METAMORFOSI

Ovidio

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  1. gheagabry
     
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    OVIDIO








    Publio Ovidio Nasone nacque a Sulmona nel 43 a.C. da famiglia di rango equestre e, giovanissimo, si recò a Roma ove frequentò le migliori scuole di eloquenza e di retorica. Abbandonò tuttavia presto gli studi per dedicarsi alla poesia, sorretto da uno straordinaria facilità a comporre versi (cfr. Tristia IV 10,26). Fece parte del Circolo di Messalla e divenne il poeta alla moda, cantore di una società che, dopo essere uscita dall'incubo dalle guerre civili, assaporava i frutti della pace abbandonandosi al lusso e al consumismo, in palese contraddizione con i programmi di restaurazione morale che costituivano uno dei punti fondamentali del programma di Augusto. Ovidio diede a questa società il prodotto letterario che ne rispecchiava fedelmente i modelli di comportamento e per questo riscosse un successo immediato e strepitoso. Nell'8 d.C., con procedura eccezionale, Ovidio venne relegato da Augusto a Tomi (oggi Costanza), sul Mar Nero, nella Scizia, e nonostante le suppliche sue, della moglie e degli amici, vi rimase fino alla morte avvenuta nel 17 o nel 18 a.C. Sulle vere ragioni dell'esilio, è calata, sin dall'antichità, una fitta e impenetrabile cortina di silenzio e la vicenda di Ovidio costituisce ancora oggi un enigma per la cui soluzione si possono formulare soltanto ipotesi: la più probabile è che Ovidio sia stato più o meno involontariamente complice o per lo meno testimone di qualche grosso scandalo che coinvolse la stessa famiglia imperiale. La produzione di Ovidio è vastissima e comprende varie opere di carattere amoroso come gli Amores , le Heroides, l'Ars Amatoria, i Remedia Amores, di argomento mitologico come le Metamorfosi e i Fasti, di carattere personale come i Tristia e le Epistulae ex Ponto scritte dall'esilio per impietosire Augusto e cercare invano di ottenere la revoca del grave provvedimento.

