METAMORFOSI

Ovidio

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    IL MITO DI CLIZIA




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    Clizia era una ninfa innamorata di Apollo: quando si accorse che il dio la trascurava perchè le preferiva Leucòtoe, figlia di Orcamo , per gelosia decise di rivelare al padre la relazione segreta di costei con il dio APOLLO .
    Orcamo adirato con la figlia la fece seppellire viva : disperato, Apollo cosparse il luogo della sepoltura di un nettare profumato e dalla terra inumidita sarebbe nata la pianta dell'incenso.
    Clizia avendone provocato la morte penso' di riavere per sè le attenzioni e l'amore di Apollo : il dio invece , perduta l’amata Leucòtoe, non volle più vedere Clizia che allontanata dal dio e consumata dalla sua stessa passione , cominciò a deperire, rifiutando di nutrirsi e bevendo solamente la brina e le sue lacrime.
    Clizia trascorse il resto dei suoi giorni seduta a terra rivolgendo gli occhi al cielo ad osservare il dio che conduceva il carro del Sole , implorando coi gesti e le parole il perdono del suo amato Apollo che , ignorando la sua presenza , non le rivolse mai piu' neppure uno sguardo .... finché la ninfa si trasformò in un fiore ... quel fiore che segue il movimento del sole nel cielo durante il giorno ..... il girasole.

    Metamorfosi di Ovidio “[…] Illa suum, quamvis radice tenetur,/ vertitur ad Solem, mutataque servat amorem//”,

    ossia “[…] Benché trattenuta dalla radice, essa si volge sempre verso il suo Sole, e anche così trasformata gli serba amore”.

    Ovidio non specifica però di che fiore si tratti : si limita infatti a descriverlo come di colore viola, tanto da venire identificato ora con l’eliotropo :

    ... " Membra ferunt haesisse solo, partemque coloris
    luridus exsangues pallor convertit in herbas;
    est in parte rubor, violaeque simillimus ora
    flos tegit. "
    (Meth., IV, 266-270)


    Saranno i pittori barocchi, a partire dal XVII secolo, a identificare il fiore di Ovidio con il girasole, che per questo motivo ha assunto il significato di incondizionata devozione.

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    PERSEO E ANDROMEDA






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    Racconta Ovidio nelle Metamorfosi ( IV libro ) che l'eroe Perseo volando sopra le terre degli Etiopi vide una bellissima giovane fanciulla incatenata ad uno scoglio.
    La fanciulla era Andromeda figlia del re d'Etiopia Cefeo e della sua sposa Cassiopea.
    La giovane donna scontava una colpa commessa dalla madre Cassiopea che , spinta dalla sua immensa vanità , si era dichiarata più bella delle Nereidi (ninfe del mare). Quest’ultime, capricciose e maligne, offese da tanta presunzione, avevano chiesto vendetta al loro protettore , il dio Poseidone , che aveva inviato in quelle terre, dalle oscure profondità marine, un mostro che devastava tutto ciò in cui si imbatteva.
    Cefeo , padre di Andromeda , consultato l'oracolo di Ammone per sapere che cosa si potesse fare per placare l’ira di Poseidone , ebbe come responso di offrire in sacrificio la figlia Andromeda a quell'orribile creatura marina.
    Perseo, conosciuta la terribile sorte , si offrì di mutare il destino della fanciulla, combattendo il mostro e mettendo quindi fine alla maledizione .
    Perseo volando sopra lo scoglio , in un primo momento scambiò Andromeda , immobile per il terrore ,per una statua di roccia : ma il vento che le scompigliava i capelli e le calde lacrime che le scorrevano sulle guance gli rivelarono la sua natura umana.
    Il cuore di Perseo fu rapito alla vista di quella fragile bellezza in preda all'angoscia e le chiese come si chiamava e perché era incatenata lì. Andromeda, in un primo momento, per timidezza, neanche gli rispose; anche se l'attendeva una morte orribile fra le fauci del mostro, avrebbe preferito nascondere il viso tra le mani se non le avesse avute incatenate a quella roccia.
    Perseo continuò a interrogarla.
    Alla fine, per timore che il suo silenzio potesse essere interpretato come ammissione di colpevolezza, Andromeda inizio' a raccontare la sua storia, che interruppe improvvisamente, lanciando un urlo di terrore alla vista del mostro che, avanzando fra le onde, muoveva verso di lei.
    Allora Perseo, in groppa a Pegaso il cavallo alato, si portò alle spalle del mostro calando dal cielo come un’ombra per tentare di trafiggerlo. Più volte era sul punto di essere sopraffatto dal mostro fino a quando, aperta la sacca, prese la testa di Medusa che , rivolta verso il mostro , lo pietrificò all’istante.

