FIORI E PIANTE VELENOSE o NOCIVE

TUTTO QUELLO CHE C'E DA SAPERE..

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    L’insidia delle piante velenose

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    Fin dalla sua comparsa sulla terra, che si perde nella notte dei tempi, l'uomo ha dovuto fare i conti con gli altri esseri che popolavano le foreste e le savane dove egli si accingeva a muovere i primi passi.

    Tra i vari pericoli che dovette affrontare, uno dei più insidiosi fu quello dei veleni presenti in natura e ampiamente diffusi sia nel mondo animale (scorpioni, ragni, serpenti) che in quello vegetale (funghi soprattutto, ma anche erbe e frutti).

    Col tempo l'uomo ha imparato a conoscerli, ma il pericolo è sempre in agguato e anche ai giorni nostri e nei nostri ambienti i casi di avvelenamento dovuti a punture di insetti o a funghi incautamente raccolti e mangiati sono abbastanza comuni.

    Non passa anno che i giornali non riferiscano di gravi avvelenamenti, se non di morti, dovuti alla tignosa verdognola, la ben nota Amanita phalloides, o non scrivano di api assassine o di ricoveri in ospedale per morsi di vipera. Casi, questi ultimi, ben più rari per la scarsa diffusione della vipera nel nostro territorio, anche se, dopo una fase di regressione, la sua presenza nelle nostre campagne sembra essere nuovamente in aumento.

    D'altra parte i serpenti velenosi, come i ragni velenosi e gli scorpioni, sono particolarmente attivi nelle zone tropicali, Asia, Africa e Sud America.

    Sembra invece essersi perso nel tempo il ricordo di avvelenamenti da piante: le piante vere con radici, fusto e foglie, escludendo quindi i funghi.

    Il fatto che non si senta parlare ai giorni nostri di avvelenamento da cicuta o da stramonio non è però dovuto alla scomparsa delle piante velenose, ma piuttosto al fatto che in questa nostra epoca opulenta si è persa l'abitudine, ma sarebbe meglio dire la necessità, di alimentarsi con erbe spontanee.

    In altri periodi, più sfortunati degli attuali, la sopravvivenza delle persone più povere è stata assicurata, stentatamente assicurata, da un'alimentazione basata su foglie, frutti e radici di moltissime piante spontanee. La ricerca accanita, sotto la spinta della fame, aumentava di pari passo la probabilità di errore e quindi la possibilità di raccogliere e mangiare anche specie velenose: più o meno quello che oggi avviene con i funghi, anche se la loro raccolta non è certo dettata dalla necessità. Allo stesso modo c'è ancora chi raccoglie nei prati il soffione o lungo le siepi i germogli del luppolo, ma le poche specie interessate dalla raccolta e soprattutto lo scarso numero dei raccoglitori rende molto improbabile l'errore con specie velenose.

    Eppure le piante velenose esistenti in Italia sono molte.

    Aspetti ingannevoli

    Spesso il loro aspetto sembra volerci trarre in inganno. Chi non si è estasiato di fronte alle splendide fioriture del colchico (Colchicum autumnale) nei prati montani? 1 suoi fiori di color rosa-lilacino compaiono in autunno e spuntano dal suolo, completamente privi di foglie, così numerosi che i prati ne sono spesso tappezzati. Le foglie compariranno nella primavera successiva con i frutti. Tutta la pianta è velenosa, in particolare bulbi e semi, sia per l'uomo che per gli animali, per la presenza di due alcaloidi: la colchicina e la colchiceina. Per questo il colchico, tanto piacevole ai nostri occhi, è inviso agli allevatori.

    Pare impossibile che piante così belle per forma e colore, tanto da sembrare l'essenza della leggiadria e della gentilezza, possano essere così pericolose. Eppure moltissime altre piante velenose recano fiori bellissimi: tra le più conosciute ricordiamo l'aconito, la digitale, il gigaro, l'elleboro e il mughetto.

    L'aconito (Aconitum napellus) è una pianta vigorosa, alta più di un metro, con una spiga terminale color viola-cupo; i fiori sono schiacciati sui lati e ricoperti dal petalo superiore, arrotondato come un elmo. Cresce nei prati e nei boschi alpini. Tutta la pianta è velenosa per la presenza di aconitina ed altri alcaloidi. Altrettanto comuni sono in montagna l'Aconitum vulparia e l'Aconitum lamarckii, dai fiori giallo-zolfini, anch'essi tossici.

    La digitale purpurea (Digitalis purpurea) cresce spontanea solo in Sardegna e in Corsica, ma è coltivata a scopo ornamentale in molti orti e giardini della penisola. Alta più di un metro, ha fiori tubolari rosso-violacei, pendenti, riuniti in un'infiorescenza .unilaterale. È velenosissima in ogni sua parte per la presenza di digitalina ed altri glicosidi. In Italia settentrionale crescono le specie affini Digitalis grandiflora e Digitalis lutea, anch'esse velenose, che hanno fiori gialli.

    Il mughetto (Convallaria majalis), notissimo perché ampiamente diffuso nei giardini, cresce spontaneo nei boschi ombrosi delle zone submontane. È formato da due ,ampie foglie lanceolate e, al momento della fioritura, da un fusto, spesso più basso delle foglie, recante un grappolo di fiori bianchi campanulati. Tutta la pianta è velenosa per la presenza di convallina e altri glicosidi velenosi.

    Velenoso in ogni sua parte è anche il gigaro (Arum maculatum), per la presenza di aroina, una sostanza non ancora ben conosciuta: la cottura e l'essiccazione riduce la tossicità della pianta, ma non l'elimina completamente.

    Il gigaro è una pianta erbacea dall'aspetto inconfondibile. I fiori formano un'infiorescenza violacea a forma di clava, avvolta da una brattea bianco-verdognola. Le foglie sono ampie, spesso macchiate di scuro, sagittate: hanno cioè la caratteristica forma delle punte di freccia. L'infruttescenza è una spiga, densa e compatta, di bacche rosse, velenosissime, che le valgono il nome di "pan delle bisce". Simile è l'Arum italicum coltivato nei giardini.

    Coltivato nei giardini è anche l'elleboro (Helleborus niger), che di norma cresce spontaneo nei boschi collinari e montani delle Alpi e degli Appennini. Contiene sostanze tossiche con azione cardiaca simile ai glicosidi presenti nella digitale.

    Molto nota, tra le piante velenose, è anche la cicuta.

    La sua notorietà è piuttosto legata a ricordi scolastici che alla conoscenza diretta della pianta: con un suo infuso fu infatti ucciso, nel 399 a.C., il filosofo greco Socrate.

    In realtà le cicute presenti nei nostri ambienti sono tre: la Cicuta virosa, il Conium maculatum e l'Aethusa cynapium. I loro fiori non sono belli come quelli delle piante descritte prima, né così vistosi. La loro tossicità è dovuta ad alcuni alcaloidi velenosi quali la cicutina e la y-coniceina.

    La cicuta d'acqua (Cicuta virosa) cresce di preferenza nelle acque basse dei fossati e degli acquitrini, mentre la cicuta maggiore (Conium maculatum) e l'erba aglina (Aethusa cynapium) preferiscono gli ambienti ruderali e gli orti.

    Tutte tre le specie appartengono alle Ombrellifere, famiglia che comprende moltissime delle erbe commestibili più usate. Sono ad esempio Ombrellifere il prezzemolo, il sedano, la carota e il finocchio. La presenza comune di foglie finemente suddivise e della infiorescenza a ombrella, assieme ai profumi invitanti che caratterizzano anche le specie velenose, possono trarre in inganno uomo e animali domestici.

    Un'altra famiglia di piante che raggruppa, assieme a specie commestibili di largo consumo, specie velenose è quella delle Solanacce. Sono Solanacee infatti la patata, il pomodoro, il peperone e la melanzana, come lo sono la belladonna (Atropa belladonna), lo stramonio (Datura stramonium), l'erba morella (Solanum nigrum), il giusquiamo (Hyoscyamus niger) e l'alchechengi (Physalis alkekengi), tutte più o meno velenose.

    Non si deve dimenticare tuttavia che anche le parti verdi (fusti e foglie) del pomodoro e della patata sono velenose.

    Una pianta che può essere causa di avvelenamento, se confusa con altre simili di uso comune, è il veratro (Veratrum album) che cresce nei prati e pascoli alpini. Ha fiori bianco verdognoli riuniti in ampie pannocchie. Le foglie sono molto grandi, ellitticolanceolate. Può essere confuso, quando non sia in fiore, con la genziana maggiore (Gentiana lutea), le cui radici vengono raccolte e usate per dare sapore amaro a grappe e altri liquori. Le due piante si distinguono per i fiori, che nella genziana sono gialli e vistosi, e per le foglie che, pur essendo simili, sono alterne nel veratro ma opposte nella genziana.

    Anche tra gli alberi e gli arbusti, sia spontanei che ornamentali, si possono trovare specie velenose: basti citare tra tutti il bellissimo oleandro (Nerium oleander), sempreverde della macchia mediterranea, coltivato in molti giardini a scopo ornamentale. Tutta la pianta, compresi i semi e i fiori, è velenosissima per la presenza di glicosidi con azione simile a quelli della digitale.

    Velenosi sono anche il tasso (Taxus baccata), coltivato nei giardini, di cui le uniche parti non tossiche sono i frutti rosso-laccati (la polpa carnosa dei frutti, perché il seme è velenosissimo come tutta la pianta), il lauroceraso (Prunus laurocerasus) e il sabina (Juniperus sabina) che cresce spontaneo sulle Alpi e sugli Appennini, velenosi in ogni loro parte.

    Nei querceti planiziari e nei castagneti montani, come nelle siepi, possiamo trovare la fusaggine (Euonimus europaeus), detta anche berretta da prete per la forma caratteristica dei suoi frutti rossi che, assieme alla corteccia, sono le uniche parti velenose della pianta.

    Quelle descritte sono solo una parte delle piante tossiche riportate dai libri specifici e non sempre le più velenose: ci basti accennare al Chondrodendrum tomentosum e alla Strycnos toxifera dalla cui corteccia gli indiani che vivono nelle foreste tropicali dell'America Meridionale traggono il veleno per le loro frecce, il famoso curaro, o alla Strycnos nux-vomica, delle foreste indiane, da cui si ricava la stricnina.

    Natura infida e crudele quindi, o solo indifferente? Difficile rispondere a un simile quesito. Di certo sappiamo che l'uomo, fin dall'antichità, ha imparato a sfruttare le caratteristiche dei diversi veleni e usandoli in dosi piccolissime ne ha fatto farmaci insostituibili per i suoi malanni.




    Helleborus viridis Pianta velenosa
    DSCN4595




    noto anche con il nome di Elleboro verde o Elleboro falso, velenosa, emana un odore fetido, spontanea dei luoghi cespugliosi ed erbosi dalle zone collinari fino a quella alpina al martgine dei boschi, pianta erbacea perenne rizomatosa alta 20-50 cm, ha grandi foglie basali, presenti fino alla cima degli scapi florali come brattee, pedate divise cioè in 3 segmenti principali, di cui il mediano libero e intero mentre i 2 laterali sono al loro volta divisi in segmenti lanceolati, i fiori odorosi, sono grandi di colore verde o rossiccio, con sepali patenticon fioritura invernale-primaverile i frutti sono follicoli oblunghi, uniti alla base in gruppi di 3-8 e muniti di rostri, contengono numerosi semi di forma allungata. Il suo decotto è un potente veleno.




    Edited by gheagabry1 - 7/2/2022, 17:27
     
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    PIANTE VELENOSE



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    Sono molte le piante che, se toccate o ingerite, possono provocare gravi conseguenze. Il pericolo non è solo rivolto ai bambini, ma anche agli adulti. Chi non conosce bene le specie vegetali, chi lavora nelle serre, insomma chiunque abbia a che fare con le piante. E’ chiaro che per il bambino c’è un riguardo maggiore. Soprattutto quando inizia a gattonare e a toccare tutto, e a portarsi le mani alla bocca. Chi non ha il pollice verde ma riceve una pianta, dovrebbe informarsi sulla specie e sugli eventuali pericoli. Ovviamente, non tutte sono pericolose, ma sono molte le cose da sapere, come per esempio le modalità di intossicazione.

    I vari tipi di intossicazione da piante velenose


    Intossicazione per contatto


    Piante pericolose che possono rivelarsi pericolose anche solo per contatto. Un’evenienza questa, possibile allo stesso modo, sia per il bambino che per l’adulto. Come vedremo più avanti, sono molte le piante che hanno parti tossiche, che se toccate, possono portare conseguenze anche piuttosto serie. L’intossicazione si presenta con irritazioni e bruciori oltre ad arrossamenti a livello locale. Niente di preoccupante, in questo caso. La situazione si può aggravare solo se le tossine vengono assorbite dall’intestino. La prima fare in ogni caso è quello di lavare la parte arrossata con acqua fresca e applicare una pomata antistaminica.

    Intossicazione per ingestione


    Sicuramente, è l’intossicazione più pericolosa e più seria. L’ingestione di foglie, di parti di piante, sicuramente è rivolto ai bambini piccoli, che mettono tutto in bocca e che, a mio parere, sono poco sorvegliati dagli adulti. I sintomi per intossicazione da ingestione possono essere diversi, solitamente si tratta di problemi gastrointestinali, e quindi nausea, vomito, diarrea e dolori addominali. Possono insorgere anche irritazioni come bruciore alla gola o arrossamento e rigonfiamento. Problemi più seri sono rappresentati dai disturbi a livello cardiaco come sbalzi di pressione o addirittura convulsioni. Alla comparsa di uno di questi sintomi, recarsi immediatamente al Centro Antiveleni o nel più vicino Pronto Soccorso. Mantenendo la calma, se riconoscete che la situazione non è grave, potete anche telefonare al Centro. Il medico di turno vi dirà il da farsi. Nella maggior parte dei casi vi prescriverà la somministrazione di carbone attivo. Il carbone, in questa fase, frena l’assorbimento delle tossine. Se invece doveste percepire che la situazione è incontrollabile, chiamate immediatamente i soccorsi senza perdere tempo.
    Le piante velenose




    Il rischio in casa: le piante da appartamento pericolose.



    Abbiamo ricevuto in regalo alcune piante di cui a malapena conosciamo il nome e le modalità per la loro sopravvivenza. Non sappiamo nemmeno che molte piante da appartamento possono diventare pericolose per la nostra salute.

    La stella di Natale



    Alzi la mano chi nel periodo natalizio non ha in casa la classica stella di Natale! Regalata o comprata per sé, tutti sfoggiamo in un angolo della casa, questa pianta, che se trattata come si deve, può crescere fino ad un metro di altezza. La stella di Natale contiene però il lattice, che è nocivo. E’ costituita anche da un’altra sostanza tossica, il triterpene. E’ una pianta velenosa sia per ingestione che per contatto.

    Disturbi e rimedi

    Se il lattice contenuto nell’intera pianta, viene a contatto con l’epidermide, i sintomi più diffusi sono sicuramente prurito, rossore, bruciore con possibile eritema. In questo caso, basterà una pomata antistaminica da applicare nella zona colpita. Se l’intossicazione avviene per ingestione i sintomi possono essere irritazione alla bocca e alla gola. Ma anche nausea, diarrea, e vomito sono sintomi da non sottovalutare. In questo caso invece, meglio recarvi al Pronto Soccorso o quantomeno consultare il medico.

    <p align="center">Il ficus elastica



    Il ficus elastica è una delle piante da appartamento tra le più diffuse in Europa. Si tratta di una pianta ornamentale, con foglie a punta molto grandi. Si presenta di colore verde scuro e germogli inizialmente rossi per diventare verdi man mano che cresce. Anche in questo caso, è il lattice contenuto nelle foglie e anche nel fusto, a provocare l’intossicazione che può avvenire sia per ingestione che per contatto.

    Disturbi e rimedi

    In sintomo più evidente è sicuramente l’irritazione cutanea nel caso di intossicazione da contatto. L’ingestione provoca invece, irritazioni e bruciori alla gola. In casi gravi può addirittura portare a ustioni. Per quanto riguarda i rimedi, basta la pomata antistaminica da applicare sulla parte cutanea interessata. Se l’intossicazione è avvenuta per ingestione, meglio consultare il medico o recarsi al Pronto Soccorso. In questo caso comunque servono comunque farmaci a sospensione di magnesio e idrossido di alluminio.

