Posts written by gheagabry1

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    Puledro preistorico riemerge intatto da permafrost siberiano


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    SEMBRA appena addormentato, il piccolo puledro del Paleolitico riemerso praticamente intatto dal terreno ghiacciato (permafrost) della Siberia: vissuto circa 40.000 anni fa, sarebbe deceduto per affogamento quando aveva appena due mesi. A indicarlo sono le prime analisi condotte in Russia, al Mammoth Museum dell'Università federale nord-orientale di Yakutsk, dove il fossile è stato portato dal gruppo di ricercatori russi e giapponesi che ha eseguito gli scavi nel cratere naturale di Batagaika, ribattezzato dalle popolazioni locali come "la porta dell'inferno".

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    Il puledro, alto 98 centimetri al garrese, apparteneva ad una specie estinta (Equus lenensis) che nel tardo Pleistocene era diffusa nella regione: lo dimostra l'analisi del Dna condotta sul fossile, che è talmente integro da conservare ancora la criniera, il manto color marrone scuro, la coda, gli zoccoli e gli organi interni. I ricercatori hanno prelevato diversi campioni biologici per ricostruire la dieta dell'animale e le cause del decesso. L'assenza di ferite visibili sul corpo fa ipotizzare che il cucciolo possa essere morto per affogamento dopo essere rimasto incastrato in una "trappola" di tipo naturale. La sua non è l'unica scoperta eccezionale fatta nella regione: il permafrost ha recentemente restituito anche i resti ben conservati di un cucciolo di leone e di un mammut.

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    www.repubblica.it
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    Discografia

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    Album



    1956 - Songs of Faith
    1961 - Aretha
    1962 - The Electrifying Aretha Franklin
    1962 - The Tender, The Moving, The Swinging Aretha Franklin
    1963 - Laughing on the Outside
    1964 - Unforgettable: A Tribute to Dinah Washington
    1965 - Yeah!: Aretha Franklin in Person
    1965 - Once in a Lifetime
    1967 - I Never Loved a Man the Way I Love You
    1967 - Aretha Arrives
    1967 - Take It Like You Give It
    1967 - Lee Cross
    1968 - Lady Soul
    1968 - Aretha Now
    1968 - Aretha in Paris
    1969 - Aretha Franklin: Live!
    1969 - I Say a Little Prayer
    1969 - Soul '69
    1970 - This Girl's In Love with You
    1970 - Don't Play That Song
    1970 - Sweet Bitter Love
    1970 - Spirit in the Dark (Aretha Franklin)
    1971 - Aretha Live at Fillmore West
    1971 - Young, Gifted and Black
    1972 - Amazing Grace
    1973 - Hey Now Hey (The Other Side of the Sky)
    1974 - With Everything I Feel in Me
    1974 - Let Me in Your Life
    1975 - You
    1976 - Sparkle
    1977 - Satisfaction
    1977 - Sweet Passion
    1977 - Most Beautiful Songs
    1978 - Almighty Fire
    1979 - La Diva
    1980 - Aretha
    1980 - Aretha Sings the Blues
    1981 - Love All the Hurt Away
    1982 - Jump to It
    1983 - Get It Right
    1984 - Never Grow Old
    1985 - First Lady of Soul
    1985 - Who's Zoomin' Who?
    1986 - Aretha

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    1986 - Soul Survivors
    1987 - One Lord, One Faith, One Baptism
    1989 - Through the Storm
    1991 - What You See Is What You Sweat
    1995 - Greatest Hits: 1980-1995
    1998 - A Rose Is Still a Rose
    2003 - So Damn Happy
    2007 - Jewels in the crown: All-Star duet with the Queen
    2008 - This Christmas, Aretha
    2008 - Sunday Morning Classics
    2011 - A Woman Falling Out of Love
    2014 - Aretha Franklin Sings the Great Diva Classics
    2015 - Jauz - Deeper Love (feat. Aretha Franklin)


    Filmografia

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    1972 - Room 222 - serie TV, 1 episodio
    1980 - The Blues Brothers - I fratelli Blues
    1985 - Eurythmics: Sisters Are Doin' It for Themselves - videocortometraggio
    1985 - Whitney Houston: How Will I Know - videocortometraggio
    1985 - Aretha Franklin: Freeway of Love - videocortometraggio
    1986 - Aretha Franklin: Another Night - videocortometraggio
    1986 - Aretha Franklin: Jumpin' Jack Flash - videocortometraggio
    1986 - Aretha Franklin: Jimmy Lee - videocortometraggio
    1987 - George Michael & Aretha Franklin: I Knew You Were Waiting - For Me - videocortometraggio
    1987 - Aretha Franklin: Rock-A-Lott - videocortometraggio
    1988 - Aretha Franklin: Oh Happy Day - videocortometraggio
    1989 - Aretha Franklin: Gimme Your Love - videocortometraggio
    1989 - Aretha Franklin & Whitney Houston: It Isn't, It Wasn't, It Ain't Never Gonna Be - videocortometraggio
    1989 - Aretha Franklin: Think - videocortometraggio
    1991 - Aretha Franklin: Everyday People - videocortometraggio
    1992 - Aretha Franklin Feat. Michael McDonald: Ever Changing Times - videocortometraggio
    1994 - Aretha Franklin: A Deeper Love - videocortometraggio
    1994 - Aretha Franklin: Willing to Forgive - videocortometraggio
    1994 - Aretha Franklin: Honey - videocortometraggio
    1998 - Blues Brothers - Il mito continua
    1998 - Aretha Franklin: A Rose Is Still a Rose - videocortometraggio
    1998 - Aretha Franklin: Here We Go Again - videocortometraggio


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    Grammy Awards



    Aretha è la terza donna più onorata nella storia dei Grammy, avendo ricevuto 21 premi in totale, contando anche quelli speciali alla carriera.

    1 1968 Grammy Award alla miglior canzone R&B R&B Respect
    2 1968 Grammy Award for Best Female R&B Vocal Performance R&B Respect
    3 1969 Best Female R&B Vocal Performance R&B Chain of Fools
    4 1970 Best Female R&B Vocal Performance R&B Share Your Love with Me
    5 1971 Best Female R&B Vocal Performance R&B Don't Play That Song for Me
    6 1972 Best Female R&B Vocal Performance R&B Bridge over Troubled Water
    7 1973 Best Female R&B Vocal Performance R&B Young, Gifted and Black (album)
    8 1973 Grammy Award for Best Soul Gospel Performance Gospel Amazing Grace (album)
    9 1974 Best Female R&B Vocal Performance R&B Master of Eyes
    10 1975 Best Female R&B Vocal Performance R&B Ain't Nothing Like the Real Thing
    11 1982 Best Female R&B Vocal Performance R&B Hold On...I'm Comin' (album track)
    12 1986 Best Female R&B Vocal Performance R&B Freeway of Love
    13 1988 Best Female R&B Vocal Performance R&B Aretha (album)
    14 1988 Grammy Award for Best R&B Performance by a Duo or Group with Vocals R&B I Knew You Were Waiting (For Me) (con George Michael)
    15 1989 Grammy Award for Best Soul Gospel Performance, Female Gospel One Lord, One Faith, One Baptism (album)
    16 1991 Grammy Legend Award - Living Legend Award Special
    17 1994 Premio Grammy alla carriera Special
    18 2004 Grammy Award for Best Traditional R&B Vocal Performance R&B Wonderful
    19 2006 Best Traditional R&B Vocal Performance R&B A House Is Not a Home
    20 2007 Golden Grammy Awards Special
    21 2008 Best Gospel-Soul Vocal Performance by a Duo or Group Gospel Never Gonna Break My Faith (con Mary J. Blige)


    Riconoscimenti



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    Cantante n°1 nella lista dei 100 più grandi cantanti di tutti i tempi ( "Rolling Stone", 2010)
    "Rock and Roll Hall of Fame" (prima donna nella storia; 20 gennaio 1987)
    "Kennedy Center Honor"(1994)
    Hollywood Walk of Fame (1981)
    "National Medal of Arts"(dal Presidente Clinton, 1999)
    Artista n°9 nella lista dei 100 più grandi artisti di tutti i tempi ("Rolling Stone", 2004)

    Onorificenze



    Kennedy Center Honors - nastrino per uniforme ordinaria Kennedy Center Honors — 1994

    Medaglia Presidenziale della Libertà - nastrino per uniforme ordinaria — 2005

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    "(...) Quando ho registrato 'The Weight' con lei (...) è stato un sogno diventato realtà.
    Aretha non urlava, non strillava... lei cantava dal paradiso, con grazia e stile"
    (Robbie Robertson)


    Aretha Franklin

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    La regina del soul, Aretha Franklin, è morta oggi, giovedì 16 agosto, all'età di 76 anni: lo riferisce l'Associated Press citando la storica portavoce della cantante, Gwendolyn Quinn. Secondo le prime indiscrezioni riferite dalle agenzie americane, l'artista è morta nella sua casa di Detroit, dove era assistita da personale medico.

    Alla cantante, come rivelato dalla famiglia in un comunicato ufficiale, è stata fatale una forma avanzata di tumore al pancreas. "In uno dei momenti più bui delle nostre vite, non troviamo le parole appropriate per esprimere il nostro dolore", si legge nella nota: "Abbiamo perso la matriarca e il pilastro della nostra famiglia. L'amore che aveva per i suoi figli, i suoi nipoti, pronipoti e cugini non aveva limiti. Siamo toccati nel profondo dall'ondata di amore e supporto ricevuta da amici, sostenitori e fan di tutto il mondo. Grazie per la vostra comprensione e per le vostre preghiere. Abbiamo sentito il vostro amore per Aretha, e ci dà conforto sapere che la sua eredità continuerà a vivere. Nel nostro dolore, vi chiediamo di rispettare la nostra privacy in questo difficile momento.

    Malata da tempo, l'artista aveva sospeso tutte le attività dal vivo lo scorso mese di marzo: negli ultimi giorni erano trapelate notizie preoccupanti circa il suo stato di salute, mitigate dalla recente indiscrezione del nipote Tim, che la descriveva come vigile e di buon morale.

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    Nata a Memphis, Tennessee, il 25 marzo del 1942, la Franklin era figlia del Reverendo Battista Charles Franklin, importante religioso di Detroit, amico di figure di spicco del panorama artistico e politico dell'epoca come Mahalia Jackson, il fondatore della Motown Berry Gordy, la stella del gospel Clara Ward e Martin Luther King, tanto da essere soprannominato "The Million Dollar Voice" per la capacità di intonare sermoni "ipnotici" e gospel. Nel 1960 la giovanissima Aretha è messa sotto contratto dalla Columbia, per la quale incide dieci dischi in sei anni, senza però ottenere alcun successo commerciale. Più fortunata sarà la collaborazione con la Atlantic, che la spinge con più decisione sulla via del rhythm’n’blues: dal 1967 in poi brani come "I Never Loved A Man (The Way I Love You)", "Baby I Love You", "Chain of Fools", "Think" ottengono un grande successo, segnalandola anche per la capacità di affrontare con la propria voce, una delle più belle e riconoscibili del mondo della musica, brani diversissimi come "Satisfaction" (Rolling Stones), "I say a little prayer" (Burt Bacharach), nonché una versione di "Respect" che lascia stupefatto lo stesso Otis Redding. A consacrarla come leggenda del r’n’b è tuttavia "(You make me feel like) A natural woman", di Carole King.