    Sconfitto il mostro marino, Perseo poggiò la testa di Medusa in terra per sciacquarsi le mani; al contatto con il sangue della Gorgone, alcune alghe si pietrificarono trasformandosi in corallo.
    Da quel momento i fondali marini furono deliziati dalla presenza di queste straordinarie creature.

    Cefeo per ringraziare Perseo acconsenti' alle nozze della figlia con l'eroe : Perseo ed Andromeda ebbero molti figli tra cui i più famosi furono Alceo , Elettrione, Stenelo e Gorgofone.

    Alla morte di Perseo, la dea Atena, per onorare la sua gloria, lo trasformò in una costellazione cui pose affianco la sua amata Andromeda e la madre Cassiopea la cui vanità aveva fatto si che i due giovani si incontrassero. Ancor oggi, alzando lo sguardo verso il cielo, possiamo ammirare le tre costellazioni a ricordo della loro vita e soprattutto del grande amore dei due giovani

    .................................

    "Innanzi al grande Drago si volge,
    non molto appariscente nella notte
    di plenilunio, la fatale Cassiopea …
    ed essa si stende così dall'una
    all'altra delle sue piccole spalle
    quant'è lungo un braccio, sì che diresti
    ch'ella si disperi per la sua figliola.
    Perché infatti ivi si ruota altresì
    quella dolorosa figura di Andromeda,
    tutta agghindata di stelle sotto
    lo sguardo della madre."

    Arato, Fenomeni, 188-198


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  5. ZIALAILA
     
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    DEDALO E PERDICE




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    Dedalo, figlio di Eupalamo (o di Eufemio o secondo altri di Mezione), era un uomo dall'ingegno straordinario tanto che si racconta che fosse stato allievo del dio Ermes .
    Godeva di una fama straordinaria in tutto il mondo conosciuto di allora , grazie alle sue abilità di architetto, scultore ed inventore.

    Abitava ad Atene, dove aveva una bottega : molti apprendisti lavoravano con lui e tra questi c'era anche suo nipote Acale , figlio della sorella Policasta.
    Acale, dimostrava una incredibile abilità già a soli dodici anni ed era così geniale che un giorno mentre era sulla spiaggia con i suoi compagni notò una lisca di pesce che gli diede l'idea per costruire una sega con il ferro.
    Furono sue l'invenzione del compasso per disegnare i cerchi , la ruota da vasaio ed altre tanto che Dedalo, preoccupato del fatto che il nipote stesse oscurando la sua fama, decise di ucciderlo.
    Una mattina si recò con Acale sull'Acropoli, sul tetto del Tempio di Atena e lo spinse giù.
    La dea Atena, vista la scena, impietosita per Acale decise di sostenerlo in aria e lo trasformò in pernice da cui gli derivò il nome di Perdice.


    Così Ovidio narra nelle Metamorfosi, VIII, 236-259:
    "Mentre Dedalo riponeva nella tomba il corpo dello sventurato Icaro, una loquace pernice, nascosta tra la sterpaglia fronzuta, lo scorse, e si rallegrò allo spettacolo sbattendo le ali e manifestando la sua allegrezza col canto.
    Questo uccello, mai visto prima di allora, era divenuto tale da poco, perpetuo rimprovero per te, Dedalo.

    (...) Dedalo spinto dall'invidia lo precipitò dalla rocca sacra a Minerva, fingendo una disgrazia. Ma Pallade, protettrice delle arti, ricoprendolo di penne durante la caduta lo sostenne e lo mutò in uccello,. Conservò ancora il suo nome, ma la vigoria del suo ingegno, un tempo pronto, passò nelle ali e nelle zampe.
    Questo uccello non può infatti librare in alto il proprio corpo nè fare il nido tra i rami o su cime elevate; svolazza terra terra, deponendo le uova nelle siepi, e , memore dell'antica caduta, teme i voli troppo alti."

    Dedalo tentò di far credere che Acate fosse caduto accidentalmente ma non fu creduto. Seguì un lungo processo ed alla fine, considerata la sua fama, fu condannato all'esilio.

    Arrivo' a Creta dove si presentò al re Minosse, offrendogli i suoi servizi.
    Il re fu lieto di ospitarlo e iniziò ad affidargli diversi incarichi.


