METAMORFOSI

Ovidio

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  1. ZIALAILA
     
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    IL MITO DI ARACNE




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    Aracne, figlia del tintore Idmone, era una fanciulla che viveva nella città di Colofone, nella Lidia, famosa per la sua porpora. Era molto conosciuta per la sua abilità di tessitrice e ricamatrice in quanto le sue tele erano considerate un dono del cielo tanto erano piene di grazia e delicatezza e le persone arrivavano da ogni parte del regno per ammirarle.

    Aracne era molto orgogliosa della sua bravura tanto che un giorno ebbe l'imprudenza di affermare che neanche l'abile Atena, anche lei famosa per la sua abilità di tessitrice, sarebbe stata in grado di competere con lei tanto che ebbe l'audacia di sfidare la stessa dea in una pubblica gara.


    ATENA non appena apprese la notizia, fu sopraffatta dall'ira e si presentò ad Aracne sotto le spoglie di una vecchia suggerendo alla stessa di ritirare la sfida e di accontentarsi di essere la migliore tessitrice tra i mortali. Per tutta risposta Aracne disse che se la dea non accettava la sfida era perchè non aveva il coraggio di competere con lei. A quel punto Atena si rivelò in tutta la sua grandezza e dichiarò aperta la sfida.

    Una di fronte all'altra Atena ed Aracne iniziarono a tessere le loro tele e via via che le matasse si dipanavano apparivano le scene che le stesse avevano deciso di rappresentare: Atena ricamò scene sulla maestà degli dei, incorniciate da quattro sconfitte umane, mentre Aracne rappresentò i momenti più disonorevoli per gli dei, che si trasformavano in animali per ottenere le loro conquiste. Nonostante il lavoro della giovane lidia fosse perfetto, Atena montò in collera per l'insulto rappresentato dalla scelta dei temi e la stessa Atena dovette ammettere che il lavoro della sua rivale non aveva eguali: i personaggi che erano rappresentati sembrava che balzassero fuori dalla tela per compiere le imprese rappresentate. Atena, non tollerando l'evidente sconfitta, afferrò la tela della rivale riducendola in mille pezzi e tenendo stretta la spola nella mano, iniziò a colpire la sua rivale fino a farla sanguinare.

    Aracne, sconvolta dalla reazione della dea, scappò via e tentò di suicidarsi cercando di impiccarsi ad un albero. Ma Atena, pensando che quello fosse un castigo troppo blando, decise di condannare Aracne a tessere per il resto dei suoi giorni e a dondolare dallo stesso albero dal quale voleva uccidersi ma non avrebbe più filato con le mani ma con la bocca perchè fu trasformata in un gigantesco ragno.



    Racconta Ovidio (Metamorfosi, IV, 23 e segg.): " (...) Accetta Minerva la sfida ... la dea dai biondi capelli si corrucciò del felice successo e stracciò la trapunta tela che scopre le colpe dei numi e colpì con la spola di citoriaco bosso più volte la fronte di Aracne. Non lo patì l'infelice: furente si strinse la gola con un capestro e restò penzoloni. Atena, commossa, la liberò, ma le disse: - Pur vivi o malvagia, e pendendo com'ora pendi. E perchè ti tormenti nel tempo futuro, per la tua stirpe continui il castigo e pei tardi nepoti -. Poscia partendo la spruzza con sughi di magiche erbette: subito il crime toccato dal medicamento funesto cadde e col crine le caddero il naso e gli orecchi: divenne piccolo il capo e per tutte le membra si rimpicciolisce: l'esili dita s'attaccano, invece dei piedi, nei fianchi: ventre è quel tanto che resta, da cui vien traendo gli stami e, trasformata in un ragno, contesse la tela di un tempo" .

    Scrive Dante Alighieri (Purgatorio, XII, 43-45):
    O folle Aragne, sì vedea io te
    Già mezza ragna, trista in su li stracci
    De l'opera che mal per te si fé.

    Ancor oggi, quando si vede un ragno tessere la sua tela, si ripensa alla sorte toccata alla tessitrice della Lidia condannata per il resto della sua vita a quel triste destino perchè aveva osato essere più abile di una dea.