    Le opere
    “METAMORFOSI”
    Le "Metamorfosi" ("Metamorphoseon libri XV") sono l'opera più importante e impegnativa di Ovidio, il "poema delle trasformazioni", che l'autore iniziò a comporre intorno al 3 d.C., sono in 15 libri di esametri (unica opera, nella sua produzione, scritta in questi versi), contenenti circa 250 miti uniti tra loro dal tema della trasformazione: uomini o creature del mito si mutano in parti della natura, animata e inanimata. Opera in apparenza disorganica e "barocca", frutto quasi di un'obbedienza eccessiva alle norme della "varietas", le "Metamorfosi" rivelano invero la loro unità nella concezione di una natura animata, fatta di miti divenuti materia vivente, partecipe di un tutto che si trasforma: una natura intesa come archivio fremente di storie trascorse, ove è possibile avvertire la presenza di una creatura mitica in un albero, in una fonte, in un sasso. Numerose possono essere considerate le "fonti" ovidiane: raccolte di miti circolavano in repertori che Ovidio deve aver certamente conosciuto; il tema della trasformazione era poi caro alla letteratura alessandrina (basti pensare a Callimaco e a Eratostene, e poi alle "Trasformazioni" di Nicandro di Colofone e di Partenio di Nicea), ma era stato trattato pure nel mondo latino da Emilio Macro e, occasionalmente, dai neoteroi, da Catullo e da Virgilio (nella poesia omerica era poi il modello di ogni trasformazione: quella, operata dalla maga Circe, dei compagni di Ulisse in porci). E tuttavia nuovo è il risultato dell'operazione ovidiana, che si sviluppa all'insegna della più fervida e colorita fantasia, con uno stile e un metro (un esametro insuperabile per musicalità) che con la loro sapientissima "facilità" sembrano mirabilmente accompagnare la perpetua vicenda delle mutazioni e l'illusorietà delle forme, soggette a continui cambiamenti, in una continuità quasi organica che lega l'uomo alla natura. L'opera, così, inizia dalla più antica trasformazione, quella del Chaos primitivo nel cosmo, sino a pervenire alla trasformazione in astro (= "catasterismo") di Cesare divinizzato e alla celebrazione di Augusto, ripercorrendo in tal modo tutte le fasi del mito e della storia universale, attraverso il motivo conduttore della mutazione continua. Il poeta si dichiara convinto, già nei primi versi dell'opera, di comporre un "carmen continuum", un'opera, cioè, profondamente unitaria, anche - come visto - dal punto di vista "cronologico". Significativo, ai fini degli intenti unitari del poeta, è il discorso che, nel XV libro, Ovidio pone sulle labbra di Pitagora, e che contiene una particolare concezione dell'universo, inteso appunto come luogo di eterna trasformazione. Al di là di questa intelaiatura di indole filosofica, al di là delle dichiarazioni stesse del poeta, le "Metamorfosi", nonostante apparenti disuguaglianze strutturali (per cui, mentre alcuni miti sono largamente esplicitati, altri sono di sfuggita accennati in pochi versi), restano tuttavia un poema unitario e di superiore armonia. Il poeta salda, con rara sapienza alessandrina, un episodio all'altro con legami talora sottili, ma efficaci: ora un mito è richiamato per analogia, ora per identità di contenuto, ora per incastro in altro mito che fa da cornice, ora è esposto da un personaggio di altra vicenda. Un racconto scaturisce dall'altro in una dimensione che pare dilatarsi all'infinito. Dominano nell'opera la gioia di narrare, una gioia morbida, perennemente variata ed elegante; una fantasia ora lieve e sfuggente come un sogno, ora corposa e sensuale, che insiste su scenari contemplati nel loro sontuoso rigoglìo o invece immersi in un'atmosfera di fiaba; un'arte plastica che indugia nel ritrarre la spettacolare storia delle mutazioni che il poeta stesso contempla stupefatto, incantato o addolorato per la sofferenza di creature che cambiano, coscienti, il loro aspetto. Il tutto con un acuto senso della provvisorietà, della mutevolezza di ciò che appare ai sensi e che a un tratto si scompone per diventare altro da sé. Della trasformazione, Ovidio mette in risalto ora il carattere repentino ora, ancor più, la lentezza graduale, il persistere talora sofferto dell'antica natura nella nuova. Dell'essere umano, che si trasforma in essere arboreo o inanimato, il poeta avverte l'intimo dolore, la coscienza di divenire altro in una trasmutazione che sembra investire le radici stesse dell'universo. La natura ovidiana appare percorsa dai fremiti arcani delle tante creature d'amore e di dolore che essa cela nel suo grembo. E' qui che il mondo di Ovidio, così in apparenza legato alle forme e alle superfici, ai suoni e ai colori, rivela dimensioni insospettate. Sì, certo, in Ovidio il mito, oltre che umanizzarsi, si atteggia a splendida favola, ad affresco fastoso (gli dèi e gli eroi, scomparsa ogni motivazione religiosa del mito, servono solo ad alimentare la sfarzosa immaginazione del poeta); e tuttavia, specie in alcuni casi, il brillante gioco delle superfici s'accompagna, in singolare simbiosi, a una sensibilità inquieta di creature tormentate, che trovano nel trasformarsi l'unica via d'uscita a una situazione impossibile, a una passione assurda: nel divenire altra cosa rispetto a una realtà divenuta umanamente intollerabile, esse ritrovano finalmente il loro riscatto. Cosi è di Biblide, consumata da folle amore per il fratello Cauno, tramutata dal tanto piangere in fonte; così di Mirra, pazza del padre Cinira, che al termine di una sciagurata vicenda chiede agli dèi di venir trasformata in pianta. Accanto al mito, l'amore è dunque l'altro grande tema del poema, ma non l'amore, fatto di corteggiamenti e galanterie, cantato negli "Amores" e nell' "Ars", bensì l'amore del mito (come già nelle "Heroides"), un amore che conosce un'ampia gamma di modulazioni, dalla passione malata, all'incantamento, alla dedizione generosa, alla fedeltà coniugale: vivido esempio quello di Alcione e Ceice, che solo grazie alla loro trasformazione in uccelli potranno perpetuare per sempre il loro amore coniugale, così come solo la trasformazione in alberi unirà in un vincolo eterno Filemone e Bauci; e in albero d'alloro si trasforma Dafne, la ninfa che Apollo pur continuerà ad amare. Strani, questi amori delle "Metamorfosi", spesso impossibili o abnormi: di Eco, innamorata di Narciso, non resterà che una voce, ma anche Narciso, invaghito di se stesso sino a lasciarsi morire, si ridurrà a un fiore. Sono, in prevalenza, amori fatti sopra tutto di sensazioni, di attrazione per le forme, più che di turbamenti dell'anima: cosi è di Pigmalione, incantato da una statua d'avorio che egli stesso ha scolpito, una statua che sotto le sue mani diviene a poco a poco realtà palpitante di donna viva; cosi è della ninfa Salmacide, che nell'acqua avvinghia con febbrile trasporto le sue membra a quelle dell'amato fanciullo, sino a divenire un'unica, anomala realtà che mai potrà sciogliersi: l'Ermafrodito; così e dell'amore innocente di Piramo e Tisbe, due giovani babilonesi che intensamente si amano, nonostante l'opposizione dei genitori: muoiono entrambi a causa di un tragico equivoco e, per il sangue uscito dai loro corpi, le bacche del gelso (l'albero del loro fatale incontro) da bianche divengono scure. Tutto questo è solo un breve accenno alla costellazione di miti e trasformazioni che puntellano ed impreziosiscono il racconto. Infine, si può deplorare che l'opera non ha potuto avere l'ultima lima del poeta, quando questi subì la condanna. Anzi, essa sarebbe andata perduta (se è vero che Ovidio, in un momento d'ira contro la prosapia d'Augusto da lui pur glorificata, l'aveva gettata alle fiamme), se non fosse stata pubblicata, dietro incarico del poeta stesso da Tomi, a cura d'un amico, che ne possedeva fortunatamente una copia.

    ALTRE OPERE: Ovidio fu uno scrittore particolarmente fecondo; le sue opere sono raggruppabili all'interno di tre cicli:

    OPERE ELEGIACHE: -Amores: tre libri di elegie, che cantano l'amore del poeta per Corinna e altre donne, e raccontano avventure galanti nella cornice della frivola società romana. – Heroides: ventun lettere d'amore immaginarie, scritte da famose donne della mitologia antica ai loro amanti (tre di queste lettere sono accompagnate dalla risposta). – Ars amatoria (o Ars amandi): un “trattato” in tre libri su come conquistare l'amore femminile: si tratta di un vero e proprio codice e galateo dell'amore e della seduzione. – Remedia amoris: è l'antidoto dell'Ars amatoria; in un solo libro Ovidio spiega come evitare le insidie di Cupido, e in che modo liberarsene dopo essere caduti nel tranello d'amore. – Medicamina faciei: testo incompleto (circa 100 versi), dedicato ai cosmetici femminili.



    OPERE EPICO-MITOLOGICHE: - Fasti: in sei libri (il progetto originario ne prevedeva dodici, uno per ogni mese dell'anno), vengono presentate le feste del calendario romano, spiegando le origini sia delle stesse festività sia delle leggende, delle tradizioni e delle usanze civili e religiose.

