ANIMALI MITOLOGICI

minotauro, draghi.........

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  1. gheagabry
     
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    ...interpretazioni sui fossili.....

    "Il cielo antico" il grande responsabile dei fossili.
    Anche se possono apparire stravaganti, queste interpretazioni devono essere considerate come tentativi di spiegazione dei fenomeni naturali.
    L'uomo incapace di cogliere la vera realtà dei fossili, cercava di dare loro un posto nel suo universo e nella sua storia.
    I denti di squalo secondo Plinio il Vecchio, erano lingue pietrificate cadute dal cielo durante un'eclissi di luna. Egli li chiamava glossopetra, lingua di pietra, e si chiameranno cosi fino al XVII secolo.
    Gli echinodermi venivano spesso considerati semplici pietre venute con i fulmini o con la pioggia, ma Plinio vide in essi, piccole tartarughe appena uscite dal guscio e trasformate in pietra o uova di serpente. Secondo un'cronaca, i druidi portavano queste uova nelle loro insegne e erano convinti che fossero determinanti per ottenere da un principe ciò che si desiderava. Dal cielo si pensava venisse anche l'ambra: urina indurita di lince, "succo di raggi di sole", lacrime di uccelli meleagridi o di Ninfe trasformate in pioppi che piangevano Fetente colpito dal fulmine. O ancora, schiuma del mare o dei vitelli marini, consolidata.
    Il corno di Ammone ha la forma di un corno di ariete avvolto su se stesso e talvolta sembra coperto da uno strato d'oro.
    Le ammoniti devono il loro appellativo "corni d'Ammone" (il dio egizio figurato sotto forma di ariete) all'arrotolamento del loro guscio. Esse venivano utilizzate dai maghi per provocare visioni durante il sonno. Nel medioevo venivano interpretate come serpenti arrotolati, con la coda al centro e privi di testa. Per perpetuare la leggenda, i commercianti di ammoniti le restauravano, ricostruendo loro la testa prima di metterle in vendita.
    Di fronte ai resti dei grandi vertebrati, l'immaginazione si scatena e nascono leggende che hanno come protagonisti animali terrificanti, mostri mitici e giganti..
    Possiamo immaginare il terrore dei marinai achei che 5000anni fa all'interno di una grotta ai piedi dell'Etna, in Sicilia, ossa di uomini immensi, giganti, forati sulla fronte da un'unica orbita spalancata e dall'aspetto sinistro.
    Il racconto si tramandò di generazione in generazione quando nel V secolo a.C, lo storico greco Tucidide identifica le pendici dell'Etna come la terra dei Ciclopi. Li lo sfortunato Ulisse vide morire molti dei suoi compagni divorati dal ciclope Poliremo figlio di Poseidone.
    Nel corso dei secoli la gente non ha più messo in dubbio l'esistenza dei Ciclopi, che trovano posto nella grande famiglia dei Giganti.
    Tra il XIV e il XVI secolo in Sicilia si continuarono a scoprire reperti ossei giganteschi. I ciclopi sono realmente esistiti, come altre creature gigantesche che forse erano loro parenti stretti. Nonostante gli enormi molari erano vegetariani, l'enigmatica orbita non è che un'apertura nasale a cui si collega, nell'animale in vita, una proboscide.
    I ciclopi non erano che gli inoffensivi elefanti nani che popolavano le isole all'inizio dell'era quaternaria.
    Nella piazza di Klagenfurt, nell'Austria meridionale, troneggia un mostro dotato di attributi del drago classico, scolpito tra il XVI e il XVII secolo. La sua testa riproduce il cranio di un rinoceronte lanoso, un animale morto da migliaia di anni, rinvenuto verso il 1335 ed esposto un tempo nel municipio della città. Othenio Abel, un paleontologo della prima metà del XX secolo, ha visto in questa statua la più antica ricostruzione paleontologica.
    In Siberia, gli scheletri di mammut alimentano la leggenda di un grosso topo della taglia di un bufalo, che vive sotto terra scavando buchi nelle rocce e nel legno. I raggi della Luna o del Sole possono essergli fatali, e i suoi spostamenti sarebbero stati la causa dei terremoti. Nella metà del XIX secolo, Darwin riporta dal Sud -America leggende simili.
    Utilizzata in polvere, in olio, in confetti in amuleti, l'ambra era utilizzata per le lacrime, per il cuore, per le malattie del cervello, per il fiato corto, per il mal di denti.
    Queste ossa fanno tuttavia parte delle diverse collezioni europee e hanno, come le altre, contribuito a una migliore comprensione della storia del nostro pianeta.

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  2. gheagabry
     
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    IL DAHU



    Il dahu è un animale leggendario molto conosciuto nell’area francofona europea, dalle Alpi ai Pirenei. Vista la sua presenza in varie culture e epoche è spesso citato anche come dahut, daru, darou, dairi ecc.
    È un mammifero quadrupede caratterizzato dall'avere le gambe asimmetriche, quelle di destra più lunghe di quelle sinistra (o viceversa), per meglio muoversi sui ripidi pendii montani.
    Nel primo caso, si parla di Dahu levogiro, mentre nel secondo caso di dahu destrogiro, in quanto, a causa di questa sua caratteristica fisica è costretto a girare sempre attorno alla montagna nello stesso verso. I dahu destrogiri camminano in senso orario mentre i Dahu levogiri camminano in senso antiorario.
    Secondo altre tradizioni, le zampe più corte sarebbero quelle anteriori, per favorire la salita.
    La tradizione vuole che esista un sistema molto facile ed efficace per catturarlo: bisogna sorprenderlo alle spalle e urlare ad alta voce "DAHU", e quindi l'animale, molto curioso di sua natura, si gira per vedere chi lo ha chiamato e - trovandosi improvvisamente con le zampe più corte sul lato a valle - rotola giù dalla montagna.
    La riproduzione del dahu avviene principalmente negli ambienti di alpinisti, amanti della montagna, cacciatori e naturalisti, i quali danno vita ad innumerevoli forme di dahu. È comunque riconosciuto che il Dahu si riproduce deponendo uova, caratteristica che tra i mammiferi si riscontra solo tra alcune specie di marsupiali australiani.
    Il Dahu è stato scelto come simbolo dell' Universiade Invernale di Torino 2007. Tuttavia in quel contesto è stato rappresentato secondo la tradizione che prevede le zampe anteriori più corte delle posteriori, ed in posizione eretta, dandogli quindi un aspetto più simile a quello di uno yeti.
    Nel 2010, tracce del Dahu si sono manifestate nelle prealpi biellesi, in particolare in Valle Sessera, con avvistamenti che hanno risvegliato nuovamente l'interesse verso questo animale della popolazione locale



    Il Dahu è un animale mitico che ha la caratteristica di avere le due zampe di un lato più corte. Si tratta un chiaro adattamento ai ripidi pendii di montagna! Questi animali devono però sempre girare attorno alla montagna nello stesso verso. Ci sono dahu destrogiri (girano in senso orario) e dahu levogiri (girano in senso antiorario)...
    La caccia al dahu si svolge solo di notte e, rigorosamente, in compagnia di una ragazza! Avvistato l'animale, lo si richiama con un particolare fischio: l'animale curioso si volta e, data la sua caratteristica anatomica, perde l'equilibrio e precipita.