    DEDALO E ICARO



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    Poseidone , dio del mare , aveva inviato a Creta al re Minosse un toro bianco di incredibile bellezza affinchè gli fosse sacrificato .
    Ma Minosse, colpito dalla bellezza del toro, non ebbe cuore di ucciderlo ed in sua vece fece uccidere un altro toro.
    Poseidone, irato dall'affronto subito, fece innamorare follemente Pasifae, moglie di Minosse, del toro bianco.
    La donna, in preda all'amore più cieco, si rivolse a Dedalo affinchè le costruisse una vacca di legno nella quale potersi nascondere per unirsi al toro.
    Dedalo, costruì una vacca tanto somigliante che il toro venne tratto in inganno e si unì a Persifae che si era nascosta all'interno della vacca.
    Da questa unione nacque il Minotauro, essere con la testa di toro ed il corpo di uomo.
    Re Minosse, spaventato ed inorridito da quel bambino con l'aspetto tanto mostruoso, ordinò a Dedalo di costruire un labirinto , in modo che chi vi entrasse, non riuscisse più a ritrovare l'uscita ed al suo interno imprigionò il Minotauro.
    Poichè il Minotauro si cibava di carne umana, Minosse gli forniva periodicamente schiavi e fanciulli ateniesi (che la città era obbligata a fonirgli come tributo in seguito ad una disfatta).

    Avvenne che arrivò a Creta Teseo per combattere il Minotauro : Arianna, figlia del re Minosse e di Parsifae si innamorò del giovane e decise si aiutarlo nell'impresa chiedendo a Dedalo di indicarle un modo per uscire dal labirinto.
    Dedalo le fornì allora un gomitolo di lana che doveva essere svolto mano mano che ci si addentrava nel labirinto. Teseo quindi entrò, uccise il Minotauro e riuscì ad uscirne seguendo a ritroso il gomitolo.
    Una volta fuori dal labirinto, fuggì con Arianna .

    Quando Minosse scoprì che Teseo era riuscito nella sua impresa grazie all'aiuto di Dedalo, imprigionò nel labirinto lo stesso Dedalo assieme a suo figlio Icaro , che aveva avuto da Naucrate, una delle schiave di Minosse.
    Dedalo, dapprima si disperò ma dopo poco tempo ebbe un'idea geniale: costruire due paia di ali per fuggire via dal labirinto. Iniziò così ad intrecciare delle penne saldando le più piccole con della cera.
    Prima di decollare, Dedalo, ordinò a suo figlio di non volare nè troppo alto in quanto il calore del sole avrebbe sciolto la cera che teneva insieme gli intrecci, nè troppo basso in quanto le onde del mare potevano bagnare le ali appesantendole. Ma Icaro, una volta in volo, preso dall'ebbrezza per questa straordinaria esperienza non tenne conto dei consigli paterni e volò così in alto che la cera si sciolse e precitò in mare.
    Dedalo accortosi che il figlio non lo seguiva, ritornò indietro e l'unica cosa che vide furono delle piume che galleggiavano. Recuperato il corpo del figlio, Dedalo lo portò in un'isola vicina che chiamò Icaria, in onore di Icaro.
    Dopo aver seppellito il figlio Dedalo riprese a volare fino a quando decise di fermarsi a Cuma, in Italia, nei pressi di Napoli, dove costruì uno splendido tempio in onore del dio Apollo e ai piedi del quale depose le ali.

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    Così Ovidio narra nelle Metamorfosi, VIII, 183-235 : " (...) Dedalo, annoiato di Creta, e punto dalla nostalgia del luogo natio, non soffrì a lungo la prigionia impostagli,. "Possono precludermi il mare e la terra - disse - ma il cielo è certamente libero: andremo via per di là. Possieda pure Minosse tutto quanto desidera ma non sarà di sicuro padrone dell'aria" Volse allora la mente ad arti fino all'ora sconosciute, e rinnovellò la natura; dispose infatti secondo un dato ordine delle penne, poi, con del filo, fermò le parti di mezzo, fissò quindi con la cera le estremità inferiori e le piegò incurvandole lievemente così da imitare i veri uccelli. (...) Dopo aver dato l'ultimo ritocco al suo lavoro, l'artefice librò il proprio corpo sulle due ali, e restò sospeso nell'aria agitata. Poi istruì il figlio dicendogli: "tieni la via di mezzo o Icaro, ti raccomando; così se andrai basso l'onda appesantirà le penne, se troppo in alto, il sole le brucerà.. Vola tra l'una e l'altra: prendi la strada che io ti mostrerò". (...) E già avevano lasciato sulla sinistra l'isola di Samo, e sorpassate Delo e Paro; a destra era già Lebinto e Calimno feconda di miele.
    Allorchè il giovinetto cominciò a godere dell'audace volo e abbandonò la sua guida; attratto dal desiderio del cielo, tenne un cammino più alto. La vicinanza del cielo ardente rammollì la cera profumata che teneva unite le penne, ed egli, battendo le braccia nude, privo di remeggio, non trovava non trovava appiglio che potesse sostenerlo nell'aria.. La sua bocca mentre invocava il nome del padre, fu chiusa dall'azzurro mare che da lui prese il nome ... il padre infelice ormai non più padre, disse: "Icaro" Icaro, dove sei? in quale luogo ti cercherò, Icaro?" Seguitava a chiamare "Icaro" ma quando vide le penne sparse sulle onde maledisse la sua arte. Poi allestì un sepolcro, dal nome dell'estinto, quella terra fu chiamata Icaria.