    OPERE DELL'ESILIO: - Tristia: raccolta di elegie, in cinque libri, dedicate all'amare esperienza dell'esilio e scritte spesso in tono lamentoso e afflitto, nella speranza di ottenere il ritorno a Roma. –Epistulae ex ponto: vero e proprio epistolario, in quattro libri, che comprende lettere sottoforma di elegie, indirizzate ad amici e familiari; vengono affrontati gli stessi temi dell'opera precedente tra disperazione, pianti e suppliche al fine di ottenere il ritorno. - bis: poemetto di trecentoventuno versi, distici e elegiaci, su questo uccello divoratore di rettili. Il modello è l'omonimo poemetto perduto che il poeta alessandrino Callimaco scrisse contro Apollonio Rodio: anche Ovidio si scaglia contro un ignoto amico infedele, augurandogli una serie di sventure.

    STILE
    Con Ovidio, ‘il più mondano' e raffinato poeta latino, si chiude il ciclo della grande elegia romana. Egli portò nella poesia l'anima di una società di disfacimento morale, e con le sue morbide e vellutate maniere ne cantò gli impulsi sfrenati, le galanterie civettuole, ecc. Prodigioso improvvisatore, fine conoscitore dell'animo umano, di quello femminile in particolare e delle avventure d'amore, le esperienze vissute nelle figure mitiche, nelle formulazioni precettistiche. Seppe fare del verso la più fedele espressione dello spirito: agile, ricco di modulazioni, fluente e carezzevole, una musica che incanta è il suo distico, col suo giro compiuto di pensiero, con spontanee cadenze, con accorte dislocazioni delle parti, con eufonìa di incontri sillabici e lessicali. Con Ovidio il distico elegiaco raggiunge il vertice della perfezione tecnica. Il dominio assoluto della lingua consiglia il poeta alla scelta sempre finissima di vocaboli, anche di quelli che egli conia espressamente o rammoderna e rinnova, particolarmente nelle Metamorfosi. La tendenza al colorismo espressivo si manifesta soprattutto nella straordinaria flessibilità del linguaggio. La retorica gli ha insegnato le amplificazioni, gli esornamenti, le strutture raffinate e il lusso fraseologico, le sonorità espressive e l'ènfasi. Per quanto riguarda la produzione Ovidiana, egli, ebbe il dominio assoluto e continuo sulla forma. Siccome senza vanteria riconosceva lui stesso, la espressione del suo pensierosi tramutava subito in opera di poesia. Carattere proprio del suo ingegno è una prodigiosa agilità e facilità. La sua lingua è chiara, scelta, precisa: le parole che egli o innova o conia di suo non hanno stento né stranezza, come affatto spontanee sono le cadenze e le consonanze del suo stile. Il verso è fluido e regolare, e il distico acquista con Ovidio la sua perfetta unità ritmica. Con la poesia di Ovidio siamo lontani dalla classica e vigile compostezza di Orazio e di Virgilio; in Ovidio la vena asiana fluisce libera e abbondante accrescendo la modernità di un poeta che era capace di mantenersi tale pure avendo la foga dell'improvvisatore.


    Frasi Celebri di Ovidio

    Saggezza:
    Diventa lieve il carico a chi sa ben sopportarlo.
    Amore:
    E stupisco se non è questo, quello che si chiama Amore.
    Amore:
    Amore e tosse non si possono nascondere

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    da nonsolobiografie
     
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  2. gheagabry
     
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    METAMORFOSI”




    Le "Metamorfosi" ("Metamorphoseon libri XV") sono l’opera più importante e impegnativa di Ovidio, il "poema delle trasformazioni", che l’autore iniziò a comporre intorno al 3 d.C., sono in 15 libri di esametri (unica opera, nella sua produzione, scritta in questi versi), contenenti circa 250 miti uniti tra loro dal tema della trasformazione: uomini o creature del mito si mutano in parti della natura, animata e inanimata.


    Opera in apparenza disorganica e "barocca", frutto quasi di un'obbedienza eccessiva alle norme della "varietas", le "Metamorfosi" rivelano invero la loro unità nella concezione di una natura animata, fatta di miti divenuti materia vivente, partecipe di un tutto che si trasforma: una natura intesa come archivio fremente di storie trascorse, ove è possibile avvertire la presenza di una creatura mitica in un albero, in una fonte, in un sasso. Numerose possono essere considerate le "fonti" ovidiane: raccolte di miti circolavano in repertori che Ovidio deve aver certamente conosciuto; il tema della trasformazione era poi caro alla letteratura alessandrina (basti pensare a Callimaco e a Eratostene, e poi alle "Trasformazioni" di Nicandro di Colofone e di Partenio di Nicea), ma era stato trattato pure nel mondo latino da Emilio Macro e, occasionalmente, dai neoteroi, da Catullo e da Virgilio (nella poesia omerica era poi il modello di ogni trasformazione: quella, operata dalla maga Circe, dei compagni di Ulisse in porci).

    E tuttavia nuovo è il risultato dell'operazione ovidiana, che si sviluppa all'insegna della più fervida e colorita fantasia, con uno stile e un metro (un esametro insuperabile per musicalità) che con la loro sapientissima "facilità" sembrano mirabilmente accompagnare la perpetua vicenda delle mutazioni e l'illusorietà delle forme, soggette a continui cambiamenti, in una continuità quasi organica che lega l'uomo alla natura. L'opera, così, inizia dalla più antica trasformazione, quella del Chaos primitivo nel cosmo, sino a pervenire alla trasformazione in astro (= "catasterismo") di Cesare divinizzato e alla celebrazione di Augusto, ripercorrendo in tal modo tutte le fasi del mito e della storia universale, attraverso il motivo conduttore della mutazione continua. Il poeta si dichiara convinto, già nei primi versi dell'opera, di comporre un "carmen continuum", un'opera, cioè, profondamente unitaria, anche - come visto - dal punto di vista "cronologico". Significativo, ai fini degli intenti unitari del poeta, è il discorso che, nel XV libro, Ovidio pone sulle labbra di Pitagora, e che contiene una particolare concezione dell'universo, inteso appunto come luogo di eterna trasformazione.