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    IL MITO DI ORFEO E EURIDICE



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    Orfeo è noto per l' impresa che lo fece scendere nell'Ade
    per cercare di riportare in vita la sua sposa, Euridice.
    Egli infatti amò in tutta la sua vita una sola donna:
    Euridice.
    Il destino però non aveva previsto per loro
    un amore duraturo. Infatti un giorno la bellezza di Euridice
    fece ardere il cuore di Aristeo che si innamorò di lei e cercò
    di sedurla. La fanciulla per sfuggire alle sue insistenze si mise
    a correre ma ebbe la sfortuna di calpestare un serpente nascosto
    nell'erba che la morsicò, provocandole la morte istantanea.
    Orfeo, impazzito dal dolore e non riuscendo a concepire la
    propria vita senza la sua sposa decise di scendere nell'Ade
    per cercare di strapparla dal regno dei morti. Convinse
    Caronte a traghettarlo sull'altra riva dello Stige e circondato
    da anime dannate che tentavano in tutti i modi di ghermirlo,
    giunse alla presenza di Ade e Persefone.
    Una volta giunto al loro cospetto, Orfeo iniziò a cantare la sua disperazione e
    solitudine e nel suo canto mise tanta abilità e tutto il suo dolore che gli stessi signori
    degli inferi si commossero; le Erinni piansero; la ruota di Issione si fermò ed i perfidi avvoltoi che
    divoravano il fegato di Tizio non ebbero il coraggio di continuare nel loro macabro compito.
    Anche Tantalo dimenticò la sua sete e per la prima volta nell'oltretomba si conobbe la pietà
    come narra Ovidio nella Metamorfosi (X, 41-60).

    Fu così che fu concesso ad Orfeo di ricondurre Euridice nel regno dei vivi a condizione
    che durante il viaggio verso la terra non si voltasse a guardarla in viso fino a quando non
    fossero giunti alla luce del sole.
    Orfeo, presa così per mano la sua sposa iniziò il suo cammino verso la luce ma durante il viaggio,
    un sospetto cominciò a farsi strada nella sua mente pensando di condurre per mano un'ombra e
    non Euridice. Dimenticando così la promessa fatta si voltò a guardarla ma nello stesso istante
    in cui i suoi occhi si posarono sul suo volto Euridice svanì ed Orfeo assistette impotente alla
    sua morte per la seconda volta .

    Narra Ovidio nelle Metamoforsi (X, 61-63)
    Ed Ella, morendo per la seconda volta, non si lamentò; e di che cosa avrebbe infatti dovuto

    lagnarsi se non d'essere troppo amata? Porse al marito l'estremo addio, che Orfeo a stento

    riuscì ad afferrare, e ripiombò di nuovo nel luogo donde s'era mossa"

    Invano Orfeo per sette giorni cercò di convincere Caronte a condurlo nuovamente alla presenza del signore degli inferi ma questi per tutta risposta lo ricacciò alla luce della vita.
    Si rifugiò allora Orfeo sul monte Rodope, in Tracia trascorrendo il tempo in solitudine e
    nella disperazione. Riceveva solo uomini e ragazzi che istruiva all'astinenza e sull'origine del
    mondo e degli dei. Molte donne tentavano di catturare il suo cuore e tra queste alcune Baccanti.
    Quest'ultime, irate dalla sua indifferenza e istigate da Dioniso per la mancanza di devozione
    che Orfeo aveva nei suoi confronti, decisero di ucciderlo
    Arrivato il momento stabilito, si scagliarono contro di lui con furia selvaggia, lo fecero a pezzi e
    sparsero le sue membra per la campagna gettando la testa nell' Ebro

    Le pietre, le selve, gli uccelli piansero la morte del meraviglioso cantore e tutte le ninfe
    indossarono una veste nera in segno di lutto. Le Muse piangenti raccolsero le membra
    di Orfeo e le seppellirono ai piedi del monte Olimpo, là dove ancor oggi il canto degli
    usignoli è più dolce che in qualunque parte del mondo.
    Poichè il delitto delle Baccanti era rimasto impunito, gli dei colpirono la Tracia con
    una terribile pestilenza. L'oracolo, consultato dalla popolazione su come porre fine
    a tanta tragedia, rispose che per farla cessare, era necessario ricercare la testa di
    Orfeo e rendere al cantore gli onori funebri. Il suo capo reciso fu così trovato da
    un pescatore presso la foce del Melete e fu deposta nella grotta di Antissa. In quel luogo
    la testa di Orfeo iniziò a profetizzare finchè Apollo, vedendo che i suoi oracoli di Delfi,
    Grinio e Claro non erano più ascoltati, si recò alla grotta e gridò alla testa di Orfeo
    di smettere di interferire con il suo culto. Da quel giorno la testa tacque per sempre.