    Il Dahu è in via di estinzione?
    “..salviamo il Dahu prima che sia troppo tardi..” titolava Marcel S. Jacquat (biologo e conservatore del Museo di Storia Naturale di La Chaux – Giura Svizzero) in un curioso articolo che dà lo spunto per parlare di questo animale che meglio di tutti gli altri si è adattato alla marcia a mezza costa in montagna.
    Le cause della sua riduzione rimangono ignote ma l'incredulità e lo scetticismo sono certamente fra i colpevoli principali. Solo pochi uomini dall'animo puro hanno potuto avvicinare il mitico Dahu...
    Le gambe a valle più lunghe delle gambe a monte gli consentono una eccezionale stabilità sui pendii ripidi; Il Dahu è un animale estremamente timido che vive su tutto l’arco alpino, Il suo aspetto ricorda un incrocio tra un tasso ed una capra ma anche tra un camoscio e una volpe….insomma, ogni alpinista, ogni cacciatore delle Alpi ne ha creato uno proprio, ecco perché l’animale ha assunto nel tempo tante forme diverse.
    Ma perché salvare il Dahu?, tra tutte le specie in pericolo? perché salvare il Dahu significa salvare il sogno, permettersi una fantasia, fare un gioco per un gioco; tutte cose che l’attuale modo di vivere urbano non autorizza quasi più.
    Le origini del Dahu si perdono nella notte dei tempi; le pitture rupestri di Julma-Olkky in Finlandia ci mostrano un cacciatore che insegue un mammifero dalle zampe asimmetriche; altre storie di cacciatori e naturalisti dei secoli passati descrivono avvistamenti di animali dalle forme strane come Johannes di Sacromonto che riporta..”le gambe a valle sono più lunghe di quelle a monte.. e va camminando per montagne e ghiacciai..”; per non dire degli animali misteriosi dei capitelli delle cattedrali o delle tele di Jerome Bosch.
    I tibetani consideravano i dahu come esseri malefici e li ritenevano responsabili della scomparsa di numerosi bambini. Un affresco maya ci racconta che il Dio Soleil, dopo il suo ciclo giornaliero nel cielo, cadeva dall'altro lato della terra nel Regno delle Ombre. Di là, solo un dahu poteva fargli attraversare le Montagne della Notte per rinascere, l'indomani mattina, all'altra estremità della terra. All'alba, il Dio Soleil poteva spargere di nuovo caldi raggi sul mondo dei maya.
    Si trovano anche delle rappresentazioni di dahu su certe incisioni della valle delle Meraviglie (Mercantour). in effetti, è molto probabile che abbiate osservato già un dahu ma che il vostro raziocinio abbia messo da parte l’immagine.
    Anche il nome nel tempo ha subito cambiamenti a seconda delle località e dei momenti storici, così la forma più comune Dahu trova anche altre alternative nel Dahut oppure nel Daru o Darou (Francia), nel Dairi (Svizzera), il Dari ecc.
    La sua asimmetria ci permette di distinguerne due tipi principali: il Dahutus Montanus Levogyrus, che avendo le zampe più lunghe sul lato destro può spostarsi unicamente in senso antiorario e il Dahutus Montanus Dextrogyrus che, al contrario, può camminare sui pendii che girano verso destra.
    La presenza del Dahu in zone vulcaniche autorizza l’individuazione di un terzo tipo: il Dahutus Montanus Circolaris: questa sottospecie, vivendo in aree vulcaniche, spesso si addentra all’interno di un cratere spento, e questo provoca evidentemente una inversione del senso di marcia.
    Continuando ad entrare e ad uscire dal cratere il Dahu potrebbe iniziare a percorrere solo il bordo del cratere e da qui, le creste delle montagne lungo il loro “filo”, sviluppando una nuova asimmetria degli altri anteriori e posteriori (zampe davanti una lunga e una corta e dietro: il contrario!)
    Ecco una nuova sottospecie che qualcuno potrebbe studiare più approfonditamente (attendo osservazioni in merito) ....Alcuni insigni studiosi affermano si riproducono deponendo uova (come gli uccelli) ma con il guscio morbido, così si può adattare al terreno e dopo cinque minuti il guscio si indurisce!! Troverebbe così qualche fondamento il commercio di uova di camoscio ai turisti creduloni che avrebbe come oggetto, in realtà, uova di Dahu, che spesso, visto da lontano passando con la cabinovia, viene scambiato per un camoscio! Tuttavia la teoria più accreditata sulla riproduzione del dahu sostiene che nella stagione degli amori, in inverno, il Dahu maschio che avverta la presenza di una femmina è capace di percorrere decine di chilometri per incontrarla, tuttavia quando si trovano l’uno di fronte all’altra sorge un problema difficilmente sormontabile, avendo le zampe più corte poggiate sullo stesso fianco della montagna, l’accoppiamento risulta oltremodo funanbolico. Ecco perché la riproduzione del dahu avviene soprattutto per trasmissione orale negli ambienti di alpinisti, cacciatori, naturalisti ecc. Tuttavia ciò non garantisce la sopravvivenza della specie, in pericolo di estinzione a causa dei cambiamenti nei nostri comportamenti culturali. Se un giorno vi si propone una caccia al dahu, sappiate che basta mettersi dietro l'animale e fischiare forte per costringerlo (curioso com’è) a girarsi per vedere chi è: si troverà allora nella precaria posizione senza appoggi a valle, ruzzolando così sul pendio! Altri cacciatori sostengono che il periodo migliore è quello invernale, quando il dahu è costretto ad uscire dalla tana per non morir di freddo; allora è molto facile riuscire ad infilarlo in un sacco (a patto che riusciate a sopravvivere per ore fuori dalla tana!). I musei di storia naturale non dispongono di resti di dahu, nonostante siano disponibili a pagarli profumatamente, questo perché alla cattura segue sempre un lauto pasto conviviale, dove del dahu catturato non rimangono che ricordi di storie di caccia e avvistamenti.. Molte altre sono le particolarità di questo animale che si riproduce nei rifugi, nei bivacchi degli alpinisti e nella veglia dei cacciatori in attesa dell’alba, ogni volta nascendo in forme nuove o con nuove caratteristiche. ..Salviamo il Dahu prima che sia troppo tardi… è un appello a rivedere la montagna con occhi diversi, un libro di storie dove ognuno scrive la propria, la più bella, non necessariamente vera…
    Occorre anche sapere, che quando Léonardo attraversò le Alpi, per raggiungere la corte del monarca francese, Francesco primo, vide varie volte uno " Daikiri Citronus" (nome scientifico del dahu). Srisse numerosi appunti sull'argomento, ma l' inquisizione negò qualsiasi veridicità dei lavori sul Daikiri Citronus, qualificandolo come " Coktail del Diavolo " e fece distruggere tutti i lavori sull' animale.





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    Herensugue



    Figura ricorrente della mitologia basca, l’Herensugue è un spirito maligno che si manifesta sotto forma di un drago o di un serpente (“suge” significa in lingua basca “serpente”). Talvolta viene rappresentato con sette teste sputafuoco, altre volte viene descritto come un serpente volante. Inoltre, stando ad una leggenda, pare che quando imperversi una tempesta, questa creatura attraversi il cielo come un lampo, sotto forma di una mezzaluna infiammata. Altri racconti popolari sostengono che l’Herensugue viva nelle viscere della Terra e si manifesti sotto forma di fiamme nelle grotte e nelle caverne.

