures
    Fotografia Danny Cohen
    Montaggio Tariq Anwar
    Musiche Alexandre Desplat
    Scenografia Eve Stewart
    Costumi Jenny Beavan
    Trucco Frances Hannon

    Interpreti e personaggi

    Colin Firth: Re Giorgio VI
    Geoffrey Rush: Lionel Logue
    Helena Bonham Carter: Elizabeth Bowes-Lyon
    Guy Pearce: Re Edoardo VIII
    Timothy Spall: Winston Churchill
    Michael Gambon: Re Giorgio V
    Derek Jacobi: Arcivescovo Cosmo Lang
    Jennifer Ehle: Myrtle Logue
    Anthony Andrews: Stanley Baldwin
    Claire Bloom: Mary di Teck
    Eve Best: Wallis Simpson
    Freya Wilson: Principessa Elizabeth
    Ramona Marquez: Principessa Margaret
    Calum Gittins: Laurie Logue
    Dominic Applewhite: Valentine Logue
    Roger Parrott: Neville Chamberlain

    Riconoscimenti

    2011 - Premio Oscar
    Miglior film a Iain Canning, Emile Sherman e Garet Unwin
    Migliore regia a Tom Hooper
    Miglior attore protagonista a Colin Firth
    Migliore sceneggiatura originale a David Seidler

    2011 - Golden Globe
    Miglior attore in un film drammatico a Colin Firth

    2011 - David di Donatello
    Miglior film dell'Unione europea


    TRAMA


    La storia dell’uomo che è diventato re Giorgio VI d’ Inghilterra, il padre della regina Elisabetta II. Dopo l’abdica-
    zione del prede-
    cessore, suo fratello Edoardo VIII, Giorgio accetta la corona di sovrano con riluttanza. Afflitto da una fastidiosa balbuzie, dai più considerato non adatto ad essere il re, Giorgio VI si affida alle cure del logopedista australiano Lionel Logue. Con l’ausilio di una serie di tecniche scientifiche poco ortodosse, e come risultato del rapporto di consuetudine che si instaura fra il sovrano e il suo medico, Giorgio VI riesce così a ritrovare la “sua” voce ed nuovo slancio per guidare il Paese attraverso i tragici anni della Seconda guerra mondiale.


    Sulle dolci note di un pianoforte si apre il film. È un'ouverture che sagacemente introduce lo spettatore non solo alla cerimonia di chiusura dell'Empire Exhibition di Wembley avvenuta a Londra nel 1925, ma soprattutto è un'ouverture che conduce il pubblico nell'allora nuovo mondo tecnologico della radio. Il primo piano del microfono, ripreso ora frontalmente, ora posteriormente, con la sua forma ovoidale simile a quella di un occhio, ci proietta subito negli anni venti, l'epoca in cui l'invenzione della radio ha rivoluzionato la comunicazione, entrando a far parte della vita quotidiana degli individui. "La voce radiofonica" collega nello stesso tempo spazi territoriali vastissimi, prima di allora impossibili da raggiungere, se non con il sistema postale. Si tratta di un decisivo balzo in avanti rispetto al processo di nazionalizzazione di tanti stati, che pur essendo spazialmente distanti, fanno parte di uno stesso impero coloniale.
    È questo il caso del Regno Unito che nel 1925 per la prima volta trasmette un messaggio via radio alla nazione e alle sue colonie, e al mondo intero.
    "Qui è la BBC National Programme!" annuncia il presentatore, "Sua altezza reale il duca di York leggerà un messaggio di suo padre Sua Maestà Re Giorgio V".
    Per la cerimonia di apertura il figlio maggiore del sovrano aveva già fatto la sua prima trasmissione radiofonica, e ora tocca al figlio minore chiudere la manifestazione, facendo il suo primo intervento alla radio, leggendo un messaggio del padre, il Re Giorgio V. Mancano due minuti alla diretta, annuncia un altoparlante, e così il Duca di York entra in scena con a fianco la fedele sua dolce sposa Elizabeth che gli sussurra "È ora di andare".
    Il viso tirato del protagonista la dice lunga sul suo stato emotivo, altri personaggi compaiono e provano a infondergli coraggio, dicendogli "Sono sicuro che sarete splendido! Andate avanti con calma!", "Lasciate fare al microfono!", senza sapere che tali esortazioni potrebbero sortire l'effetto opposto, e cioè gravare sulla tensione e sull'ansia da prestazione, che già lo stanno soffocando.
    "Tre lampi, poi rosso fisso, e siete in diretta", dice il tecnico radiofonico, ma il silenzio, dopo il convenuto segnale, è troppo lungo, la lettura del messaggio non avviene subito.
    È come se "l'occhio del microfono" lo stia fissando, terrorizzandolo.
    Fra sguardi attoniti e impazienti il Duca di York comincia, esitando, a proferire qualche parola, ma fra blocchi silenti e sillabe ripetute, il flusso delle parole non è né chiaro né comprensibile, la fluenza verbale non è scorrevole.....(www.humantrainer.com/)