    La dieffenbachia



    E’ una bellissima pianta da appartamento, che dona all’abitazione un’eleganza invidiabile. Una pianta che si può facilmente riconoscere dal suo aspetto esteriore. Presenta infatti delle foglie grandi di colore verde, con strati bianco-panna. La dieffenbachia, che ha un nome così “difficile”, è invece una pianta che tutti noi conosciamo, ed è priva di fiori. La parte tossica è rappresentata sia dal fusto che dalle eleganti foglie bicolore. Anche in questo caso, l’intossicazione può avvenire sia per ingestione che per contatto.

    Disturbi e rimedi

    I principali disturbi davanti all’intossicazione da dieffenbachia, sono arrossamenti, irritazione, bruciore, gonfiore delle mucose. Se la parte nociva della pianta, è stata ingerita, e in questo caso parliamo di un incidente accaduto ad un bimbo, occorre valutare la quantità. Infatti, solo se ne ha ingoiato una discreta parte, c’è pericolo di rigonfiamento della gola. Se riconosciamo il sintomo, meglio allertare i soccorsi.

    Anturio



    Anche l’anturio, è una pianta elegante da appartamento che arreda l’ambiente in modo impeccabile. Si presenta con foglie molto grandi a forma di cuore, di colore verde. Ogni foglia possiede degli steli rossi. Pur trattandosi di una bellissima pianta, ricordatevi che tutte le sue parti contengono sostanze nocive. Anche per l’anturio, l’intossicazione può avvenire per contatto o per ingestione.

    Disturbi e rimedi

    In caso di intossicazione da contatto, gli ossolati, presenti nelle foglie, possono provocare sulla pelle, graffi e taglietti. Niente di grave quindi, basta disinfettare la parte lesionata, senza particolari interventi. Se invece, l’intossicazione avviene per ingestione, il problema diventa più “importante”, in quanto possono sopraggiungere irritazioni e gonfiori non solo alla bocca, ma anche alla gola, e nei casi più gravi, può comparire un’edema che colpisce le corde vocali. L’intossicazione da anturio, può portare addirittura anche all’insufficienza respiratoria. Altri sintomi, sono il vomito, la diarrea, la nausea. La prima cosa da fare, in caso di intossicazione è quella di allertare il Centro antiveleni, che vi suggerirà la somministrazione di farmaci a sospensione di magnesio e idrossido di alluminio. Se l’intossicazione porta difficoltà alle vie respiratorie, rivolgetevi al Pronto Soccorso.

    La clivia



    Si presenta con foglie lucide di colore verde. La clivia è una pianta che produce fiori di un bellissimo binomio di colori: il rosso e l’arancio. Anche per la clivia, la parte nociva è circondata in tutta la pianta, che contiene tossine, ma l’unico modo di intossicazione è per ingestione.

    Disturbi e rimedi

    I disturbi più ricorrenti sono di tipo gastroenterico, ma possono presentarsi alterazioni al fegato, e problemi alla pressione arteriosa. Per prima cosa, comunque, meglio rivolgersi al Centro Antiveleni, che vi dirà il da farsi, quasi sempre rappresentato dalla somministrazione di carbone attivo.

    Il rischio in cortile: le piante da giardino pericolose


    Sono molte le piante velenose che rientrano nella categoria delle piante da giardino, o se preferiamo da balcone. Insomma, si tratta di quelle piante, quei fiori che sono presenti in tutte le case. Di seguito, vediamo i più conosciuti, i più belli ma che nascondono parti nocive, che non tutti conoscono.

    L’azalea



    L’azalea è una pianta tra le più conosciute. Soprattutto, in prossimità della festa della mamma, vengono organizzate vendite di azalee nelle maggiori piazze italiane, il cui ricavato solitamente è devoluto alle associazioni che lottano contro il cancro al seno. Una pianta, che almeno una volta abbiamo regalato e ricevuto, senza sapere che le foglie sono nocive. Si presenta con foglie di colore verde e di forma ovale. I fiori dell’azalea sono di diverse tonalità, variano infatti dal bianco, al rosa, al rosso e perfino al blu. Attenzione all’azalea se avete dei bimbi che girano per casa. L’intossicazione infatti è per ingestione.

    Disturbi e rimedi

    Le foglie dell’azalea contengono tossine che possono provocare irritazione alla gola. Altri sintomi ricorrenti sono: vomito, nausea, diarrea. Nei casi più gravi, possono insorgere anche convulsioni e rallentamenti dei battiti cardiaci. Se il bimbo ha ingerito una quantità minima, il medico vi consiglierà la somministrazione di carbone attivo. Se ritenete invece che il bimbo abbia ingerito una quantità maggiore, correte al Pronto Soccorso. In questi casi infatti, i medici di turno, provvederanno alla lavanda gastrica.

    Il ciclamino



    Un’altra pianta da balcone, un fiore molto gradevole e simpatico, è rappresentato dal ciclamino. Le foglie di colore verde striate d’argento, sono a forma di cuore. I fiori del ciclamino possono essere di colori diversi: bianco, rosa, rosso e fucsia. La parte nociva di questa pianta è rappresentata dai tuberi, e anche in questo caso, si corre pericolo per ingestione.

    Disturbi e rimedi

    I disturbi causati dall’intossicazione al ciclamino sono quelli più ricorrenti in questi casi. Parliamo quindi di diarrea, dolori addominali e vomito. Occorre rivolgersi immediatamente al Centro Antiveleni che vi somministrerà farmaci anti diarroici.

    Il gelsomino



    Il gelsomino è un’altra pianta da giardino. In primavera è bello vedere i balconi in fiore, e questa è una di quelle piante tra le più gettonate. I fiori del gelsomino, sono di colore bianco, ed emanano un profumo gradevole ed intenso. Nonostante, queste caratteristiche positive, anche il gelsomino, deve registrare la sua tossicità, presente sulle bacche. Si tratta di una pianta pericolosa più che altro per i bambini, in quanto l’intossicazione può avvenire solo per ingestione.

    Disturbi e rimedi

    Le bacche nocive contengono alcune tossine che provocano disturbi alle vie gastrointestinali, come la diarrea. Anche in questo caso, occorre rivolgersi al Centro Antiveleni. Se i disturbi persistono, i farmaci ideali sono quelli con funzione anti diarroici.

    L’iris



    L’iris può raggiungere un’altezza di oltre un metro. I suoi fiori sono di colore azzurro e la parte nociva è rappresentata dalla linfa. L’intossicazione avviene solo per ingestione.

    Disturbi e rimedi

    I disturbi più comuni sono i dolori addominali accompagnati da diarrea, vomito e nausea. Anche in questo caso, meglio consultare il Centro Antiveleni, per il da farsi. Per limitare i sintomi, possono essere somministrati dei farmaci anti diarroici.

    La calla



    Bellissima pianta da giardino, anche se può comodamente essere curata a casa. La calla, si può definire come un insieme di piccoli fiori, sistemati tutti vicini. Il colore della calla è bianco candido, ma tutta la pianta è esposta al pericolo di intossicazione, che può avvenire sia per contatto, sia per ingestione. La calla contiene infatti delle sostanze che possono entrare a contatto con la pelle, oppure essere ingeriti.

    Disturbi e rimedi

    Se l’intossicazione è avvenuta per contatto, i disturbi che provoca sono più che altro, bruciori a livello locale. Si parla invece di nausea, dolori addominali, diarrea e vomito, se è stata ingerita una certa quantità di calla. Il primo passo da fare è quello di avvisare con una telefonata, il Centro Antiveleni. Il medico di turno, valuterà la situazione, nei casi opportuni somministrerà dei farmaci anti diarroici.


    Il glicine



    Il glicine fa parte delle piante da giardino rampicanti. Si presenta con rami ricoperti di fiori di colore azzurrino tendente al viola o al bianco. Durante la stagione estiva, i fiori del glicine danno vita a frutti di colore verde. I fiori e i semi del glicine rappresentano la parte tossica della pianta. L’intossicazione può avvenire solo per ingestione, quindi anche in questo caso, attenzione ai bambini.

    Disturbi e rimedi

    I disturbi sono quelli che possiamo definire standard per casi di questo genere e sono : vomito, diarrea, nausea, accompagnata da dolori addominali. I farmaci anti diarroici sono anche in questo caso i più gettonati. Ovviamente, sarà il medico del Centro Antiveleni, a dirvi cosa dovete fare.

    Il giacinto



    Bellissima pianta, elegante e ornamentale, che si presenta con fiori profumatissimi di diverso colore. La parte tossica del giacinto è racchiusa nel bulbo e l’intossicazione può avvenire sia per contatto sia per ingestione.

    Disturbi e rimedi

    Se l’intossicazione è avvenuta per contatto, il sintomo principale è sicuramente il gonfiore e l’arrossamento a livello locale. Disturbi gastrointestinali se è avvenuta l’ingestione. Nel primo caso, basterà applicare una pomata antistaminica, mentre per il secondo caso, meglio avvertire il medico.


    Il rischio nel prato e nel bosco: le piante spontanee pericolose


    Le piante spontanee sono quelle che crescono appunto in modo del tutto naturale, e alcune di esse possono risultare dannose per il nostro organismo. Le principali sono: l’erica, la ginestra, la datura. Vediamo di seguito, le principali caratteristiche per ognuna di loro.

    L’erica




    E’ una tra le piante più diffuse spontaneamente. Si presenta con foglie appuntite e fiori di colore rosa oppure viola o ancora bianchi. L’erica cresce soprattutto nelle Alpi, e in ogni caso nelle regioni settentrionali, a ridosso degli appennini. Sono sicuramente i fiori dell’erica, a rendere la pianta pericolosa. L’intossicazione avviene per ingestione.

    Disturbi e rimedi

    I disturbi più comuni sono i bruciori alla gola, in quanto i fiori dell’erica contengono delle particolari tossine che provocano questi sintomi. Possono comparire anche la nausea, il vomito e la diarrea. Nei casi più casi, o comunque una volta entrate dentro l’organismo, possono causare convulsioni e problemi cardiaci.

    La ginestra




    Di colore giallo, la ginestra è un’altra pianta spontanea, che noi tutti conosciamo. Con un profumo intenso, è costituita da fiori che presentano una forma molto particolare. Tutti i componenti della pianta sono dannosi, e l’intossicazione può avvenire solo per ingestione.

    Disturbi e rimedi

    La ginestra contiene una sostanza molto simile alla nicotina, e per questo dannosa per il nostro organismo. I sintomi ricorrenti sono il vomito, la tachicardia e le convulsioni. Allertate subito i soccorsi. Sicuramente la prima cura sarà composta dalla somministrazione di carbone attivo, mentre nei casi più “importanti” si procederà con specifiche cure, caso per caso.

    La datura



    La datura è un’altra pianta spontanea che tutti noi conosciamo. Si presenta con fiori a campana, pendenti di colore bianco e i prati ne sono pieni. Tutta la datura è ritenuta nociva, ma solo per ingestione. Ancora una volta quindi, sono i bimbi a correre il rischio maggiore.

    Disturbi e rimedi

    I disturbi possono variare dalle convulsioni alle allucinazioni, dalla nausea alla tachicardia, e addirittura alla dilatazione della pupilla. Il rimedio principale è sicuramente quello di chiamare i soccorsi. I medici sapranno dare dei giusti farmaci per lenire i sintomi.

    Edited by gheagabry1 - 7/2/2022, 17:23
     
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    L'ILLICIUM FLORIDANU

    Illicium-floridanum-Scarlet-Skirts


    L'illucinium è un genere di appena una quarantina di specie (8 in Cina), distribuite tra Asia, Est degli USA, Messico e Indie Orientali, appartenente un tempo alla famiglia delle Illiciaceae, oggi a quella delle Schisandraceae, comunemente affine alle Magnoliaceae. Arbusto sempreverde, corposo con foglie allungate come quelle di un Alloro, ma con la differenza di essere morbide. Dalla punta dei rami penzolano stelle rosse fatte da una moltitudine di petali allungati. Specie endemica del Sud-Est degli Stati Uniti, Florida e Luisiana. E' una pianta altamente tossica, a parte l'Illicium verum, o anice stellato, tutte le piante di questo genere sono tossiche infatti malgrado il buon profumo d'anetolo, non vi sono tracce dell'uso di questa pianta nella cucina dei nativi d'America...si trovano solo delle note riguardo un'usanza sciamanica dei pellerossa...quella di mettere i semi nel giaciglio per scacciare cattivi sogni e per evitare di diventare oggetto di cattivi pensieri altrui.
    (tratto da "Gardenia" nr. 335)


    Edited by gheagabry1 - 3/6/2020, 15:18
     
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    FIORI SPONTANEI...LA CICUTA

    Cicuta_maculata_Aaron_Carlson


    La Cicuta (Conium L., 1753) è un genere della famiglia delle Apiaceae. Comprendende tre specie: La cicuta maggiore (Conium maculatum) è la specie di cicuta più comune, originaria dell'Europa, passata alla storia quale leggendaria bevanda con la quale fu avvelenato Socrate. La cicuta minore (Aethusa cynapium), detta anche falso prezzemolo per la sua somiglianza a questa pianta aromatica. La cicuta acquatica (Cicuta virosa) che cresce in prossimità di acquitrini, ma è piuttosto rara.

    La cicuta è chiamata anche conio maggiore, dal suo nome greco koneion, nonché nome botanico latino che Linneo le assegnò: Conium maculatum. Nelle lingue di derivazione latina come lo spagnolo e il francese, la cicuta mantiene un nome simile, almeno per sonorità: cicuta mayor e grande cigue; mentre in inglese e in tedesco viene chiamata hemlock e fleckter schierling. Nella nostra penisola, a seconda della località, viene chiamata erba grande, ucria, sicuta, segua, siva, sciguda, pisciaferru, udourigu, solo per citarne alcuni.
    Si presenta come un’erba biennale, di circa 1-1,5 metri di altezza. La radice è fusiforme e poco ramificata , caratteristiche sono il colore giallastro e delle striature circolari che la percorrono. Il fusto è delicatamente scanalato e nella parte basale sono visibile delle macchie rosso – violacee anch’esse caratteristiche.
    Le foglie sono alterne, tripennatosette a segmenti acuti e presentano lembi triangolari con margini incisi o dentati. I numerosi fiori bianchi sono raccolti in delle ombrelle terminali, formate anche da 20 raggi. Ciascun fiore produce un diachenio globoso, ma compresso da un lato. Al suo interno si trovano dei semi, che sono percorsi da un solco piuttosto profondo.

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    Pianta di antica origine europea, si trova diffusa in tutte le zone montane del Vecchio Continente, Africa settentrionale e orientale (per lo più nell’Abissinia), Asia. E’ stata introdotta e ha radicato senza problemi in tutti i continenti dall’America del nord a quella del sud, dall’Australia alla Nuova Zelanda, ovunque abbia trovato un terreno fresco e un clima ombreggiante. La pianta è tossica e mortale sia per il bestiame che per l'uomo, e per questo motivo essa viene ignorata dagli erbivori.
    La cicuta ha una fama piuttosto sinistra dato che è stata una delle piante più usate nelle storia per effettuare avvelenamenti. I Greci preparavano con i frutti immaturi il veleno da somministrare ai condannati a morte. I sintomi di questo avvelenamento sono descritti magistralmente da Fiatone nel Fedone nella "morte di Socrate" il suicidio obbligato...fu costretto ad ingurgitare un infuso di cicuta, che lo portò alla morte per soffocamento. Sia i medici greci e arabi erano avvezzi ad usarlo per la cura dei gonfiori e dei dolori delle articolazioni, così come per affezioni della pelle. Inoltre erano convinti che potesse avere effetto sulla scrofolosi. La tossicità della cicuta è data per la presenza di alcaloidi, principalmente due: la conina o cicutina, che è quella con la concentrazione maggiore, e la coniceina, che è quella più potente.(vecchiaerboristeria.it)




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    Socrate muore assistito dagli amici. Dopo una giornata passata a parlare con gli amici di filosofia, Socrate si lava, riceve e saluta i figli e le donne di casa.
    “Ritornato dal bagno, si mise a sedere e dopo d’allora non si disse quasi più niente. Ed ecco venne il messo degli Undici, il quale, fermatosi davanti a lui, disse: «O Socrate, io non avrò certo a lagnarmi di te come ho da lagnarmi di altri che si adirano con me e mi maledicono, quando io vengo ad annunciare loro, per ordine degli arconti, che devono bere il veleno. Ma te, in tutto questo tempo, ho avuto modo di conoscere che sei il più gentile e il più mite e il più buono di quanti mai capitarono qui; e ora specialmente so bene che non ti adiri con me, perché li conosci coloro che ne hanno colpa, e con quelli ti adiri. Ora dunque, tu lo sai quello che sono venuto ad annunciarti, addio, e vedi di sopportare meglio che puoi il tuo destino». E così dicendo scoppiò a piangere, voltò le spalle e se ne andò. E Socrate, levato un po’ il capo a guardarlo, disse: «E anche a te addio»....Così dicendo, tutto di un fiato, senza dar segno di disgusto, piacevolmente, vuotò la tazza fino in fondo. E i più di noi fino a quel momento erano pur riusciti alla meglio a trattenersi dal piangere; ma quando lo vedemmo bere, e che aveva bevuto, allora non più; e anche a me, contro ogni mio sforzo, le lacrime caddero giù a fiotti; e mi coprii il capo e piansi me stesso: ché certo non lui io piangevo, ma la sventura mia di perdere un tale amico."