    Nel 1979, dopo 19 album con la Atlantic, Aretha passa alla Arista. Gradualmente il sound dei suoi dischi comincia a "ringiovanire" con innesti di fresche "contaminazioni" della nuova black music e non solo: negli anni ’80 il suo grande rilancio passa attraverso collaborazioni o duetti con, tra gli altri, George Benson, Eurhythmics, Rolling Stones, George Michael e Whitney Houston. La "Queen of Soul", continuamente omaggiata da tributi e riconoscimenti (è la prima donna ad entrare nella Rock’n’Roll Hall of Fame e vince ben 15 Grammies), è anche protagonista di una memorabile versione di "Think" in "Blues Brothers".

    Grazie al sapiente lavoro del produttore Narada Michael Walden, la cantante torna anche nelle top ten, con il brano "Freeway of love" (1984), utilizzato anche per uno spot della Coca-Cola. La Franklin non rinnegherà, in ogni caso, le origini gospel: il suo disco del 1987 "One Lord, One Faith, One Baptism" è il più venduto nella storia del genere, superando persino quelli di Elvis.

    Nel 1998, dopo una lunga lontananza dagli studi di registrazione, l'artista incide "A Rose Is Still a Rose", per il quale ancora una volta si avvale del contributo di alcuni tra i più quotati produttori contemporanei, tra i quali Jermaine Dupri, Sean "Puffy" Combs, e l’inseparabile Narada.

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    Nel 2003 viene pubblicato "So Damn Happy", che include la canzone “Wonderful”, vincitrice di un premio Grammy: in seguito all’uscita del disco, pur incidendo di fatto poi un altro album di duetti illustri dal titolo "Jewels in the crown: All-Star duet with the Queen" (2007), la Franklin abbandona – dopo trentadue anni - l’Arista Records e fonda la propria etichetta discografica, l’Aretha Records per la quale incide il suo nuovo album "A Woman Falling Out of Love", uscito nel 2008.

    A febbraio dello stesso anno, durante la 50esima edizione dei Grammy, l’artista viene insignita di un premio alla carriera per aver vinto ben venti “grammofoni d’oro”. A novembre 2010 Aretha viene ricoverata in ospedale: ha infatti dei seri problemi di salute (un tumore al pancreas), per cui le viene impedito di cantare almeno fino a maggio 2011.

    Il ritorno sulle scene è del 2014, con "Aretha Franklin Sings the Great Diva Classics", album di reinterpretazioni di brani di Adele, Etta James, Sinead O' Connor e altre grandi interpreti femminili.

    Pur diradando le sue apparizioni pubbliche, negli utimi anni la Franklin ha saputo comunque segnalarsi per le performance al Kennedy Center Honors del 2015 in onore di Carole King - durante la quale eseguì la celebre hit "(You Make Me Feel Like) A Natural Woman" - e allo stadio Ford Field di Detroit del 2016, dove - in occasione del Giorno del Ringraziamento - eseguì, seduta al pianoforte, l'inno statunitense "Star-Spangled Banner".


    Il suo ultimo album, "A Brand New Me", registrato insieme alla Royal Philharmonic Orchestra e contente una serie di suoi classici registrati ex novo, è stato pubblicato nel novembre del 2017.

    Pur diradando le sue apparizioni pubbliche, negli utimi anni la Franklin ha saputo comunque segnalarsi per le performance al Kennedy Center Honors del 2015 in onore di Carole King - durante la quale eseguì la celebre hit "(You Make Me Feel Like) A Natural Woman" - e allo stadio Ford Field di Detroit del 2016, dove - in occasione del Giorno del Ringraziamento - eseguì, seduta al pianoforte, l'inno statunitense "Star-Spangled Banner".

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    © 2018 Riproduzione riservata. Rockol.com S.r.l.
    https://www.rockol.it/news-694166/aretha-f...regina-del-soul

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    Il vecchio cedro è caduto
    in una notte di litigi
    tra la bufera di notizie
    della primavera e l’assoluta
    stanza dell’inverno.
    Non più verticale al sogno
    della terra, ora non separa
    radici e uccelli ma profumando
    esala l’ultimo urlo
    di meraviglia della creatura:
    «La primavera, possibile,
    solo una stagione?»

    (Chandra Livia Candiani, Bevendo il tè con i morti)


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    I cedri del Libano stanno scomparendo

    In Libano il cambiamento climatico sta colpendo il più noto e importante simbolo del paese, non a caso raffigurato nella bandiera nazionale: il cedro del Libano (Cedrus libano), una specie particolare di cedro che una volta ricopriva migliaia di chilometri quadrati di territorio libanese. La progressiva scomparsa del cedro del Libano non è un fenomeno recente: per secoli questo tipo di albero è stato sfruttato da numerose civiltà – popoli mesopotamici, fenici, egizi, greci, romani, tra gli altri – per la costruzione di edifici, navi e templi. Oggi rimangono solo 17 chilometri quadrati di territorio ricoperto da cedri del Libano, e la situazione sembra poter solo peggiorare proprio a causa dell’aumento delle temperature dovuto al riscaldamento globale, ha raccontato in un recente articolo il New York Times.

    I cedri del Libano hanno bisogno di freddo per poter crescere, e anche di neve. Se le temperature aumentano, le poche foreste rimaste devono trovare il modo di espandersi per salire di latitudine, dove le temperature sono più basse. Ma non sempre hanno spazio per farlo, e negli ultimi anni una serie di problemi legati al clima ha impedito che i cedri del Libano riuscissero ad adattarsi alle nuove condizioni.

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    Un esempio è quello che sta succedendo alla Foresta dei cedri di dio, ovvero quello che rimane oggi di una immensa foresta di cedri del Libano che una volta ricopriva tutto il Monte Libano, la catena montuosa che attraversa il paese da nord a sud. La foresta si trova vicino alla valle di Qadisha, una zona del Libano dove furono costruiti alcuni dei monasteri cristiani più antichi e importanti al mondo. Fino a una ventina di anni fa, in questa zona di montagna pioveva o nevicava mediamente per 105 giorni all’anno e la neve restava sul terreno per tre o quattro mesi; lo scorso inverno ci sono stati solo 40 giorni di pioggia e un mese di neve. La Foresta dei cedri di dio fu inserita nella lista dei siti patrimonio dell’Unesco vent’anni fa, e oggi è considerata tra quelli più vulnerabili a causa del cambiamento climatico.

    Problemi simili sono stati riscontrati nella riserva di Tannourine, a nord di Beirut, la capitale del Libano. Le guardie forestali di quest’area si stanno preparando a una stagione complicata: a causa delle poche nevicate dello scorso inverno, infatti, si aspettano un’ampia diffusione del Cephalcia tannourinensis, un insetto noto per distruggere le foglie dei cedri del Libano, e che diventa più attivo con l’aumento delle temperature. Dal 2006 al 2018 gli insetti hanno ucciso il 7,5 per cento degli alberi della foresta, soprattutto i più giovani. Per proteggere gli alberi della riserva, tra cui anche i cedri del Libano, gli scienziati stanno cominciando a usare nuovi metodi per provare a risolvere il problema, per esempio sfruttando i funghi già presenti nella foresta per uccidere le larve degli insetti.

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    Sono decenni che il governo libanese prova a frenare la scomparsa delle foreste di cedri del Libano, senza finora ottenere risultati soddisfacenti. Per molti libanesi, il cedro non è un albero qualsiasi, ma è il simbolo di una nazione che è riuscita a resistere – e sopravvivere – nonostante sia stata oggetto nel corso degli anni di aggressioni, conquiste e guerre. Il cedro, un albero in grado di sopravvivere anche in ambienti apparentemente ostili, rappresenta tutto questo e il suo simbolo in Libano si trova ovunque: sui manifesti elettorali, nei negozi di souvenir, disegnato nei tatuaggi, e anche sulle code degli aerei della Middle East Airlines, la compagnia aerea di bandiera del Libano.

    Negli anni Sessanta e Settanta, il governo approvò un Piano verde nazionale che prevedeva di piantare molti cedri, ma poi iniziò la sanguinosa guerra civile libanese, che durò 15 anni e che fece presto dimenticare il progetto iniziale. Alcuni signori della guerra decisero di proteggere i cedri del Libano sotto il loro controllo, ma sulle montagne di Shouf, a sud di Beirut, i miliziani drusi minarono le terre attorno alle foreste. Quattro anni fa il ministro dell’Agricoltura libanese promosse un nuovo piano per piantare 14 milioni di alberi, tra cui alcuni cedri, e allo stesso tempo il ministro dell’Ambiente supervisionò la gestione delle aree di cedri protette.

    Ancora oggi, però, il governo non sembra in grado di applicare con efficacia le politiche annunciate e di trovare nuove soluzioni per i cedri del Libano. L’instabilità politica del paese e le divisioni interne rendono difficile mettere in piedi un sistema nazionale elettrico funzionante, garantire la distribuzione regolare di acqua e la raccolta di rifiuti, oltre che altri servizi basilari: in una situazione di questo tipo, gli ambiziosi piani per salvare i cedri del Libano sono passati tutti in secondo piano.




    www.ilpost.it
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    Quattordicimila anni fa, e quattro millenni prima dell'inizio dell'agricoltura, si faceva già il pane. Un gruppo di archeologi ha fatto questa scoperta sorprendente durante gli scavi in un sito nel nord del Giordania, dove vivevano cacciatori-raccoglitori di epoca Paleolitica.


    Le origini del pane, uno dei prodotti alimentari più consumati nel mondo, sono avvolte nel mistero. La teoria più accreditata vuole che l'attività sia andata di pari passo con l'inizio dell'agricoltura, quando alcune comunità di uomini, divenuti stanziali, hanno iniziato la coltivazione dei cereali. Era stata fatta l'ipotesi che anche i cacciatori-raccoglitori del Paleolitico abbiano utilizzato i cereali selvatici, poi domesticati per l'uso agricolo, per ricavare farine e produrre prodotti simili al pane. Non si erano però mai trovate prove a sostegno di questa ipotesi.

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    ANTICHE BRICIOLE. Nel sito di Shubayqa 1, nella regione nord-orientale della Giordania, alcuni resti carbonizzati trovati in un focolare si sono rivelati, alle analisi, proprio briciole di impasto di pane. Questi antichissimi frammenti hanno consentito a un gruppo di ricercatori dell'Università di Copenaghen, di Cambridge e dello University College di Londra, di ricostruire la complessa catena produttiva apparentemente messa in piedi da questi fornai preistorici.

    Il sito giordano ha riportato alla luce tracce tra le più antiche della cultura natufiana: queste comunità costruivano piccoli villaggi, utilizzati come campi-base dove gli abitanti, che si dedicano alla caccia e alla raccolta muovendosi sul territorio, tornavano periodicamente. Nel sito, il cui scavo è iniziato negli anni Novanta, sono presenti due edifici sovrapposti, di età diverse, datati da circa 14.000 a circa 11.000 anni fa. In quello inferiore, il più antico, oltre a numerosi strumenti di pietra per macinare, è venuto alla luce un focolare il cui contenuto, sepolto, è rimasto intatto dopo l'ultimo utilizzo.