    Duca: "Non comincerete a curarmi, dottor Logue?"
    Lionel Logue: "Vi curerò solo se sarete interessato a farvi curare. Vi prego, chiamatemi Lionel."
    Duca: "No, io preferisco dottore."
    Lionel Logue: "Io preferisco Lionel. Come devo chiamarvi?"
    Duca: "Altezza reale. Poi, Sir dopo di quello."
    Lionel Logue: "È un po' troppo formale per qui. Io preferisco i nomi."
    Duca: "Principe Albert Frederick, Arthur, George."
    Lionel Logue: "Che ne dite di Bertie?"
    Duca: "Solo la mia famiglia usa quello."
    Lionel Logue: "Perfetto!"


    ...recensioni...



    Non ci fu scampo per "Bertie". Dopo la morte del padre, re Giorgio V, il timido e complessato duca di York non sarebbe dovuto salire al trono d’Inghilterra. Il primogenito era, infatti, Edoardo, che divenne sì re ma che, per amore di Wallis Simpson, abdicò neppure un anno dopo. A Bertie, o meglio ad Albert Frederick Arthur George Windsor, toccò il peso della corona, diventando sovrano con il nome di Giorgio VI. Un uomo atipico, che fu re molto amato, legato da vero amore alla moglie, la volitiva Elisabetta Bowes-Lyon, ma che si portava appresso un fardello di costrizioni infantili e un bisogno di affetto difficili da trovare nell’anaffettiva coppia di genitori regali. Un’insicurezza che si esprimeva attraverso una balbuzie invalidante e impossibile da gestire nei numerosi e imbarazzanti discorsi pubblici cui era tenuto. In più, Giorgio VI si trovava a essere la voce del e per il popolo britannico in un momento difficile della storia, alla vigilia del secondo conflitto mondiale: ma che voce poteva essere (e che guida) se non aveva ancora trovato la sua? Per lui ci fu Lionel Logue, un australiano logopedista, ex attore, dai metodi anticonformisti, capace di sondare le anime e di medicarle.
    Una commedia umana, sempre in perfetto equilibrio tra toni drammatici e leggerezze, ricca di ironia ma soffusa di malinconia, a tratti molto commovente, ma capace anche di farci ridere. Non di risate grasse o prevedibili, ma di risate che nascono dal cervello e si trasmettono al cuore. Così come le lacrime non nascono da un intento ricattatorio ma dall’empatia, da una condivisione sentimentale di difficoltà umane.
    Il discorso del Re, del regista Tom Hooper, parte dai fatti storici per addentrarsi in un dramma personale, senza abbandonare mai la Storia, che non è fondale e sottofondo ma è presenza imprescindibile di ogni istante del film, al fianco dei protagonisti. Che giganteggiano: a partire da Colin Firth, che riesce a entrare nei panni di Bertie, reinterpretandolo, rileggendolo, dandogli postura e sguardi ora smarriti e braccati, ora arroganti e snobistici. Firth dà vita a un disagio psichico, lo trasmette allo spettatore, che attende, trattenendo il respiro, le sue parole da microfoni inquadrati dal regista in primo piano, lo segue mentre si avvia a parlare in pubblico, con riprese - di corridoi, di scale, di ampie navate - che creano claustrofobia e voglia di fuga. Gli fa da spalla un istrionico Geoffrey Rush, nei panni del suo amico logopedista, perfetto nel dosare i toni, mai sopra le righe, in grado di farci intravvedere con garbo un passato di sogni infranti.
    Un film che è di attori - tutti bravissimi - a servizio di un’opera per certi versi teatrale, per tempi e dialoghi, che insinua molti discorsi (l’avvento e il futuro potere di radio e tv, destinati a cancellare il confine tra pubblico e privato; la forza della parola come arma di massa; la rigidezza dei metodi educativi; l’importanza del trovare e guardare in faccia la propria identità e unicità).
    Il discorso del Re ha giustamente fatto incetta di premi (così come Colin Firth) e davvero vi invitiamo ad andarlo a vedere. Ricordarsi che ognuno ha una propria voce, che è unica e che va usata, è sempre importante.
    (Donata Ferrario, www.filmup.leonardo.it)