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    SIMURG



    Il Simurg, anche noto con i nomi di Simurgh, Semuru o Senmurv, era secondo le leggende persiane, l’uccello che viveva sull’albero dei semi, da cui erano generati i semi di tutte le piante selvatiche, posizionato accanto all’albero dell’immortalità (secondo alcuni studiosi, l’albero era invece l’albero della scienza, paragonato a Yggdrasill delle leggende scandinave). Il suo nome deriva dall'avestico Saena Meregha (Saena=Aquila Meregha=Uccello).
    Il compito principale del Simurgh era quello di far cadere a terra i semi dell’albero che lo sosteneva, posandovisi sopra. Le sue penne avevano proprietà magiche e taumaturgiche e le sue ali, quando spiegate, creavano un spessa foschia sulle montagne. Viveva solitamente sulla cima degli inaccessibili picchi caucasici e in modo analogo all’uccello Garuda, odiava i serpenti e combatteva i Naga. Nelle fonti più antiche il Simurgh è descritto come un uccello gigantesco, per molti versi simile al Roc, oppure come simile al Grifone, in parte cane e in parte uccello, e assume il ruolo di unificatore del cielo con la terra. Al contrario, i commentatori moderni ne hanno abbassato il prestigio, fino a dipingerlo come un colorato uccello di corte; Gustave Flaubert lo descrive come un uccello dalla testa umana, il piumaggio aranciato, dotato di 4 ali, e lunga coda di pavone. Per certe sue caratteristiche il Simurg ricorda anche altri uccelli mitologico come il Turul della tradizione turco-ungherese.

    Un poema del XIII secolo narra di come tutti gli uccelli della terra decisero di andare in cerca del Simurgh; dopo molte difficoltà, rimasero solo in trenta per cercare la creatura, il cui nome significa proprio trenta, ma si accorsero che l’asprezza del viaggio li aveva purificati, trasformando loro stessi in Simurgh.
    Altre fonti gli attribuiscono caratteristiche simili a quelle della Fenice: poteva vivere 1700 anni, ma si dava fuoco quando nascevano piccoli del sesso opposto.
    Una leggenda del Kashmir racconta di un re che catturò un Simurgh per ascoltarne il leggendario canto, ma l’uccello si rifiutò di cantare; la moglie del re quindi, ricordando che un Simurgh canta solo quando vede un proprio simile, mise uno specchio davanti alla gabbia, ma il Simurgh, contemplandosi, cantò una melodia tristissima e morì.
    In arabo il Simurgh è noto come ʿAnqāʾ.



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    Anfesibena



    Anfesibena o Anfisbena è un mitico serpente dotato di due teste, una ad ogni estremità del corpo, e di occhi che brillano come lampade. Secondo il mito greco, Anfisbena fu generata dal sangue gocciolato dalla testa della gorgone Medusa quando Perseo volò, stringendola in pugno, sopra il deserto libico.
    L'anfesibena come creatura mitologica e leggendaria è stata citata da Marco Anneo Lucano e Plinio il Vecchio. Viene citata, inoltre, da Dante nel canto 24 dell'Inferno e da Borges nel suo Manuale di zoologia fantastica.
    Il nome è composto dalle due parole greche amfis, e bainein che significa "che va in due direzioni".



    L'anfesibena o anfisbena è un serpente con due teste, una per ciascuna estremità del corpo. Viene descritto a volte come un animale carnivoro, a volte come un uccello.
    Ha occhi che emettono una luce intensa e quando una delle teste dorme, l'altra veglia. Di norma una testa è alata, mentre l'altra è dotata di zampe da rettile. E' un animale dotato di grande mobilità e può invertire a piacimento il suo moto.
    La mitologia greca lo voleva nato dalle gocce di sangue cadute dalla testa decapitata della gorgone Medusa sul deserto libico, mentre l'eroe Perseo lo sorvolava. Talvolta è rappresentato in film, cartoni animati e fumetti col corpo di serpente e due teste affiancate. Non si può escludere che questa rappresentazione derivi dal ritrovamento di veri serpenti, che per anomalie genetiche presentano questa malformazione.
    (Enrico di Giacomo)

    .....in araldica.....

    La rappresentazione araldica ordinaria dell'anfesibena, detta più correntemente anfisbena, è quella di un serpente disposto a forma di 5 o di S, inanellato e con una seconda testa al termine della coda. Le due teste gli permettono di procedere sia in avanti che all'indietro senza differenza. Quando una testa dorme, l'altra resta sveglia in guardia.
    Le due teste sono abitualmente di smalto oro o argento, quella superiore, e nero, quella inferiore. Questa rappresentazione simboleggia la vittoria del Bene sul Male. Nella sua forma più completa l'anfisbena mostra la parte luminosa alata e quella oscura membrata, cioè con un paio di zampe scagliose. Quando è rappresentata con le due teste unite, queste non sono differenziate e, dunque, lo smalto non ha rilevanza.
    L'anfisbena può essere blasonata sia con gli attributi dei carnivori sia con quelli degli uccelli.




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    CACO



    Secondo l'antica religione romana, Caco era una creatura mostruosa, generata dal dio Vulcano.

    Probabilmente era un'antica divinità del fuoco, che emetteva fiamme dalla bocca. Aveva aspetto scimmiesco, era ricoperto di peli e aveva tre teste.

    Viveva in una grotta sull'Aventino, uno dei colli di Roma, e si dedicava alle razzie di bestiame a danno degli uomini.

    Caco fece l'errore di rubare a Ercole una parte della mandria di buoi, che l'eroe aveva preso al gigante Gerione. Ercole inseguì Caco nella sua tana.

    Il mostro cercò di incenerirlo con una fiammata, ma il semidio non si intimorì: attraversò le fiamme, cinse la vita del mostro con le sue braccia e strinse così forte, da fargli uscire gli occhi dalle orbite.

    Poi portò i buoi ad Argo.
    (Enrico Di Giacomo)

    Personaggio della mitologia classica, figlio di Vulcano e descritto da vari poeti latini tra cui Virgilio (Aen., VIII, 184 ss.) che lo descrive come un gigante che erutta fiamme, dedito al furto di bestiame e assassino, che vive in un orribile antro presso l'Aventino (è Evandro a raccontarne la storia a Enea). Secondo la tradizione, Caco sottrasse con l'inganno ad Ercole la mandria da lui presa a Gerione, che stava portando con sé dalla Spagna, e per questo l'eroe lo uccise nel suo antro (strangolandolo, secondo Virgilio e altri, a colpi di mazza secondo Ovidio nei Fasti).
    Dante lo colloca nella VII Bolgia dell'VIII Cerchio dell'Inferno in cui sono puniti i ladri, non precisando se sia un demone col compito di infliggere tormenti ai dannati o un peccatore egli stesso. Compare nel Canto XXV (16-33) ed è descritto come un centauro, con sulla groppa una gran massa di bisce e un drago con le ali aperte che vomita fiamme contro chiunque incontri. Non è chiaro perché Dante faccia di lui un centauro, dal momento che il Caco mitologico non era assolutamente associato a queste figure: è Virgilio a spiegare che non si trova coi suoi fratelli per via del furto fraudolento che commise ai danni di Ercole, precisando tra l'altro che l'eroe lo uccise a colpi di clava (Dante segue quindi la tradizione di Ovidio e non quella dell'autore dell'Eneide). Può darsi che nella trasformazione abbia influito il fatto che secondo una tradizione, peraltro non seguita da Dante, i centauri erano stati uccisi da Ercole e non da Teseo, oppure la chiosa errata di qualche commentatore tardoantico o medievale che aveva fatto di lui un centauro (in modo simile a quanto potrebbe essere successo per lo stesso Gerione).