    Edited by gheagabry1 - 7/2/2022, 17:15
     
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    CRISANTEMO

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    È il simbolo della commemorazione dei defunti, ma del Crisantemo (Chrysanthemum) gli si riconoscono diversi usi. Gli agricoltori per esempio lo utilizzano per tenere lontani i conigli: la testa del fiore è tossica, soprattutto per gli animali. E seppure non in maniera letale, può provocare fastidi come orticaria, prurito, dermatite da contatto anche agli esseri umani. Dai suoi fiori si produce un insetticida naturale, il piretro, i cui effetti sull'uomo non sono pericolosi (almeno non quanto quelli degli insetticidi di derivazione sintetica). Come per tutte le piante la velenosità del crisantemo risponde a precise esigenze di difesa


    L'ORTENSIA

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    L'ortensia (Hydrangea macrophylla): i suoi caratteristici petali dal blu-violaceo al bianco, sono apprezzati per l'arredo dei giardini. Ma pensare di utilizzarla in cucina, soprattutto della varietà conosciuta come Hydrangea Macrophylla potrebbe essere fatale. Dopo qualche ora si manifesta un brutto mal di pancia, accompagnato da prurito, sudorazione e debolezza. Insomma un avvelenamento in piena regola. Senza contare che a seguito di ingestione di ortensie sono stati riscontrati anche casi di coma, convulsioni e problemi gravi alla circolazione sanguigna. C'è un antidoto? Per fortuna sì: è lo stesso utilizzato contro il cianuro. Del resto è proprio questo l'ingrediente killer dell'ortensia.

    IL NARCISO

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    Dietro la bellezza mitologica del narciso (Narcissus) si cela la narcissina, una sostanza velenosa che se ingerita in grandi quantità può provocare nausea, vomito, crampi e diarrea. E i sintomi sono ancora più gravi nei bambini.
    Originario della Persia, cresce tra le pianure e le montagne dell'Europa meridionale. I suoi petali somigliano a quelli del fiore di cipolla. Ciò potrebbe spingere qualcuno a raccoglierli per farne uso in cucina. Considerati i rischi, è bene fare attenzione. Il narciso è noto dall'antichità come fiore dal profumo inebriante e soporifero. Secondo la gran parte degli studiosi di etimologia, la radice di narciso è "narkè" (sopore, stupore), la stessa di narcotico.


    IL FICUS BENJAMIN

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    Il Ficus Benjamin (Ficus benjamina) ha scarse esigenze di luminosità e ciò ne fa una pregiata pianta d'appartamento. Il veleno sta nelle foglie e nelle radici: un "latice bianco" a cui conviene fare attenzione perché provoca allergie e infiammazioni della pelle. Niente di grave, sebbene nei paesi tropicali venisse usato per costruire frecce velenose (ma anche per la colla e la gomma). Nessuno si sognerebbe di "assaggiarlo", ovvio. Ma chi ha bambini o animali in casa è bene che faccia attenzione. Ancor di più chi pensa di farlo crescere accanto a un altro albero. Alcune specie del ficus, tra le 800 esistenti, vengono chiamate "assassine": la sinistra fama si deve al fatto che i suoi semi germinano su altri alberi fino a soffocarli.


    IL MUGHETTO

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    Guai a farsi ingannare dal Mughetto (Convallaria majalis) con i suoi delicati fiori bianchi a campana. O dal suo odore molto usato in profumeria. O dal fatto che i Queen nel '74 gli hanno dedicato una canzone (Lily of the valley). Il mughetto, che cresce spontaneamente nelle zone prealpine italiane, è una pianta interamente velenosa: ingerirne una piccola quantità non provoca danni gravi, ma basta aumentare la quantità per intossicarsi, con sintomi che vanno dalla nausea ai crampi, fino al battito cardiaco irregolare. Il mughetto contiene infatti "convallatossina", un glicoside dall'alta attività cardio-cinetica.




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    IL RODODENDRO

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    Alcuni botanici ne hanno classificate 200, altri circa 1200. Particolarmente diffuso sull'Himalaya, il Rododendro (Rhododendron) fiorisce sotto forma di arbusto di varie dimensioni un po' ovunque. Anche da noi: prati, pietraie, alberi, radure e paludi. Rosa, bianco, rosso: la gamma di colori di questa piante è impressionante, le api ne vanno matte, sicchè la produzione di miele da rododendro è abbastanza frequente. Non tutte le specie sono tossiche, ma vengono riportati diversi casi di avvelenamento da miele di rododendro derivato da varietà diffuse in Turchia e Anatolia. Il suo veleno si manifesta attraverso una scala di sintomi che va dal bruciore delle labbra al coma (molto raro).



    IL GLICINE

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    Secondo alcuni botanici il glicine (Wisteria o Wistaria) è tossico in ogni sua parte. Alcuni scienziati invece limitano la sua pericolosità a semi, radici e baccelli: in ogni caso ingerirne anche piccole quantità provoca avvelenamento che si risolve con l'idratazione intravena o la somministrazione di pillole anti-nausea. Molti degli avvelenamenti da glicine riguardano gli animali domestici. Ma, il fatto che spesso sia associato nella coltivazione al gelsomino, usato in alcune ricette culinarie e bevande, potrebbe indurre qualcuno poco esperto in confusione. Il profumo delicato, la fioritura a grappolo e le capacità rampicanti lo rendono infatti una delle più apprezzate piante ornamentali per balconi, pergolati, giardini e tettoie.


    L'OLEANDRO

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    L’oleandro (Nerium oleander) è molto diffuso come pianta ornamentale, e a guardarlo in tutta la sua bellezza è difficile credere che ogni sua parte è velenosa. Eppure è così. È tossico il fumo che sprigionano i suoi ramoscelli, una volta bruciati. Si corre un rischio anche a usare questi ultimi come steak per il cibo.
    E se volete seguire un'antica tradizione cinese che suggerisce di bere acqua aromatizzata con fiori freschia, non fatelo con i fiori di oleandro: è pericoloso.
    I sintomi sono quelli caratteristici da avvelenamento (nausea, diarrea, vomito, dolori addominali), ma in base alla quantità di olenadro ingerita, il malessere può estendersi anche al cuore: dalle aritmie alla depressione cardiaca, all'innalzamento dei livelli di potassio nel sangue.


    LA DIGITALE

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    Dalla Digitalis purpurea, (digitalis purpurea) si estrae il principio attivo della "digitale", un farmaco indicato nel trattamento delle insufficienze cardiache. I suoi poteri erano noti già nell'antichità e oggi è inserita nell'elenco delle piante officinali spontanee. Ma l'ingestione dei fiori selvatici è da evitare: la digitalis purpurea può portare problemi cardiaci, oltre che nausea, vomito, crampi allo stomaco. E in caso di intossicazione i sintomi possono aggravarsi. La digitossina, uno dei glicosidi attivi della digitale, che ne fa un prezioso alleato della medicina, ha anche la funzione di "metabolita secondario", utile per difendersi dall'aggressione di altri organismi. Secondo alcuni studi però le piante userebbero tali metaboliti (liberandoli nell'aria), anche per scambiarsi informazioni preziose.




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    Edited by gheagabry1 - 18/1/2023, 22:31
     
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    UVA TURCA
    (Phytolacca americana)



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    E' chiamata anche Cremesina, Amaranto. E' una pianta erbacea perenne dal fusto eretto, ramificato e lignificato alla base; alta fino a circa 3 metri e mezzo; il fusto principale è a sezione tetragonale, i rami sono lisci di colore che varia dal verde chiaro al viola brillante, secondo l'andamento stagionale. Le foglie sono alterne, picciolate, con margine intero e ondulato e con la pagina inferiore che presenta una evidente nervatura, spesso arrossata.
    I fiori sono riuniti in racemi, prima eretti e poi penduli durante la maturazione; il frutto, prima verde, diventa di colore nero-porpora alla maturazione e contiene un succo di colore viola. Fiorisce da luglio ad ottobre; vive fin verso i 400 metri di quota.
    Nonostante le foglie ed i frutti siano a volte utilizzati per scopo alimentare, la pianta è tossica, e se ne sconsiglia l'uso... (www.in-valgrande.it/) La direttiva del Ministero della Salute (luglio 2009), NON consente di inserire negli integratori alimentari le sostanze e gli estratti vegetali di questa pianta, in particolare cita foglia, frutto, radice.
    Il primo a descrivere e a classificare la specie fu Carl von Linné (Linneo). Il nome generico deriva dal greco phyton (pianta) e dalla radice araba lakk (lacca), cioè lacca vegetale per il colore del frutto maturo che, se spremuto, secerne un succo viola intenso che macchia intensamente. Dai frutti si ottiene un inchiostro rosso e una tintura che veniva utilizzata per tingere la lana, la radice per l'alto contenuto di saponine è stata utilizzata per produrre sapone.


    ..storia, miti e leggende..


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    Simile per certi versi alla Belladonna, la Fitolacca veniva anche usata dalle dame di corte come oggetto di bellezza. Un accessorio vero e proprio che solitamente veniva posizionato sulle tese dei grandi cappelli, accanto alla cupola, o lavorato nelle acconciature principesche. C’è addirittura chi afferma sia proprio la Fitolacca la causa della morte del giovane Ampelo. Ampelo, giovane mito, era amato da Dionisio che lo corrispondeva. Morì accidentalmente, cadendo dal dorso di un toro imbizzarrito sul quale era salito per cogliere un grappolo d’uva, frutto adorato da Dionisio. Quell’uva era la più bella che lui avesse mai visto però, non era uva. In una variante invece, Nonno di Panopoli, poeta bizantino del V secolo, afferma che Ampelo fu in realtà trasformato in vite, recando agli uomini il dono dionisiaco del vino.

    Le Phytolacca presentano un insolito chimismo che è stato sottoposto a indagine scientifica nella speranza di individuare nuove droghe anti-AIDS ed è stata isolata dalle foglie di P. americana, una proteina PAP (pokeweed antiviral protein) che è attualmente usata per inibire la replicazione del virus HIV nelle cellule umane. Queste piante contengono potenti antinfiammatori, proteine antivirali e sostanze che influenzano la divisione cellulare.
    Phytolacca americana veniva usata dai nativi americani come emetico e antireumatico. Gli indiani utilizzavano la radice polverizzata come cataplasma, analogamente a quanto facevano i primi coloni che applicavano un impacco alle mammelle delle mucche in caso di mastite.
    Nel 700 si credeva che gli impacchi di radice fossero una buona cura per il tumore. Verso la fine del XVIII secolo il succo delle bacche fu a volte impiegato in caso di scrofolosi e ulcere cancerose, inoltre uno studio medico specifico sulla fitolacca in data 1795 determinò che i cherokee, si servivano della radice polverizzata di questa pianta contro il sifiloma primario senza particolare successo e, classificò la Fitolacca come escarotica nelle ulcere e nei tumori, oltre che ctartica, antidolorifica, narcotica, diuretica ed efficace nelle febbri intermittenti. Anche gli indiani irochesi la impiegavano a scopi terapeutici, mentre le bacche venivano usate da diverse tribù per l'estrazione di una sostanza colorante. Le bacche rimasero iscritte nella farmacopea americana sino al 1905, la radice disseccata di Phytolacca rimase ufficialmente in uso sino al 1947.


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    "La fitolacca, anche nota come uva turca, è una pianta di origine nordamericana. Introdotta in Europa all'inizio del Seicento come pianta ornamentale, è poi sfuggita rapidamente alla coltivazione, diffondendosi allo stato spontaneo un po'dappertutto. Non è quindi un anacronismo il fatto che il Manzoni, molto attento ai dettagli filologici e botanici, la citi come lussureggiante nella vigna abbandonata di Renzo nel capitolo XXXIII dei Promessi Sposi "...Tra questa marmaglia di piante ce n'era alcune di piú rilevate e vistose, non però migliori, almeno la piú parte: l'uva turca, piú alta di tutte, co' suoi rami allargati, rosseggianti, co' suoi pomposi foglioni verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co' suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze al basso, piú su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri".... La rapidità di diffusione della pianta, anche a lunga distanza, è legata al fatto che la dispersione dei semi è aviaria, mediatadagli uccelli, che sono attratti dal bel colore porporino dei frutti, di cui sono ghiotti. Gli uccelli trangugiano, per così dire, quello che mangiano, senza masticarlo. Per questa ragione, non sono sensibili alle tossine della pianta, che vengono liberate solo dalla rottura meccanica dei semi, che attraversano intatti il canale alimentare degli uccelli e vengono espulsi con le feci.
    La fitolacca è una pianta molto interessante, che può essere una ghiottoneria culinaria per il raccoglitore accorto, un veleno potente per chi non la conosce, od un vero e proprio laboratorio farmaceutico per il ricercatore. I giovani germogli della pianta sono una delizia gastronomica, immortalata nella canzone Poke (Polk) Salad Annie del cantante americano Tony Joe White, una delle canzoni più popolari degli anni sessanta, resa famosa da Elvis Presley e incisa anche da Tom Jones (poke è il nome americano della pianta, derivato dal termine che gli indiani Cherokees usavano per indicare il colore). I giovani getti della pianta si cucinano più o meno come gli asparagi, ma bisogna prestare molta attenzione nella loro raccolta e cottura. I getti vanno raccolti in primavera, quando sono ancora corti (meno di 30 cm), e con le giovani foglie ancora arrotolate in cima, e prive di venature rossastre. La raccolta fa fatta avendo cura di non prendere anche delle parti di radici, che sono velenose, ed è quindi importante tagliare i getti e non sradicarli. Una volta raccolti, i getti sono bolliti due volte in acqua, avendo cura di scolarli bene e buttare via l'acqua della prima cottura, eliminando così le tossine della pianta, che sono solubili in acqua. A questo punto possono essere consumati, conditi anche solo con un pizzico di olio d'oliva per apprezzarne il sapore particolarmente gustoso, o utilizzati per fare frittate. Negli USA è possibile acquistare i getti lessati in scatola, da noi, se proprio uno vuole gustarli, deve fare da solo. Le associazioni mediche degli USA cercano di disincentivare il consumo della fitolacca, anche bollita tre volte, in quanto vengono registrati ogni anno casi di avvelenamento più o meno grave.
    Getti primaverili a parte, tutta la pianta è velenosa, contenendo un cocktail di composti dannosi per la salute. Ci sono alte concentrazioni di saponine (fitolaccosidi), irritanti per lo stomaco ed il canale alimentare. I casi di avvelenamento riguardano tutti raccoglitori inesperti, che avevano disatteso le indicazioni per la raccolta e la preparazione dei getti, o bambini attratti dal bel colore blu dei frutti, che somiglia un po' a quello dei mirtilli. La risposta vagale alle saponine è tale da tradursi addirittura in un blocco cardiaco. Vomito e diarrea servono ad impedire l'assorbimento di composti molto velenosi, una serie di proteine che inattivano i ribosomi, la catena di montaggio delle proteine, o che si legano agli zuccheri presenti nel decoro delle proteine (lectine). La fitolacca contiene anche un'interessante proteina anti-virale, che è stata studiata per bloccare a livello vaginale il contagio dal virus dell'HIV.
    I frutti sono vistosamente colorati e contengono dei grossi semi nerastri e molto velenosi. Il colore del succo è simile a quello dell'uva nera, ed è stato usato per "rinforzare" il colore di vini troppo pallidi, un uso pericolo per la possibile contaminazione dalle saponine o dalle proteine tossiche della pianta. Gli indiani d'America usavano il succo come colorante per vestiti, piume e frecce. Il succo della pianta è anche stato usato come inchiostro, e molte lettere della guerra civile americana sono state scritte usando questo inchiostro vegetale, che è ancora leggibile oggi. I composti colorati della fitolacca non hanno nulla a spartire con quelli del mirtillo e dei frutti di bosco, dato che sono betacianine e non antocianine, derivati indolici e non flavonoidi. Il colorante della fitolacca è quindi un parente di quello della barbabietola e non di quello del mirtillo. La radice della fitolacca è stata anche usata in medicina come emetico e per il trattamento dell'artrite, usi tutti e due obsoleti e pericolosi per la velenosità della pianta.
    Un ultimo punto. Se vediamo la fitolacca la dobbiamo distruggere per il pericolo di avvelenamento o lasciar crescere, godendone gli aspetti ornamentali? Se la pianta cresce vicino a giardini pubblici frequentati da bambini, è senz'altro meglio estirparla, negli altri casi, la si può invece lasciar stare. Da evitare in ogni caso, a meno di infestazione massiva, il diserbo chimico con i derivati del 2D, cui la pianta è particolarmente sensibile, ma che possono poi inquinare il terreno."
    (tratto dal libro "Erbe di città" vol I - di Giovammi Appendino - Riccardo Luciano - Renzo Salvo - ed ArabaFenice)


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    Edited by gheagabry1 - 7/2/2022, 16:12
     
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    Tromboni d’angelo, tra i fiori più velenosi


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    I tromboni d’angelo rientrano di diritto nella lista dei fiori più velenosi con i quali possiamo arredare naturalmente il nostro giardino. La loro bellezza è però così intensa che rinunciare a loro per tal motivo sarebbe uno spreco.