    Tendenza e caratteristica di un certo cinema britannico degli anni 2000, le biografie dedicate alle aristocrazie delle Loro Maestà, quando caratterizzate da un gusto (della messa in scena, dei dettagli, del comparto attoriale), sono i prodotti cinematografici forse in assoluto più apprezzati (almeno dalla critica) d’Oltreoceano, pronti a gareggiare al pari di pellicole statunitensi per i più prestigiosi premi. Oscar compresi.
    Questi film hanno le loro radici in: le opere di William Shakespeare, alcuni film storici britannici degli anni ’60 (es. “Becket e il suo Re”, “Un uomo per tutte le stagioni”), il cinema di James Ivory (almeno quello degli 80-90). Al contempo, si avvalgono talvolta di una chiave umoristica che è qua e là la stessa che avvalora il percorso del film e dona quell’umanità e trasparenza necessaria per andare al di là della mera raffigurazione.
    Con la morte del padre Giorgio V (1936) e la successiva abdicazione (un anno dopo) del fratello Edoardo VIII, designato al trono, il riluttante Albert Frederick Arthur George Windsor, poi Giorgio VI (Bertie per la famiglia e gli amici), regnò durante la seconda guerra mondiale e fu, successivamente, tra i principali promotori della ripresa economica e sociale della Gran Bretagna. C’era un altro problema personale che Giorgio VI dovette combattere: la balbuzie, che diventava un handicap nei numerosi discorsi (prima da Duca di York, poi da Re) che era obbligato ad affrontare. Lo aiuta a risolvere il problema Lionel Logue, poi amico storico del Re, tanto da essere in seguito insignito prima del titolo di Cavaliere dell'Ordine Reale Vittoriano, poi da quello di Comandante. A dispetto delle apperenze è possibile denotare ne “Il discorso del Re” punti di contatto con il precedente film di Tom Hooper, il calcistico “Il maledetto United”, soprattutto nel rapporto tra i due protagonisti: chi tra Giorgio VI e Lionel Logue è l’allenatore Brian Clough? Entrambi, naturalmente, ma mentre il primo è anche le squadre di calcio che Clough allenò, il secondo impersonifica una ideale continuazione dell’ assistente Peter Taylor.
    I personaggi si muovono in pochi ambienti, perlopiù in interni, sebbene l’impressione di trovarsi in un teatro in scatola è smussata puntualmente da una regia e una sceneggiatura che non calca mai la mano, privilegiando il tocco leggero ai toni accesi. Basta vedere le soluzioni con le quali vengono risolte le sedute di correzione della balbuzie: dal canto alle incalzanti e liberatorie parolacce al chiacchiericcio confidenziale, è indubbiamente nell’incontro poco scontro tra Giorgio VI e Logue che il film si fa carico di un ritmo più free, un aspetto umano che emerge con una convinzione pari almeno alle sentite e sincere sequenze familiari (il rapporto del protagonista con la moglie e le piccole figlie). Il ritratto di Giorgio VI è di certo affettuoso e benevolo, anche se non edulcorato né stereotipato.
    Resta maggiorente sospeso quello di Lionel Logue, medico logopedista australiano, con la passione del teatro e attore mancato. La sceneggia-
    tura di David Seidler offre a lui l’opportunità di scardinare la psicologia del Re, quasi andando a fondo della radice della sua balbuzie, cercandola tra i meandri della rigida e fino ad allora inattaccabile (almeno per Bertie) rigidità di una educazione almeno in parte da aggirare. Lionel resta in balia di Re Giorgio VI, pur essendone una sorta di “allenatore”. Emblematico è, in questo senso, lo sguardo che gli dona Geoffrey Rush nel finale: l’orgoglio di un uomo che ha raggiunto un suo obiettivo ma che si rende ben conto che sarà destinato a una vita trascorsa dietro ad un sipario, seppur onorevole.
    Tom Hooper, che aveva precedentemente diretto due celebrate opere per la tv di impianto storico (“Elisabetta I” con Helen Mirren e “John Adams” con Paul Giamatti) si rifà il più delle volte a inquadrature frontali, che sembrano inchiodare i personaggi (spesso situati sulle estremità della composizione) allo sguardo dello spettatore. Inquadrature fisse alternate a pochi frammenti di maggiore mobilità, durante le quali la mdp segue di spalle o frontalmente Colin Firth (le carrellate del pre e post discorso).
    Ma “Il discorso del re” resta soprattutto un inno alla voce e all’importanza delle parole. Situato nel XX secolo, quando i mezzi di comunicazione di massa assumevano un importanza capitale per il vivere quotidiano del cittadino (poche parole del Re via radio potevano donare un briciolo di rassicurazione alla povera gente, specie durante i conflitti bellici), il film è costruito da una incessante partitura dialettica che ci ricorda sia la necessità di adoperare le giuste parole da parte del potere (e in questa epoca storica è una lezione che andrebbe ripetuta sovente), sia che una storia acquista maggior valore se tramandata ai posteri attraverso un persuasivo impianto oratorio. E se tutto ciò ne “Il discorso del re” funziona molto bene, il merito maggiore è forse del magnifico cast: Helena Bonham Carter e i comprimari non sbagliano un colpo e Geoffrey Rush tiene testa allo straordinario Colin Firth. Bisogna sottolineare che sarebbe preferibile ascoltarli in originale per cogliere tutte le sfumature? Per amarli.
    (Diego Capuano, www.ondacinema.it/)