    Apollo, per onorare Orfeo, decise di porre la sua immagine nel cielo che divenne la
    costellazione della Lira.











     
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    IL MITO DI PIGMALIONE




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    Il mito di Pigmalione, uno dei più raffinati narrati nelle Metamorfodi di Ovidio narra la storia di un re artista che si invaghì follemente di una statua di donna da lui scolpita

    Pigmalione, re di Cipro, era anche uno scultore e aveva modellato una statua femminile, nuda e d’avorio, che egli stesso aveva chiamato Galatea (dal greco gala, galaktos, latte), della quale si era innamorato considerandola, come tutti gli innamorati, il proprio ideale femminile, superiore a qualunque donna, anche in carne e ossa, tanto da dormire accanto ad essa sperando che un giorno si animasse.
    Pigmalione è preso dall’immagine di quel corpo e contemplandolo concepisce una passione ardente : la bacia e gli sembra di essere baciato, le parla, la stringe e crede che le sue dita affondino nelle membra che tocca , teme perfino che per la pressione spuntino dei lividi sulla pelle
    Il giorno della festa di Venere anche Pigmalione porta il suo dono e davanti al suo altare si ferma sussurrando timidamente: "O dèi, se è vero che voi potete concedere tutto, io ho un desiderio: vorrei che Galatea fosse mia sposa " .
    Venere, che ascolta la supplica decide di concedere la sua benevolenza.
    Quando Pigmalione torna a casa, nell’accarezzare la statua sente sotto le sue dita che la pelle della statua prende calore, nelle sue membra inizia a scorrere il sangue e la donna prende vita sotto il tocco delle sue carezze.

    Finalmente‚ il sogno d’amore si era realizzato. I due si sposarono ed ella diede alla luce Pafo, che successe a Pigmalione e fu il padre di Cinira, il quale fondò a Cipro la città di Pafo e vi costruì il famoso tempio in onore di Venere.

    Ovidio descrisse così, secondo il tema del suo scritto, la metamorfosi di un essere inanimato, ma alla base del mito non vi è la banale adorazione di un idolo, ma la dedizione dell’artista al prodotto della sua arte che si spinge fino alla immedesimazione e al congiungimento con esso, ottenuto attraverso la ricerca di Afrodite, cioè della bellezza e dell’amore.