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    I ricercatori hanno identificato resti di piante erbacee, di piccoli legumi come fieno greco e astragalo, e di cereali selvatici, grano (Triticum boeoticum), orzo e avena, e oltre 600 resti macroscopici di cibo carbonizzato. Tra questi, 24 frammenti di 4-5 millimetri, spessi circa 2, con la tipica struttura "a bolle" che si ottiene mischiando, impastando e cuocendo farina e acqua. In pratica, briciole. Le analisi suggeriscono che queste pagnotte preistoriche, probabilmente piatte come focacce non lievitate (dato lo scarso sviluppo in altezza), e simili a quelle identificate in altri siti di età neolitica o romana, erano fatte di farina di cereali selvatici, un grano che è l'antenato del grano monococco domesticato, segale, miglio, avena, setaria (graminacee). È probabile che l'impasto venisse cotto nelle ceneri del camino o su pietre calde.

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    Una delle strutture di pietra nelle quali veniva cotto il pane più antico mai scoperto
    (fonte: Alexis Pantos) © ANSA/Ansa

    Che ruolo aveva questo pane nella dieta di queste comunità preistoriche? Era un cibo abituale sulla tavola o una rara concessione? Molto difficile dirlo. Il fatto che i resti di pane siano stati trovati nei due focolari appena prima che il sito fosse abbandonato, suggerisce che gli antichi abitanti potrebbero averlo preparato come scorta di cibo in vista della partenza. Ma è anche possibile che il pane di quei tempi fosse un prodotto per le occasioni speciali, data la lunga e complessa procedura per realizzarlo, dallo sgranare i cereali al macinarli, fino all'impastarlo e cuocerlo. Potrebbe anche essere, ipotizzano i ricercatori, che proprio la volontà di fabbricare più facilmente questa nutriente "delizia" sia stata una delle molle che ha spinto alla domesticazione e alla coltivazione dei cereali. Se fosse così, allora l'agricoltura sarebbe nata per avere sempre a disposizione il pane.
    (www.focus.it)

    "I cacciatori-raccoglitori natufiani sono di particolare interesse per noi perché vivevani in un periodo di transizione in cui le persone sono diventate più sedentarie e la loro dieta ha cominciato a cambiare. Le lame di falce di selce e gli strumenti di pietra macinata trovati nei siti di Natufian nel Levante hanno a lungo portato gli archeologi a sospettare che le persone avessero iniziato a sfruttare le piante in un modo diverso e forse più efficace. Ma quella trovata a Shubayqa 1 è la prima prova di pane recuperato finora, e mostra che la cottura è stata inventata prima della coltivazione delle piante",
    ha detto il professor Tobias Richter dell'Università di Copenaghen), che ha guidato gli scavi a Shubayqa 1.

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    Tomatillo

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    Il tomatillo (Physalis philadelphica) è una pianta appartenente alla famiglia delle Solanacee, originaria del Messico

    Il nome originale del tomatillo è "tomate", tomātl, che significa “acqua grassa” o “cosa grassa”. E’ anche conosciuto come "pomodoro con buccia" (husk tomato), "jamberry", "ciliegia con buccia" (husk cherry), o "pomodoro messicano". In spagnolo, si chiama tomate de cáscara, tomate de fresadilla, tomate milpero, tomate verde (pomodoro verde), tomatillo ("piccolo pomodoro"), miltomate (in Messico e Guatemala), o semplicemente tomate (in qual caso il pomodoro è chiamato jitomate).

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    E’ una pianta annuale eretta e cespugliosa che produce dei piccoli fiori gialli non profumati con una macchia scura centrale, che non sono in grado di autofecondarsi: la loro impollinazione è affidata agli insetti. I frutti sono piccoli, sferici; sono avvolti da una buccia simile alla carta formata dal calice. Quando raggiunge la maturazione riempie la buccia che al momento del raccolto può presentarsi aperta, di colore marrone mentre il frutto maturo presenta diverse colorazioni variabili dal giallo, al rosso, al verde o anche viola. Una caratteristica è che tendono, nel rivestimento esterno, ad avere un composto appiccicoso di grado variabile chiamata melata. Ha una polpa meno succosa del pomodoro, e di un colore bianco lattiginoso. La freschezza ed il colore verde della buccia sono criteri di qualità e sono le sue principali doti culinarie. Il frutto deve essere sodo e colore verde brillante; il gusto acido ed il colore verde I frutti viola e rosso hanno un sapore leggermente dolce.

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    In Messico, dove ha le sue origini, il tomatillo (Physalis philadelphica), noto anche come “pomodoro messicano”, è ingrediente principe di moltissime ricette. Ottimi da consumare bolliti, fritti o cotti al vapore e perfetti anche per la preparazione del Chilli e di altre salse.

    E’ un frutto povero di calorie ma più ricco di grassi e proteine, ha un alto contenuto di pectina. Differisce dal pomodoro per l'assenza di licopene e presenta altri tipi di metaboliti secondari, generalmente potenti antiossidanti come witanolidi.


    ...salsa di tomatillo...

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    Ingredienti: 1 kg di tomatillo, 4 spicchi d’glio sbucciati e tritati, 1 cipolla piccola tritata, 2 peperoncini Jalapenos o Serrano tritati coi loro semi, coriandolo fresco, olio d’liva, sale e zucchero.

    Una volta eliminata la pelle, si cuociono in quattro tazze d’cqua per 10 minuti; si scolano, e si mettono nel mixer insieme a una tazza d’acqua fredda, l’aglio, la cipolla, i peperoncini e il coriandolo. Si frulla il tutto, fino ad ottenere una consistenza quasi liquida e si pone il mix sul fuoco, in una padella scaldata contenete olio, condendolo con 2 cucchiaini di sale e 1 di zucchero. Si lascia sobbollire per 5 minuti, a fuoco basso A seconda dei gusti, si può evitare di frullare la salsa per avere una consistenza a pezzettoni oppure, per un sapore tostato, si possono scaldare i tomatillo su di una griglia rigirandoli di frequente, fino a quando le bucce saranno marroni e la polpa soffice.


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    Magdeburg Water Bridge, Germania. E' sul fiume Elba vicino al paese di Magdeburg. L'apertura è stata effettuata nell'ottobre 2003 e le navi passano attraverso il Midland Canal e l'Elbe-Havel Canal, è lungo circa 12 chilometri.


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    Il ponte di Fort de Roovere, Paesi Bassi

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    Fragola bianca di Purén o Pineberry

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    La fragola bianca o Pineberry o fragola ananassa, nota come fragola albina, è un frutto appartenente al genere Fragaria della famiglia delle Rosacee. Le fragole bianche sono originarie del Sud America, nel Cile centromeridionale, attorno al piccolo comune di Purén. Il nome deriva dalle peculiarità tipiche del frutto: si tratta dell’associazione della parola inglese “pineapple”, ovvero “ananas”, con la traduzione anglofona di “fragola” in “strawberry”.

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    La pineberry, completamente candida, fatta eccezione per i suoi semi rossi, ha un gusto che ricorda da vicino quello dell’ananas e, rispetto alle versioni classiche del frutto, presenta delle caratteristiche ipoallergeniche.
    La fragola cilena ha una forma tondeggiante con una piccola punta e una pelle pallida, a volte appena rosata, più spesso color avorio con puntini rosa o rossi. Ha un profumo fine, erbaceo, gradevole, e in bocca un aroma delicato. Si coltiva nel territorio di Manzanal, un’area riparata dalla Cordigliera Nahuelbuta che guarda verso il mare. I campi sono ripidi, ritagliati fra boschi da legna: 25 contadini coltivano circa 14 ettari di terreno povero e argilloso, senza concimare, trattare e irrigare. Dopo il 20 novembre inizia la raccolta, che prosegue fino a metà gennaio: le fragole bianche sono i frutti di Natale e Capodanno.

    A causa dello scarso interesse, questo frutto ha rischiato di scomparire dal mercato ma il costante impegno dei coltivatori olandesi ha evitato l'estinzione.

    E’ un frutto mediamente più calorico rispetto alle classiche fragole, dato l’elevato contenuto in carboidrati: circa 30 milligrammi per un etto di prodotto, per 120 kcal totali. E’ anche ricco di vitamina A e C, acido folico e numerosi sali minerali.

    …storia…

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    Le fragole bianche esistono da centinaia di anni e questi strani frutti pallidi coltivati tra la Cordigliera e il Pacifico sono i capostipiti di tutte le fragole del mondo, perché le moderne fragole dal frutto grande, hanno un’origine relativamente recente (XVIII-XIX secolo), mentre i frutti citati prima della scoperta del Nuovo Mondo – da Plinio, Virgilio e Ovidio – sono le minuscole fragole di bosco (Fragaria vesca).

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    Nel 1614 il missionario spagnolo Alfonso Ovalle scoprì per la prima volta in Cile, nelle campagne della città di Concepción, dei strani frutti grandi, bianche fragole, che sono poi stati classificati come Fragaria chiloensis. Nel 1712 Francois Frezier, un ingegnere al servizio di Luigi XIV, portò alcune piante in Europa: al viaggio per mare, che durò sei mesi, sopravvissero solo cinque piante. Le fragole moderne nascono a Brest, in Francia, nel 1766, dall’incrocio tra la Fragaria virginiana degli Stati Uniti orientali e la bianca chiloensis. Si narra che il botanico francese Antoine Nicolas Duchesne incrociò delle qualità selvatiche per ottenere fragole-ananas più grandi e succose. Questo primo ibrido venne poi ibridato e reibridato per dar vita a tutte le varietà coltivate attualmente, grandi e rosse.
    Secondo la tradizione popolare sudamericana, in passato, la fragola bianca era considerata in possesso di proprietà magiche e si riteneva che fosse utile al fine di evitare il morso dei serpenti.

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    …miti, credenze e leggende…

    Il pomodoro ha una sua antichissima parentesi storica, isolata e misteriosa: Galeno, medico greco vissuto dal 131 al 201 d.C., noto anche che i suoi accesi contrasti con Ippocrate, lo cita tra le erbe medicinali chiamandolo Lycopersicon, "cibo da lupi", perché dopo averlo studiato, lo ritiene velenoso, ma curativo. I semi glieli aveva regalati un soldato che li aveva portati dall'Egitto, dove si era curato le ferite con i frutti alla maniera locale. Ma la sua vera patria d'origine è in Messico e Perù. È, in effetti, in questi Paesi che cresce, sin dall'antichità, selvatico, con caratteristiche che lo accomunano alle piante velenose. I frutti sono molto piccoli, grandi come una ciliegia, o poco più, e assomigliano a quelli della Belladonna, della Dulcamara, del Giusquiamo, dell'Erba mora, delle Solanacee, come il pomodoro, e tutte appartenenti alla pericolosa "famiglia dei veleni".