    Conosciuti anche sotto il nome di brugmansia e per essere una particolare “qualità” di datura, questi fiori sono caratterizzati da un fusto legnoso alt alcuni metri e da colori davvero spettacolari. Già solo partendo dalla fioritura abbiamo a che fare con fiori grandi e penduli, i cui colori variano dal giallo al crema fino ad arrivare al rosa ed al rosso. Se poi aggiungiamo al quadro generale le capsule lisce dei frutti e le foglie comunemente grigioverdi, otteniamo un risultato incredibilmente affascinante. E che dire del profumo di vaniglia che emanano?



    A tutta questa bellezza corrisponde però un difetto: i tromboni d’angelo sono dei fiori velenosi il cui utilizzo, se si hanno animali domestici che potrebbero esserne attratti o dei bambini, deve essere ben pensato. Ad un impatto scenografico molto intenso si accompagna infatti una certa pericolosità e nel caso di questa pianta sono i semi a rappresentare il vero pericolo. Ci chiediamo perchè al pari della datura non vengano considerati popolarmente “erba del diavolo”. Ad ogni modo i fiori di brugmansia sono perfetti per arredare il giardino, soprattutto se puntate su qualcosa che sia appariscente ma al contempo delicato, da osservare con attenzione e cautela.

    I tromboni d’angelo venivano utilizzati come allucinogeni ai tempi dei maya ed ora sfruttati nella medicina ma in dosi infinitesimali contro l’asma e le malattie respiratorie. Non è la prima volta che un fiore velenoso trova applicazione terapeutica. Ma un conto è lavorare su infinitesime parti d’estratto ed un conto è ingerire qualcosa di appartenente ad una pianta velenosa. Non stupitevi quindi che il siano conosciuti in alcuni luoghi come le “trombe della morte”.

    fonte:http://www.pollicegreen.com/



    Edited by gheagabry1 - 18/1/2023, 22:34
     
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    «Azzurre son l'ombre sul mare/come sparti fiori d'acònito.
    Il lor tremolio fa tremare
    l'Infinito al mio sguardo attonito»
    (Gabriele D'Annunzio)

    L'ACONICO NAPELLO

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    L'aconito napello (nome scientifico Aconitum napellus L., 1753) è una pianta erbacea della famiglia delle Ranunculaceae.
    Il nome del genere “Aconitum” deriva dal greco akòniton = pianta velenosa. La pianta risulta conosciuta per la sua alta tossicità fin dai tempi dell’antichità omerica. Con questo nome probabilmente venne indicata una pianta velenosa endemica che cresceva tra le rocce ripide di alcune zone della Grecia. Le radici sono due: akòne (= pietra) in riferimento al suo habitat e koné (= uccidere) in riferimento alla sua tossicità. Questo nome veniva anche usato come simbolo negativo (maleficio o di vendetta) nella mitologia dei popoli mediterranei.
    Il nome del genere sembra derivare dall'uso che se ne faceva in guerra: dardi e giavellotti con punte avvelenate. Plinio fa derivare il nome da "Aconae", una località legata alla discesa di Ercole agli inferi.
    Il nome della specie (napellus) deriva dal latino per rapa in riferimento alla particolare forma del rizoma. Il nome comune Strozzalupo deriva dal fatto che alcuni popoli antichi la usavano per avvelenare i lupi e le volpi.

    Sono piante erbacee, perenni la cui altezza può arrivare da 50 fino a 200 cm. Sono piante definite come geofita rizomatosa, ossia portano le gemme in posizione sotterranea, come rizomi, un fusto sotterraneo dal quale, ogni anno, si dipartono radici e fusti aerei. Il rizoma tuberoso è di forma conica tipo fittone; inizialmente di colore pallido quindi col tempo acquista una pellicola marrone e si ramifica in molte radichette laterali. La parte aerea è eretta, robusta, verde con pochi rami. Le foglie basali sono di colore verde scuro nella pagina superiore e biancastre in quella inferiore, e con evidenti nervature, sono picciolate. Le sue dimensioni sono in larghezza di 8 cm e in lunghezza 12 cm.
    L'infiorescenza è una pannocchia terminale simile ad una spiga. I fiori sono peduncolati e il peduncolo è più lungo dell'elmo, mentre le brattee sono minori del peduncolo. L'altezza dell'infiorescenza è di 10 – 30 cm. Questi fiori sono considerati fiori arcaici, o perlomeno derivati da fiori più arcaici dalla struttura aciclica. La corolla è praticamente assente. I fiori sono di colore blu intenso – violetto cupo. La forma complessiva è quella di un fiore protetto e chiuso, ma adatto ad attirare le api. I fiori non sono profumati come del resto la maggioranza dei fiori delle specie della famiglia delle Ranunculaceae.


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    ..storia,miti e leggende..


    L’aconito è noto sin dall’antichità per la sua velenosità. L’aspetto particolare dei fiori associato alla tossicità della pianta ha generato miti e leggende che da sempre lo indicano come il fiore della vendetta e dell’amore colpevole. Il potente veleno, contenuto in maggior quantità nelle radici, era già noto ed usato dalle antiche popolazioni Cinesi e Indiane. Altrettanto facevano in tutta Asia, Europa e Nord America. Galli e Germani estraevano il succo dalla pianta intera mentre in India venivano usate solo le radici. Plinio la cita come "arsenico vegetale". Il succo della pianta serviva ad intingere e rendere mortali frecce, lance, spade e pugnali per affrontare le battaglie con i nemici. Nell'antica Grecia era usato come veleno giudiziario.
    La fama di questa piantaè tale da essere citata anche nella mitologia greca e latina. Ovidio narra che il custode degli inferi Cerbero, cane a tre teste di Ecate, regina dell’Ade, portasse nella bava i semi di aconito. Quando Eracle rapì la bestia dall’inferno per portarla sulla Terra, la rabbia del cane era tale che la saliva al contatto con il suolo, si trasformava in aconito. In questo modo dagli Inferi, arrivò sulla Terra.

    Ed ecco giungere Teseo, figlio ignoto al padre,
    dopo aver placato col suo valore l’istmo
    dai due mari bagnato.
    Per ucciderlo Medea prepara una pozione,
    l’aconito portato con sé dalla Scizia.
    Erba, narrano, nata dai denti del cane di Echidna.
    Una buia spelonca si apre dalla tenebrosa imboccatura:
    da qui, lungo una ripida via,l’eroe Tirinzio
    fuori trascinò, legato con catene di duro metallo,
    Cerbero che s’impuntava e gli occhi storceva
    Non sopportando la luce e gli scintillanti raggi.
    E il cane, divincolandosi infuriato, riempì il cielo
    Di tre latrati in una volta sola
    E i verdi campi spruzzò di bianchiccia bava.
    Questa, si pensa, si coagulò trovando alimento
    Nel suolo fertile e fecondo,
    ed erba divenne capace di avvelenare;
    un’erba che nasce e resiste sulla dura pietra,
    chiamata perciò aconito dai contadini.
    (Ovidio, Metamorfosi, VII, 404-419)


    L'aconito sarebbe una delle piante che Medea, capostipite delle streghe occidentali, avrebbe portato con sé dalla Scizia, dove era germogliata dalla bava di Cerbero, che trasformato in costel-
    lazione, ricadde dal cielo sulle pietre della Terra.
    Un altro mito greco racconta che la vittima più illustre del veleno dell’aconito fu il centauro Chirone, padre della medicina: venne raggiunto da una freccia avvelenata lanciata da Eracle durante la sua quarta fatica, il dardo si conficcò nel ginocchio del Centauro e nessun rimedio potè alleviare l’angoscia e il dolore, tanto che, essendo immortale, pregò Zeus di farlo morire. Anche Centauro divenne una costellazione.
    Un altro mito narra che l’aconito sarebbe nato dal sangue di Prometeo, che fuoriusciva dal fegato divorato ogni giorno da un aquila, seguendo la punizione che Zeus gli aveva inflitto per aver rubato e donato agli uomini di nascosto da lui. L’aconito rappresentò il simbolo del rimorso.
    Si racconta anche che nell'isola di Ceo, gli anziani ormai inutili venissero soppressi con tale veleno.

    Nel Medioevo, la forma ad elmo del fiore ispirò credenze e superstizioni in tutta Europa. I contadini lo soprannominarono “strozzalupo” perchè si gettava intorno agli ovili alcuni brandelli di carne mescolata con radici di aconito così i lupi e gli altri predatori, mangiando la carne, morivano avvelenati.
    La religione cristiana lo ritiene il cappuccio dei monaci mentre in Francia è popolarmente detto Carro di Venere perché l’apparato riproduttivo assomiglia a quello femminile. Soprannominato Elmo di Giove in Italia, Elmo di Troll in Danimarca, Cappello di Ferro in Inghilterra. In Germania fu chiamato l' Erba del Diavolo.
    Fu simbolo del cavaliere errante nella mitologia nordica, rappresentava l’Elmo di Odino che conferiva a chiunque lo indossasse il potere magico di rendersi invisibile agli uomini. Tale effetto si otteneva anche portando un ramo di aconito sul corpo. Oltre a rendere invisibili, aveva anche altre proprietà: si dice che riponendo qualche fiore di aconito in un sacchetto sotto il cuscino, venga stimolata l'intelligenza e la saggezza di chi avrà la fortuna di dormirci.

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    Era usato nel Medioevo da maghi e streghe. i maghi si mettevano intorno al collo una pelle di serpente in cui avevano introdotto segatura di radici di aconito per diventare imme-
    diatamente invisibili. Dai verbali dei processi di stregoneria, risulta impiegato dalle presunte streghe per la preparazione di filtri e unguenti di cui si sarebbero cosparse per rendersi invisibili e volare alle loro “riunioni” con il diavolo: le streghe si spogliavano e si cospargevano il corpo con gli unguenti magici, poi, a cavallo di una scopa, una panca, uno sgabello o un animale, anch’essi cosparsi di unguento, uscivano dalla porta o dal camino e volavano al Sabba dove incontravano le altre streghe. Questo volo immaginario era provocato dalle preparazioni erboristiche che le streghe usavano, infatti l’unguento delle streghe conteneva numerose droghe vegetali: la Solanaceae, in particolare l'Atropa belladonna, la Datura stramonium, l'Hyoscyamus niger, Mandragora officinalis, il colchico (Colchicum autumnalis) e numerose altre specie vegetali.
    Allo scopo di volare, l’aconito fu usato dai tempestari che ne estraevano l’olio con cui si spalmavano il corpo per salire sopra le nubi e scatenare grandinate e nubifragi sulle persone che li avevano contrariati.

    L'aconico contiene vari alcaloidi, il più importante è l’aconitina, tali sostanze agiscono sul sistema nervoso determinando la morte per paralisi cardiaca o respiratoria. Plinio il Vecchio scriveva che l’aconito poteva essere usato anche come farmaco, come insegnavano gli antenati secondo i quali “non esiste nessun male da cui non derivi qualcosa di buono: ha la caratteristica di provocare la morte dell’uomo se non trova qualcosa da distruggere all’interno dell’uomo stesso. Allora combatte con questa sola cosa, come sentendosi più forte di ciò che ha trovato ed è incredibile come i due veleni, i quali pure da soli sono entrambi mortali, si annientino reciprocamente all’interno dell’uomo, col risultato che l’uomo sopravvive.”Questa credenza, riferita anche dagli studiosi del 500, tra cui Castore Durante, sopravvisse fino a qualche secolo fa. Nel '500 era conosciuta per le sue presunte capacità contro la puntura di scorpioni ( "Herbal or General History of Plants" - Londra 1597).
    Oltre ad essere considerato un rimedio, il succo estratto dall’aconito veniva anche usato per avvelenamenti.
    Solo verso la fine del 1700 l’aconito fu introdotto come analgesico nella medicina scientifica utilizzando le cime fiorite e le foglie fresche o essiccate. La somministrazione terapeutica provoca rallentamento dei battiti cardiaci e del ritmo respiratorio, oltre a diminuzione della pressione arteriosa. L’uso terapeutico è oggi limitato: in omeopatia lo si prescrive per curare le malattie da raffreddamento, i disturbi cardiaci e le nevralgie.


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    "... Intanto sul far del giorno,
    il farmacista di Sua Maestà entrò in camera mia
    con una pozione di giusquiamo,
    oppio, cicuta, elleboro nero e aconito ...".
    (Voltaire, in "Zadig")


    GIUSQUIAMO NERO

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    Il Giusquiamo nero è una pianta piuttosto rara e anche escluso dall’uso erboristico per la sua tossicità. Fa parte infatti della Famiglia delle Solanacee, e come tutta questa Famiglia, è caratte-
    rizzata dalla presenza di alcaloidi atropinici, in modo particolare della scopolamina, diventata famosa per essere un famoso e molto usato anticinetico contro il mal di mare e il mal d’auto. La pianta in passato fu usata per i suoi effetti farmacologici. Nell'antichità e nel Medioevo aveva fama di erba magica ed era usato come narcotico o per favorire la pioggia. Il primo a descrivere e a classificare la specie fu Carl von Linné (Linneo).
    Il nome botanico di questa pianta, Hyoscyamus niger L. fu dato per il fatto che i maiali (dal greco kys) si cibavano delle sue fave (kyamos) nere. Da questo, deriva il nome volgare italiano fava porcina; altri invece hanno derivazione regionale, come pilingella, erba apollinaria, erba da piaghe, cassilagine, dente de vecia, cungarelle, folla de opus.
    Il nome particolare di questa pianta fa si che se anche si pronuncia “hyoscyamus” sia in un francese, un inglese, un tedesco o uno spagnolo capirà di che pianta state parlando, sebbene abbiano i loro nomi propri (jusquiame, henbane, bilsenkraut, beleño).

    È una pianta erbacea, che può essere annuale o biennale. E' alta dai 40 ai 60 cm, con una presenza di radici lunghe e fusiformi, ha fusto eretto, semplice o spesso ramificato, rivestito di lunghi peli molli vischiosi presenti anche nelle altre parti verdi della pianta, che se stropicciate sono maleodoranti.
    Le foglie sono ovato-oblunghe, acutamente lobate di color verde-grigiastro opaco; quelle superiori sono amplessicauli, le inferiori sono picciolate.
    I fiori sono solitari o in gruppi poco numerosi, e poiché non sbocciano simultaneamente, alla fine della fioritura risultano densamente raggruppati all’apice dei fusti e dei rami, in diverse fasi di fioritura. Sono di color giallo pallido con reticolo di venature e interno del tubo di color violetto-vinoso scuro.
    Il frutto è una capsula a pisside racchiusa nel calice, che si apre superiormente per permettere la disseminazione dei numerosi piccoli semi.