     
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  10. ZIALAILA
     
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    IL MITO DI FETONTE




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    Un giorno accadde che il dio Febo Apollo, durante la sua quotidiana traversata del cielo da est a ovest per dare la luce alla Terra, si imbatté nella straordinaria bellezza della regina Climene e desiderò amarla. Anche la donna rimase rapita al cospetto del dio e fu così che Febo Apollo e la regina etiope si amarono e dal loro amore nacquero le Eliadi e Fetonte.
    Fetonte aveva come amico un altro figlio divino, Epafo e fu proprio una battuta del coetaneo la scintilla che avrebbe scatenato l’imminente putiferio. Epafo infatti tacciò Fetonte di ingenuità e presunzione per la sua ostentazione di essere il figlio di un dio che non aveva in realtà mai visto e che per di più sosteneva essere il magnifico Febo Apollo.
    Fetonte corse dalla madre e in preda a rabbia mista a disperazione, la supplicò di dargli un segno affinché avesse la certezza di essere figlio di un dio.
    La madre gli rispose : " vai e informati da lui direttamente" .
    Fetonte non indugiò e si mise in viaggio finchè giunse alle porte della colossale e altissima residenza di Apollo.
    Fetonte venne condotto al cospetto del dio
    Apollo era fiero di essere il padre di Fetonte che era il simbolo dell’amore che lo univa a Climene, e non gli avrebbe negato nulla pur di tranquillizzare il figlio in merito alla sua discendenza.
    Il ragazzo aveva un solo desiderio: essere lui per un giorno a dare la luce agli uomini guidando il carro del Sole.
    Tutto Apollo si sarebbe aspettato fuorché una richiesta del genere, tanto inequivocabile quanto sconsiderata. Che fare? Accontentare il figlio per far fede alla promessa fattagli o rifiutarsi in nome della saggezza che la lunga esperienza gli conferiva? Più volte tentò Febo di dissuadere il figlio : lui soltanto lui, nemmeno Giove il re degli dèi avrebbe saputo guidare il carro.
    Ma gli avvertimenti furono tutti inutili. Fetonte non ne voleva sapere, e più Febo tentava di persuaderlo, più il ragazzo dubitava di avere discendenza divina. Finché Apollo davanti a quegli occhi per la seconda volta lucidi di rabbia e amarezza, si arrese e, pur con grande preoccupazione, assecondò il figlio. Era nel frattempo giunta l’ora per il Sole di sorgere
    Di tutte i suggerimenti paterni, nemmeno uno fece in tempo ad essere seguito. Non appena i cancelli si aprirono infatti, i cavalli si lanciarono all’impazzata come ogni giorno nel cielo immenso, e subito si accorsero che l’auriga non era quello che conoscevano: il suo peso era leggero e le briglie non avevano la tensione e gli strappi a cui erano abituati. In un attimo il carro sobbalzò e sbandò. Fetonte era in preda al panico e non sapeva come tenere i cavalli
    I cavalli lo trascinavano in una folle corsa e lo sconvolgimento non fu soltanto della geografia terrestre, ma anche della gerarchia cosmica che quel giorno fu del tutto sovvertita: Superfluo raccontare ciò che accadde al mare e ai suoi pesci; l’acqua non abitava quasi più la terra e tutte le sue forme di vita, dalle piante agli uomini, stavano scomparendo per sempre, inghiottiti dal fuoco o dal suo calore. Ma questo non poteva permetterlo la madre terra! E così, in uno sforzo al limite delle energie, implorò Giove affinché mettesse fine a quella maledizione

    Allora il padre onnipotente, chiamati a testimoni gli dèi (compreso il Sole che aveva prestato il carro) che tutto sarebbe perito di morte crudele se non interveniva, salì in cima alla rocca da cui suole far calare sulla terra i banchi di nubi, da cui fa rimbombare i tuoni e vibra e scaglia le folgori. (…). Tuonò, e librato un fulmine all’altezza dell’orecchio destro, lo lanciò contro il cocchiere sbalzandolo via dal carro e dalla vita e arrestando l’incendio con una spietata fiammata. (…). Fetonte, con la fiamma che divora i capelli rosseggianti, precipita su se stesso e lascia per aria una lunga scia, come a volte una stella può sembrare che cada, anche se non cade, giù dal cielo sereno. Finisce lontano dalla patria, in un’altra parte del mondo, nel grandissimo Po, che gli deterge il viso fumante. (Ovidio, Metamorfosi, II, 304-324)

    Questa fu la fine di Fetonte che volle guidare il carro del Sole.

    Il padre, la madre, le sorelle e le ninfe chiamate Naiadi lo piansero a lungo ai bordi dell’Eridano (il Po ). Ed in quella circostanza accadde che le rive del fiume si orlarono dei caratteristici pioppi che da allora lo accompagnano nel suo lungo tragitto. Esse erano spoglie ma poi, mentre le sorelle si battevano il petto in un pianto ininterrotto, i loro corpi si trasformarono in alberi, dapprima i piedi e poi su fino ai capelli, che divennero verdi fronde. Alle Eliadi rimase solo la bocca per chiamare la madre e annunciarle l’inatteso prodigio; finché la corteccia non le privò per sempre anche della parola, e allora dal legno fuoriuscirono lacrime di una sostanza nuova: l’ambra, che al calore del sole si indurì e cadendo nel fiume, venne trasportata dalla corrente.