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  10. gheagabry
     
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    Gli uomini invidiosi dal fiuto più sottile cercano di non conoscere troppo il loro rivale per potersi sentire superiori a lui.
    (F. Nietzsche)


    I DRAGHI


    Nelle leggende mesopotamiche, si narra di due esseri primordiali: Apsu, spirito dell’acqua corrente e del vuoto, e Tiamat, spirito dell’acqua salmastra e del caos. L’aspetto di Tiamat era quello di una creatura fatta dall’unione di parti del corpo di tutte le creature che dovevano nascere: possedeva le fauci del coccodrillo, i denti del leone, le ali del pipistrello, le zampe della lucertola, gli artigli dell’aquila, il corpo del pitone e le corna del toro. Se formiamo un’immagine mentale di questa creatura, ci accorgeremo che risponde perfettamente alla nostra idea di drago.
    Secondo la leggenda, dall’unione di Apsu e Tiamat nacquero gli dei, uno dei quali uccise il padre, Apsu. In preda a furia animalesca, Tiamat diede alla luce molti mostri, il cui compito sarebbe stato quello di perseguitare gli dei.
    Per difendersi, gli dei nominarono campione Marduk, uno della loro razza; lo armarono con potenti armi e lo inviarono contro Tiamat. Marduk uccise la madre in un epico scontro, poi catturò i mostri da lei generati e li rinchiuse negli inferi.
    Come si può ben vedere, anche in questa leggenda è il drago a subire un torto: in questo caso Tiamat perde il marito per causa dei suoi figli, e vuole punirli. Gli uomini di quei tempi, però, erano come bambini: ancora capaci di essere terrorizzati dalla furia degli elementi, di cui non concepivano le cause. Gli unici a ergersi tra loro e la potenza devastante della natura, incarnata nei draghi, si ergevano gli dei. E’ chiaro quindi che essi vedevano nel drago, ovvero Tiamat, il nemico e negli dei la salvezza.
    Anche in Egitto, all’epoca dei Faraoni, c’era la credenza che ogni volta che Ra, il dio sole, “tramontava” entrava in realtà negli inferi, combatteva contro Apopi, il drago degli abissi, e usciva vittorioso. Questa è un’evoluzione del mito mesopotamico, e già comincia a delinearsi il pensiero del drago come essere malvagio e caotico.
    Anche gli dei della Grecia combatterono contro un drago: era Tifone, ed aveva mille teste e un’immane bocca che vomitava fuoco e fiamme. Solo Zeus ebbe il coraggio di affrontare il mostro, definito Titano. Lo condusse fino oltre il mar ionio ed infine ebbe la meglio su di lui, scagliandogli contro un enorme macigno. Ma la leggenda vuole che Tifone non morì: continuò infatti a vomitare fuoco e fiamme da sotto il macigno, divenuto isola, e questa è la ragione delle eruzioni dell’Etna secondo i miti greci. Come si può vedere, già al tempo di Achille e Agamennone l’evoluzione del concetto di drago era compiuta: da madre primordiale e incontrollabile, fonte di vita e di morte, come era la Tiamat mesopotamica, si era ormai giunti al concetto odierno: il drago era un mostro terribile e incontrollato, che vomitava fuoco e vapori venefici, che distruggeva ogni cosa al suo passaggio (i tifoni hanno preso il nome proprio dal drago Tifone), che uccideva e terrorizzava le razze del mondo, perfino gli dei.
    I Romani dipingevano sui loro stendardi i Dracones, i vichinghi chiamavano le loro imbarcazioni Drakkar, tutti nomi che indicavano la figura del drago.
    I draghi “comuni”, invece, dovettero fin da subito lottare con grandi eroi. Riemersi dagli inferi al tempo degli antichi greci, dovettero subito battersi con eroi come Giasone, Ercole e addirittura con gli dei. A volte però le divinità li assoldavano come guardie di un particolare posto, o come creature da mandare in battaglia.
    Con la caduta dei greci e l’avvento dell’Impero romano, di loro si perse quasi ogni notizia, salvo alcuni avvistamenti di Plinio il Vecchio. In Europa di loro si tornerà a parlare nel medioevo, specialmente nell’Alto medioevo, dove molti eroi inizieranno a cacciare i draghi, uccidendone la maggior parte e causandone l’estinzione. In tutti quegli anni però i draghi non erano scomparsi: essi si fecero vivi migrati a nord, e per secoli avevano devastato la Scandinavia e la Russia. Fu forse in quegli anni che le loro fila persero il maggior numero di draghi: infatti dal nord si levarono grandissimi eroi, come Beowulf, che ne uccisero moltissimi.
    E proprio nelle lande del nord essi guadagneranno l’appellativo di malvagi e infidi: essi comparivano infatti all’improvviso, magari dopo essere cresciuti all’insaputa di tutti nell’umidità dei pozzi o nei pressi delle paludi.
    (mysticdreams)
     
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  11. gheagabry
     
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    Aapkal




    Pesce fantastico che si cattura, secondo i pescatori belgi, nei mari dell’Islanda.

    È lungo una trentina di centimetri, ha una testa simile a quella umana, coperta di filamenti analoghi ai capelli, e possiede anche due mani umane.

    Si dice che lo si conservi secco, fatto, questo, che induce a pensare che vengano spacciate come autentici aapkal delle comuni razze disseccate ed opportunamente manipolate, che anche nelle coste mediterranee vengono spesso fatte passare per dei pesciuomo o diavoli di mare.



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  12. gheagabry
     
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    L'ALBERO DEL VELENO



    L'Albero del veleno è una creatura leggendaria.

    Secondo la leggenda, l'albero del veleno è impregnato di sostanze velenose: il tronco, la linfa, le foglie e i frutti sono altamente tossici, in grado di portare alla morte chi si sofferma troppo nelle sue vicinanze; si narra che alcune popolazioni usassero legare i condannati a morte al tronco dell'albero, o che intingessero le frecce nella sua linfa per renderle letali. Alcuni viandanti attirati dall'ombra delle sue fronde vi si sono fermati a riposare, un riposo da cui non si sono più svegliati.

    L'epiteto di «albero del veleno» è attribuito, tradizionalmente, al tasso, conifera a crescita lenta, dal legno forte ed elastico, molto longeva e anticamente assai diffusa nell'area mediterranea ma anche nel nord Europa, effettivamente portatrice, nelle sue parti vegetative, di un potente veleno detto tassina.
    Probabilmente per questa sua connessione con la morte è frequentemente impiegato nell'arredo dei cimiteri.




    Ero adirato col mio amico,
    dissi la mia ira, la mia ira finì;
    ero adirato col mio nemico,
    non la dissi, la mia ira crebbe.