    Quando arriva in Europa, il pomodoro suscita un po’ di curiosità e parecchia diffidenza. Non assomigliava a niente che esistesse già. A fine medioevo lo considerarono una rappresentazione dell’organo sessuale femminile, quindi un frutto peccaminoso. Come scrive Stuart Lee Allen nel suo libro “Nel giardino del diavolo. Storia lussuriosa dei cibi proibiti”, dev’essere proprio quello lo scandaloso pomo dell’amore profano, «morbido, delizioso, che invita il malcapitato ad affondare i denti nella sua pelle scarlatta e nella sua polpa sensuale, per farne uscire tutti gli umori. Immorale, lascivo e decisamente pagano.» Arrivato direttamente dall’eden, diventa il pomo d’amore profano o il pomo del paradiso. Non a caso ancor oggi il pomodoro si chiama paradicsom in ungherese, paradižnik in sloveno, paradajz in serbo. In tedesco pomodoro è die Tomate, ma nella variante austriaca diventa der Paradeiser.

    Costanzo Felici mette in campo numerose questioni, rilevanti ai fini degli studi e delle considerazioni sulla pianta: la presunta conoscenza da parte di Galeno; il suo consumo, limitato ai “ghiotti et avidi di cose nove”; il suo utilizzo attraverso la cottura, che da sempre, viene considerata un mezzo per eliminare i rischi dovuti all’uso di sostanze sospette o poco note; la sua associazione all’olio; il suo presentarsi in forme e in colori diversi, segno di una differenziazione originaria; la sua bellezza; la parentela con la melanzana, importata dagli Arabi, e considerata cibo poco sano e indigesto. Precursore nella descrizione, nei sospetti, il grande medico e naturalista Pier Andrea Mattioli, fu il primo a chiamarlo “pomo d’oro” aggiungendo: “Portansi à tempi nostri d’un’altra spetie in Italia schiacciate come le mela rosse, e fatte à spichi, di colore prima verdi, e come sono mature, di colore d’oro, iquali pur si mangiano nel medesimo modo” e ancora, in una successiva edizione della sua opera: “Portasene à tempi nostri un’altra spetie in Italia, le quali si chiamano Pomi d’oro. Sono questi schiacciati come le mele rosse e fatte à spichi, di colore prima verdi, e come sono mature, in alcune piante rosse come sangue, e in altre di color d’oro. Si mangiano pure anch’essi nel medesimo modo...”.

    Sospettoso nei confronti del pomodoro era anche un altro naturalista, Pier Antonio Michiel, prefetto dell’orto botanico di Padova, il quale scriveva:

    “Mangiasi di questi frutti tagliati in sonde nella paella con butiro over oglio ma son di dano e nocivi. Il suo odore di questa pianta caggionano male alli occhi e alla testa”. A opinione dei botanici, questa pianta, con la sua ”cattiva parentela “ con la melanzana, non ha alcun reale interesse alimentare, ma è portatrice di molte caratteristiche negative e addirittura pericolose per la salute.

    Il pomodoro doveva scontare le sua parentela, in primo luogo con le melanzane, poi alla comune appartenenza al gruppo delle solanacee; le venivano riconosciute solo qualità medicinali e psicotrope. Queste caratteristiche compaiono spesso nei verbali dei processi per stregoneria: il pomodoro, dunque, è parente dello stramonio, della belladonna, del giusquiamo e della pianta magica per eccellenza, la mandragora, alla quale si attribuivano proprietà afrodisiache. Tutte queste piante contengono alcaloidi, concentrati prevalentemente nelle parti verdi (la tomatidina del pomodoro scompare con il processo di maturazione). Il pomodoro acquisì fama di pianta medicinale e afrodisiaca, usata, come sembra, nei secreti medicinali del ’500 e del ’600 .

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    C’era poi un naturale rifiuto del nuovo, di ciò che non rientrava nelle categorie di un’alimentazione tradizionale, che passava anche attraverso i sensi: il colore della patata, cibo “sotterraneo”, l’odore aspro delle solanacee, ispiravano timore e diffidenza. Ma, nel caso specifico del pomodoro, c’erano anche molti reali e sostanziali motivi perché incontrasse tante resistenze: il pomodoro non è un alimento che possa da solo saziare la fame, il male endemico che affliggeva gli uomini dell’età moderna, soprattutto in periodi di guerra o carestie. In secondo luogo, nonostante sia un condimento che si accompagna ad altri cibi, non può essere assimilato alle spezie, cosa che garantì il successo del peperoncino e della vaniglia. Non ha, come i fagioli, somiglianza con cibi già noti, né si presta ad alcuna trasformazione che possa avvicinarsi al pane, cosa che successe al mais e alla patata. Non è neppure circondato dall’alone di meraviglia come il cacao, accolto come elemento di distinzione delle classi più elevate. Ma la ragione fondamentale del rifiuto delle piante americane consisteva nell’incapacità degli Europei a riconoscere l’utilità, rispetto a un sistema alimentare nel quale dovevano venire integrate, senza che il sistema di base venisse modificato, cosa che richiese secoli e secoli di progressivo adattamento.

    Se in verità queste piante ricevevano ostilità come alimenti, trovavano invece un grande favore per la loro bellezza. Nelle regioni del Nord Europa, dove la coltivazione risultava difficoltosa per ragioni climatiche, le piante venivano piantate nei giardini, adornavano spalliere, erano donate alle donne come pegno d’amore.

    Si dice che Sir Walter Raleigh ne avesse donato una piantina carica di frutti alla regina Elisabetta I, chiamandola apple of love; che la città di Tolone fece dono di quattro piantine in segno di omaggio al Cardinale di Richelieu, per il quale venivano imbanditi cibi sormontati da una bacca di pomodoro, simbolo della dignità cardinalizia; o che ancora i pomodori venissero serviti in coppia, per indicare il seno femminile. A Parigi, durante la Rivoluzione francese, sembra che le ragazze la usassero come ornamento sui corpetti, con valore simbolico.

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    ..una fiaba..


    Tanto tempo fa i pomodori, chiamati “pomobianchi”, erano diversi da adesso: erano poco saporiti e bianchi come la nebbia che li avvolgeva nella pianura del magico regno di Castellazzo Bormida.
    Il povero contadino Giacomino continuava a seminare la pianta di pomobianco con la speranza di un raccolto migliore ma i pomobianchi continuavano a essere poco saporiti e soprattutto poco nutrienti, così gli abitanti continuavano a mangiare cibi pesanti, grassi e con troppe calorie causando diversi malesseri.
    Giacomino stanco di questa situazione andò nel Regno della Buona Salute a chiedere aiuto al Mago Vitamina. Il Mago ascoltò con attenzione, poi gli disse che gli doveva procurare alcuni ingredienti sparsi tra i regni : l’arancio più arancio del mondo, per una carica di vitamina; lo spinacio più verde di Castellazzo Bormida, ricco di ferro, per combattere l’anemia; la banana più gialla del sole, che con il suo potassio allontana la stanchezza e la debolezza muscolare; frutta e verdura, gustosa e colorata, che custodiscono zinco, selenio, fosforo e calcio fondamentali per la salute di ossa, denti, pelle e corpo.
    Con questi ingredienti fece una pozione magica che, una notte, sparse su tutte le piante di pomobianchi dell’orto del contadino. Giacomino, al risveglio, andò nell’orto e i suoi pomobianchi spiccavano tra le foglie verdi perché erano di un rosso intenso e brillante.
    Incredulo, ma felice, prese tutto il suo raccolto e lo portò al mercato. Tutti gli abitanti vollero assaggiare lo strano pomobianco e acquistarlo in grande quantità perché non era solo bello ma anche buono, anzi buonissimo e ricco di sostanze nutritive.
    Mentre contava tutte le monete d’oro che aveva guadagnato, Giacomino decise di dare un nuovo nome al suo frutto e chiamarlo “ POMO D’ORO”, in ricordo di tutte le monete d’oro che aveva guadagnato.


    “…trovai, sulla tavola imbandita nel caldo accogliente della cucina la stessa purpurea meraviglia.”
    (Umberto Saba)



    ..ricette antiche..

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    Durante i due secoli di vita silenziosa, a dispetto della sua assenza dai grandi ricettari, entrò nell’uso della cucina povera meridionale e, quando per la prima volta comparve in una ricetta, era già stata largamente sperimentata. Antonio Latini, partito da una condizione di totale povertà, riescì a diventare “scalco”, ovvero “maestro dei conviti”, e inserì per ben due volte il pomodoro nella sua monumentale opera sulla cucina, lo Scalco alla moderna. La prima ricetta è una “Salsa alla Spagnola”, che il grande cuoco consigliò vivamente per accompagnare i bolliti: “Piglierai una mezza dozzena di Pomodoro, che sieno mature; le porrai sopra le brage, a brustolare, e dopo che saranno abbruscate, gli leverai la scorza diligentemente, e le triterai minutamente con il Coltello, e v’aggiungerai Cipolle tritate minute, a discrezione, Peparolo pure tritato minuto, Serpollo o Piperna in poca quantità, e mescolando ogni cosa insieme, l’accomoderai con un po’ di sale, Oglio, e Aceto, che sarà una Salsa molto gustosa, per bollito, o per altro”.

    Più raffinata la seconda ricetta, ricca ed elaborata, che ci riporta ai fasti di una cucina da re, la “Cassuola di pomodoro”: “Si formerà la suddetta Cassuola con pezzi di Piccioni, petto di Vitella, e colli di Polli ripieni; si faranno stufar bene, dentro un buon brodo, con sue erbette odorifere, e Spezierie confacevoli, insieme, con creste e granelli di Polli; quando sarà giunta alla debita cottura, si piglino le Pomodoro, e si mettano ad abbruscare, su le brage; dapoi si mondino, e se ne facciano quattro parti, mettendole dentro, con le sopradette robbe, con avvertenza, che non si facciano cuocere troppo, perché queste vogliono poca cottura; si piglino poi Ova fresche, con un poco di sugo di limone, e si facciano quagliare, coprendoli con un Testato, con fuoco sotto e sopra”.

    Anche Francesco Gaudentio, che lavorò a Roma come coadiutore di una mensa per Gesuiti, nel suo famoso libro di cucina, Il Panunto toscano, del 1705, inserì una ricetta al pomodoro che non fa che riproporre gli ingredienti che già avevamo notato nel quadro di Esteban Murillo, mezzo secolo prima, sentendo anche la necessità di descrivere la bacca, così come avevano fatto i botanici del ’500:”Modo di cuocere li pomi d’oro. Questi frutti sono quasi simili alle mele, si coltivano nei giardini e si cuociono nel modo seguente: piglia li detti pomi, tagliali in pezzetti, mettili in tegame con olio, pepe, sale, aglio trito e mentuccia di campagna. Li farai soffriggere col rivoltarli spesso e se ci vorrai aggiungere un poco di molignane tenere e cucuzze lunche ci faranno bene”.

    Vincenzo Corrado, quando, nel 1786, a Napoli, dà alle stampe la sua raccolta di ricette Il cuoco galante. Al Trattato IX, che egli intitola Del vitto pitagorico, tesse le lodi di questo alimento e insegna al lettore come prepararlo prima di cucinarlo; ma apre anche la ricetta con un invito alla gioia di gustarlo:

    “I pomidoro sono di piacere. Per servirli bisogna prima rotolarli su le braci, o per poco metterli nell’acqua bollente per toglierli la pelle. Se li tolgono i semi o dividendoli per metà, o pure facendoli una buca. Sbucati i pomidoro, e netti da semi, si riempiono...”. Quindi egli elenca ben dodici modi per presentarli: “Farsiti al vitello”, “farsiti al butirro”, “farsiti all’erbette”, e ancora ripieni di pesce, ai tartufi, in crocchette, in frittelle, in budino, alla Napoletana, ovvero ripieni di acciughe, prezzemolo, origano, aglio, coperti di pan grattato: Napoli si appresta a diventare lo sfondo naturale di ogni futuro sviluppo del pomodoro in cucina.