    E le metamorfosi contagiarono anche un caro amico di Fetonte che, come le Eliadi, stava piangendo in riva al Po l’audace figlio del Sole. Si chiamava Cicno e tutt’a un tratto vide il suo corpo e trasformarsi in quello di un uccello, un uccello mai esistito fino a quel momento: il cigno.


     
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  12. ZIALAILA
     
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    IL MITO DI CIPARISSO


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    Ciparisso era un principe, assai caro al dio del sole Apollo, il quale gli aveva insegnato la musica, il maneggio dell' arco, e gli aveva dato in custodia un animale sacro: un cervo che non aveva pari al mondo. Ciparisso era felice di questo dono e passava l' intero giorno col suo cervo dalle corna d' oro e intorno al collo gli aveva messo un ricca collana ed un ornamento di cuoio con fibbie d'argento.
    Nessuno osava far del male al meraviglioso animale del principe Ciparisso, sacro alle ninfe dei boschi. Un giorno montato in groppa al suo cervo, Ciparisso correva attraverso il bosco. Vedendo notevoli quantità di tortore e altri uccelli, volle fermarsi e, preso arco e frecce, si addentrò, senza il suo cervo lasciato a brucare nel prato, all'interno del bosco.
    Vide d'improvviso una volpe e la inseguì in lungo ed in largo cercando di catturarla. Persa di vista s'incamminò silente e guardingo tra i cespugli e gli alberi. Ad un certo punto vide qualcosa muoversi dietro una siepe, pensava di averla raggiunta, impugnò un dardo e lo scagliò verso la preda.
    Quella non era la volpe ma il suo cervo dalle corna d'oro. Col cuore affranto , Ciparisso abbracciò il cervo ormai morto e iniziò a piangere .
    Apollo visto l'accaduto scese dal cielo e si recò dal principe. Questi raccontò tutto al dio e affermò che mai e poi mai avrebbe più sorriso e che lacrime sarebbero state versate da lui per il dolore ed in rispetto del suo cervo.
    Ciparisso non toccò cibo, acqua, niente di niente ma , solo , vagava, piangendo per le campagne ed i boschi.
    Mosso a compassione, il dio Apollo discese nuovamente e chiese al giovane cosa poteva fare per lui, cosa poteva fare per alleviare quel dolore tanto forte. Il principe guardò Apollo e rivelò il suo desiderio: essere immortale per poter piangere in eterno il suo caro cervo. La divinità acconsentì a quella richiesta: toccò la fronte al giovane e lo fece alzare, avvolgendolo nel suo manto verde. Ciparisso, sentì freddo, pianse ancora e guardò il cielo.
    Ben presto si sentì coperto da un manto di foglie tanto scure e verdi e i suoi piedi affondarono rigidi nel terreno mentre il corpo diveniva un rugoso e vigoroso tronco. Così, trasformato in cipresso, il giovane Ciparisso potè per sempre piangere il suo defunto amico .


    La villa romana del Casale di Piazza Armerina è un'enciclopedia del mito. Svariati ne sono raccontati nelle diverse sale e tra questi vi è il mito di Ciparisso di cui il poeta Ovidio narra nel suo X libro. Il mosaico relativo si trova all'interno dell'ambiente detto "triclinio", uno spazio tribsidato adibito probabilmente alle grandi cene o pranzi.
    Il mito di Ciparisso è legato essenzialmente al perchè nasce l'usanza di porre cipressi nei cimiteri. Probabilmente la tradizione è dovuta alla stessa conformità di quest'albero le cui radici scendono verso sottoterra in verticale e non in orizzontale così da non intaccare le tombe.
    Ma agli antichi sarà sicuramente apparso di grande pregio il "silenzio" di questi alberi. I rami verso l'alto e così stretti tra di loro non permettono una facile colonizzazione da parte degli uccelli così che è raro sentire cinguettare proprio dai cipressi.
    Così come l'albero del cipresso rende un che di severo ed austero per il suo non produrre frutti e neanche fiori, come un lutto in i natura.
    Il Cipresso, chiamato dai romani "Arbor funeralis", fu quindi preso come simbolo del dolore e dei morti e ad esso si lega la leggenda di Ciparisso da cui l'albero prese il nome.


    Dal blog di Flavio Mela
     
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