    Al di là di questa intelaiatura di indole filosofica, al di là delle dichiarazioni stesse del poeta, le "Metamorfosi", nonostante apparenti disuguaglianze strutturali (per cui, mentre alcuni miti sono largamente esplicitati, altri sono di sfuggita accennati in pochi versi), restano tuttavia un poema unitario e di superiore armonia. Il poeta salda, con rara sapienza alessandrina, un episodio all'altro con legami talora sottili, ma efficaci: ora un mito è richiamato per analogia, ora per identità di contenuto, ora per incastro in altro mito che fa da cornice, ora è esposto da un personaggio di altra vicenda. Un racconto scaturisce dall'altro in una dimensione che pare dilatarsi all'infinito. Dominano nell'opera la gioia di narrare, una gioia morbida, perennemente variata ed elegante; una fantasia ora lieve e sfuggente come un sogno, ora corposa e sensuale, che insiste su scenari contemplati nel loro sontuoso rigoglìo o invece immersi in un'atmosfera di fiaba; un'arte plastica che indugia nel ritrarre la spettacolare storia delle mutazioni che il poeta stesso contempla stupefatto, incantato o addolorato per la sofferenza di creature che cambiano, coscienti, il loro aspetto.


    Il tutto con un acuto senso della provvisorietà, della mutevolezza di ciò che appare ai sensi e che a un tratto si scompone per diventare altro da sé. Della trasformazione, Ovidio mette in risalto ora il carattere repentino ora, ancor più, la lentezza graduale, il persistere talora sofferto dell'antica natura nella nuova. Dell'essere umano, che si trasforma in essere arboreo o inanimato, il poeta avverte l'intimo dolore, la coscienza di divenire altro in una trasmutazione che sembra investire le radici stesse dell'universo. La natura ovidiana appare percorsa dai fremiti arcani delle tante creature d'amore e di dolore che essa cela nel suo grembo. E’ qui che il mondo di Ovidio, così in apparenza legato alle forme e alle superfici, ai suoni e ai colori, rivela dimensioni insospettate. Sì, certo, in Ovidio il mito, oltre che umanizzarsi, si atteggia a splendida favola, ad affresco fastoso (gli dèi e gli eroi, scomparsa ogni motivazione religiosa del mito, servono solo ad alimentare la sfarzosa immaginazione del poeta); e tuttavia, specie in alcuni casi, il brillante gioco delle superfici s'accompagna, in singolare simbiosi, a una sensibilità inquieta di creature tormentate, che trovano nel trasformarsi l'unica via d'uscita a una situazione impossibile, a una passione assurda: nel divenire altra cosa rispetto a una realtà divenuta umanamente intollerabile, esse ritrovano finalmente il loro riscatto.


    Cosi è di Biblide, consumata da folle amore per il fratello Cauno, tramutata dal tanto piangere in fonte; così di Mirra, pazza del padre Cinira, che al termine di una sciagurata vicenda chiede agli dèi di venir trasformata in pianta. Accanto al mito, l'amore è dunque l'altro grande tema del poema, ma non l'amore, fatto di corteggiamenti e galanterie, cantato negli "Amores" e nell’ "Ars", bensì l'amore del mito (come già nelle "Heroides"), un amore che conosce un'ampia gamma di modulazioni, dalla passione malata, all'incantamento, alla dedizione generosa, alla fedeltà coniugale: vivido esempio quello di Alcione e Ceice, che solo grazie alla loro trasformazione in uccelli potranno perpetuare per sempre il loro amore coniugale, così come solo la trasformazione in alberi unirà in un vincolo eterno Filemone e Bauci; e in albero d'alloro si trasforma Dafne, la ninfa che Apollo pur continuerà ad amare. Strani, questi amori delle "Metamorfosi", spesso impossibili o abnormi: di Eco, innamorata di Narciso, non resterà che una voce, ma anche Narciso, invaghito di se stesso sino a lasciarsi morire, si ridurrà a un fiore. Sono, in prevalenza, amori fatti sopra tutto di sensazioni, di attrazione per le forme, più che di turbamenti dell'anima: cosi è di Pigmalione, incantato da una statua d'avorio che egli stesso ha scolpito, una statua che sotto le sue mani diviene a poco a poco realtà palpitante di donna viva; cosi è della ninfa Salmacide, che nell'acqua avvinghia con febbrile trasporto le sue membra a quelle dell'amato fanciullo, sino a divenire un'unica, anomala realtà che mai potrà sciogliersi: l'Ermafrodito; così e dell'amore innocente di Piramo e Tisbe, due giovani babilonesi che intensamente si amano, nonostante l'opposizione dei genitori: muoiono entrambi a causa di un tragico equivoco e, per il sangue uscito dai loro corpi, le bacche del gelso (l'albero del loro fatale incontro) da bianche divengono scure. Tutto questo è solo un breve accenno alla costellazione di miti e trasformazioni che puntellano ed impreziosiscono il racconto. Infine, si può deplorare che l'opera non ha potuto avere l'ultima lima del poeta, quando questi subì la condanna. Anzi, essa sarebbe andata perduta (se è vero che Ovidio, in un momento d'ira contro la prosapia d'Augusto da lui pur glorificata, l'aveva gettata alle fiamme), se non fosse stata pubblicata, dietro incarico del poeta stesso da Tomi, a cura d'un amico, che ne possedeva fortunatamente una copia.