    Il consumo si allargò pian piano anche all’Italia centrale. Luigi Bicchierai, detto Pennino, titolare della locanda al Ponte, di Lastra a Signa, vicino a Firenze dal 1812 al 1873, ci ha lasciato un diario e molte ricette, fortunosamente ritrovati in una cassa abbandonata in una vecchia casa. Si tratta dell’unico documento del genere giunto fino a noi. La prima ricetta, datata marzo 1812, è quella del “sugo della miseria”, una sorta di ragù fatto con i pomodori e gli avanzi di carne lessa, senza indizio che venisse usato sui maccheroni: “Il sugo non è un santo, ma dove casca fa miracoli.» E sempre in Toscana, nel 1911, lo scrittore Vamba conferirà gloria imperitura alla pappa al pomodoro, simbolo della rivoluzione di Gian Burrasca.

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    Il pomodoro seppe imporsi nei gusti della gente grazie ad alcune sue caratteristiche intrinseche, tra cui furono certamente fondamentali quella di abbinarsi a molti altri alimenti – così come avevano raccontato i grandi narratori degli Aztechi, Bernardino de Sahagun e José de Acosta – e anche quella di conservare dopo la cottura il suo sapore, a differenza di altri ingredienti che, in funzione di spezie, non possono essere cotti, perché in tal caso mutano di gusto. Fu inoltre importante il fatto che la bacca conservasse il suo colore durante la cottura, diffondendolo uniformemente sugli altri ingredienti. Da non trascurare poi che potesse essere mangiata cotta o cruda e che sia sempre stata un cibo a basso costo. Inoltre il pomodoro fu il primo, in tempi lontanissimi dai nostri, a vincere il problema della stagionalità. Ma forse altri due fattori furono ancora più importanti: l’abitudine di alcune popolazioni – in particolare di quella napoletana – di fare largo uso di vegetali in cucina – al contrario della popolazione nord-europea, che viveva soprattutto di carni e pesce – e la fame endemica di numerose zone d’Italia, per cui pane, cipolla e pomodori crudi furono a lungo cibo quotidiano.



    «Anche da noi a Trieste si mangiava l’estate, la pasta al pomodoro. Ma la salsa tingeva appena del suo bel colore le tagliatelle o gli spaghetti. Qui invece copriva fino agli orli il piatto, che un cameriere – anche lui celebre, si chiamava Rocco Pesce – recava, severo, in giro. Il piatto sembrava una rossa bandiera trionfale, e il sapore della minestra, così suntuosamente condita, era eccellente. Seppi poi che in tutto il meridione d’Italia la pasta al pomodoro si serviva in quel modo, e che il cuoco di Gabriele D’Annunzio, era, egli pure, un meridionale. A me parve, allora cosa nuova. Pensai ad un’invenzione dell’Immaginifico; rammento anche di aver fatto un’associazione mentale con una sua poesia.»

    (Umberto Saba)




    ..Conserva di pomodoro..

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    Si dice che fu Napoleone, nel 1800, incoraggiò la ricerca di nuovi metodi di conservazione dei cibi, per sostenere i suoi eserciti durante le marce di spostamento. In realtà, le sperimentazioni erano cominciate da tempo.

    I primi tentativi, per la conservazione di pomodoro, di mantenere il prodotto oltre la fase di stagionalità furono suggeriti dal caso o dalla natura. Il primo a parlare di salsa di pomodoro fu un marchigiano, Antonio Latini, cuoco nelle cucine vicereali, a Napoli. Nel libro “Lo scalco alla moderna”, pubblicato nel 1696 fornisce tre ricette a base di pomodoro e segna l’entrata di questo ingrediente nella gastronomia europea. Si possono individuare sia l’antenato della salsa per i maccheroni, sia quello del ragù napoletano. Nel Settecento si trovano nei ricettari sempre più tracce di pomodori, ma non senza polemiche. L’abate Pietro Chiari, gesuita e moralista cattolico, inserì i pomodori tra i cibi riprovevoli. “Non c’è niente di più malefico dell’abitudine (sempre crescente) di fare uso di cibi ricoperti di droghe provenienti dalle Americhe.”

    Ai primi dell’Ottocento, mentre il pomodoro entrava con grande successo in tutte le cucine europee, la sua “conserva” entrava nei ricettari delle famiglie borghesi, con tutti i crismi della tradizione. Il principio della conservazione corrispondeva anche a un’etica del risparmio, a un vantaggio per la cucina, e non soltanto a scelte di gusto, come dimostra questa ricetta maceratese:

    “Il pomo d’oro è un frutto assai vantaggioso per la cucina, e di buon gusto, o sia per salsa, o per minestre (...). Dunque prendete il pomo, fatelo cuocere in un cazzeruola a fuoco lento, solo che lo paccherete in mezzo, e lasciatelo andar così cocendo per fino che divenga tutto disfatto, dopo passatelo nello staccio con una cucchiaia di legno: passato che sia bene, tornate a farlo bollire a fuoco lento, fatelo stringere assai; questa conserva mettetela in un vaso di terra ben vetrato, e freddato che sarà, copritelo con una carta ben chiuso con spago, mettetelo in luogo asciutto, e l’estate in un luogo fresco, e che sia sciutto. Di questa conserva vi potete servire per zuppe e salse, quando non si trovano più freschi a suo tempo”.

    Nel 1762 Lazzaro Spallanzani definì le tecniche di conservazione notando, per primo, come gli estratti fatti bollire e posti in contenitori chiusi non si alterassino. Nel 1809, un cuoco parigino, Nicolas Appert, pubblicò l’opera "L’art de conserver les substances alimentaires d’origine animale et végétale pour pleusieurs années", dove fra gli altri alimenti citò anche il pomodoro .



    Vincenzo Agnoletti, famosissimo cuoco, che vantava il suo servizio nelle cucine di Maria Luigia di Parma, pubblicò nel 1814 una raccolta di ricette La nuovissima cucina economica, che inseriva quattro ricette per la conservazione del pomodoro, secondo la tradizione casalinga. Ma nel 1832 Agnoletti pubblicò un altro dei

    suoi libri, con al suo interno la ricetta per la “Conserva di pomidoro al fresco”: “Spremete leggermente dei pomidoro buoni, e colti al suo punto, e gettate la prima acqua acida; indi esprimete bene il sugo e passatelo per setaccio due volte, ponetelo dentro le bottiglie, con sopra un poco di olio, incatramate il turaccio e conservatele in cantina dentro la sabbia. Per conservarla meglio farete bollire le bottiglie otturate a bagno maria per sedici minuti, e poi le farete raffreddare nel bagno medesimo; indi conservatele in cantina coperte di sabbia”.

    Nel 1839, il napoletano don Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, nella "Cucina casarinola co la lengua napoletana", in appendice alla seconda edizione della "Cucina teorico pratica", fornisce la ricetta per una salsa: “i pomodori bolliti, passati al setaccio, fatti restringere ulteriormente con sugna ed olio, sale e pepe, forniscono una salsa da mettere sopra il pesce, la carne, i polli, le uova e sopra ciò che si desidera.”



    L’industria di trasformazione e conservazione del pomodoro nacque a Parma, nelle cui campagne, dopo la metà dell’Ottocento, i contadini producevano pani di polpa che veniva essiccata al sole.
    Carlo Rognoni, professore di agronomia e contabilità rurale al Regio Istituto Tecnico di Parma, intuì che per dare un futuro alla coltivazione del pomodoro occorresse creare e sostenere l’attività di trasformazione in conserve. Nel 1874 nacque la Società anonima di coltivatori per le conserve di pomodoro. Si affacciarono alla storia i pionieri dell’industria nascente (Mutti, Pagani, Rodolfi, Pezziol e altri ancora) che diedero vita a delle vere e proprie dinastie di imprenditori.
    I laboratori che dichiararono la propria attività, a Parma, alla Camera di commercio, furono 4 nel 1893, 5 nel 1894, 11 nel 1896. L’industria parmense acquisì un primato europeo dopo l’importazione dalla Francia, nel 1905, delle apparecchiature per la condensazione del concentrato sottovuoto. Negli anni successivi furono attivate anche nel torinese; Francesco Cirio fondò la prima industria conserviera in Piemonte e ne aprì un’altra a Napoli nel 1875 che si specializzerà nei pelati, prodotti dal pomodoro campano, San Marzano.

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    LA MORTE DI CESARE

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    Durante i giorni che seguirono le Idi di marzo, il corpo di Cesare prese un inusitato valore politico. I cospiratori avevano pianificato di gettarlo nel Tevere, ma lo abbandonarono invece nell’atrio della Curia, ai piedi della statua di Pompeo. Tre schiavi del defunto poterono avvicinarlo, lo distesero su una lettiga e lo trasportarono nella sua dimora. Ne nacque la questione di come si sarebbe dovuto seppellire Cesare. Suo suocero, Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, esigeva che le onoranze funebri fossero almeno all’altezza della sua carica di pontefice massimo, mentre i congiurati pretendevano che venisse sepolto segretamente senza onori, come meritava un tiranno. Antonio sostenne che quest’ultima soluzione avrebbe potuto irritare la popolazione, e Bruto, contravvenendo al parere di Cassio, si lasciò convincere, un errore che avrebbe pagato molto caro. Antonio si preparò a organizzare funerali spettacolari, molto lontani dalle austere cerimonie tradizionali. Era sua intenzione trasformare il rito in una grande operazione di propaganda per predisporre il popolo a favore di Cesare e contro i suoi assassini. Il corpo del dittatore venne collocato su un cataletto d’avorio, ricoperto di porpora e oro, ed esposto per qualche giorno nel Campo di Marte, all’interno di un’edicola dorata la cui forma ricordava il tempio di Venere Genitrice. Nel frattempo, a casa di Pisone, fu aperto il testamento di Giulio Cesare, scritto sei mesi prima e affidato alla Vestale Maggiore affinché lo custodisse. Il dittatore nominava suo primo erede il pronipote diciottenne Gaio Ottavio Turino, che avrebbe poi preso il nome di Ottaviano (il futuro Augusto), il quale inoltre veniva adottato. Al popolo vennero lasciato gli Horti Tiberini, una vasta tenuta ai piedi del Gianicolo dai confini incerti e 300 sesterzi a ogni cittadino. Il 20 marzo, il feretro di Cesare fu portato a braccia nel Foro da diversi magistrati e collocato di fronte alla tribuna degli oratori.[..] Il punto culminante venne raggiunto quando Antonio afferrò il telo che copriva la bara: era la toga che Cesare indossava nel momento in cui era stato assassinato e che presentava gli strappi prodotti dalle pugnalate e le macchie di sangue. [..] Durante il funerale, Antonio fece leggere il testamento di Cesare. La gratitudine del popolo per il lascito del dittatore si unì all’ira quando si udì menzionare, fra gli eredi che Cesare aveva compreso nelle sue ultime volontà, Decimo Giunio Bruto Albino, uno dei suoi assassini. In quel momento, alcuni magistrati si stavano apprestando a sollevare il feretro per portarlo vicino alla tomba della figlia di Cesare, Giulia, per poi cremarlo.Ma la folla non lo permise: cesare sarebbe stato cremato all’interno della città, nel cuore del Foro. Quando due veterani di Cesare diedero fuoco alla pira con delle torce, il popolo la alimentò gettandovi tutto ciò che aveva a disposizione. La cerimonia si trasformò così in un rito collettivo .. Gli attori che avevano partecipato alle onoranze funebri rappresentando gli antenati di Cesare, si stracciarono le vesti e ne fecero brandelli per alimentare il fuoco, le truppe di Cesare vi gettarono le armi e le matrone i gioielli. A Cesare resero omaggio anche i Giudei, riconoscenti per essere stati liberati da Pompeo.[..] Cesare era solito dire che la sua sopravvivenza non gli interessava tanto quanto quella della Repubblica; perché se gli fosse successo qualcosa, la Repubblica sarebbe stata coinvolta in guerre molto più gravi di quelle che avevano affrontato i suoi sostenitori contro quelli di Pompeo. E così fu. Marco Antonio intraprese immediatamente un devastante conflitto con Ottaviano. Ciò portò al definitivo fallimento della cospirazione contro Cesare: Bruto e i suoi avevano solamente assassinato l’uomo; il potere e il modo di governare di Cesare sarebbero sopravvissuti in Ottaviano Augusto.