    E l'ho bagnata di timori,
    notte e giorno con le mie lacrime,
    e le ho dato il sole di sorrisi
    e dolci ingannevoli astuzie.

    Ed è cresciuta giorno e notte,
    finché ha generato una mela splendente;
    e il mio nemico la vide brillare,
    e seppe che era mia.

    E penetrò nel mio giardino
    quando la notte aveva velato il cielo;
    al mattino vidi lieto il mio nemico
    sotto l'albero, morto stecchito..


    L’albero che ispirò Blake é noto come “albero del veleno” ed è oggi classificato come Antiaris toxicaria, una Moracea che cresce nel sud-est asiatico e può raggiungere i 40 metri d’altezza. Mentre i suoi frutti sono commestibili, il lattice che si estrae dalla corteccia e dalle foglie è velenoso per l’alto contenuto di antiarina, un glicoside che provoca inibizione del funzionamento della pompa potassio-sodio delle cellule muscolari cardiache, disturbi neuropsichici e vomito. Per questo motivo era utilizzato per avvelenare le frecce dalle popolazioni dell’arcipelago indonesiano e della Malesia, che lo chiamavano Upas (“veleno”).

    In realtà l’Antiaris conosciuta da Blake non era l’albero reale, ma il prodotto di un’invenzione letteraria orientalizzante diffusa in occidente attraverso una bufala scientifica: una delle più grandi, a giudicare dalle sue conseguenze letterarie (non a caso il New Scientist l’ha classificata tra le sette più riuscite della storia).



    Tutto ha inizio con la pubblicazione sul numero di luglio-dicembre 1783 del London Magazine di un articolo dall’anodino titolo DESCRIPTION OF THE POISON-TREE, IN THE ISLAND OF JAVA (qui l’originale, in fondo alla pagina 511), in cui un certo N. P. Foersch, chirurgo olandese della Compagnia delle Indie Orientali, racconta dell’esistenza nell’isola di Giava, “a 27 leghe da Batavia”, di un immenso Bohon-Upas (albero del veleno), i cui vapori nocivi sono tali da rendere sterile tutto il terreno circostante per un raggio di 10 o 12 miglia: “Non si può vedere un albero, né un cespuglio, né la più piccola foglia d’erba”. Ad esso si avvicinano, con la massima fretta e in favore di vento, soltanto i malfattori condannati a morte, che scelgono di tentare di raccogliere un po’ della gomma tossica e preziosa che scaturisce sotto la sua corteccia affinché sia loro risparmiata l’esecuzione. Di essi solo uno su dieci fa ritorno vivo, ma la clemenza dell’Imperatore è ampiamente ripagata dalla rendita considerevole che egli ottiene dalla distillazione della gomma velenosa utilizzata per intingervi le punte delle armi.

    Gli effetti del veleno sono minuziosamente descritti da Foersch: un uomo colpito da una freccia avvelenata nel giro di pochi minuti è colto da un tremore crescente, al culmine del quale muore tra le più atroci sofferenze. I cadaveri di coloro che sono morti a causa dell’Upas sono pieni di pustole livide, la pelle è bluastra e gli occhi diventano gialli. Con spirito “scientifico”, l’olandese si procura qualche grano del veleno e sperimenta i suoi effetti su alcuni animali, di cui descrive le convulsione e la morte miserabile. Questo grand-guignol gli consente di concludere che “l’Upas è il veleno vegetale più pericoloso e violento; e sono portato a credere che contribuisce fortemente all’insalubrità di quest’isola”.

    Il falso resoconto suscitò subito interesse e polemiche, ma fu considerato veritiero dalla maggior parte dei naturalisti. Nel 1791 Erasmus Darwin magnificò in versi nel suo Botanical Gardens le terribili proprietà dell’albero del veleno:


    Spietato nel terribile silenzio sull’erica distrutta
    Siede l’Upas, l’Idra albero di morte.
    Guarda! Da una radice, dal suolo avvelenato
    Crescono mille serpenti vegetali,
    (…)
    Mille lingue dardeggiano in rapida vibrazione;
    afferrano l’aquila coraggiosa che sorvola la brughiera
    o ghermiscono il leone che sotto si muove
    o disseminano, come truppe schierate che lottano invano,
    il piano biancheggiante di scheletri umani.




    Nonno Darwin in una nota è esplicito sulla sua fonte: ”Esiste un albero del veleno nell’isola di Giava, che si dice abbia spopolato il paese con i suoi effluvi in un raggio di 12 o 14 miglia: la superficie del terreno è sterile e rocciosa, popolata solo da scheletri di uomini e animali”. Fu dal libro di Darwin che Blake derivò la sua immagine dell’albero della vendetta.

    L’eco poetica e letteraria della bufala scientifica del London Magazine perdurò a lungo, anche dopo che fu smascherata dal naturalista francese Leschinault e dall’americano Thomas Horsfield dopo il 1811. George Byron, nel quarto canto del suo poema narrativo Pellegrinaggio del giovane Aroldo (1812-1818), utilizzò la metafora del l’albero del veleno per descrivere l’eredità corrotta del peccato originale:


    Questa inestirpabile macchia del peccato
    Questo Upas sterminato, quest’albero che tutto inaridisce,
    la cui radice è terra, le cui foglie e rami sono i cieli
    che piovono le loro calamità sull’uomo come rugiada –
    malattia, morte, schiavitù – tutti i dolori che vediamo –
    e peggio, i dolori che non vediamo – che fan battere il pensiero,
    l’anima incurabile, con cardiopalmi sempre nuovi.


    Al di fuori dell’ambito inglese, Alexander Pushkin scrisse nel 1828 una poesia intitolata Anchar, che significa proprio “L’albero del veleno”. Nell’opera il grande scrittore romantico russo rielabora il racconto di Foersch in termini poetici, descrivendo il terribile vegetale, evitato dagli uccelli e dagli animali terrestri, ma pur sempre utilizzato dai potenti come fonte di veleno da usare come arma.

    Anche Charlotte Brontë utilizzò l’immagine dell’albero del veleno. Il tenebroso Rochester, in Jane Eyre (1848), così dice alla protagonista del tentativo di celarle l’esistenza di sua moglie Bertha Mason: “Nascondervi la vicinanza della pazza, tuttavia, fu qualcosa come coprire un bimbo con un mantello e lasciarlo nei pressi di un albero del veleno: la prossimità di quel demonio è ed è sempre stata avvelenata” .

    Che l'albero del veleno renda sterili i dintorni è falso. Di certo la sua metafora in campo letterario è stata assai fertile.