    Fonte Rifflessioni. wilkipedia
     
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    LA TRADIZIONE DELLE METAMORFOSI
    DI OVIDIO NELLA CULTURA OCCIDENTALE


    di A. Perutelli




    Le Metamorfosi possono essere considerate rappresentazioni di miracoli laici senza provvidenza o guida trascendente. Anche per questo motivo sono giunte fino a noi e costituiscono dei modelli che hanno segnato profondamente l’esperienza dell’uomo occidentale e rappresentano l’angoscia del ventesimo secolo.
    Ovidio aveva concepito la cosiddetta enargeia, tecnica diffusa soprattutto nell’ ekfrasis che si può tradurre con chiarezza visiva.
    L’intento di questo artificio retorico era quello di rendere le immagini con le parole, di tradurre una figura o un’opera d’arte in linguaggio verbale nel modo più evidente possibile.
    In sostanza queste descrizioni, anche se non fanno riferimento ad una dottrina religiosa, sono miracoli spiegati in tutti i particolari, come se il poeta mostrasse esitazione nel presentarli al lettore e cercasse con la sua arte dell’evidenza di tranquillizzare il lettore e persuaderlo del reale accadimento di questi miracoli.
    L’intento persuasivo e didascalico è particolarmente evidente nella prima parte del poema, come se Ovidio esitasse e affrontasse il miracolo con la massima cautela preoccupandosi di renderlo verosimile attraverso il massimo della chiarezza

    Met. I, 550 e segg.

    In frondem crines, in ramos bracchia crescunt;
    pes modo tam velox pigris radicibus haeret,
    ora cacumen habet: remanet nitor unus in illa.

    Non viene detto semplicemente che la ninfa si trasforma in lauro, ma come ciascuna parte del corpo è trasformata in una singola parte dell’albero quasi corrispondente I grandi pittori del Rinascimento hanno colto questa tensione di Ovidio verso l’immagine e hanno riprodotto i miti in tutti i modi possibili.
    Nell’arte figurativa fino all’età contemporanea la metamorfosi è uno dei temi più frequentati da Tiziano, i fiamminghi, Poussain e S. Dalì.
    Il poeta sottolinea che alcuni caratteri sono costanti prima e dopo la metamorfosi, per esempio la lucentezza delle foglie dell’alloro è una qualità persistente…Nitor unus in illa….Ovidio segue anche il criterio dell’economia che consiste nella narrazione delle trasformazioni dei particolari in particolari più simili possibile.
    I capelli sono la parte del corpo di Dafne più simile alle foglie e si trasformano nella parte dell’albero più corrispondente a quella della ninfa. Quando si arriva a precisare che i rami si trasformano in bracchia , Ovidio fa un gioco comprensibile solo al lettore esperto: nella lingua poetica latina i rami degli alberi spesso sono designati con il termine bracchia.
    Questa trasformazione delle bracchia in rami, dunque, non solo è la trasformazione più economica possibile ma si avvale della designazione metaforica "bracchia" per arrivare alla definizione propria"ramos".
    Per inseguire questo suo criterio usa due termini che nella lingua poetica latina sono sinonimici, perché indicano lo stesso referente. Tutti e due designano i rami dell’albero.
    È un messaggio tranquillizzante per il lettore, in quanto pone l’accento non sul mutamento ma sulla persistenza o somiglianza.
    Pianezzola ha precisato che nelle Metamorfosi il prima e il dopo si configurano come una similitudine, perché il mutamento non collega due esseri molto differenti uno dall’altro, ma il più possibile simili uno all’altro.
    Il testo di Ovidio si potrebbe parafrasare con una similitudine. Dafne nella sua corsa è simile ad un albero.

    Petrarca, Canzone 23

    E i duo mi trasformaro in quel ch’io sono,
    facendomi d’uom vivo in lauro verde,
    che per freddda stagion foglia non perde.
    Qual mi fec’io quando primer m’accorsi
    de la trasfigurata mia persona,
    e i capei vidi far di quella fronde
    di che sperato aveva già lor corona,
    e i piedi in ch’io mi stetti, et mossi, et corsi,
    com’ogni membro a l’anima risponde,
    diventar duo radici sovra l’onde
    non di Peneo, ma d’un più altero fiume,
    e n’ duo rami mutarsi ambe le braccia!

    Petrarca era innamorato soprattutto di una metamorfosi, quella in cui Dafne si trasforma in lauro. Egli amava Laura e voleva trasformarsi in lauro. In questa canzone descrive il suo innamoramento.
    Sono evidentissimi i riferimenti ad Ovidio.
    È tuttavia necessaria la comprensione delle differenze: il testo di Ovidio giunge alla descrizione complessiva della trasformazione di un essere in un altro con molta cautela, indicando le singole parti. Petrarca, invece, parla della trasformazione dell’intera sua persona, che precede la descrizione dei singoli particolari; si può capire, quindi, il diverso significato che il poeta vuole attribuire alla stessa immagine di Dafne. La usa con un intento opposto e segue il criterio dell’accentuazione della trasformazione dell’intera sua persona nel momento in cui ha incontrato l’amore e la sua donna. Nell’enfasi con la quale descrive il suo amore sottolinea la diversità rispetto al suo stato precedente e specifica la trasfigurazione con tutte le connotazioni che questo termine assume nella cultura del tempo.

    Garcilaso de la Vega, Sonetto 13

    A Dafne ya los brazos le crecían
    Y en luengos ramos vueltos se mostraban;
    en verdes hojas vi que se tornaban
    los cabellos qu’el oro escurecian;

    de aspera corteza se cubrian
    los tiernos miembros que aun bullendo ‘staban;
    los blancos pies en tierra se hincaban
    y en torcidas raíces se volvían.

    Aquel que fue la causa de tal daño,
    a fuerza de llorar, crecer hacía
    este arbol, que con lagrimas regaba.

    Oh miserable estado, oh mal tamaño,
    que con llorarla crezca cada día
    la causa y la razón por que lloraba!