    (Jaun Pablo Sanchez, tratto da Storica, National Geographic, luglio 2015)

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    (Jerome)


    «Ma la morte imminente fu annunciata a Cesare da chiari prodigi. Pochi mesi prima, i coloni condotti a Capua, in virtù della legge Giulia, stavano demolendo antiche tombe per costruirvi sopra case di campagna. Lavoravano con tanto ardore che scoprirono, esplorando le tombe, una gran quantità di vasi di antica fattura e in un sepolcro trovarono una tavoletta di bronzo nella quale si diceva che vi era sepolto Capi, il fondatore di Capua. La tavola recava la scritta in lingua e caratteri greci, il cui senso era questo: «Quando saranno scoperte le ossa di Capi, un discendente di Iulo morrà per mano di consanguinei e ben presto sarà vendicato da terribili disastri dell’Italia.» Di questo episodio, perché qualcuno non lo consideri fantasioso o inventato, ha reso testimonianza Cornelio Balbo, intimo amico di Cesare. Negli ultimi giorni Cesare venne a sapere che le mandrie di cavalli che aveva consacrato, quando attraversò il Rubicone, al dio del fiume, e lasciava libere di correre, senza guardiano, si rifiutavano di nutrirsi e piangevano continuamente. Per di più, mentre faceva un sacrificio, l’aruspice Spurinna lo ammonì di «fare attenzione al pericolo che non si sarebbe protratto oltre le idi di marzo». Il giorno prima delle idi un piccolo uccello, con un ramoscello di lauro nel becco, volava verso la curia di Pompeo, quando volatili di genere diverso, levatisi dal bosco vicino, lo raggiunsero e lo fecero a pezzi sul luogo stesso. Nella notte che precedette il giorno della morte, Cesare stesso sognò di volare al di sopra delle nubi e di stringere la mano di Giove; la moglie Calpurnia sognò invece che crollava la sommità della casa e che suo marito veniva ucciso tra le sue braccia; poi, d’un tratto, le porte della camera da letto si aprirono da sole. In seguito a questi presagi, ma anche per il cattivo stato della sua salute, rimase a lungo indeciso se restare in casa e differire gli affari che si era proposto di trattare davanti al Senato; alla fine, poiché Decimo Bruto lo esortava a non privare della sua presenza i senatori accorsi in gran numero che lo stavano aspettando da un po’, verso la quinta ora uscì. Camminando, prese dalle mani di uno che gli era venuto incontro un biglietto che denunciava il complotto, ma lo mise insieme con gli altri, come se volesse leggerlo più tardi. Dopo aver fatto quindi molti sacrifici, senza ottenere presagi favorevoli, entrò in curia, passando sopra ogni scrupolo religioso, e si prese gioco di Spurinna, accusandolo di dire il falso, perché le idi erano arrivate senza danno per lui. Spurinna, però, gli rispose che erano arrivate, ma non erano ancora passate.

    Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l’incarico di dare il segnale, gli si fece più vicino, come per chiedergli un favore. Cesare però si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa a un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: “Ma questa è violenza bell’e buona!” uno dei due Casca lo ferì, colpendolo poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con lo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, con anche la parte inferiore del corpo coperta. Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: “Anche tu, figlio?”. Rimase lì per un po’ di tempo, privo di vita, mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi. Secondo quanto riferì il medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in pieno petto.I congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console Marco Antonio e del comandante della cavalleria Lepido»


    Sventonio, CESARE, 81-82



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    Edited by gheagabry1 - 26/6/2023, 18:05
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    Alberi secolari, i grandi patriarchi verdi d’Italia

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    SASSARI - Antiche e maestose, le piante più antiche del nostro Paese sono considerate veri monumenti, testimoni di storie e leggende, simboli di un patrimonio naturale e culturale da scoprire. Sono querce, faggi, pini, lecci, castagni, olivi e larici ultrasecolari, che la natura ha preservato fino ai giorni nostri e che oggi sono tutelati e protetti dalla legge 10/2013 del ministero dell’Ambiente. Ne tutelano la conservazione molte associazioni, tra cui quella dei Patriarchi della Natura, che dal 2006 studia i vecchi alberi d’Italia, raccogliendone documenti e informazioni; nel tempo l’associazione ha realizzato un archivio che viene aggiornato periodicamente e dove oggi sono registrate e memorizzate oltre 12mila piante ritenute di notevole interesse per età, dimensione, rarità e per il valore scientifico, storico e paesaggistico. Ecco, da nord a sud d’Italia, gli alberi secolari che meritano una visita.

    L’olivo di San Baltolu di Luras - Il selvatico olivo di Luras, sulle sponde del lago Liscia in provincia di Sassari, è l’albero più antico d’Italia: supera i 4mila anni d’età e ancora oggi ospita sotto i suoi rami e la sua immensa chioma centinaia di pecore al pascolo. Il nome in sardo è S’Ozzastru, cioè l’olivastro, e le sue misure sono impressionanti: è alto 14 metri e la circonferenza della chioma è di 23 metri. Il tronco, che ne misura 12, è scolpito da nodi e piccole cavità, che le conferiscono un aspetto da vero patriarca della natura.

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    Il castagno dei Cento Cavalli - E’ patrimonio dell’Unesco il maestoso e antichissimo castagno che si erge nel parco dell’Etna, nel comune di Sant’Alfio in provincia di Catania. Le sue dimensioni sono da record: 22 metri di circonferenza del tronco e altrettanti di altezza; anche l’età è incredibile perché il castagno ha un età compresa tra i 3mila e i 4mila anni. Una leggenda popolare narra che durante una battuta di caccia Giovanna la Pazza fu sorpresa da un temporale e trovò riparo assieme a tutto il numeroso seguito, cento tra cavalieri e dame, sotto le immense fronde del castagno. Da qui il nome dei “cento cavalli”, che si rifugiarono sotto la sua chioma.

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    Il cipresso di Vernazza - E’ l’albero più vecchio della Liguria e veglia come un campanile il santuario di Nostra Signora di Reggio a Vernazza, in provincia di La Spezia. Il pizzuto e rigoglioso cipresso di 800 anni ha misure da record: è alto 23 metri e ha un diametro di mezzo metro. Considerato simbolo di longevità e vita eterna, venne piantato dopo la costruzione del santuario di Vernazza, che si raggiunge lungo un sentiero lastricato e ombreggiato da altri alberi secolari.


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    Il fico di Badia Cavana - E’ il fico più antico d’Italia e sorge nel comune di Lesignano de’ Bagni, in provincia di Parma. E’ una pianta ultracentenaria con una chioma di 50 metri di diametro e 7 d’altezza e sorge su una verde altura nei pressi dell’abbazia romanica san Basilide a Badia Cavana, fondata nel 1100 da san Bernardo degli Uberti, vescovo di Parma. Il fico si trova proprio su un crocevia di importanti tracciati, percorsi da pellegrini, commercianti e artigiani che trovavano ospitalità nel monastero benedettino. La longevità della pianta dall’enorme e rigoglioso cespuglio e dal tronco formato da tanti fusti è in gran parte dovuto al fatto che alla base vi scorre una sorgente di acqua pura.

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    La quercia delle Checche - Un’imponente roverella, una quercia comune di 370 anni, domina la Val d’Orcia nei pressi di Pienza: la circonferenza del tronco raggiunge i quattro metri e mezzo e la sua chioma è così grande che venne utilizzata come nascondiglio dai partigiani durante la Resistenza. La leggenda popolare dice, persino, che sotto la sua chioma si riunissero le streghe che diedero ai rami un aspetto nodoso e contorto. Il nome, infine, deriva dalle gazze, in Toscano checche, che nidificano tra i suoi grandi rami.

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    L’olivo di Canneto Sabino - Sorge a Canneto, in provincia di Rieti, l’antico olivo della Sabina: è alto 15 metri con una circonferenza del tronco di 7,2 metri e un diametro della chioma di circa 30 metri. Nel tempo alla base del tronco si è aperta una cavità che lo ha svuotato all’interno fino alle radici. Secondo un’antica leggenda pare sia stato piantato ai tempi di Numa Pompilio, re di Roma dal 715 al 673 a.C. In realtà il maestoso esemplare di olivo venne piantato dai monaci benedettini di Fara circa mille anni fa nella zona bonificata di Canneto; numerosi documenti antichi testimoniano, infatti, la vocazione millenaria della Sabina alla produzione di olio d’oliva. Dal 1876 la famiglia Bertini si occupa di tutelare la bellezza e la salute dell’antico olivo all’interno di un giardino privato a Canneto, facilmente visibile dalla strada.

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    Il pino del parco nazionale del Pollino - Ha 1230 anni Italus, il pino loricato che a quasi 2mila metri d’altezza svetta con i suoi rami contorti, modellati dal vento, tra i costoni rocciosi del Parco in Calabria, non lontano dal confine con la Basilicata. Il pino loricato è una specie endemica del Pollino che ne ospita ormai solo pochi esemplari, tutti alberi ultracentenari la cui corteccia ricorda nella trama la corazza dei guerrieri romani, detta appunto lorica. Italus, dunque, è il pino più antico d’Europa con i suoi 10 metri d’altezza; per misurare esattamente la sua età è stato necessario sperimentare il metodo innovativo dell’analisi al radiocarbonio, che ha affiancato il tradizionale conteggio degli anelli.

    Il pino di Lenne - Boschi di pino d’Aleppo circondano la foce del fiume Lenne, in località Pino di Lenne, a pochi chilometri da Taranto. La paradisiaca città pugliese, citata da Tito Livio e ambita da registi per girarvi film e videoclip, ospita il pino d’Aleppo più antico d’Europa: alto 20 metri e con una circonferenza di 4 metri, è stato messo a dimora più di 300 anni fa. Tutt’intorno svettano altri pini d’Aleppo tra dune, vegetazione fluviale e una spiaggetta da sogno.