    (keespopinga.blogspot.it)

     
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  13. gheagabry
     
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    TARANTASIO e il LAGO GERUNDO



    ...miti e leggende...

    lago-gerundo



    La fantasia popolare narra che un tempo nacque la leggenda del drago Tarantasio, con le sue varianti e i suoi particolari, tali da far impallidire il recente mito mediatico di Nessy, l’omologo scozzese che non riesce a scaldare la fantasia. Tra acque infide e vapori nebulosi, forse originati dalle sue stesse narici che ammorbava l'aria circostante con il suo alito asfissiante - Le esalazioni, in effetti, erano dovute alla presenza nel sottosuolo di metano e di idrogeno solforato, un fenomeno misterioso per la popolazione che, pertanto, incolpava esseri sconosciuti e fantasiosi. Nel 1952 l’AGIP trova dei grossissimi giacimenti di gas metano e l’ENI si inventa come logo il famoso cane a sei zampe che non è altro che il fantastico drago - viveva Tarantasio, una specie di mostro antidiluviano dal corpo di serpente, la grande testa cornuta di sauro, la lunga coda e le zampe palmate. Cibandosi di carne umana, con predilezione per quella dei bambini, esso incuteva terrore e paura tra gli abitanti dei villaggi rivieraschi del mefitico lago Gerundo. Narra la leggenda che dopo la morte del santo vescovo Ambrogio, un drago avrebbe insidiato Milano, divorando gli incauti cittadini che osavano sortirne dalle mura. Fu il nobile Uberto Visconti, armato di coraggio, il solo uomo ad affrontare il mostro e ad ucciderlo presso Calvenzano con un colpo netto di spada. Da allora il biscione con un giovinetto in bocca compare nello stemma della città e della potente famiglia che la tenne a lungo in signoria.

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    Una seconda leggenda diffusa a Lodi, fa risalire l’ultima apparizione del drago al giorno di San Silvestro del 1299 e la sua scomparsa nel nulla al giorno seguente, capodanno 1300, insieme all’evaporazione del grande stagno in cui viveva, per l’intervento miracoloso di San Cristoforo, patrono delle acque. Il vescovo di Lodi, Bernardo de Talente, che aveva indetto una novena pubblica per invocare la liberazione dal mostro e da una micidiale epidemia in corso, decretò dopo la fine dell’incubo, l’erezione di una chiesa dedicata alla Trinità e al santo. Passati alcuni giorni, nel letto prosciugato della palude venne rinvenuta una costola colossale che i lodigiani attribuirono con sicurezza al drago malefico. I reggenti della città stabilirono il 23 aprile 1307, festa di San Giorgio, di offrire annualmente cento soldi imperiali alla chiesa di San Cristoforo in segno di gratitudine per la liberazione dal mostro. In essa venne collocata la grande costola fossilizzata, forse di un cetaceo, andata perduta nel XVIII secolo insieme alle due lapidi marmoree che ricordavano gli eventi. Un’altra costola misteriosa si può ancora vedere nella chiesa di San Giorgio ad Almenno San Salvatore, nella bergamasca Valle Imagna.

    C‘è anche la credenza popolare che Tarantasio sia la reincarnazione malefica del feroce Ezelino da Romano, ghibellino, vicario imperiale e genero dell’imperatore Federico III. Ezelino era talmente cattivo che fu anche scomunicato, torturatore e massacratore, governava le province di Brescia, Verona, Vicenza, Belluno e Trento ed in seguito anche di Padova, dove ebbe a che fare anche con Sant’Antonio il quale lo implorò, inascoltato, di risparmiare le famiglie padovane che avevano difeso la città contro di lui. Ci pensarono poi i milanesi ed i loro alleati, sia guelfi che ghibellini, una volta tanto assieme, a farlo fuori nella battaglia di Cassano d’Adda il 27 settembre del 1259. Fu sepolto a Soncino in un luogo segreto e dalle sue ceneri maledette nacque il nostro Tarantasio. Ezzelino viene anche citato da Dante nella Divina Commedia nel canto XII dell’Inferno, dove lo colloca sommerso in un fiume di sangue: « e quella fronte ch’a il pel così nero, / è Azzolino… »
    Oscar Wilde lo cita ne Il ritratto di Dorian Gray nel capitolo 11.

    Di questo drago parlavano pure due tavolette di marmo immurate nella chiesa di S. Cristoforo (eretta dai lodigiani a scioglimento del voto fatto nel 1299) dove era stato collocata anche l'enorme costola di cetaceo fossilizzata. Nelle due tavolette di marmo (andate perdute con il grande osso) era scritto del "... serpente che appestava Lodi e che per l'intercessione del Santo Cristoforo nella calenda di gennaio ucciso il drago e prosciugato il lago ove viveva..." Un'altra prova dell'esistenza di questo favoloso drago Tarantasio la troviamo in un atto del 1307. In zona Ombrianello, presso il campo da golf, fu rinvenuto un enorme scheletro, ad oggi non ancora definitivamente decifrato. Furono trovate fra il Serio, l'Adda e l'Oglio, negli anni Settanta undici piroghe datate tra il 400 ed il 750 dopo Cristo: si trovano al museo di Crema. Sono piroghe monossili molto primitive ricavate da un unico albero. Il drago è citato dai nostri storici locali ma nessuno dei massimi esponenti della materia, come il comasco Plinio il Vecchio, ne lascia traccia. Anche se nella sua Naturalis Historiae ne ha citate molte di creature favolistiche.

    Esiste un’interessante interpretazione volta a dare ragione dell’esistenza di un antico drago nello scomparso lago Gerundo. Una tradizione ancora viva testimonia che nel medioevo alcuni coccodrilli furono importanti in territorio padano e alcuni di questi si adattarono poi a vivere nel fiume Serio. Probabilmente la popolazione “vide” in queste creature il mitico drago Tarando. Nella Parrocchiale di Ponte Nossa, in provincia di Bergamo, è ancora custodito un coccodrillo impagliato “pescato” dal fiume nel 1594. Un’altra teoria sostiene che il drago del Gerundo non fosse altro che una sorta di allucinazione causata dalla presenza di storioni, pesci un di grandi dimensioni e dalla forma serpentiforme.


    milano-drago-tarantasio



    Tanti e tanti anni fa, tra il paese di Pizzighettone e la città di Lodi, vi era un lago chiamato Gerundo, che era così grande e profondo che tutti lo chiamavano mare. Nella cittadina di Lodi viveva Sterlenda, una giovane bella e gentile, innamorata di Eginaldo, un giovane coraggioso. Tra la gente di Lodi circolava una voce: si diceva che nel lago Gerundo vivesse un drago enorme e feroce, più grande d'un elefante. La sua bocca era grandissima e rossa, fornita d'un'infinità di denti bianchi e aguzzi; il suo alito era infuocato come un lanciafiamme e puzzolente come l'acqua marcia. Le mamme, per paura, non lasciavano uscire di casa i bambini e le bambine, e nessuno di questi giocava mai sulla sabbia della riva del lago. Si diceva, poi, che quando scoppiava un temporale, il drago lasciasse il centro del lago e s'avvicinasse minacciosamente alla città.
    Una notte d'estate dell'anno 1299 il cielo, divenuto nero, annunciò una terribile burrasca: lampi, fulmini, tuoni riempivano il buio, e il vento alzava onde spumeggianti alte come case. Eginaldo, giovane coraggioso, chiamò alcuni compagni: - Presto, prendiamo una barca, armiamoci di lance e di bastoni e catturiamo il drago!
    I giovani s'avventurarono nell'acqua. La barca, tra le onde, saliva e scendeva, ora si vedeva, ora spariva… Sterlenda, sulla riva, stringeva preoccupata le mani al petto: sarebbe tornato il suo Eginaldo? Sei imbarcazioni salparono per soccorrere i giovani valorosi, e ben presto tutti ritornarono sani e salvi. Il mostro, però, non era stato catturato. Si festeggiò il ritorno con un gran banchetto, e i racconti sull'aspetto del drago, chiamato con il nome di Tarantasio, iniziarono a circolare tra la gente: - E' un drago enorme... e i suoi muggiti hanno la forza del tuono... l'aria è piena del suo alito asfissiante...
    I giovani, che avevano affrontato il drago, s'ammalarono di febbre altissima e con il caldo dell'estate si diffuse in città una terribile pestilenza: tanti s'ammalarono, le botteghe chiudevano, gli stranieri scappavano, le campane suonavano tristi rintocchi... tante persone morirono. Eginaldo, però, si salvò e guarì. Passarono i mesi, ma la pestilenza non diminuì. L'autunno, con le sue piogge, peggiorò le cose: il lago Gerundo straripò e allagò la campagna. La gente, non sapendo più cosa fare, si rivolse a Dio e, dopo tante preghiere, promise che, se la pestilenza e l'inondazione fossero finite, sarebbe stata costruita una nuova chiesa. Nella notte del 31 dicembre, le acque iniziarono a ritirarsi e, nel giorno di Capodanno, il lago Gerundo si prosciugò completamente. E... sorpresa! Sul fondo ormai asciutto si vide spuntare una costola enorme, lunga sette piedi! Era una costola del drago.
    Il mostro era ormai scomparso e la gente ricominciò a vivere senza paura. Sterlenda ed Eginaldo si sposarono nella chiesa di S. Francesco, con una bellissima cerimonia, il 2 febbraio 1300.