    L'eterna aspirazione dell'uomo al volo liberatorio, quello sfidare le leggi della natura per staccarsi dalle angosce della vita terrena e dominarle dall'alto senza più temerle, si è fatta arte nel genio scultoreo di Antonio Canova, autore in giovane età del "Dedalo ed Icaro".

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    Edited by ZIALAILA - 11/6/2011, 15:07
     
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    IO E GIOVE




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    Un giorno Io, sacerdotessa di Era, figlia di Inaco re di Argo e della ninfa Melia, mentre tornava alla casa paterna, incontrò Zeus che le dichiarò il suo amore e le propose di vivere in una casa nel bosco sotto la sua protezione , dove lui sarebbe andato a trovarla ogni qual volta lo desiderasse.
    IO spaventata da quelle parole, fuggì ma Zeus, non volendo rinunciare a lei, la inseguì sotto forma di nube.

    Così Ovidio nelle Metamorfosi I, 588 :

    Giove la vide tornar dal fiume paterno e le disse:
    "Vergine, degna di me, che farai non so chi di tue nozze
    Lieto, va all'ombra di quegli alti boschi - e indicavale l'ombra -,
    Mentre che altissimo il sole risplende nel mezzo del cielo......
    ...che se mai tremi d'entrare da sola nei covi ferini,
    Va pur secura nel fondo del bosco, che un nume d'assiste,
    Nè sono un nume plebeo, ma reggo la scettro del cielo
    Con la gran mano ed i fulmini vibro che strisciano errando

    ...... quando il Tonante, ravvolta la terra di vasta
    Nebbia, nasconde la ninfa, la ferma e le toglie il pudore.

    In quel momento Era, moglie di Zeus, accortasi dall'Olimpo della strana nube che correva veloce e conoscendo il suo sposo capì subito che il prodigio della nube altro non era che Zeus ed immediatamente intuì il tradimento.

    Zeus, avendo avvertito la presenza di Era per proteggere IO la trasformò in una candida giovenca : Il sotterfugio però non ingannò Era che una volta giunta al cospetto del suo sposo, gli chiese di donargli l'animale.
    Zeus era combattuto: negarle il dono significava ammettere il suo tradimento ma concedergliela significava condannare IO ad un triste destino. Alla fine Zeus preferì evitare l'ira della sua sposa e le consegnò la giovenca.

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    Non ancora tranquilla Era preferì affidare la custodia della giovenca ad Argo, gigante dai cento occhi, chiamato dai greci Panoptes (= che vede tutto)

    Da quel momento iniziò per IO una vita terribile: sotto forma di giovenca e in ogni momento controllata da Argo, sia di giorno che di notte, in quanto i suoi cento occhi che non erano posti tutti sul capo ma in ogni parte del suo corpo, si riposavano a turno: mentre cinquanta erano chiusi, gli altri cinquanta vegliavano.


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    Il tempo scorreva triste per la povera IO , costretta di giorno a pascolare e ad abbeverarsi presso fiumi fangosi e di notte ad essere legata con un collare per non scappare via.

    Intanto Zeus che si sentiva colpevole per aver condannato IO ad un così crudele destino, chiamò Ermes, incaricandolo di liberare la fanciulla dalla schiavitù a cui Era l'aveva condannata.

    Il giovane dio, presa la bacchetta d'oro che gli antichi chiamavano caduceo ed il suo leggendario copricapo, dall'Olimpo volò sulla terra e si presentò ad Argo sotto le sembianze di un giovane pastore di capre. Ermes iniziò a suonare uno strumento formato con le canne e la melodia era tanto armoniosa che lo stesso Argo pregò il pastore di pascolare le sue capre presso di lui dicendogli che quello era il miglior pascolo che si potesse trovare in quelle zone. Ermes, a quel punto si sedette al suo fianco ed iniziò a suonare delle dolci melodie che inducevano al sonno chiunque le ascoltasse.