    Le parti in passato impiegate in terapia erano le foglie e i semi. Hanno proprietà sedative, spasmolitiche, analgesiche e narcotiche, pericolose anche a bassi dosaggi. Il giusquiamo bianco (Hyoscyamus albus), con fiori più piccoli, anche questi anulati di violetto, ha le medesime proprietà. Data la notevolissima tossicità, l'uso farmacologico anche se molto rigorosi è comunque rischioso. Per estrazione, dalla pianta si ricava la ioscina. H. albus (giusquiamo bianco) è diffuso nelle zone ruderali di tutto il Sud Europa, mentre H. niger (giusquiamo nero) cresce in luoghi ricchi di azoto, presso ricoveri di animali, immondezzai e incolti in tutta Europa, tranne che nelle aree più settentrionali.

    ...storia, miti e leggende...


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    Il giusquiamo è ricordato nel papiro di Ebers come calmante per il mal di denti ed è menzionato anche come una medicina nel Papiro di Ossirinco, datato I secolo d.C. Era utilizzata già dagli antichi Assiri e dai Babilonesi per le sue proprietà sedative, calmanti e analgesiche, ed il padre della fitoterapia Dioscoride, ne conosceva ed apprezzava le proprietà narcotiche.Le sacerdotesse di Delphi lo utilizzavano nei loro riti magici e profetici. Sacra a Giove, se utilizzata il giovedì nell'ora diurna di Giove nelle operazioni occulte, apporterebbe illuminazione e prosperità. L’impiego del giusquiamo nell’antica Roma era limitato ai funerari, dove ornavano le tombe dei defunti. Si conoscevano già gli effetti tossici, come la sterilità, le convulsioni nei neonati che venivano allattati da donne che assumevano le sue bacche, pazzia e follia.
    I Celti la consideravano sacra al dio Belenus, divinità della luce, uno dei maggiori e più influenti tra gli Dei antichi; questo la lega fortemente alla festività di Beltane. I guerrieri lo utilizzavano per avvelenare la punta delle armi.
    Nel Medioevo,la pianta secca e i suoi semi venivano fumati come sigarette ma fu associata al demonio perchè veniva utilizzata nei riti magici per invocare il diavolo. Curiosi incantesimi sono stati descritti nella farmacopea cinquecentesca: "un filtro composto da giusquiamo, Hermodactylus tuberosa e solfuro di arsenico naturale era creduto capace di uccidere istantaneamente un cane rabbioso, o di far esplodere un calice d'argento se versato al suo interno; se mischiato al sangue di lepre, e posto nella pelle della lepre stessa, poteva essere usato per attirare e catturare altre lepri." Era l'erba prediletta dalle streghe e dagli avvelenatori per le sue proprietà allucinogene. Ci furono casi di donne condannate per stregoneria e per devozione a Satana solamente perché nei loro giardini cresceva spontanea. Si tratta di una tra le più importanti piante delle streghe della tradizione europea. Già nel XIII sec. A. MAGNO considerava il giusquiamo una pianta delle streghe, il cui uso dimostrava che una persona praticava la stregoneria, fatto riportato anche da A. LONICER nel Kreüterbuch del 1582:
    “Le vecchie donne abbisognano di questa erba per incantesimi, esse dicono, chi portava con sé la radice era solito restare invulnerabile” .
    Le streghe erano accusate di usarla in riti magici, divinazioni, per compiere azioni malvagie, scatenare tempeste, controllare gli spiriti e come afrodisiaco. Un esempi citati, "..in caso di grande siccità si immergeva il gambo della pianta in una fonte e la si spargeva sulla terra arida, mentre durante i riti iniziatici le streghe davano da bere ai giovani una bevanda preparata con il giusquiamo... In un processo del 1648 una strega fu accusata di aver dato questa pianta a un contadino per ritrovare un bue perso. Inoltre si riporta che una strega della Pomerania aveva reso pazzo un uomo dopo aver messo dei semi di giusquiamo nella sua scarpa e in un processo una strega ammise di averli sparsi tra due amanti, in modo che si odiassero. Per indurre febbri, si ponevano sotto il letame (in estate e con la luna calante) giusquiamo e alloro; alla successiva luna calante, i lombrichi che ne erano nati venivano ridotti in polvere e così impiegati. Le streghe sfruttavano anche il fumo dei semi per addormentare le galline e rubarle."
    Le proprietà afrodisiache e psicoattive del giusquiamo erano ben conosciute durante il periodo dell’Inquisizione, tanto che le streghe, prima di essere bruciate, bevevano a scopo narcotico una pozione preparata con i semi della pianta.
    Nel tardo medioevo si preparavano pozioni e unguenti che se usati davano allucinazioni e la sensazione di volare, per questo il giusquiamo è ritenuto ingrediente del famoso unguento delle streghe. Nella medicina popolare era usato per combattere il mal di denti, mettendo la pianta sotto il cuscino o respirando il fumo dei semi posti su carboni ardenti e sembra che questa pratica inalatoria fosse diffusa. Nell'Amleto di Shakespeare il re, padre di Amleto, viene ucciso per avvelenamento da giusquiamo versatogli nell'orecchio durante il sonno.
    Nel 1800 entrò a far parte della prima ricetta anestetica per interventi chirurgici. La “spongia soporifera” era una spugna imbevuta di oppio, succo di mandragora, succo dell’erba verde di Matala (Creta) e succo di giusquiamo. Una volta imbevuto di questi succhi, veniva lasciata asciugare, dopodichè la si immergeva in acqua e il malato doveva annusarla.
    Nel Romanzo di Nostradamus scritto da Valerio Evangelisti; bevendo un infuso a base di Giusquiamo miscelato alla Pilosella, Michel de Nostre-Dame, riusciva ad accedere all'Ottavo Cielo, L'Abrasax, fonte meravigliosa ed altrettanto terribile delle sue funeste profezie.
    Pianta fu utilizzata anche come siero della verità, perchè la scopolamina,un alcaloide presente nella pianta,ha proprietà allucinogene,e provoca la perdita di controllo della mente. La direttiva del Ministero della Salute (Luglio 2009), NON consente di inserire negli integratori alimentari le sostanze e gli estratti vegetali di questa pianta,in particolare cita foglia, pianta erbacea, seme.


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    Edited by gheagabry1 - 7/2/2022, 16:21
     
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    LO STRAMONIO

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    Lo stramonio comune (Datura stramonium L.) è una pianta a fiore appartenente alla famiglia delle Solanacee. Come altre specie del genere Datura è una pianta altamente velenosa a causa dell'elevata concentrazione di potenti alcaloidi, presenti in tutti i distretti della pianta e principalmente nei semi.

    E' una pianta erbacea a ciclo annuale, può raggiungere anche i due metri. Lo stramonio cresce nelle regioni sub-tropicali e nei climi temperati ed è diffuso in America, Asia ed Europa. In Italia, questa specie si trova naturalizzata in tutte le regioni, dalle pianure alle zone sub-montane, dove cresce sporadica negli incolti, vicino ai ruderi e nei margini delle strade.
    Presenta una radice a fittone, fusiforme, e un fusto eretto, con biforcazioni ramose; le foglie sono semplici e alterne, di grandi dimensioni, picciolate, con lamina ovale, base asimmetrica e margine dentato-frastagliato. I fiori sono ermafroditi, lunghi fino a 10 cm e solitari, presenti nelle zone terminali e nelle ascelle dei vari rami. Il calice è di forma allungata e composto da 5 sepali a lobi saldati; da questa si sviluppa una corolla bianca, a volte con sfumature violacee, di forma tubulare, a 5 petali saldati, acuminati e pieghettati.
    La fioritura avviene tra luglio ed ottobre; i fiori rimangono chiusi durante il giorno per poi aprirsi completamente la notte, emanando un intenso e penetrante odore che attira le farfalle notturne; l'impollinazione è infatti entomofila . Il frutto è una capsula globosa, divisa in 4 logge, della grandezza di una noce ed irta di spine; al suo interno si trovano numerosi semi neri e reniformi, lunghi circa 3 mm.

    ...Storia, miti e leggende...

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    La sua origine è incerta, ma le sue proprietà erano già conosciute dagli indigeni sia del Nuovo che del Vecchio Mondo.
    I nomi erba del diavolo ed erba delle streghe si riferiscono alle sue proprietà narcotiche, sedative ed allucinogene, utilizzate sia a scopo terapeutico che nei rituali magico-spirituali dagli sciamani di molte tribù indiane. L'uso della Datura è estremamente pericoloso in quanto la dose attiva di alcaloidi allucinogeni è molto vicina alla dose tossica. In tempi remoti veniva spesso usata per il suicidio e l'omicidio. L'exitus avviene tramite la paralisi della muscolatura respiratoria. Data la grande adattabilità, la datura era conosciuta sia in Europa, che nelle Americhe. Gli Aztechi fin dai tempi più remoti, la utilizzavano nei riti iniziatici e in altri tipi di cerimonie religiose per indurre stati di euforia ed esaltazione. Era utilizzato in molte culture come pianta necessaria per la divinazione. Lo stregone, dopo aver ingerito foglie o semi triturati, cadeva in uno stato di trance durante il quale veniva posseduto dagli spiriti. Al risveglio, annunciava a tutta la popolazione i messaggi che gli erano stati svelati durante il sonno allucinatorio. Durante riti di iniziazione, lo stramonio era utilizzato come mezzo per ottenere visioni della vita futura dei ragazzi che passavano dalla giovinezza alla vita adulta. In alcuni riti notturni africani, lo stramonio veniva fatto ingerire a ragazze filatrici di cotone, che riuscivano poi a essere sedate solo da un battitore di tamburo che le induceva a ballare una danza liberatoria.
    Presso alcune popolazioni indiane, parti della piana venivano considerate fondamentali, mischiate ad altri ingredienti, per la preparazione di un potente afrodisiaco che veniva utilizzato per amplificare ed accelerare il piacere femminile.

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    Conosciuto fin dai tempi era tra le più rinomate piante della stregoneria medioevale, veniva chiamata "erba del diavolo", "erba dei demoniaci", "erba delle streghe". I suoi semi erano utilizzati dai maghi per le proprietà narcotiche, per le visioni fantastiche che provocavano e per il presunto potere afrodisiaco, maghe e profetesse usavano bruciare la pianta per poter inalare i vapori ottenendone un effetto narcotizzante. Alcune credenze popolari narrano di come lo stramonio possa essere utilizzato per riconoscere streghe e stregoni: se venisse posta una pianta con fiore e frutto sul davanzale di una finestra, la strega che si trovasse a passar da quelle parti, non riuscirebbe più ad allontanarsi, catturata dall'odore irresistibile.
    Spesso i ciarlatani usavano questa pianta per creare effetti tossici e malessere su persone a cui, ovviamente, tentavano di vendere miracolosi e, soprattutto, costosi rimedi.
    Thomas Jefferson ( Presidente degli U.S.A.) fu testimone del fatto che all'epoca di Robespierre i francesi condannati alla ghigliottina, preparavano con lo stramonio un veleno che causava una morte rapida, evitando così di finire sul patibolo.


    Molto spesso sentiamo parlare di piante "medicinali" e piante "velenose", piante buone o cattive, secondo un vezzo, del tutto umano, di distinguere ciò che ci circonda in soggetti utili o meno a noi stessi. In realtà quando dividiamo le piante secondo queste categorie commettiamo un grosso errore di superficialità e di presunzione, fondati sull’assunzione di superiorità della nostra specie rispetto a tutto il resto dell’ambiente naturale che, al contrario, si è evoluto in genere molto prima di noi. E’ del tutto evidente che non esistono in natura piante utili o piante dannose, ma è l’uso più o meno corretto che ne viene fatto da parte dell’uomo che determina il grado di pericolosità o di utilità di una pianta.

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    Della pianta vengono mangiati i semi o i fiori, talvolta utilizzati assieme alle foglie in forma di tisana.
    Gli usi della Datura stramonium nella tradizione indoeuropea, secondo quanto riportato da Pierre Derlon, erano i più vari:
    « Quando dopo lunghe ricerche e discussioni il capo si decideva finalmente per un campo di sosta adatto per i giorni seguenti, lo circondava, buttando il seme della toloche come linea di demarcazione » - rituale la divulgazione della Datura stramonium sui terreni ruderali. -« Quando era presente in una grande festa della tribù un "kaku" (saggio) di buon umore, dava nel vino un po' di semi pestati della toloche »..« Ai bambini che del terrore notturno non potevano trovar sonno e piagnucolavano senza sosta, la "guaritrice" della tribù applicava una supposta di un pezzo di foglia grande come la metà di un francobollo » - Un metodo drastico ma efficace e senza rischio, perché applicata dalla guaritrice (mai da un profano), che conosceva a fondo le particolarità individuali dei suoi pazienti e, quindi, quando applicarla e quando no. -« Agli adulti in profonda depressione, la guaritrice preparava una pozione: 12 semi di toloche schiacciati nel mortaio, bagnati con una goccia di succo di limone (o aceto) e poi coperto con un bicchiere di vino rosso una volta al giorno »…« Alle persone con il respiro sibilante (asma), la guaritrice preparava le sigarette composte metà da tabacco e metà da foglia di toloche. In un attacco bastava qualche tiro » -l'inalazione di queste sostanze rilassa la muscolatura dei bronchi, facendo cessare, così, l'attacco asmatico.

    In medicina popolare, la datura veniva usata solo contro l'asma con una preparazione da vecchia tradizione farmaceutica Lo stramonio comune (Datura stramonium L.) è una pianta a fiore appartenente alla famiglia delle Solanacee. Come altre specie del genere Datura è una pianta altamente velenosa a causa dell'elevata concentrazione di potenti alcaloidi, presenti in tutti i distretti della pianta e principalmente nei semi.

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    Edited by gheagabry1 - 7/2/2022, 16:29
     
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    LA MANDRAGORA


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    La Mandragora L. è un genere di piante appartenente alla famiglia delle Solanaceae comunemente note come Mandragola. E' una pianta erbacea, rustica; presenta foglie, grandi, ovali, ruvide, che diventano verde scuro man mano che cresce. I fiori sono di piccole dimensioni, campanulati, blu-bianchi e sbocciano in primavera. In estate, nelle regioni dal clima più caldo, compaiono dei frutti tondeggianti gialli. Le radici a fittone hanno una forma umanoide. Sia la pianta che i frutti, detti pomi, simili però a bacche rosse, emanano un odore sgradevole.
    I vecchi autori distinguevano la Mandragora in bianca (maschio) e nera (femmina), oggi dette vernalis e autumnatis. Le differenze tra le due specie sono unicamente di tipo morfologico. La prima presenta una con radice grossa, carnosa, bianca e corolla bianco-verdognola, che fiorisce a primavera, la seconda una corolla violacea e radice più piccola e nerastra, che fiorisce in autunno.
    Molti dei nomi con cui la mandragola è conosciuta dipendono dalle sue caratteristiche: la forma antropomorfa richiama il nome dato da Pitagora: antropomorfon, l’agronomo Lucio Comunella "semiuomo", Ippocrate su derivazione persiana "mehregiah" la nominò "erba dell’uomo", il popolo germanico la denominava Drachenpuppe, "pupazzo-dragone". Riferendosi alla leggenda intorno alla sua origine in tedesco è chiamata Galgenmännlein, "piccolo uomo delle forche", e in Islanda thjofarot, "radice dei ladri". Riferendosi invece alle sue proprietà nella medicina popolare dell’India, è nota come Lakshmana, "che possiede segni fortunati". Nel Medioevo richiamando la sua familiarità con il mondo dei morti e con il demonio "mela di Satana", "testicoli di Satana", "mela dello stolto" , "mela dell’amore" e "erba delle streghe". Ritenuta ingrediente magico nella coppa di vino (vino di mandragola) che Circe fece bere ai compagni di Ulisse deriva l’espressione mandragola circarea. Nella traduzione della Bibbia il termine mandragola è stato adottato in quanto il nome assomiglia all’ebraico amore.
    La mandragola costituì uno degli ingredienti principali per la maggior parte delle pozioni mitologiche e leggendarie. Nel Medioevo, gli venivanoattribuite qualità magiche con la preparazione di varie pozioni. È raffigurata in alcuni testi di alchimia con le sembianze di un uomo o un bambino.