    (Le maestre Maria Cristina, Maria Rosa, Rossella; gli allievi Marta, Federica, Ambra, Laura, Lorenzo, Alessandra, Marco, Massimo, Francesco, Salima, Zaid, Arianna, Daniela, Elisa, Roberto, Marika, Roberta, Fabio e Carlotta - scuola elementare De Amicis - Pizzighettone)

    Edited by gheagabry1 - 25/1/2023, 00:23
     
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  14. gheagabry
     
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    "Dicomi certi mercatanti che vi sono iti, che v’à uccelli grifoni, e questi uccelli apaiono certa parte dell’anno, ma non sono cosí fatti come si dice di qua, cioè mezzo uccello e mezzo lione, ma sono fatti come aguglie, e sono grandi com’io vi dirò. Egli pigliano l’alifante e pòrtallo su in aire, e poscia il lasciano cadere, e quelli si disfa tutto, poscia si pasce sopra lui. Ancora dicono quelli che l’ànno veduti, che l’alie sue sono sí grandi che cuoprono 20 passi, e le penne sono lunghe 12 passi, e sono grosse come si conviene a quella lunghezza. [...] Quelli di quella isola sí chiamano quello uccello ruc, ma per la grandezza sua noi crediamo che sia grifone."
    (Marco Polo, il Milione)


    IL ROC



    Il Roc è un animale mitologico noto con questo nome, in Occidente, soprattutto attraverso il racconto su Sindbad il marinaio, una tarda aggiunta a Le mille e una notte. La leggenda era però già molto diffusa nell'Est. In tempi successivi l'habitat dell'uccello fu posto nel Madagascar, poichè venivano importate con il nome di "piume di Roc" le gigantesche fronde della palma da rafia, dall'aspetto molto simile a quello delle penne di uccelli. In altre culture ci sono molte figure mitologiche alate e di enormi proporzioni come il Simurgh persiano, l' Anqa arabo, il Kalakh assiro, il Bar-Yochai ebraico, il Garuda indiano, il Thunderbird dei nativi americani, fino ad arrivare all’uccello piumato degli Aztechi e Maya.

    Nel racconto si narra che Sindbad, perdutosi in un'isola, scorge una grande cupola e la raggiunge. Il giorno dopo si accorge che la cupola è in realtà un grosso uovo e che la nuvola che appare su di lui non è altri che il mitologico uccello Roc. Appesosi ad una zampa, Sindbad farà un viaggio in cielo senza che l'uccello si accorga di niente. Così apprende che il Roc per nutrire i suoi piccoli porta loro degli elefanti. Nel racconto il Roc appare di colore bianco, misura 18 metri di lunghezza e sarebbe originario del Mare Muhit (lett. "Mare Oceano"), collocato nel Mar Mediterraneo.
     
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  15. gheagabry
     
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    L'OCA NELLA STORIA
    Storia, miti e leggende



    Un caratteristico misto di potere arcano e di caratteri quotidiani distingue la vita dell'oca come animale simbolico fin dall'antichità. Nella storia l'oca era sacra a varie divinità egizie come Amun-Ra, Eset, Geb, Asar e Hor. Amun-Ra, a volte è chiamato “la Grande Gracula”, in riferimento alla sua nascita dall’Uovo Cosmico. Presso gli Egizi, l'oca è fra i volatili "da cortile" più comuni - e difatti lo stesso cigno, che fra essi ha significato cosmicamente più intenso, è detto comunque "oca del Nilo" - ma al tempo stesso, forse per il candore delle sue piume, forse per la consuetudine di migrare verso nord all' inizio della stagione calda, lo si definisce "figlio di re)" cioè, nella pratica, se ne fa il simbolo geroglifico del ka del faraone, qualcosa che - con approssimazione grossolana - potremmo anche definire la sua "anima". Nella tradizione indù l'oca è al cavalcatura di Brahma, tra i popoli centroasiatici soccorre lo sciamano nella sua ascesa al cielo, nei mondi celtico e germanico ha un significato di tipo profetico. Nella religione ellenica, l’oca è sacra ad Era, in qualità di regina dell’Olimpo, ad Apollo, ad Ares e ad Eros. Secondo la leggenda romana, durante un’invasione di Roma da parte dei Galli, le oche sacre del tempio di Giunone sul colle Capitolino iniziarono a starnazzare non appena scorsero i nemici, avvertendo così i Romani dell’invasione. Le oche, uccise dai nemici, furono celebrate come martiri, e un’oca d’oro fu portata in processione in memoria di questo evento. A Roma, oltre che a Giunone, l’oca era anche sacra a Marte e a Priapo. Nella mitologia cinese, l’oca è un uccello del paradiso, simbolo dello Yang (nero), il principio maschile. Nel simbolismo giapponese, l’oca è simbolo dell’autunno, associata alla luna autunnale. Nella religione induista le oche selvatiche sono sacre a Brahma, che infatti a volte è raffigurato a cavallo di un papero. Nel folclore cristiano d’Europa ritroviamo l'oca alla guida di turbe di pellegrini diretti alla volta di Gerusalemme e l’abitudine inglese di mangiare l’oca il giorno di San Michele si dice abbia avuto origine durante il regno di Elisabetta I che, proprio in quel giorno, ricevette la notizia della disfatta definitiva dell’Invincibile Armada, la flotta spagnola. Edoardo IV banchettava con l’oca grassa come augurio per la fine dell’inverno e delle piogge.