    Ma Argo, che riposava con metà dei suoi occhi, non si addormentava; anzi, chiese ad Ermes come e da chi fosse stato inventato un tale strumento che procurava suoni così soavi ed Ermes, iniziò così a raccontare .....

    Terminato il racconto Ermes si accorse che finalmente tutti i cento occhi di Argo si erano addormentati e quel punto lesto lo uccise gettandolo da una rupe e liberando così la giovane IO.

    Era, accortasi della morte di Argo e vedendo che non poteva più fare nulla per lui, prese i suoi cento occhi e li fissò alla coda di un pavone, animale a lei sacro.

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    Ma le peripezie di IO non erano ancora finite : infatti Era, non potendo sopportare la sua rivale decise di mandarle un tafano a tormentarla con le punture al punto da indurla a gettarsi in mare per a sfuggire a quel supplizio .
    IO dopo aver attraversato a nuoto il mare , che da lei si chiamò Ionio, vagò in Europa ed in Asia ed alla fine approdò in Egitto dove si narra riprese le sembianze umane e generò Epafo, figlio di Zeus.
     
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  7. ZIALAILA
     
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    ATTEONE E DIANA




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    OVIDIO nelle Metamorfosi (III, 138-252) ci racconta della tragica vicenda del giovane Atteone che si ritrovò dopo un’intensa giornata di caccia nella valle chiamata Gargafia, sacra a Diana .
    Qui veniva , accompagnata dalle Ninfe , quand'era stanca di cacciare, la dea delle selve per rinfrescare il suo corpo : giunta, alla ninfa che le fa da scudiera consegnava il giavellotto, la faretra e il suo arco allentato; poi si sfilava la veste che un'altra prendeva sulle braccia; due le toglievano i sandali dai piedi, e la figlia di Ismeno, Cròcale, con maestria in un nodo le raccoglieva i capelli sparsi sul collo, che la Dea al solito portava sciolti.
    Nèfele, Iale, Ranis, Psecas e Fiale attingendo acqua limpidissima con anfore capaci e gliela versavano sul corpo.
    Mentre Diana si bagnava così alla sua solita fonte, ecco che il nipote di Cadmo arrivò : qui , quel giorno ,lo condusse il destino.

    Appena Atteone entrò nella grotta le ninfe, nude com'erano, alla vista di un uomo riempirono il bosco intero di urla incontrollate, poi corsero velocemente a disporsi intorno a Diana per coprirla con i loro corpi; ma, per la sua statura, la dea le sovrastava .
    Ma l’atto fu vano perché il giovane, suo malgrado, contemplò la divinità senza la veste.
    Diana sorpresa senza veste non avendo a portata di mano le sue frecce, come avrebbe voluto, attinse l'acqua che aveva ai piedi e la gettò in faccia all'uomo, inzuppandogli i capelli con quel diluvio di vendetta, e a predire l'imminente sventura, aggiunse: «Ed ora racconta d'avermi vista senza veli, se sei in grado di farlo!»
    Senza altre minacce , silenziosamente , Diana irata , sul capo gocciolante gli impose corna di cervo adulto, gli allungò il collo, gli appuntì in cima le orecchie, gli mutò le mani in piedi, le braccia in lunghe zampe, e gli ammantò il corpo di un vello a chiazze. Gli infuse in più la timidezza.
    Atteone fuggì e mentre fuggiva si stupì d'essere così veloce : poi vide in uno specchio d'acqua il proprio aspetto con le corna e nemmeno un fil di voce gli uscì.
    Emise un gemito animalesco : quella fu la sua voce, e lacrime gli scorsero su quel volto non suo; solo lo spirito di un tempo gli rimase.

    Era stato mutato dall'ira della dea in cervo ...

    E una muta di cani , i suoi stessi cani da caccia , avidi di prede , ora per rupi, anfratti e rocce inaccessibili lo inseguivano. Lui fuggiva , per quei luoghi dove un tempo con gli stessi aveva cacciato , fuggiva dai suoi cani fedeli e avrebbe voluto gridare: «Sono Attèone! Non riconoscete più il vostro padrone?». avrebbe voluto , ma gli mancò la parola.

    E i suoi compagni di caccia intanto aizzavano ignari il branco infuriato e cercavano Attèone con gli occhi, poi, come se fosse lontano, " Attèone " gridavano a gara e si rammaricavano che non fosse con loro , che per pigrizia si perdesse lo spettacolo offerto dalla preda.

    Ma quei cani da ogni parte l'attorniaronoe, affondando le zanne nel corpo, sbranarono il loro padrone sotto il simulacro di un cervo: e l'ira della bellicosa Diana non fu sazia, finché per le innumerevoli ferite Atteone non finì la sua vita.


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