    I larici della Val d’Ultimo - Nel bosco di conifere di santa Gertrude, frazione della Val d’Ultimo, nel parco nazionale dello Stelvio, svettano tre maestosi larici che secondo gli esperti hanno 2.200 anni d’età. Le piante millenarie sono veri giganti della natura: il più alto misura 38 metri e il più grosso ha una circonferenza di 8 metri mentre il terzo esemplare può ospitare all’interno del suo tronco ormai cavo un uomo in piedi.

    Il larice della Valmalenco - Ha 1062 anni e gode di ottima salute il larice nodoso e forte della Valmalenco, nel cuore della Valtellina: per ammirare la sua miracolosa longevità è stato creato il “sentiero del larice millenario” che conduce a quota 2.160 metri, dove svetta il vecchio albero tra le conifere più datate d’Europa. La comunità montana Valtellina di Sondrio e il Cai della Valmalenco hanno messo in sicurezza il tracciato che sale in Val Ventina: si parte dai rifugi Gerli e Ventina e in mezz’ora si raggiunge una piccola foresta, dove svetta il vecchio larice e gli fanno compagnia altri cembri secolari di oltre 500 anni d’età.

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    «Pomo d’oro, cosiddetto volgarmente dal suo intenso colore, overo pomo del Perù, quale o è giallo intenso overo è rosso gagliardamente […] ancora lui da ghiotti et avidi de cose nove è desiderato […] ma al mio gusto è più presto bello che buono».

    Così scriveva Costanzo Felici in una lettera a Ulisse Aldrovandi (1522-1605) del 10 marzo 1572.

    IL POMODORO


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    Il pomodoro (Solanum lycopersicum, L. 1753 - identificato secondo il Codice Internazionale di Nomenclatura Botanica (ICBN) Lycopersicon esculentum (L.) Karsten ex Farw. dalla classificazione botanica), appartiene alla famiglia delle Solanaceae, è una pianta annuale. Le sue bacche, dal caratteristico colore rosso, sono largamente utilizzate in ambito alimentare in molti paesi del mondo.

    Il pomodoro è stato introdotto in Europa in seguito alle scoperte geografiche e alla creazione dei primi imperi coloniali all’inizio del Cinquecento. È originario delle regioni tropicali e subtropicali del Cile, del Perù e dell’Ecuador; si possono trovare delle specie selvatiche dai frutti piccoli che offre i suoi frutti tutto l’anno, tipo cherry o ciliegino.

    La prima classificazione botanica fu di Carlo Linneo nel 1753, nel genere Solanum, ome Solanum lycopersicum (lyco-persicum deriva dal greco λύκος e πϵρσικός, letteralmente pesca dei lupi). Nel 1768, Philip Miller cambiò il nome, sostenendo che le differenze dalle altre piante del genere Solanum, quali patata e melanzana, erano sostanziali, tali da giustificare la creazione di un nuovo genere: da qui il nuovo nome scientifico di Lycopersicon esculentum. Questo nome ebbe notevole successo, sebbene fosse contrario alle regole di nomenclatura vegetale, secondo cui, se si sposta la specie in un nuovo genere, l'epiteto specifico (lycopersicum) non deve essere cambiato, ma solo il nome del genere: Hermann Karsten corresse l'errore nel 1881 e pubblicò il nome formalmente corretto Lycopersicon lycopersicum. Le moderne tecniche di biologia molecolare hanno permesso di creare precisi alberi filogenetici, che hanno indicato come il pomodoro in realtà faccia parte veramente del genere Solanum, dando sostanzialmente ragione a Linneo. Il nome ufficiale è quindi Solanum lycopersicum, sebbene il nome di Miller rimanga ancora in uso in molte pubblicazioni.

    Nelle diverse lingue europee viene chiamato: love apple in inglese, pomme d’amour in francese, Libesapfel in tedesco e pomo (o mela) d’oro in italiano. Alcuni riconducono l’origine del termine pomodoro ad una storpiatura dell’espressione pomo dei mori. Nelle altre lingue, deriva dall’originario termine azteco tomatl, ma è frutto di un errore in quanto la pianta importata in Europa era chiamata dagli Aztechi xitomatl (cioè “pianta con frutto globoso, polpa succosa e numerosi semi”), che significa grande tomatl. La tomatl (tomatillo) è un’altra pianta, simile al pomodoro, ma più piccola e con i frutti di colore verde-giallo, impiegata nella cucina centroamericana. Gli spagnoli chiamano entrambe tomate e ciò ha originato confusione.

    In generale la pianta ha andamento strisciante. La coltivazione a terra può causare il deterioramento delle bacche e della pianta in generale, ed è necessaria normalmente l'installazione di sostegni. La raccolta è fatta prevalentemente a mano. Molte qualità di pomodoro, quando giungono a maturazione, modificano la base del picciolo, che diventa fragile.

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    Nelle zone temperate, la pianta del pomodoro non sopravvive al clima invernale, e quindi è coltivata come annuale. In condizioni tropicale e sub, invece la pianta ha sviluppo pluriennale e continua a produrre fiori e frutti in diverse fasi dello sviluppo.

    Gli agricoltori del bacino del Mediterraneo, a metà del ’700, furono i primi fra tutti a individuare le possibilità d’impiego alimentare dei pomodori; nelle diverse regioni delle penisole iberica e italiana iniziò spontaneamente. I frutti delle prime piante arrivate in Europa, coltivate per lo più in Francia in un clima freddo, rimanevano piccoli e giallognoli, spesso contorti, non particolarmente accattivanti; fu il cambio di zona di coltivazione a renderlo rosso. Nell’individuare, anno dopo anno, le bacche con maggior resistenza e qualità , si ricavarono sementi nuove e nuove colture. Da piante di taglia bassa e di portamento strisciante, coltivate dai popoli andini insieme con il mais e caratterizzate da frutticini generalmente di colore giallo, si è passati, attraverso la selezione naturale prima, e con l’avvento degli ibridi a nuove piante e generando fino a 320 varietà.

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    Tutte le parti verdi della pianta sono tossiche, in quanto contengono solanina, un glicoalcaloide steroidale per questo il fusto e le foglie non vengono utilizzati a scopo alimentare. Anche il frutto contiene solanine (α-tomatina e deidrotomatina) ma in quantità molto basse. Per la presenza di diverse proteine allergizzanti: (Lyc e 1; Lyc e 2; 2Apoligalatturonasi; alfa-fructofuranosidase; superossido dismutasi; pectinesterasi; chitinosi), il pomodoro può essere causa di allergia alimentare anche grave.

    Le bacche del pomodoro possono, oltre che rosse, assumere colorazioni differenti. Si va dal colore bianco (white queen, white tomesol) a quelle giallo (douce de Picardie, wendy, lemon), rosa (thai pink), arancioni (moonglow), verdi anche a maturazione (green zebra), e nere violacee (nero di Crimea, purple perfect). Alcune varietà scure sono state appositamente selezionate, con tecniche tradizionali e OGM; ottenendo una pigmentazione del frutto nero, blu, si può usufruire delle proprietà antiossidanti associate a tali pigmenti. In alcune cultivar la buccia è leggermente pelosa, simile alla pelle di una pesca.

    Esistono pomodori lunghi (San Marzano), rotondi e molto grossi (cuore di bue o beefsteak), a forma di ciliegia, riuniti in grappoli (reisetomaten), e persino cavi all'interno (tomate à farcir).

    Le varietà sono molte: Pomodoro Pachino (o di Pachino, o ciliegino); Pomodoro fragola (o fragolino), una variante del pomodoro Pachino a forma di fragola e con basso contenuto di acidità; Pomodoro datterino; Pomodoro vallivo; Pomodoro Camone; Pomodoro Sun black; Pomodoro di Belmonte; Pomodoro di San Marzano; Pomodoro Regina; Pomodoro Cuore di bue; Pomodoro costoluto catanese detto anche solo 'u catanisi; Pomodoro costoluto fiorentino; Pomodoro blu; Pomodoro di Corbara
    Attualmente il pomodoro è, insieme alla patata, la specie orticola più coltivata al mondo. La Spagna e l’Italia hanno da tempo perduto il primato della sua produzione, superate da Cina, Stati Uniti, Turchia.

    …storia…


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    La salsa di pomodoro era parte integrante della cucina azteca. I pomodori sono originari della fascia di territorio che va dal Cile, al Perù, all’Ecuador, dove ancora oggi sono presenti specie selvatiche che hanno andamento perenne. In Messico comparvero come infestanti tra le piante del mais, ma presto ci si accorse che ne miglioravano la produzione. Furono coltivati con perizia dagli Indios che avevano affinato un sistema produttivo basato sulla regimentazione delle acque e sulla sistemazione del terreno.

    La coltivazione avveniva su una sorta di isole, circondate da canali principali, che portavano acqua a fossi secondari. Le isole erano in buona parte formate con la terra scavata nei fossi; i loro argini erano protetti da piante, per lo più alberi che impedivano lo smottamento delle sponde.

    Al tempo dell’arrivo degli Spagnoli, la pianta di pomodoro aveva ormai perduto, grazie ai lunghi periodi di coltivazione e alle continue selezioni, la sua naturale pericolosità, ed era largamente diffusa. L’alimentazione degli Indios era basata per lo più sul mais, dalla cui farina le donne ricavavano focacce rotonde, le tortillas. In particolari occasioni, le focacce potevano essere riempite con un impasto di verdure e carne a piccoli pezzi, avvolte in foglie di mais e cotte a vapore. Gli Europei dovettero adeguarsi all’alimentazione degli Indios e le prime notizie provengono da tre preziose testimonianze.

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    La prima da un soldato scrittore, Bernal Diaz del Castillo. Quando si accinse a scrivere la sua storia, erano passati più di trent’anni dalla caduta di Tenochtitlan e dalla fine dell’impero azteco, ma questo non gli impedì di rievocare lo stupore dei soldati spagnoli, convinti di trovarsi di fronte a popolazioni selvagge, alla vista della città sconosciuta che si ergeva dalle acque:

    “Vaste città, edifici e templi smisurati sorgevano dall’acqua, come negli incantesimi della storia di Amadigi: i soldati si domandavano se quello non fosse tutto un sogno... Rimasi a lungo in ammirazione, convinto che non si sarebbe mai più scoperta una terra così bella. E dire che di tutto questo non resta ormai pietra su pietra: tutto è andato distrutto, tutto perduto”.. Nel verso che segue, Bernal non tralascia di descrivere, con semplicità ed efficacia, ciò che i suoi occhi videro, tra cui le testimonianze della vita economica e sociale che si svolgeva nelle città. Le prime notizie sul pomodoro appaiono incidentali: durante la conquista, l’esercito di Cortés incontra l’opposizione della popolazione della città di Cholula, che per la sua ribellione subirà una tremenda punizione. “Noi siamo venuti qui per trattarvi da amici e da cristiani, per portarvi la luce della vera fede, togliendovi dall’errore e dalla turpitudine in cui vivete, adorando falsi idoli, facendo sacrifici umani e mangiando carne del vostro prossimo. Ed ecco che voi, dopo averci accolti nella vostra città, vi disponevate proprio a mangiare la nostra carne e avevate già bell’e pronte le pentole col sale, il pepe e i pomodori. Molto meglio avreste fatto se ci aveste combattuto in campo aperto..”. Le parole di Cortés rispettavano un’usanza degli Aztechi, i quali “mangiavano braccia e gambe delle vittime con la salsa di chimole”. Il 13 agosto 1521 la resistenza del Messico contro l’invasione spagnola era finita, Tenochtitlan era distrutta, della grande civiltà degli Aztechi rimanevano per lo più rovine. Solo trent’anni dopo Bernal Diaz del Castillo, che aveva partecipato alla conquista del Messico, cominciò la sua cronaca. Perché tanto ritardo? La sua “Historia Verdadera de la Conquista de la Nueva España” doveva smentire il biografo ufficiale di Hernán Cortés, mettendo in luce il ruolo collettivo che i soldati come lui ebbero nell’ impresa. Bernal scrisse con semplicità e chiarezza, mostrando luci e ombre del mondo che aveva contribuito a distruggere e non nascondendo gli orrori della conquista. L’opera viene considerata la vera narrazione epica del XVI secolo.