    …storia, miti e leggende…

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    Sono state ritrovate Costantinopoli, Damasco, Antiochia e Marsina, delle radici di mandragola intagliate, tra cui una in cui è rappresentata una donna che tiene tra le braccia un bambino. Per la forma delle radici, grosse e spesso biforcate e accavallate, i nostri antenati l’associavano all’homunculus, una creatura, solitamente di forma umana, fabbricata artificialmente con un procedimento magico. A volte l’aspetto antropomorfo della radice veniva accentuato riproducendo, capelli e barba innestando granelli di orzo o miglio, che poi germogliavano. Questi "peli" venivano poi tritati e assunti principalmente come afrodisiaci o per curare la sterilità. La radice, trasformata in omuncolo, veniva accudita come un essere umano, poteva essere utilizzata come talismano contro i nemici, vincere il malocchio o gettarlo; fungeva da amuleto per avere o togliere fortuna, prosperità e ricchezza, proteggere la salute, favorire la fertilità, aiutare il parto, decidere il sesso, stimolare l’ amore, vincere le calamità e la morte. Si narrava che la radice potesse esaudire tre desideri, dopodiché doveva cambiare padrone, per evitare che agisse autonomamente, nel bene e nel male, come un essere pensante.
    Alcuni fanno nascere la mandragora nel Giardino dell’Eden: i primi Esseri umani non sarebbero stati che giganti mandragore sensitive; essi avrebbero poi mantenuto per sempre intimi rapporti con la Pianta Madre specie per quanto riguarda l’aspetto delle sue radici. E' presente nell'Antico Testamento (Genesi 30-14/15), dove mette in luce le gelosie dei vari clan e soprattutto negli harem. Rachele vedendo che non poteva partorire figli, spinse il marito Giacobbe a congiungersi con la sorella Lia. Dato il rifiuto, entrambe offrirono così a Giacobbe le proprie schiave, Bila e Zilpa, le quali concepirono un figlio ciascuna, ritenuto, secondo la prassi orientale, legittimo di Rachele e Giacobbe. Al tempo della mietitura del grano Ruben, trovò delle mandragole nella campagna e le portò a sua madre Lia. Gelosa del ritrovamento, Rachele offrì a Lia di giacere con il marito in cambio delle mandragole. Lia si recò da Giacobbe e disse "È da me che devi venire perché io ho pagato il diritto di averti con le mandragole di mio figlio". E così quella notte l’uomo si coricò con essa. Lia concepì due figli da Giacobbe. Successivamente Rachele partorì un unico figlio: Giuseppe.
    In contrapposizione alla fertilità, la mandragola a causa della tossicità, era utilizzata per interrompere le gravidanze.
    I caldei, due millenni prima della nostra era, si servivano della mandragora per provocare l’estasi alle persone durante le cerimonie di iniziazione. Pindaro, Socrate, Xenofonte e Platone hanno fatto allusione alla sua virtù soporifera. Ippocrate ne ha lodato le proprietà antitetaniche, l’efficacia contro la febbre quartana e le emorroidi. Nell'epoca romana si credeva che la mandragora fosse abitata da un demone. Estratta dal terreno, il demone si sarebbe risvegliato e il suo urlo avrebbe ucciso l'incauto raccoglitore. Come raccomanda Teofrasto, il rituale suggeriva di disegnare tre cerchi con un ramo di salice, o una spada di ferro attorno alla pianta; smuovere la terra intorno alla radice, ammorbidirla con urina femminile e solo dopo, raccolta da una vergine che doveva guardare ad ovest, ponendo attenzione al vento poiché il suo profumo poteva ammutolire o creare allucinazioni tali da condurre alla pazzia.

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    Se si voleva evitare di estirpare direttamente la radice, un altro metodo collaudato testimoniato sempre da Teofrasto di Lesbo, poi ripreso da Plinio il Vecchio, era quello di ricorrere a un cane. Il rituale prevedeva di recarsi sul posto il venerdì al crepuscolo, con un cane nero affamato. Dopo essersi protette le orecchie, si facevano tre segni di croce sulla pianta, si scavava attorno e si poneva attorno alla radice una corda, poi annodata al collo o alla coda del cane. Poco lontano si poneva del cibo per l’animale, il quale gettandosi su di esso, strattonando la corda, staccava la radice che emetteva un grido il cui maleficio uccideva l’animale. Solo allora le radici potevano essere raccolte senza pericolo.
    Secondo la tradizione medioevale, la nascita della mandragora avveniva dalle gocce di sperma o urina di un impiccato. I soli, veri infallibili esperti nel raccoglierla, erano i maghi e le streghe in quanto oltre a raccoglierla nei cimiteri, ai margini dei patiboli o ai piedi degli impiccati, conoscevano anche tanti altri segreti per non farla soffrire e per non subire i suoi influssi negativi. Un commentatore tedesco del Talmud nel XII secolo descrisse la radice paragonandola a un animale chiamato Yadu’a per tutto simile all’uomo. Provvisto di una radice, corda simile a un ombelico questo doveva essere distrutta con una freccia per fa morire l’animale che altrimenti avrebbe distrutto tutto ciò che gli era vicino. Un altro timore legato alla raccolta era quello che la mandragora potesse trasformarsi in un essere umano animato, per questo doveva necessariamente essere estirpata prima che il settimo anno si compisse e nascesse dalla pianta un embrione umano. Successivamente la radice andava purificata, nutrita periodicamente, accudita e custodita in un luogo sicuro, fuori dalla vista dei curiosi, poiché era considerata una creatura a metà del regno vegetale e animale. Una pratica di purificazione era quella di lavarla in vino rosso, avvolgerla in seta bianca e rossa e riporla in un luogo appartato. Periodicamente si ripeteva l’operazione a ogni luna nuova.Poteva essere alimentata con sangue e sperma se si voleva esaltarne le proprietà curative alla sterilità o accentuarne l’effetto afrodisiaco, oppure se si voleva raddoppiare le proprie ricchezze bisognava porre un pezzo di oro al suo posto. Alla morte del possessore, la radice andava in eredità all’ultimogenito, che deponeva nella bara un pezzo di pane e una moneta d’oro.
    Linneo le diede il nome di Ătropa mandragora, per la sua potenziale velenosità; Ătropo era una delle tre Parche, che aveva il compito di “recidere la vita degli Esseri umani”.La mandragola era ritenuta la pianta di Ecate, intimamente legata ad Artèmide-Diana, la luna. Una divinità greca legata agli aspetti lunari e magici. Madre delle maghe Circe e Medea considerate dee delle streghe e degli spiriti notturni. Il legame con la notte spiega le proprietà curative, ritenuta capace di curare " il mal di luna" ovvero l’epilessia. In realtà tale effetto era dovuto principalmente al fatto che i fumi, avendo proprietà soporifere, agivano come calmante e anestetico. Legato alla figura di Ecate, e di conseguenza alla mandragola, è il cane. Sacro alla dea questo animale veniva sacrificato durante la raccolta.

    ..credenze.. medicina..


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    A Roma era usato come analgesico contro il mal di denti. Gli erbari medioevali attribuivano poteri prodigiosi a tutte le parti di questa pianta, non di rado vicini alla realtà, quali ad esempio la proprietà di anestetico. Verso la fine del XIII, secolo Arnaldo da Villanova, tra i rappresentanti più eminenti della famosa Scuola Medica di Montpellier, nella sua Opera omnia improntata alle dottrine della Medicina araba, riporta una “ricetta anestetica” consistente nell’applicare sul naso e sulla fronte del paziente un panno imbevuto di un miscuglio acquoso di oppio, mandragora e giusquìamo in parti eguali, che consentiva di far “cadere il paziente in un sonno così profondo da poterlo operare senza che sentisse dolore". Nei secoli, nella medicina popolare la mandragora ha continuato ad avere impieghi più diversi e fantasiosi: oltre che contro l’epilessia e la depressione, ad esempio, anche contro l’insonnia (commista a rosso d’uovo e latte di donna) e contro l’incontinenza urinaria, nonché (in piccole dosi) come antiveleno.
    Nel Rinascimento molte delle tante virtù medicinali ascritte furono contestate, talvolta derise, anche se le farmacie erano stracolme di preparati più disparati a base della pianta. La gente continuava a credere che bastasse possedere un po’ di mandragora, anche senza utilizzarla, per assicurarsi la felicità, la salute e la ricchezza, la richiesta era molto alta. E laddove per le condizioni climatiche e del terreno non la faceva crescere, abilissimi sofisticatori provvedevano a soddisfare le crescenti e lucrose richieste trasformando in “autentiche” piante che le assomigliavano solo vagamente.
    Alcuni affermavano che i demoni non vivevano vicino alla mandragola e la sua radice poteva essere bruciata come esorcismo. Il fumo generatosi veniva soffiato verso il corpo della persona malata per allontanare gli spiriti malvagi. Posta sul camino donava protezione alla casa, appesa alla testata del letto proteggeva durante il sonno, portata addosso attirava l’amore e allontanava le malattie. Posta in una recipiente con delle monete, ne decuplicava in un giorno il valore. Con la sua polvere o le foglie seccate durante la luna di maggio si preparavano talismani e amuleti per procurare amore e ricchezza. Inoltre ritenendo che potesse aprire qualsiasi serratura, i carcerati non potevano possedere radici di mandragola. Nel 1615, in alcuni trattati sulla licantropia, tra i quali quello di Njanaud, appariva l'informazione dell'uso di un magico unguento a base di mandragora che permetteva la trasformazione in animali.
    In passato l’elevato costo della mandragola, (nel 1690 una radice costava lo stipendio annuale di un artigiano) aveva generato la prassi di accusare persone, arricchitesi velocemente, di possedere una mandragora.
    La mandragora persistette nella farmacopea occidentale sino al XVI secolo per subire poi un declino verso la fine e soprattutto a partire dal XVIII. Nel suo celebre Trattato Universale delle droghe semplici, del 1738 Nicolas Lémery la raccomandava ancora da utilizzarsi con un olio allo scopo di far diminuire le infiammazioni e come antidolorifico. La moderna Scienza ne ha riconosciuto i reali effetti sul corpo umano nel suo contenuto in principi chimici attivi come la scopolamina, l’atropina e la josciamina, le cui proprietà vengono oggi utilizzate dalla farmacologia ufficiale in dosi ben determinate e non arbitrarie come un tempo. Questa pianta contiene potenti alcaloidi che possono far aumentare le pulsazioni cardiache, producono effetti di eccitazione psicomotoria e psichica, allucinazioni, manifestazioni di riso convulso e stati deliranti.

    …in letteratura e nel cinema…

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    Nella omonima commedia di Niccolò Machiavelli, l’infuso di mandragola è il mezzo utilizzato per ingannare il vecchio marito dell’onesta Lucrezia, affinché Callimaco, innamorato della bella donna, possa giacere con lei una notte. Viene infatti detto a Nicia che per curare la sterilità della giovane è necessario che questa beva un infuso di mandragola. La prima notte che trascorrerà col il marito rimarrà incinta, ma come effetto collaterale l’uomo morirà. Nicia cade nella trappola e spaventato si adopera affinché un avido frate e la suocera convincano Lucrezia a dormire con un mendicante, della cui fine si augura come garanzia del proprio onore. In realtà il disgraziato prescelto è Callimaco travestito, che si dichiara alla donna, svelando il piano. Lucrezia delusa dal marito e lusingata dalle attenzioni del giovane, lo sceglie come amante, certa che questi saprà donarle anche il figlio che il vecchio marito è impossibilitato a darle.

    Il film spagnolo del 2006, Il Labirinto del Fauno s’ispira alla credenza che la pianta favorisca i parti felici. La giovane Ofelia riceve in dono una radice di mandragola per aiutare la madre che soffre per una gravidanza difficile. La pratica rituale vede la bambina porre tale radice, simile a un neonato, in una scodella di latte e collocarla sotto il letto della madre, nutrendola ogni giorno con il proprio sangue. L’effetto benefico della mandragola è immediato.

    E' presente fra le piante magiche del romanzo fantasy Harry Potter e la camera dei segreti; nel nome di due personaggi dell'anime e manga I Cavalieri dello zodiaco. Viene descritta in Haunting Ground per le sue proprietà rivitalizzanti. Il videogioco Pokémon, Oddish è ispirato a lei. Nel romanzo di Luigi Santucci Il mandragolo il protagonista Demo,un essere deforme, ma dotato di straordinari poteri medianici, viene paragonato alla pianta magica.

    La Mandragora ...di Gianluca Toro

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    [..]Tra tutte le piante tradizionalmente considerate magiche, sicuramente la mandragora (Mandragora officinarum o Mandragora autumnalis) è una delle più importanti, con una storia lunga e complessa che ha lasciato testimonianze in differenti parti del mondo. La mandragora aveva (ed ha tutt’oggi) anche un impiego medicinale, afrodisiaco e psicoattivo. L’origine della parola “mandragora” è oscura. Secondo alcuni deriverebbe dal sanscrito mandros, “sonno”, e agora, “sostanza”, oppure mandara, “paradiso”. Altri commentatori propendono per un’origine sumerica, da nam-tar, “pianta del dio del castigo”, o tedesca medievale, da mann-dragen, “figura di uomo”, o ancora persiana, da mardumgià, “erba dell’uomo”. Dioscoride, nel De materia medica, la chiama antimelon, archinen e morion, mentre in latino è mandragoras. Claudio Eliano, nel De animalium natura, la chiama cynospastos, “estirpata per mezzo di un cane”, e dice che brilla di notte. La chiama anche aglaophotis, “risplendente”, termine poi ripreso poi da Plinio il Vecchio nella Historia Naturalis. In Oriente, è citata nel Vecchio Testamento in Genesi e nel Cantico dei Cantici con il nome di dudaim, “amore e paura”. [..] Flavio Giuseppe, nella Guerra Giudaica, menziona una pianta nota come baaras, “ardore”, probabilmente la mandragora, che “[…] verso sera emette una luce brillante, elude le persone che tentano di raccoglierla, a meno che non si pongano su essa certe secrezioni del corpo umano […]. Applicata al paziente, la radice fa espellere i demoni”. Un nome significativo è quello attribuito nell’Arabia preislamica, cioè abu ‘lruh, “signore del respiro vitale” o “signore dello spirito”, a indicare la carica spirituale della mandragora e probabilmente la sua identificazione con una divinità. Con l’avvento dell’Islam, ritroviamo Tufah al-jinn, “mele del demonio”, Baydal-jinn, “testicoli del demonio” e anche “candela del diavolo”. Questo valore negativo attribuito dagli Arabi alla mandragora si ritrova in una formula per la preparazione di un veleno a base di radici decomposte della pianta. In Persia, il nome è sag-kan, “scavata da un cane”. In Asia, nella medicina popolare dell’India, la mandragora è nota come Lakshmana, “che possiede segni fortunati”, ed è usata come afrodisiaco e nell’assistenza al parto. Nell’Europa medievale, alla mandragora furono attribuiti numerosi epiteti, per esempio “mela di Satana”, “testicoli di Satana”, “mela dello stolto” e “mela dell’amore”. Per i Germani era nota come Drachenpuppe, “pupazzo-dragone”, e Galgenmännlein, “piccolo uomo delle forche”, mentre in Islanda come thjofarot, “radice dei ladri”. Altre denominazioni ricordavano l’effetto narcotico e le streghe. Una della caratteristiche della mandragora che suscitò la fantasia degli antichi fu la somiglianza della sua radice con la figura umana. Sembra che sia stato Pitagora uno dei primi a descrivere la radice come antropomorfa. [..]
    Stando alle testimonianze archeologiche, questa pianta era già nota agli antichi Egizi a partire dal XIV secolo a.C. Ricordiamo la scena di raccolta di radici di mandragora rappresentata sul sarcofago di Tutankhamon e le scene nella tomba di Ramses II. In quest’ultimo caso, la mandragora è accompagnata dalla ninfea e dal papavero da oppio, anch’esse piante dotate di proprietà psicoattive. Sembra che queste tre piante fossero utilizzate in combinazione per preparare un unguento in grado di indurre stati ipnotici, di transe ed estatici. Nell’Europa medievale, la mandragora era un probabile ingrediente degli unguenti delle streghe. E’ stato infatti riportato da alcuni sperimentatori che i principi attivi contenuti nella pianta possono provocare la sensazione di volare e di viaggiare in posti differenti da quello in cui ci si trova, offrendo così una possibile interpretazione al volo delle streghe verso il sabba. Si credeva che il solo odorarla poteva indurre al sonno. Celso consigliava di porla sotto il cuscino per addormentarsi e anche Apuleio, Luciano e Plinio il Vecchio confermano questo fatto. Plutarco riporta che le più belle mandragore crescono ai piedi delle viti e che il vino ottenuto da queste vigne ha grandi proprietà ipnotiche. Anche Filostrato descrive la mandragora come soporifera. Inoltre, Demostene e Platone paragonano i quieti cittadini ateniesi a degli “ubriachi di mandragore”, fatto confermato da Pindaro e Senofonte. La pianta trova applicazione anche nell’arte militare delle imboscate. Infatti, Frontino scrive che Maharbal, mandato dai Cartaginesi contro i ribelli africani, sapendo che la popolazione era dedita al vino, lo miscelò con mandragore. In questo modo, Maharbal uccise i ribelli o li prese prigionieri mentre giacevano come fossero morti. In riferimento alle proprietà afrodisiache della mandragora, Afrodite, la dea dell’Amore, era chiamata Mandragoritis. In Egitto, con la pianta si preparavano filtri d’amore per le coppie che desideravano avere molti figli. I Beduini della regione del Negev in Israele la considerano sacra ed è vietato danneggiarla e le donne sterili ne mangiano i frutti immaturi dopo il periodo mestruale, recitando i versi del Corano.
    Dioscoride consigliava il vino di mandragora come anestetico in chirurgia, così come Isidoro di Siviglia. Il vino alla mandragora lo si somministrava ai condannati al rogo o alle più diverse torture, usanza forse ereditata dal mondo biblico. In questo modo, la sofferenza era in parte alleviata. Sembrerebbe, poi, che l’effetto narcotico sia stato sfruttato in Palestina per indurre una specie di trance narcotica nei condannati alla crocifissione e probabilmente la spugna che fu data a Cristo sulla croce era imbevuta di vino alla mandragora. L’uso del vino alla mandragora come anestetico in medicina è sopravvissuto in Europa fino all’inizio del XVIII secolo, sotto forma di una spugna bollita in una miscela di vino, corteccia di radice di mandragora, semi di una specie di lattuga con effetti soporiferi e foglie di gelso. Tali spugne erano molto utilizzate dai medici della Scuola Medica di Salerno.