    Garcilaso fu un cavaliere spagnolo, uno spadaccino alla corte di CarloV nel periodo di massimo splendore; nel 1526 la sua vita subì una svolta allorquando giunse alla corte di Castiglia Isabella, sposa di Carlo V, seguita da una dama di compagnia che conquistò il cuore del guerriero e letterato. Fu un grande amore infelice mai ricambiato.
    Nel sonetto c’è un gioco coloristico che manca nel modello; ci sono dei contrasti di colore che presuppongono un’ influenza dall’arte figurativa, in particolare forse del quadro di Pollaiolo.
    Garcilaso vuole descrivere soprattutto un amore infelice, una sofferenza, un dolore. Diverso è l’intento di Ovidio, evidente ai versi 556-557: qui Febo tacque e l’alloro annuì con rami appena formati e agitò la cima quasi assentisse col capo. Il poeta ricerca la composizione del contrasto doloroso che si era determinato fra Apollo che desiderava conquistare Dafne e la ninfa che voleva fuggire. Il conflitto viene, invece, enfatizzato da Garcilaso; la metamorfosi perde la sua funzione conciliatrice e diventa un dolore ancora più lacerante.
    Piramo e Tisbe, i protagonisti di una metamorfosi del IV libro, sono due giovani cresciuti insieme e uniti da un amore contrastato dalle famiglie.
    Costretti a vedersi di nascosto, i due comunicano attraverso una fessura del muro delle rispettive case, finché decidono di fuggire insieme e darsi appuntamento sotto un albero. Tisbe, giunta per prima, viene assalita da una leonessa che aveva appena consumato un pasto feroce ed era sporca di sangue. Tisbe fuggendo lascia cadere un indumento che viene macchiato del sangue della vittima della leonessa. Quando Piramo giunge sul luogo vede la fiera e scorge le macchie di sangue sull’abito di Tisbe; ritiene, dunque, che la sua amata sia stata sbranata e senza esitazione si uccide.
    Tisbe, ritornata al luogo dell’appuntamento, trova Piramo agonizzante e anche lei decide di morire. Il racconto si conclude con un aition dell’arbusto che cambia il colore dei suoi frutti.
    Il "Sogno di una notte di mezza estate" di Shakespeare è caratterizzato da una vicenda tumultuosa popolata da figure misteriose o magiche e da un inseguimento tra amati e amanti che ricorda molto l’Orlando Furioso.
    Questa commedia ha, nell’ultima sua parte, un finale sorprendente perché proprio nel mezzo della soluzione che si svolge davanti al re Teseo, con un gesto metateatrale frequente in Shakespeare, viene rappresentata un’altra commedia che s’intitola Piramo e Tisbe : c’è un personaggio che cerca di recitarla ma viene dileggiato e interrotto dagli altri. Gli interpreti dicono che tale conclusione alluda all’introduzione iniziale secondo una struttura circolare.
    La commedia è databile intorno al 1593-1595. Sono questi gli anni in cui Shakespeare compone "Romeo e Giulietta" , tragedia molto simile a Piramo e Tisbe, il cui modello è presente nella novellistica italiana ma risale ad Ovidio; Shakespeare, che conosceva alla perfezione le Metamorfosi , nel Sogno di una notte di mezza estate ha voluto sciogliere nello stile comico il modello di una delle sue tragedie più riuscite.

     
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  4. ZIALAILA
     
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    IL MITO DI NARCISO


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    Narciso - narra Ovidio nelle Metamorfosi - nasce da Liriope, la ninfa di fonte che, per la sua bellezza, fu rapita dal dio fluviale Cefiso, che l’avviluppò nelle sue tortuose correnti.
    Figlio delle acque, egli è un giovane di straordinaria bellezza, cui Tiresia, il veggente, ha previsto lunga vita solo a condizione che "non conosca se stesso" (ironico rovesciamento del più famoso "conosci te stesso") .
    A sedici anni poteva contare già numerosi amanti, tutti respinti, di entrambi i sessi. Un giorno, mentre è a caccia di cervi in una foresta, domanda a gran voce se ci sia qualcuno lì. La ninfa Eco, che si è innamorata di lui e lo segue di nascosto, ripetendo le sue ultime parole gli risponde e tenta il desiderato abbraccio, ma egli la respinge prontamente.
    Si narra che della bella ninfa non siano rimaste che le sole ossa, tramutate in sassi, e la voce tutt'ora vagante in valli solitarie.
    Ma qualcuno degli amanti respinti chiede vendetta al cielo.
    Interviene la dea Nemesi a far sì che anche Narciso sia privato dell’abbraccio di colui che ama.
    Accade infatti che, assetato, Narciso si affacci ad una sorgente: lì scorge la propria immagine e se ne innamora irrimediabilmente. Sulle prime non riconosce se stesso, poi giunge la verità: "Io sono te". Struggendosi d’amore per quello che oramai sa essere se stesso, Narciso si lascia morire. Quando cercano di dargli degna sepoltura coloro che lo amano scoprono, nel punto in cui il giovane è scomparso, un bellissimo fiore dai petali bianchi orlati di color zafferano.

    La lettura più comune del mito ne ha colto l’aspetto propriamente psichico, di investimento pulsionale, per cui Narciso è diventato simbolo di un atteggiamento dell’Io che sa amare esclusivamente se stesso, il proprio corpo, escludendosi totalmente dal resto del mondo. Da questa lettura nasce lo studio psicanalitico della sindrome di Narciso.