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    Il secondo cronista, Fra’ Bernardino di Sahagun, missionario francescano fu un precursore della moderna antropologia, studiò la cultura degli Aztechi, ne mise a confronto diversi gruppi, ascoltò e vagliò le loro testimonianze. Alla fine, scrisse un resoconto. Quando descrisse il mercato, non tralasciò di parlare di ogni attività e di ogni prodotto che vi si trovava. Sappiamo da lui che i venditori offrivano, tra le altre merci, ogni specie di pomodori dal grande al piccolo, dal colore verde al dorato – e che c’erano pomodori di ogni forma, rotondeggiante, allungata, a serpente. Nel grande mercato, le donne preparavano tamales, insieme a una salsa di vegetali, in cui erano solite utilizzare “aji (peperoncino), pepitas (semi di zucca), tomatl (pomodoro), chiles verdes (peperoncini verdi piccanti) e altre cose che rendono i sughi molto saporiti.

    Ci parla anche dell’uso del pomodoro crudo, a fette, con le carni di cane e di tacchino, notando anche il fatto che “la carne di tacchino veniva posta sopra, quella di cane sotto, per far sembrare la prima più abbondante”. Tutto questo è all’interno de “Il Codice fiorentino”, detto anche laurenziano mediceo, la fonte più autorevole di conoscenza della civiltà azteca. Bernardino de Sahagun, dedicò tutta la vita a studiare la cultura degli Aztechi e impiegò dieci anni, aiutato da giovani Indios, a mettere per iscritto i risultati del suo lavoro nella lingua dei Nahua. Venne poi invitato dalle autorità spagnole a tradurre la sua opera in castigliano. Il manoscritto bilingue, corredato da centinaia di bellissime immagini, venne inviato a Filippo II di Spagna, che però non gradì le velate critiche rivolte dal padre ai metodi della conquista. Con bolla reale, il re ne proibì la pubblicazione e donò il prezioso codice al Granduca di Toscana, che gli aveva prestato fortissime somme per la guerra contro il Portogallo. Astrologia, religione, società, vita quotidiana, animali, piante degli Aztechi, insieme al racconto della conquista nella versione dei popoli vinti, restarono sepolti nella biblioteca dei Medici, fino al 1829 quando il codice venne pubblicato in Messico. Bernardino non seppe mai che fine avesse fatto la sua opera.

    Il terzo narratore fu Padre Josè de Acosta, la cui Historia natural y moral de las Indias venne pubblicata a Siviglia nel 1590. Padre de Acosta risultò quasi un precursore di Darwin, per le sue osservazioni sull’evoluzione delle specie. Anche da lui compaiono osservazioni sull’uso del pomodoro: “Per temperare il sapore del peperoncino si ricorre al sale, che lo corregge molto, perché essi sono molto diversi l’uno dall’altro e i loro effetti si frenano reciprocamente, ma si ricorre pure alle “tomate” che sono fresche e sane e sono delle specie di grossi acini sugosi, che fanno delle salse saporite, ma sono ugualmente buone da mangiarsi da sole”.

    Nella forma e nell’aspetto, il pomodoro si presentava probabilmente come bacche leggermente oblunghe, di un colore che andava dal giallo al rosso, forse simili a quelle che il pittore Arcimboldi utilizzò per le labbra di Rodolfo II, nei celebri ritratti.

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    Non si sa con precisione quando e come i pomodori giunsero in Spagna: forse con Colombo, certamente con le navi di Cortés, ma si dice compaiano nel 1540. Fu subito considerata una pianta ornamentale perché giudicata tossica come altre solanacee e alcuni studiosi di botanica la considerarono un’altra specie di melanzana e al pari di questa un nutrimento povero e cattivo. Il Re Sole, a Versailles, amava stupire gli amici mostrando quella pianta strana con i fiorellini gialli e le palline giallo-aranciate. Nel 1544 l’erborista italiano Pietro Mattioli classificò la pianta fra le specie velenose, anche se era a conoscenza che in alcune regioni il frutto veniva mangiato. Al pomodoro vennero attribuiti poteri eccitanti ed afrodisiaci e venne impiegato in pozioni e filtri magici dagli alchimisti del Cinquecento e del Seicento.
    In Italia il pomodoro fece la sua comparsa nel 1596, sempre come pianta ornamentale delle dimore del Nord, e un ventennio più tardi raggiunse il Meridione, dove il clima favorevole portò frutti più grandi e di colore arancione-rosso, e i poverissimi contadini iniziarono a consumarli, un secolo prima di tutti gli altri Europei.

    Nel 1640 la nobiltà di Tolone regalò al cardinale Richelieu, come atto di ossequio, quattro piante di pomodoro, e sempre in Francia era usanza per gli uomini offrire piantine di pomodoro alle dame, come atto d'amor gentile. Così la coltivazione del pomodoro, come pianta ornamentale, dalla Spagna, forse attraverso il Marocco, si diffuse in tutto il bacino del Mediterraneo. Le cose cambiarono con le pestilenze e le carestie dei secoli XVII e XVIII quando, mancando il grano, non solo la plebe ma anche i ricchi dovettero cercare alimenti alternativi. In Gran Bretagna e in Germania le bacche vennero utilizzate per preparare minestre dal caratteristico sapore acidulo.

    Nel secolo che seguì, il pomodoro continuò, per quanto lentamente, a diffondersi, divenendo di uso comune nella popolazione e iniziando una storia sotterranea che, attraverso l’adozione nelle mense dei poveri, l’avrebbe reso un protagonista. Nei primi del ’600, il drammaturgo Tirso de Molina, lo cita nella sua opera El amor médico: “O insalata di pomodori di guance rosse dolci e a un tempo piccanti!”.

    Anche Suor Marcela de San Felix, figlia di Lope de Vega, nel suo simposio spirituale dal titolo

    La morte dell’appetito, parla di “ ..un’insalata di pomodori e cetrioli”. Ancora a Siviglia, trentacinque anni dopo la patata, il pomodoro compare nella lista degli acquisti per il vitto somministrato all’Hospital de la Sangre, nel luglio e nell’agosto del 1608; le date degli acquisti, corrispondenti ai mesi della raccolta, sembrano indicare l’esistenza di un prodotto locale. A metà del ’600 il pittore Estéban Murillo dipinse, per il chiostro del monastero di S. Francesco a Siviglia, “La cucina degli Angeli”, in cui l’episodio del miracolo di San Diego, argomento centrale dell’opera, occupa una posizione abbastanza marginale. Murillo amava inserire nei suoi dipinti scene di genere e adottare modelli di vita vissuta: un’ampia cucina in cui gli angeli svolgono azioni quotidiane, dall’attizzare il fuoco all’apparecchiare la mensa. In basso a destra, accanto a due angioletti, tra pentole di rame, si vedono una lunga zucca, due piccole melanzane, un pomodoro.

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    Per lungo tempo mancano fonti relative a un suo utilizzo diffuso, in Italia, come alimento, mentre abbondano le testimonianze dell’interesse che l’arrivo di piante dal Nuovo Mondo suscitò tra i botanici e i naturalisti: l’insieme delle piante alimentari, officinali e medicinali, che da secoli gli indigeni usavano abitualmente, vennero conservate negli erbari e coltivate nei giardini botanici. Ulisse Aldrovandi, grande naturalista e collezionista bolognese, coltivò lungamente il sogno di visitare di persona il Nuovo Mondo, perchè desiderava vedere le piante americane immerse nel loro ambiente. Così scrisse intorno al 1570:

    “Sono già da dieci anni che io entrai in questa fantasia d’andare nelle Indie nuovamente scoperte, per utile universale...”...“Bisognerebbe armare un buon Naviglio (...), ma soprattutto bisognerebbe ch’io avesse e tenesse molti scrittori e pittori et altre persone erudite...”. Aldrovandi non poté coronare il suo sogno, ma le piante provenienti dall’America occuparono un posto di rilievo nel suo erbario fin dal 1551. Il pomodoro gli venne spedito dall’Orto botanico di Pisa, e figura come “Pomo d’oro, tumatli” nell’erbario, mentre nella raccolta iconografica viene indicato come “Pomum aureum vel amoris Solanum pomiferum aureum malum insanum... tumbal arabum” dove, curiosamente, la pianta venne rappresentata senza bacche. Il pomodoro fu oggetto di una corrispondenza tra Aldrovandi e un altro medico e naturalista, Costanzo Felici. Costanzo Felici scrive ad Aldrovandi, associando il pomodoro alle melanzane:

    “Pomo d’oro, così detto volgarmente dal suo intenso colore, overo pomo del Perù, quale o è giallo intenso, overo è rosso gagliardemente – e questo è o tondo equalmente overo è distinto in fette como il melone – ancora lui da ghiotti et avidi di cose nove è desiderato nel medesimo modo et ancora fritto nella padella como l’altro, accompagnato con succo de agresto, ma al mio gusto è più presto bello che buono. Vogliono alcuni che sia il Lycopersico di Galeno, ma se è frutto venuto dal Perù malamente vuol essere stato cognosciuto dagli antichi (...). Un altro vi ho visto a Pesaro di questi pomi d’oro con il frutto similissimo a quel di sopra, rosso distinto pure in fette, ma la pianta è simile al melanciano o solano e credo non si mangi como l’altro, quale secondo l’Aldrovandi chiamasi solano pomifero o egittio (...)”

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    Nelle americhe, da cui proveniva, l’affermazione del pomodoro come ortaggio commestibile trovò invece molte più difficoltà. Dopo la Dichiarazione d’Indipendenza il pomodoro non venne più menzionato, né tantomeno coltivato. Si sa però che Thomas Jefferson, il presidente amante delle verdure e della buona tavola, ne coltivò nel suo giardino dal 1781. A introdurlo stabilmente in terra d’America fu, così sembra, un rifugiato francese scappato da Santo Domingo nel 1789 e un pittore italiano emigrato a Salem, nel Massachusetts nel 1802. I pomodori ebbero subito gran successo a New Orleans ma ci vollero poi altri venticinque anni prima che fossero coltivati anche nel Nord-Est del paese. La gente era convinta che la pianta fosse velenosa al punto che a Salem esiste un monumento eretto a Michele Felice Corne, un italiano passato alla gloria per aver avuto per primo il coraggio di mangiare un pomodoro, sfidando la superstizione.

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