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    La mandragora era trattata come un vero e proprio essere vivente [..] Usanza comune era di intagliare la radice in forma di essere umano, dando origine alle cosiddette imaguncula alrunica, da Alraune, nome tedesco della mandragora. La stessa Giovanna D’Arco fu accusata di possedere, come talismano magico, una mandragora in forma umana. In Francia, la mandragora era nota come main de gloire, “mano di gloria”, o mandragloire, forse dall’unione delle parole mandragora e Magloire, quest’ultimo nome di un elfo del folklore francese, personificato come una radice di mandragora lavorata. In Britannia, una leggenda narra di uno spirito notturno che compare con le dita della mano fiammeggianti. D’altra parte, “mano di gloria” è anche il nome dato alla mano amputata di un uomo morto e usata come torcia magica per commettere furti di notte. Si tratta di un tema popolare del folklore europeo, comparendo in trattati, manuali di stregoneria, resoconti di processi alle streghe e credenze popolari. Per esempio, nel Libro dei segreti di Alberto Magno, l’autore spiega come preparare una mano di gloria. Lo scopo della mano di gloria è “[…]meravigliare coloro ai quali è mostrata e renderli immobili, come fossero morti”. [..] Ad Antiochia, Costantinopoli e Damasco, sono state ritrovate radici di mandragora modellate in forma umana. Questo sembra dimostrare che non solo l’uso della pianta è antico, ma che lo è anche il desiderio di accrescerne il potere magico, modificandone la forma. Ancora nell’età moderna, in Armenia, si usa bruciare le radici di mandragora per scacciare gli spiriti maligni dalle case e inalarne il fumo è considerato una cura per la pazzia. Una specie di mandragora è usata, poi, in riti magici nel Sikkim, in Himalaya.
    In tempi moderni, le credenze e gli usi della mandragora sono rimasti ancora vivi. In Inghilterra, agli inizi del ‘900, era usata come anestetico e come rimedio omeopatico per la gotta. In alcune zone, i popoli alpini la usano come amuleto protettivo contro il tempo brutto. In Grecia, almeno fino agli anni ’60, le donne sterili portavano parte della pianta al collo per favorire la fecondità e ponevano il frutto o la radice sul proprio corpo durante l’atto sessuale sempre per favorire la fecondità. In Romania, la mandragora era parte di un rito per favorire l’incontro tra uomo e donna.
    [..] Nell’antica letteratura mitologica, è citata una pianta magica denominata moly, che alcuni studiosi hanno identificato con la mandragora, anche se l’individuazione è piuttosto discussa. Nell’Odissea, Omero riporta che il moly è il dono di Hermes a Ulisse affinchè potesse proteggersi dagli incantesimi della maga Circe. Eustazio riporta un mito di origine del moly. Il gigante Picoloo si era innamorato di Circe e voleva rapirla. Intervenne però il dio Helios, padre della maga, che uccise il gigante: “E dal sangue del gigante sparso sulla terra germogliò il moly, che prende il nome dalla “fatica della battaglia”. Ma il suo fiore, dal biancore abbagliante come quello del latte, proviene dall’abbagliante Helios, che vinse il combattimento; la nera radice spunta dal nero sangue del gigante, ovvero, se ne può spiegare la natura col fatto che Circe diviene spettralmente smorta per lo spavento”.
    In questo mito incontriamo due temi essenziali, quello della morte violenta e quello della nascita miracolosa, comuni ad altri racconti mitici. L’erica nasce intorno al cadavere di Osiride, la violetta dal sangue di Attis, la rosa e l’anemone dal sangue di Adonis, la melagrana e il timo rispettivamente dal sangue di Dioniso e dei Coribanti, mentre un’altra erba nasce dal sangue di Prometeo. Questo motivo pagano fu ripreso dal Cristianesimo. Infatti, secondo la leggenda, dal sangue del Cristo caduto ai piedi della croce crescerebbero diverse piante medicinali, ma anche il grano, la vite e la mirra. Nel Medioevo, soprattutto nei paesi germanici, in Francia e in Islanda, era diffusa una credenza secondo cui la mandragora cresceva dallo sperma o dall’urina caduta al suolo al momento della morte di un impiccato condannato ingiustamente. Il tema della nascita delle piante dallo sperma di un dio o di un essere umano dai poteri eccezionali lo si ritrova specialmente in Oriente. [..]Trattando delle virtù terapeutiche della mandragora, Ildegarda di Bingen, nella Physica, la definisce “un pezzo di terra che non ha mai peccato”. Secondo alcune interpretazioni di questa definizione, la guarigione avviene tramite una regressione simbolica e rituale alle origini, ai tempi di Adamo nel Paradiso Terreste. Chi ha bisogno di cure ritorna simbolicamente al tempo mitico, al momento della creazione dell’uomo e del mondo. In questo modo, si rinasce nuovamente e si è liberi dalla malattia. Secondo una certa tradizione mediorientale, forse antecedente al Cristianesimo, la mandragora dalla radice antropomorfa nasce nel Paradiso Terrestre, dove Dio ha creato il primo uomo. Crescerebbe ai piedi dell’Albero del Bene e del Male, con il quale a volte è identificata. In questo caso, la mandragora è associata a un luogo primordiale, dove ha luogo la creazione primigenia. Si tratta quindi di una pianta primordiale e quindi mitica. In differenti culture europee, arabe e asiatiche, si riporta che l’uomo originò dalla mandragora, in base all’aspetto antropomorfo della radice: “I primi uomini sarebbero stati una famiglia di gigantesche mandragore sensitive, che il sole avrebbe animato e che, da sole, si sarebbero distaccate dalla terra”.
    “L’uomo apparve originariamente sulla terra in forma di mostruose mandragore, animate da una vita istintiva, e che il soffio dell’Altissimo costrinse, trasmutò e sgrossò, e infine sradicò, per farne degli esseri dotati di pensiero e di movimento proprio”.
    In una leggenda della Siria si racconta: “Quando Dio creò il mondo, si riservò la creazione degli esseri viventi sulla terra, nelle acque e nell’aria; ma, nel suo contratto con Satana, aveva dimenticato il sottosuolo. Lo spirito del Male, geloso del Creatore, volle, anche lui, fabbricare degli uomini e delle donne viventi sotto terra. Il suo genio inventivo, ma incompleto, non portò che alla plasmazione informe delle mandragore. Dal momento che queste, strappate da terra, penetrano nel regno di Dio, cessano di vivere”.

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    I primi due racconti rimandano a un preesistente mito di origine dell’uomo, in cui la sua origine è successiva a quella della pianta. La pianta ha una sensibilità, propria di tutti gli esseri viventi, trasmessa poi all’uomo al momento della sua creazione. La leggenda siriana, invece, ricorda il tema della nascita miracolosa mediata da un intervento soprannaturale, in questo caso maligno.
    Per quanto riguarda i miti legati all’utilizzo della mandragora, ricordiamo un racconto dell’antica letteratura religiosa egiziana, noto come Distruzione e salvataggio del genere umano. Il dio del Sole Ra vuole punire gli uomini perché non lo venerano e allo scopo invia la dea Hathor a ucciderli. Però cambia idea e deve fermare Hathor: “Disse allora Ra: ‘Chiamatemi messaggeri che corrano rapidamente, che si affrettino come l’ombra di un corpo’.
    Furono portati allora questi messaggeri sull’istante. E disse quindi la Maestà di questo dio: ‘Recatevi a Elefantina, e portatemi didit in quantità’. Gli furono portate queste didit, e la Maestà di questo dio grande fece che il Chiomato che abita a Eliopoli macinasse queste didit, e che inoltre schiave spremessero l’orzo per farne birra. Quindi, furono poste queste didit in questa bevanda, ed essa fu come il sangue degli uomini. Si fecero 7000 brocche di birra. Venne quindi la Maestà del re della Valle e re del Delta Ra con questi dei per vedere questa birra. Ora, venne la mattina dell’uccisione degli uomini da parte della dea nel giorno in cui essi rientravano. Disse allora la Maestà di Ra: ‘Quanto è bello questo! Con questo io proteggerò gli uomini!’ Disse Ra: ‘Portatelo al luogo dove essa vuole uccidere gli uomini’. Si levò presto la Maestà del re della Valle e re del Delta Ra, al termine della notte, per fare che si versasse questa bevanda soporifera. Furono così sommersi i campi per tre palmi sotto l’acqua, per la potenza della Maestà di questo dio. Venne allora questa dea del mattino presto, e trovò questo sommerso. Bella ne fu la sua faccia, ed essa si mise a bere, e fu una cosa gradita al suo cuore, tanto che se ne venne ubriaca, e non riconobbe gli uomini. Disse allora la Maestà di Ra a questa dea: ‘Benvenuta in pace, o diletta!’ E questa fu l’origine delle Giovanette di Jamu. Disse allora la Maestà di Ra a questa dea: ‘Si facciano per lei bevande soporifere nella celebrazione della festa annuale, e si distribuiscano alle schiave’. Questa è l’origine del fare bevande soporifere in distribuzione alle schiave per la festa di Hathor da parte di tutti gli uomini fino al primo giorno”.
    Questo mito non rappresenta solo l’origine di un utilizzo cultuale della mandragora (didit), è qualcosa di più. E’ la storia di una seconda nascita dell’umanità, resa possibile attraverso il potere della mandragora.[..]


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    Edited by gheagabry1 - 7/2/2022, 16:42
     
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    Gigaro, Pan di serpe - Arum italicum


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    Il Gigaro è pianta erbacea perenne dei sottoboschi, appartenente alla famiglia delle Araceae, di origine Europea. Ha radice tuberosa, produce un piccolo cespuglio di foglie di colore verde, con la pagina superiore lucida, trilobate, portate da un lungo picciolo, che spuntano direttamente dal tubero nel periodo autunnale. In aprile-maggio produce lunghi spatici carnosi, alti fino a 30-50 cm, con apice giallastro, su cui sbocciano piccoli fiorellini bianchi, lo spadice è racchiuso in una larga spata bianco-verdastra.
    L'infiorescenza degli Arum, allo scopo attirare mosche e moscerini, emette un forte odore di sostanza organica in decomposizione: una sorta di spray favorito nella sua diffusione dal lieve calore emanato .
    Appena entrati nella spata gli insetti rimangono intrappolati dai peli riflessi e, nel tentativo di recuperare la libertà, si spostano incessantemente raccogliendo e distribuendo il polline dappertutto; molti muoiono nell’impresa mentre gli ultimi, i più fortunati e resistenti, riescono a liberarsi quando la spata avvizzisce per l'avvenuta fecondazione.

    Durante i mesi estivi il fogliame dissecca e sullo spatice si sviluppano piccoli frutti sferici, simili a piselli, lucidi, che a maturazione divengono di colore arancio-rosso. Questa pianta è diffusa allo stato selvatico anche in Italia; tutte le parti della pianta sono velenose, anche se il pericolo di ingestione da parte degli animali e dei bambini è minimo a causa del sapore disgustoso.
    La principale componente tossica di Arum italicum è l'ossalato di calcio (soprattutto i cristalli), sono presenti saponine e un glicoside dell'acido cianidrico. A contatto con la pelle i cristalli provocano dermatiti, se ingeriti infiammano tutto il tratto gastrico con vomito e dolori addominali. L'Arum si usa come fitorimedio, la pianta è in grado di assorbire una grande quantità di sostanze inquinanti.

    Il nome scientifico del genere (Arum) deriva dal greco Aron, ma anche, secondo altre etimologie, dall'ebraico “ar”; in entrambi i casi questi due termini significano “calore” e si riferiscono al fatto che queste piante quando sono in piena fioritura emettono calore. Il nome specifico (italicum) si riferisce alle località dei primi ritrovamenti.
    Il binomio scientifico, Arum italicum, è stato proposto dal botanico scozzese Philip Miller nella pubblicazione ”The Gardeners dictionary – Ottava edizione” del 1768.

    ...storia, miti e leggende...

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    La fantasia popolare ha fatto nascere nomi singolari per questa pianta come "Serpentaria", "Erba saetta", "Pan di serpente o di vipera", "Bacche veleno". Nell'antichità, i frutti maturi di Arum italicum si credeva, erroneamente, fossero il cibo del biacco (Hierophis viridiflavus) un serpente carnivoro che vive nelle campagne, da qui l'appellativo "Pan di serpe". Alla pianta venivano attribuite numerose proprietà curative associate ad un uso alimentare del rizoma essiccato, abitudine ancora presente in alcune zone italiane. Gli venivano riconosciuti poteri magici, parti essiccate si portavano appese al collo all'interno di un sacchetto per sconfiggere il malocchio.
    In molti paesi europei veniva raccolto dopo la fioritura, essiccato e conservato nelle farmacie domestiche, a disposizione dei malati di asma e di insufficienza respiratoria per farli espettorare. Gli Arabi lo usavano contro i calcoli alla vescica.
    Dioscoride, mescolando il succo di "Gigaro" assieme a sterco di bue, ne aveva ottenuto un impiastro da applicare sulle deformazioni gottose.

    Nel passato, le radici di Arum maculatum venivano raccolte e torrefatte per ricavare di un amido di prima qualità molto fine e dal colore candido, dotato di proprietà simili a quello prodotto dal Riso, ma caratterizzato da piccoli granuli tondeggianti. Presso molti popoli europei e per molti secoli l'amido di Aro fu considerato un ottimo succedaneo della fecola; in particolare in Sicilia, nella pasticceria casalinga e non, serviva per la preparazione dei confetti, per infarinare dolci, biscotti ed i fichi seccati. Nel libro III° di De Bello Civili Cesare parla di una radice chiamata "Chara" molto abbondante nei dintorni del Castrum che: "admixtum lacte, multum inopiam levabat". Il rizoma fu usato dall'esercito di Giulia Cesare in sostituzione del rancio che molte volte scarseggiava per le lunghe campagne militari. In Inghilterra l'amido prodotto industrialmente dal "Gigaro" veniva commerciato sotto l'etichetta di "Arrowroot of Portland", venduto in concorrenza con quello ricavato in Oriente. Era particolarmente indicato per inamidare i tessuti di Lino più delicati, irrigidire i colletti alti a piegoline allora di gran moda. Le popolazioni contadine raccoglievano le foglie e facendole bollire le usavano come sgrassante e candeggiante della biancheria.