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  5. gheagabry
     
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    Le due vie del destino - The Railway Man




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    Un film di Jonathan Teplitzky. Con Colin Firth, Nicole Kidman, Jeremy Irvine, Stellan Skarsgård, Sam Reid.


    Una denuncia esplicita dell'inutilità delle guerre e una parabola edificante sulla capacità umana di resistere all'irresistibile.
    Paola Casella

    Inghilterra, 1980. Eric Lomax, uno strano tipo ossessionato dagli orari ferroviari, incontra in treno la bella Patti. È amore a prima vista, e poi matrimonio. Ma la prima notte di nozze iniziano i guai: Eric è in preda agli incubi, e rifiuta di raccontarne a Patti il contenuto. Singapore, 1942. Winston Churchill dichiara la resa della città-stato ai giapponesi. Migliaia di soldati britannici vengono fatti prigionieri e costretti a lavorare come schiavi (insieme ai più poveri abitanti locali) alla costruzione della ferrovia che dovrà collegare Bangkok a Rangoon. La chiameranno la Ferrovia della morte per le condizioni di lavoro, climatiche e geografiche in cui è stata costruita e perché vi sono effettivamente periti metà di coloro che vi hanno lavorato.
    Fra i prigionieri addetti alla costruzione della ferrovia ci sono anche Eric e i suoi compagni, e il trattamento loro riservato è dei più crudeli, sfociando per Eric in una detenzione nella caserma della polizia segreta, la temutissima Kempeitai, ove il giovane soldato subirà ogni sorta di torture. Inghilterra. 1980. A popolare gli incubi di Eric è soprattutto il poliziotto giapponese che è stato il suo aguzzino alla Kempeitai. La moglie Patti, con l'aiuto del compagno di disavventura Finley, spingerà Eric a ricollegare i fili spezzati del proprio passato, con esiti del tutto imprevisti.
    Le due vie del destino è basato sul romanzo autobiografico The Railway Man scritto dallo stesso Eric Lomax e diventato un best seller internazionale. Colin Firth si cala con totale partecipazione emotiva nel ruolo del protagonista, mettendo a buon frutto la scorta di umanità che caratterizza da sempre la sua recitazione, e Nicole Kidman mette la sua professionalità (ma poco di più) al servizio del suo cammeo nel ruolo della moglie Patti.
    Il film procede secondo una narrazione classica da grande cinema di guerra, alternando gli anni Ottanta agli anni Quaranta e immergendoci profondamente nell'atmosfera allucinata vissuta dai prigionieri di guerra durante il conflitto mondiale. I punti di riferimento cinematografici sono Il ponte sul fiume Kwai di David Lean - per difetto, perché quello raccontava una favoletta consolatoria, elduendo la realtà terribile del conflitto - e Furyo di Nagisa Oshima, assai simile invece nel raccontare il rapporto fra prigionieri inglesi e soldati giapponesi, nonché la crudeltà della detenzione.
    La posta in gioco è la dignità umana, i temi sono il senso dell'onore, la fedeltà al proprio ruolo, l'orrore della guerra, il potere salvifico dell'amore. E la storia è raccontata in toni melodrammatici sottesi da una grande tensione morale e dotati di una forte capacità evocativa - della paura e dell'umiliazione - nella costruzione delle immagini di prigionia. Le scene di tortura sono quasi insopportabili, non in quanto eccessivamente esplicite, ma in quanto emotivamente dirompenti. Alla narrazione contribuisce in modo significativo l'accompagnamento sonoro, uno dei migliori visti nel cinema recente: mix suggestivo di rumori, silenzi, respiri, musiche, graffi radiofonici, fischi, sussurri e grida in lingue straniere, terrorizzanti nella loro indecifrabilità. Girato in gran parte nei luoghi in cui si è svolta la storia, e che trasudano ancora orrore e sofferenza, Le due vie del destino è una denuncia esplicita dell'inutilità crudele delle guerre e una parabola edificante (detto in senso non denigratorio) sulla capacità umana di resistere all'irresistibile e sulla volontà di rompere il silenzio su ciò di cui "nessuno parla".


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4 replies since 29/9/2010, 19:49   424 views
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