     
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    IL MITO DELL'ERMAFRODITO

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    Ovidio racconta il mito della ninfa Salmacide , che, in una fontana presso Alicarnasso, si avvinghia al corpo del giovinetto amato per non esserne mai più separata, dando luogo ad una nuova creatura, l'Ermafrodito appunto: nella fiaba la metamorfosi appare come l'esito di una situazione reale senza sbocco, l'esito di una intollerabile separazione.
    Narra dunque Ovidio (Metamorfosi, IV) di questo giovinetto, allevato dalle Naiadi, "cuius erat facies, in qua materque paterque cognosci
    possent; nomen quoque traxit ab illis."(vv 290-291)
    che aveva un aspetto così bello, che potevano esservi riconosciuti il padre e la madre, e che trasse anche il nome da loro ( Ermafrodito dal greco Hermaphròditos, figlio di Hermès e Aphrodites).
    A quindici anni, abbandonati i monti natii, presso uno specchio d'acqua nel paese dei Cari, venne scorto dalla ninfa Salmacide :
    "puerum vidit visumque optavit habere" (v 316).
    Il giovane ignaro dell'amore rifiutò le esplicite richieste della ninfa che, infiammata d'amore, si gettò a sua volta nelle acque in cui il giovinetto si era immerso, avvinghiandosi strettamente a lui e, abbarbicata come l'edera al tronco, malgrado la resistenza di lui, pregò gli dei di non essere mai separata dall'amato:
    "...et istum nulla dies a me nec me deducat ab isto." (vv 372-73). Accolsero gli dei i suoi voti: i due corpi uniti si fusero, annullandosi in un'unica figura:
    "vota suos habuere deos; nam mixta duorum corpora iunguntur, faciesque inducitur illis una. ( vv 374-76) " nec duo sunt et forma duplex, nec femina dici nec puer ut possit, neutrumque et utrumque videntur".(vv 378-379)
    Così non furono più due, ma un essere ambiguo nè donna nè uomo, con l'aspetto di ambedue e di nessuno dei due.
    Ermafrodito è un essere nuovo dalla doppia natura insieme maschile e femminile.

    Il mito di Ermafrodito, col suo "bifrontismo invisibile", potrebbe esprimere un conflitto tra la parte femminile e quella maschile dell'essere umano, e nello stesso tempo potrebbe indicare la fusione e la strada per il superamento della dissociazione e l'acquisita capacità di comprendere l'altro da sé, tramite l'introspezione.
    Ecco quindi Ermafrodito come visione positiva e appagante del doppio: tramite la conoscenza di sé si può essere in grado di comprendere se stessi e anche gli altri.



     
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    IL MITO DI DAFNE




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    Dafne, figlia di Gea, la Madre Terra e del fiume Peneo (o secondo altri del fiume Lacone), era una giovane ninfa che viveva serena passando il suo tempo a deliziarsi della quiete dei boschi e del piacere della caccia . La sua i vita fu stravolta dal capriccio di due divinità: Apollo ed Eros. Racconta infatti la leggenda che un giorno Apollo, fiero di avere ucciso a colpi di freccia il gigantesco serpente Pitone alla tenera età di soli quattro giorni, incontra Eros intento a forgiare un nuovo arco e si burla di lui, del fatto che non avesse mai compiuto delle azioni degne di gloria.

    Il dio dell’amore, profondamente ferito dalle parole di Apollo, volò in cima al monte Parnaso e lì preparò la sua vendetta: prese due frecce, una spuntata e di piombo, destinata a respingere l'amore, che lanciò nel cuore di Dafne ed un'altra ben acuminata e dorata, destinata a far nascere la passione, che scagliò con violenza nel cuore di Apollo.

    Da quel giorno Apollo iniziò a vagare disperatamente per i boschi alla ricerca della ninfa, perchè era talmente grande la passione che ardeva nel suo cuore che ogni minuto lontano da lei era una tremenda sofferenza. Alla fine riuscì a trovarla ma Dafne appena lo vide, scappò impaurita e a nulla valsero le suppliche del dio che le gridava il suo amore e le sue origini divine per cercare di impressionare la giovane fanciulla.


    Dafne, terrorizzata, scappava tra i boschi. Accortasi però che la sua corsa era vana, in quanto Apollo la incalzava sempre più da vicino, invocò la Madre Terra di aiutarla e questa, impietosita dalle richieste della figlia, inziò a rallentare la sua corsa fino a fermarla e contemporaneamente a trasformare il suo corpo: i suoi capelli si mutarono in rami ricchi di foglie; le sue braccia si sollevarono verso il cielo diventando flessibili rami; il suo corpo sinuoso si ricoprì di tenera corteccia; i suoi delicati piedi si tramutarono in robuste radici ed il suo delicato volto svaniva tra le fronde dell'albero.

    Dafne si era trasformata in un leggiadro e forte albero che prese il nome di LAURO


    La trasformazione era avvenuta sotto gli occhi di Apollo che disperato, abbracciava il tronco nella speranza di riuscire a ritrovare la dolce Dafne.

    Scrive Ovidio nelle Metamorfosi (I, 555-559): "Apollo l'ama, e abbraccia la pianta come se fosse il corpo della ninfa; ne bacia i rami, ma l'albero sembra ribellarsi a quei baci. Allora il dio deluso così le dice:"Poichè tu non puoi essere mia sposa, sarai almeno l'albero mio: di te sempre, o lauro, saranno ornati i miei capelli, la mia cetra, la mia faretra".

    Il dio quindi proclamò a gran voce che la pianta dell'alloro sarebbe stata sacra al suo culto e segno di gloria da porsi sul capo dei vincitori.


    Così ancor oggi, in ricordo di Dafne, si è soliti cingere il capo di coloro che compiono imprese memorabili, con una corona di alloro.
     
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    IL MITO DI SCILLA E CARIDDI



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    Le due donne sono state vittime di fatti atroci e destinate al controllo delle sponde dello stretto, con l'intento di ostacolare il passaggio ai naviganti.Per i greci impersonano le forze distruttrici del mare. Queste due divinità, localizzate tra le due rive dello stretto di Messina, rappresentano i pericoli del mare.