    ... le Interviste impossibili...

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    "Il sentiero si snoda lungo la sponda ombrosa di un fossato che scorre pigro. Ai piedi di una siepe tra Verbo, umida, la giornalista scorge una pianticella che non ha mai visto. Ha belle foglie a forma di punta di freccia, lucide, macchiettate qua e là di scuro, dal centro delle quali spinta uno strano fiore: un involucro verde giallognolo si avvolge a imbuto attorno a una colonnina porpora, da cui emano un odoro sgradevole, come carne marcia. La giornalista è combattuta tra la curiosità e il disgusto, sta per andarsene, ma il fiore comincia a parlare…..

    Gigaro Non faccia la schizzinosa, si avvicini, ne vale la pena. Perché io non sono una pianta qualunque, e ho alcune cose interessanti da raccontarle. Però non mi tocchi se non vuole trovarsi con una dermatite alle mani.
    Giornalista – Ma lei chi è? Come si chiama? Ed è anche un tipo pericoloso….
    GAltroché, sono tutto velenoso, io non a cosa mi chiamano pan di serpe….
    Gior – Devo chiamarla signor Pan di serpe? E’ questo il suo nome?
    G No, quello è un soprannome. Mi chiamo Gigaro.
    Gior – Con l’accento sull’i, come il sigaro. Però, mi scusi se glielo dico, ma i sigari puzzano molto, molto meno. Mi ricordo il mezzo toscano di mio nonno, era un profumo al confronto. E poi lei sa di carne marcia, è quasi insopportabile. Per me che sono vegetariana, poi!
    GFa bene a mangiare solo vegetali, ma eviti con cura di mangiare me.
    Gior – Stia tranquillo, con quel profumino. Peccato però, ha un bel fiore.
    G Non cominci con le inesattezze. Quell’involucro che lei scambia per una corolla in realtà è la spata, cioè una foglia che la cambiato funzione. Prima di tutto non serve a compiere la fotosintesi, perché a quello ci pensano le vere foglie. La spata ha solo il compito di attirare gli insetti, e precisamente certi moscerini chiamati “psicodi”, non so se li conosce, sono grigi e pelosetti. I miei impollinatori sono loro. Quanto ai fiori, li trova tutti ammassati su quella colonnina al centro che si chiama spadice: in basso quelli femminili e sopra quelli maschili.
    Gior - E i moscerini non si avvelenano? Quel puzzo trementdo, mi scusu ma “puzzo” è proprio il nome giusto, non si allontana? Di soliti gli impollinatori vengono attirati dal colore dei fiori, ma anche dal profumo, o sbaglio?
    GBeh, la mia è una storia un po’ più complicata, se ha pazienza gliela racconto. Si turi il naso col fazzoletto e ascolti. Quando arriva il momento di riprodursi, è come se allo spadice venisse la febbre: alcune sue cellule “bruciano” zuccheri, facendo alzare la temperatura. Il calore volatizza lo scatolo, la putrescina, l’ammoniaca, tutte sostanza dall’odore di carne putrefatta, o sterco di vacca, che per ivostri nasi e solo sgradevole puzza, ma per quei moscerini significa cibo. Loro infatti sono abituati a trovarsi da mangiare in ambienti, diciamo un po’ particolari, fogne, latrine, depositi di spazzatura…Così, irretiti da quel “profumo”, si infilano dentro la spata, e li si incastrano: proprio all’imbocco dell’imbuto, infatti, c’è una specie di trappola, una raggiera di peli disposti in modo tale da consentire l’ngresso e impedire l’uscita.

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    Gior – Ma questo è un vero e proprio sequestro di persona, lei è un sadico…
    GBeh non è che li lascio li per sempre, a che servirebbe. Intanto gli passo qualche genere di conforto, come un liquido zuccherino secreto dallo spadice. A un certo punto, però quando i fiori maschili hanno raggiunto la piena maturità, i peli della trappola appassiscono e i moscerini possono finalmente volar fuori; intanto però sfiorano gli stami e si coprono di polline. A quel punto il mio gioco è fatto. Comunque, mi creda, meglio sadici che masochisti…
    Gior – Si riferisce a qualcuno in particolare?
    G Certo. Ha presente la ginestrella? Voi la chiamate Genista tinctoria, è un arbusto dai fiori gialli e profumati che vive nelle radure dei boschi mediterranei. Lei si fa impollinare dai bombi, senza tenere conto che sono coleotteroni rozzi e grossolani, Non appena uno di loro si infila in un fiore alla ricerca di nettore, con il suo peso finisce per provocare un disastro: il fiore si lacera con una tale violenza che spara addosso al bombo un getto di polline. D’accordo, la ginestrella ha centrato l’obiettivo, ma nell’esplosione il fiore si è stupidamente distrutto per sempre.
    Gior – Lei è proprio una simpatica canaglia e tutto sommato, se non fosse per la puzza, la troverei anche grazioso….
    G Non per vantarmi ma sa che ero uno dei fiori prediletti da Ippolito Pizzetti, il famoso paesaggista e scrittore? Dovrebbe poi vedere i miei frutti: certe bacche rosse che sembrano lucidate a cera, invitanti … ma velenose. Non so se lei ha dei nipotini, se li ha faccia attenzione: potrebbero mettersele in bocca, e sarebbero guai seri.
    Gior – Ma avrà pure un lato buono?
    G Le racconto una storia…però credo che sia una leggenda. Quando Giosuè arrivò nella terra promessa piantò a terra lo scettro di Aronne – era il primo sommo sacerdote del popolo ebraico – che aveva portato con sé. E subito il bastone cominciò a germogliare dando vita a una pianta si aro, cioè Arum, che è il mio nome latino, e da quel momento Yarum passò alla storia come simbolo di fertilità."
    (Mirella Delfini, Oasis n°212 /2015 – testo tratto da “Vegetale sarai tu!”)

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    Edited by gheagabry1 - 7/2/2022, 16:50
     
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  14. gheagabry
     
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    L’ingestione della Belladonna rende:
    "caldo come una lepre"
    "cieco come un pipistrello"
    "secco come un osso"
    "rosso come una barbabietola"
    "matto come una gallina"
    (filastrocca inglese)


    LA BELLADONNA


    Belladonna-copia

    La belladonna è una pianta a fiore (Angiosperme dicotiledoni) appartenente all'importante famiglia delle Solanaceae, come il pomodoro e la patata. Cresce sporadica nelle zone montane e submontane fino ad una altitudine di 1400 metri. Predilige i suoli calcarei e i margini di boschi freschi e ombrosi, come le faggete. Allo stato selvatico è presente in Europa centrale, Africa settentrionale e Asia occidentale fino al Pakistan. In Italia la si può trovare nei boschi delle Alpi e Appennini.
    E' un pianta erbacea e perenne, dotata di un grosso rizoma dal quale si sviluppa un fusto robusto, eretto e ramificato, di altezza compresa tra i 70–150 cm. Le foglie sono semplici, picciolate, di forma ovale-lanceolata, alternate nella zona superiore a foglie più piccole; come il fusto, sono ricoperte di peli ghiandolari responsabili dello sgradevole odore emanato dalla pianta. I fiori sono ermafroditi, ascellari e penduli; presentano un calice a 5 sepali ed una corolla a 5 petali di forma campanulata-tubulosa e di colore violaceo cupo; l'androceo è composto da 5 stami con antere molto sviluppate, il gineceo da un ovario biloculare con stilo unico e stigma bifido.
    La belladonna fiorisce nel periodo estivo e l'impollinazione è entomogama (tramite Insetti). I frutti sono lucide bacche nere, di piccole dimensioni, contornate dal calice che, durante la maturazione, si accresce aprendosi a stella.

    Nonostante l'aspetto invitante e il sapore gradevole, le bacche sono velenose per l'uomo.
    La Belladonna è una delle piante più tossiche nell’emisfero orientale. Tutte le parti contengono l’alcaloide tropano. Le bacche sono il pericolo più grande, soprattutto per i bambini. Hanno un aspetto molto attraente e un sapore dolciastro. Il consumo da due a cinque bacche può essere letale per un adulto. La parte più tossica in assoluto è la radice. Anche le foglie hanno una buona concentrazione e possono risultare fatali. Conigli, pecore, capre e maiali non hanno problemi nel nutrirsi della pianta e anche molti uccelli sono immuni e si cibano delle bacche e dei semi. I cani e i gatti invece sono sensibili.

    ..storia, miti e leggende..

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    Il suo nome latino utilizzato dai botanici e dai fito-
    terapeuti, venne ispirato da Atropo, una delle Moiere della mitologia greca, una delle tre dee del destino, figlie di Zeus e di Ananke, la dea della Legge. Delle tre “fate” greche del destino, Atropo, il cui nome significa “inflessibile”, era quella incaricata di recidere il filo della vita con un paio di cesoie d’oro; è un veleno, violento e implacabile, che dà la morte, dopo delirio e follia. Era una delle erbe coltivate nel giardino di Ecate, che insieme con il giusquiamo, lo stramonio e la mandragora, venivano usate dalle streghe.
    Il nome volgare deriva dall'usanza come espediente di bellezza dalle dame del Rinascimento, che usavano un macerato di foglie di belladonna per lucidare lo sguardo e dilatare la pupilla in modo da sembrare più seducenti: ciò derivava dall'effetto dell'atropina, un alcaloide di cui la belladonna è molto ricca, che provocava la midriasi delle pupille agendo sul sistema nervoso parasimpatico per aumentare la circolazione.
    In passato era considerata l'erba delle streghe per gli effetti allucinatori che derivavano dalla sua assunzione; le streghe ai tempi del sabba si spalmavano un unguento sul corpo permettendo alla sostanza di entrare in circolo velocemente e di volare: chiamato “il sussurro delle streghe”. E' da sempre associata a riti satanici. Circe, herbaria per eccellenza, era figlia della “dea dei crocicchi” Ecate (le sue statue venivano poste negli incroci -trivi -, a protezione dei viandanti) e Canidia, nella Roma di Augusto, mescolava per i propri intrugli piante funebri, piume di civetta, uova di rospo, erbe della Colchide e zampe di gallina, chiamando a testimoni del proprio rituale « Nox et Diana».
    Solamente l’angelica, soprannominata erba degli angeli dai medici del Rinascimento, poteva essere utilizzata come antidoto contro tutte le pozioni magiche e i temibili effetti della belladonna.
    In Sicilia, ove è conosciuta col nome di "sulatra" (almeno nella zona nord del siracusano), si trova facilmente anche negli agrumeti, in zona collinare attorno ai 400 metri di quota; il succo delle foglie viene usato come rimedio contro le punture di vespa.

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    L'utilizzo medicinale della belladonna è relativamente tardivo, a causa della sua velenosità e della difficoltà di dosaggio. La pianta è stata usata come anestetico chirurgico prima dell'avvento degli anestetici di sintesi. La belladonna è stata usata in passato come veleno per le frecce, e alla morte dell'Imperatore Augusto si diffuse la voce che la moglie Livia l'avesse avvelenato con la belladonna. Nell'undicesimo secolo, gli scozzesi respinsero l'attacco degli invasori danesi avvelenando con il succo delle bacche di belladonna la birra scura dei loro rivali. Il loro capo era Macbeth, immortalato poi nell'omonima tragedia di Shakespeare.
    Un tempo nelle campagne si sconsigliava di adornarsene perché sarebbe stato di cattivo augurio e si raccomandava, quando la si voleva eliminare dal giardino o dall’orto, di sradicarla evitando di tagliarla poiché le radici mozze avrebbero nuociuto alle altre piante. Divenne anche il simbolo del Silenzio, che è uno degli attributi della morte.
    Anticamente, la superstizione popolare sosteneva che, collocando due piantine di belladonna davanti alla porta di casa avrebbe respinto gli spiriti impuri. Lo stesso effetto avrebbero ottenuto i suoi fiori e steli posti all’interno della casa.

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    Edited by gheagabry1 - 7/2/2022, 17:00
     
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    SOLANUM MAMMOSUN

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    Solanum mammosum è comunemente noto come mammelle di mucca. E' una pianta perenne della famiglia delle Solanaceae. E' originaria del Sud America, ma è stata naturalizzato nelle Grandi Antille, America Centrale e Caraibi.
    Nella cultura cinese è conosciuto come cinque dita melanzane (五指茄). In Giappone è conosciuto come Fox faccia.
    La pianta arbustiva ha un fusto spinoso e può crescere fino ad 1,5 m di altezza. Ha bellissimi fiori viola a grappolo, lunghi circa 8 cm e larghi 4/5.
    La pianta è coltivata a scopo ornamentale, in parte a causa della fine somiglianza del frutto alle mammelle di mucca. Il frutto di color giallo, non è commestibile poichè tutte le sue parti sono velenose.
    È stato usato nella medicina tradizionale per il trattamento del piede d'atleta dai cacciatori in Trinidad e per l'irritabilità e l'irrequietezza. Viene usato in alcuni rimedi omeopatici. Prima dell’invenzione del sapone il succo era comunemente usato nei villaggi come detergente. E’ usato nel folclore popolare per attrarre la fortuna, a Taiwan si utilizza come un'offerta religiosa. Sono comunemente utilizzati nella costruzione degli alberi cinesi di Capodanno per il buon auspicio dei frutti di colore dorato. Spesso questi alberelli vengono anche offerti in dono per il culto degli antenati. La tradizione infatti dice che il numero delle “mammelle” dei frutti segnalerebbe il numero di generazioni che conviverà felicemente e a lungo sotto lo stesso tetto.

    SOLANUM LINNAEANUM

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    Il Pomo di Sodoma è una pianta appartenente alla famiglia delle Solanaceae. In botanica è il nome volgare italiano del Solanum sodomaeum L., detto anche morella di Sodoma o pomodoro selvaggio. E' originaria del Sudafrica. È stata introdotta in Europa agli inizi del Settecento.
    È una specie arbustiva che può raggiungere i 2 m di altezza. Sul fusto e sui rami, ma anche sui peduncoli delle foglie e dei frutti, sono presenti robuste spine. Le foglie, plurilobate, sono lunghe 5-12 cm, larghe 3-6 cm. Sono di colore verde brillante sulla pagina superiore, con venatura centrale più chiara e rilevata. I fiori, di colore violaceo, sono riuniti in infiorescenze a corimbo; ciascun fiore presenta 5 petali uniti alla base e con parte apicale sfrangiata. I frutti sono delle bacche tondeggianti del diametro di 2-3 cm, di colorazione dapprima verde screziata di bianco quindi gialla a maturazione. Contengono solanina, un alcaloide tossico.

    Deve il suo nome comune, dagli scritti di Tacito, ad una leggenda legata all'episodio biblico dell'incendio di Sodoma, in seguito al quale la regione sarebbe divenuta totalmente sterile; l'unica pianta a cui fu permesso di crescere dalla volontà divina fu appunto il "pomo di Sodoma", i cui frutti, all'apparenza belli ed invitanti, una volta aperti contenevano solo fuoco e fumo. Le bacche del Solanum sodomaeum hanno in effetti una polpa che dopo la maturazione si riduce in polvere nerastra, il che ha portato a identificarle, appunto, con le mitiche "mele di Sodoma" colme di cenere.

    "L'esploratore francese Visconte di Marcellus, seguendo le piste percorse dagli antichi Egizi per giungere al Mar Morto per raccogliere i preziosi sali e componenti per l'imbalsamazione scoprì i "pomi di sodoma", frutti che una volta toccati si frantumarono, tra le mani del'esploratore francese del XIX secolo, in cenere maleodorante e perniciosa e il ricercatore consapevole delle relazioni dei pellegrini medievali contestualemente si rifornì di parte di questo materiale ma soprattutto di quelle sostanze che ivi si trovavano in abbondanza e che gli Egizi -ritenendole essenziali alla realizzazione delle migliori Mummie- tanto cercavano come essenziali ai fini dell'imbalsamazione."

    Molti dei pellegrini medievali hanno lasciato un resoconto del loro viaggio in Palestina ed hanno testimoniato sull'esistenza di tale pianta: qual simbolo della bellezza che sfiorisce e che appena toccata e induce alla perdizione. Fu poi a lungo utilizzata in epoca medievale per la realizzazione di pozioni mortali e per la preparazione di piatti velenosi, come la letale "Coca de Metzines", una specie di pizza con verdure tipica dell'isola di Maiorca.

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    Edited by gheagabry1 - 7/2/2022, 17:11
     
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