    In un brano della Thidhrekssaga - un prodotto per la verità abbastanza tardo della poesia norrena: si tratta del tempo nel quale re Haakon IV di Norvegia voleva impiantare alla sua corte la cultura cortese: ma ciò non toglie che questo testo rielabori materiale tradizionale antico - nel quale il fabbro Wieland forgia per il suo re una spada straordinariamente forte e tagliente usando una tecnica raffinatissima. Difatti, prima forgia una spada buona, della quale il re si dichiara soddisfatto: ma egli replica che si può fare di meglio. Difatti riduce la spada in limatura molto fine, che dà da mangiare a degli "uccelli selvatici" mischiandola al loro cibo; raccoglie poi gli escrementi dei volatili, li passa nel forno in modo da liberare il ferro di ogni scoria e con il metallo così ottenuto forgia una nuova spada, dalle straordinarie prestazioni. E probabile che quegli "uccelli selvatici" fossero in realtà oche, le feci delle quali contengono, com'è noto, buone quantità di carbonio e d'ammoniaca, cioè di efficaci agenti di cementazione dell'acciaio. E indugiamo pure sul fatto che Wieland teneva delle oche presso di se: per sfruttarne gli escrementi? È probabile: si trattava di un fabbro di perizia straordinaria. Ma in realtà Wieland era un fabbro- mago, come un po' tutti i fabbri sono maghi nelle culture tradizionali, in quanto capaci di trattare con l'elemento arcano e terribile del fuoco e di lavorare il metallo.


    J.B.Monge
    L'oca psicagoga riemerge nella coscienza collettiva. L'oca è una grande marciatrice: al tempo di Plinio - quando già si cominciava ad apprezzare il suo fegato - si diceva che i branchi d'oche fossero capaci di arrivare dalla regione di Calais fino a Roma, sempre marciando a piedi: pare che le oche più stanche venissero portate nelle prime file, e le altre le spingessero. Marciatrice o psicagoga che fosse, alla fine dell'XI secolo troviamo l'oca guidare turbe di pellegrini diretti alla volta di Gerusalemme in quella. che siamo soliti chiamare la prima crociata: una specie di ver sacrum, sulle orme d'un animale evidentemente considerato dotato di sacralità. Nell' arme non sembra di venerabile antichità o nobiltà; è probabile si tratti di un'insegna araldica d'una famiglia di non alti natali, che se l'era scelta sulla base d'una sorta di anagramma, come spesso accadeva in questi casi: difatti la parola Obriachi richiama i due termini misti di latino e d'italiano rubra e oca. Del resto, l'oca è abbastanza rara nell'araldica europea, il che si spiega tenendo presente che era andata divenendo sempre più animale da cortile.

    Grande guardiano, dotato -in quanto tale?.. di poteri profetici, l'oca sa vedere anche le sventure invisibili che si avvicinano alla casa. si dice che, qualora essa si metta senza ragione a correre attorno all'edificio starnazzando, sia un pericolo mortale quello che essa segnala. E del resto la sua attenzione e il suo coraggio, specie all'appressarsi di predatori - ladri, faine, volpi, magari anche lupi - o in coincidenza con un principio di incendio, sono cose note. In Inghilterra - in omaggio forse alle capacità profetiche dell'oca in rapporto alla morte, e quindi alla sua funzione psicagogica - si usa mangiare un'oca per il giorno del Grande Psicagogo del mondo cristiano, l'arcangelo Michele, il 29 settembre. e si dice che chi ottemperi a questa tradizione non troverà mai difficoltà nel pagare i suoi debiti. Questo rapporto dell'oca con il danaro, cioè con i tesori che tradizionalmente si trovano sottoterra, non fa che confermare il so carattere psicagogico e il suo rapporto con le forze dell'Altro Mondo. (liberamente tratto da un'articolo di Franco Cardini - Ordinario di Storia Medievale, Università di Firenze www.airesis.net/)

    LA LEGGENDA DELL'OCA VEGETALE



    C'è stata un'epoca, tempo fa, esattamente nel Medioevo, in cui le oche non erano solite venire al mondo da un uovo, bensì da un albero, semplici frutti pronti a staccarsi dai rami per volar via una volta maturi. Non si tratta propriamente di una fiaba, ma di una credenza che ha tenuto banco per secoli in ambito popolare e accademico, sostenuta e supportata da biologi ed eminenti studiosi, sebbene qualche voce di dissenso si fosse levata qui e lì.
    La storia delle oche, dell'albero delle oche, è riuscita ad attraversare pressoché indenne i secoli. Nel 1751 il naturalista britannico John Hell raccontava di marinai olandesi che, visitata l'estrema l'Europa settentrionale, avevano avuto occasione di vederne i nidi.
    Era una sola specifica specie a essere interessata dalla credenza: quella branta leucopsis, conosciuta come oca facciabianca, diffusa nell'Europa settentrionale, che nei mesi estivi spariva dalle coste inglesi e irlandesi diretta ancora più a nord per riprodursi. A quell'epoca nel tentativo di trovare una giustificazione a questa loro improvvisa scomparsa nel nulla durante il periodo estivo, e siccome non la si vedeva riprodursi, si trovò una spiegazione plausibile.

    "Sono come le oche di palude, ma un po' più piccole. Sono prodotte dal legno di abete gettato in mare, e sono inizialmente simili a gomma. Successivamente si aggrappano con i becchi come alghe attaccate al tronco, e dopo essersi rivestite di un fitto strato di piume cadono in acqua o spiccano il volo. Traggono il loro cibo dalla linfa del legno e dal mare, da un segreto e sorprendente processo di alimentazione. Ho frequentemente visto con i miei occhi più di un centinaio di questi piccoli corpi di uccelli pendere sulle rive del mare da un pezzo di tronco, chiusi nelle loro conchiglie e già formati. Non si riproducono o depongono uova come gli altri uccelli, né sembrano costruirsi nidi in nessun luogo della terra".

    E' con queste parole che la leggenda delle oche vegetali fa il debutto ufficiale, tra le pagine della Topographia hiberniae, opera corposa sulle terre e sulla popolazione d'Irlanda scritta da Giraldus Cambrensis. E' il 1187, e lo storico gallese altro non fa che riportare una credenza già esistente.
    Per lungo tempo, nel Medioevo, l'uomo guardò la natura come se questa fosse un immenso libro su cui Dio si dilettava a scrivere i propri insegnamenti. La natura era quindi letta per trarre i dovuti precetti teologici, a sostegno di quanto dalla Chiesa predicato.
    Questa particolare specie di oche assumeva una posizione particolare all'interno del regno animale, fungendo così da anello di congiunzione tra flora e fauna, un'unicità, sempre a dire del Cambrensis, della quale il clero anglosassone imparò astutamente ad approfittare sotto quaresima, durante il periodo di digiuno. Del resto, facevano golosamente notare gli interessati, se nascevano alla stregua di frutti, allora queste brantae leucopsis non potevano certo rientrare nella categoria di carne animale. La questione dovette assumere una sua importanza se sull'argomento intervenne perfino papa Innocenzo III. La diatriba trovò così una sua conclusione durante il IV Concilio lateranense del 1215: albero o non albero, sempre oche erano.
    Il consumo dell'oca vegetale era stato così vietato, ma la sua esistenza non messa in discussione. Anzi, la fiducia in una tale stranezza botanica era tale da spingere taluni studiosi a confermarla empiricamente, dopo attenta osservazione del frutto interessato. E' il caso del botanico dilettante John Gerard, che all'oca vegetale dedicò un intero capitolo, Of the goose tree, Barnacle tree, or the tree bearing geese, del suo trattato The herball or General historie of plantes del 1597.
    (tratto liberamente da http://casadelcappellaio.blogspot.it/2014/05, foto del sito citato)
     
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