    Nelle storie che ci sono state tramandate si narra che presso l'attuale città di Reggio Calabria, vivesse un tempo la bellissima ninfa Scilla, figlia di Tifone ed Echidna (o secondo altri di Forco e di Crateis).
    Scilla, cui la natura aveva fatto dono di una incredibile grazia, era solita recarsi presso gli scogli di Zancle, per passeggiare a piedi nudi sulla spiaggia e fare il bagno nelle acque limpide del mar Tirreno. Una sera, mentre era sdraiata sulla sabbia, sentì un rumore provenire dal mare e notò un'onda dirigersi verso di lei. Impietrita dalla paura, vide apparire dai flutti un essere metà uomo e metà pesce dal corpo azzurro con il volto incorniciato da una folta barba verde ed i capelli, lunghi sino alle spalle, pieni di frammenti di alghe. Era un dio marino che un tempo era stato un pescatore di nome Glauco che un prodigio aveva trasformato in un essere di natura divina.
    Scilla, terrorizzata alla sua vista perchè non capiva di che tipo di creatura si trattasse, si rifugiò sulla vetta di un monte che sorgeva nelle vicinanze. Il dio marino, vista la reazione della ninfa, iniziò ad urlarle il suo amore e a raccontarle la sua storia
    Scilla, dopo aver ascoltato il racconto di Glauco, noncurante del suo dolore, andò via lasciandolo solo e disperato. Allora Glauco pensò di recarsi all'isola di Eea dove sorgeva il palazzo della maga Circe sperando che potesse fare un sortilegio per far innamorare Scilla di lui. Circe, dopo che Glauco ebbe raccontato il suo amore lo ammonì duramente, ricordandogli che era un dio e pertanto non aveva bisogno di implorare una donna mortale per farsi amare e per dimostrargli quanto lui si sbagliasse a considerarsi sfortunato, gli propose di unirsi a lei. Ma Glauco si rifiutò di tradire il suo amore per Scilla e lo fece in modo così appassionato che Circe, furiosa per essere stata rifiutata a causa di una mortale, decise di vendicarsi.
    Non appena Glauco se ne fu andato, preparò un filtro e si recò presso la spiaggia di Zancle, dove Scilla era solita recarsi. Versò il filtro nel mare e ritornò quindi alla sua dimora. Quando Scilla arrivò, accaldata dalla grande afa della giornata, decise di immergersi nelle acque limpide. Ma, dopo essersi bagnata, vide intorno a se mostruose teste di cane, rabbiose e ringhianti. Spaventata cercò di scacciarle ma, una volta fuori dall'acqua, si accorse che quei musi erano attaccati alle sue gambe tramite un lungo collo serpentino. Si rese allora conto che sino ai fianchi era ancora una ninfa ma dai fianchi in giù spuntavano sei teste feroci di cane, ognuna con tre file di denti aguzzi
    Fu tale l'orrore che Scilla ebbe di se stessa che si gettò in mare e prese dimora nella cavità di uno scoglio di fronte alla grotta dove abitava Cariddi.
    Cariddi, che significa vortice era figlia di Forco (o di Poseidone) e di Gea e fu punita per avere rubato ad Eracle i buoi di Gerione . Zeus la fulminò e la tramutò in un terribile mostro marino destinandola ad ingoiare e a rigettare tre volte al giorno l'acqua del mare.

    Per questo motivo, nell'antichità, tutti i naviganti stavano lontani da questi luoghi, tutti tranne il mitico Ulisse che spinto dalla sua proverbiale curiosità si mise dei tappi di cera nelle orecchie e si fece legare dai suoi compagni all'albero della sua nave per non ascoltare il canto delle sirene che affollavano questi mari e per vedere in faccia i due mostri.





     
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  13. ZIALAILA
     
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    IL MITO DI CALLISTO ovvero della costellazione dell'orsa

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    Callisto -dal greco bellissima - era una ninfa al servizio della dea Artemide . Zeus se ne innamorò e la sedusse .Per averla si narra che Zeus si travestì da Artemide o secondo altre versioni con le sembianze di Apollo.

    Dopo qualche tempo, Callisto insieme ad Artemide e alle altre ninfee si riposarono dopo una battuta di caccia e decisero di farsi un bagno rigenerante. Callisto dapprima ritrosa si spogliò e Artemide scoprì allora il tradimento di Callisto.
    Artemide la scacciò e la trasformò in un´orsa o secondo un´altra versione Callisto fu trasformata in un´orsa da Era, la moglie di Zeus per vendicarsi del tradimento del consorte.

    da Ovidio : "Così disse, e l´affrontò e l´afferrò davanti per i capelli e la gettò a terra bocconi. Quella tendeva le braccia implorando pietà: le braccia cominciarono a farsi ispide di nero pelame, e le mani a curvarsi e ad allungarsi in adunchi unghioni e a fungere da piedi, e il viso prima ammirato da Giove a deformarsi in un largo ceffo; e perché non commuovesse nessuno con suppliche e preghiere, le fu tolto il dono della parola: dalla gola roca esce un suono iracondo e minaccioso che incute paura" (Ovidio "Le metamorfosi" Libro II).


    Da quell'unione nacque Arcade. Gli anni passarono e avvenne che Arcade, divenuto ormai un uomo, vagasse per il bosco a caccia di selvaggina.
    A questo punto la morte dell´orsa Callisto ha più versioni. Una ci narra che ad uccidere Callisto sia stata Artemide stessa su suggerimento di Era, un´altra versione vede invece nel figlio Arcade ll´uccisore della madre : Arcade, divenuto ormai un uomo, vagava per il bosco a caccia di selvaggina e tra i fitti rami scoprì l'orsa e , non sapendo della sua vera identità, si apprestò a colpirla.
    Zeus, allora, per evitare il matricidio, trasformò il giovane in un orso ed entrambi, madre e figlio, furono trasportati in cielo dove divennero costellazioni col nome di Orsa Maggiore ed Orsa Minore.
    Zeus decise di collocarli in cielo e di porli vicino al Polo Celeste, dove le stelle non tramontano mai, per non perderli di vista durante la notte.
    Non ancora appagata, Era chiese a Teti che l’Orsa non si bagnasse nelle acque del mare e non le toccasse, a perenne ricordo dello spergiuro. Ed è per questo, conclude Ovidio, che la costellazione dell’Orsa non tramonta mai. Essa è, infatti, circumpolare, ossia descrive nel cielo una circonferenza centrata nel polo celeste


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