CHEF RUBIO - Gabriele Rubini

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    Alla Ricerca del gusto perduto

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    L’antichef ex rugbista Rubio ci porta in un viaggio estremo in Estremo Oriente, tra Thailandia, Cina e Vietnam. Un viaggio tra megalopoli e piccoli centri rurali per scoprire con la gente del posto la loro gastronomia e la loro cultura. È Alla Ricerca del gusto perduto: la nuova serie in prima tv assoluta sul canale NOVE di Discovery Italia da domenica 15 settembre alle 21:25.
    Un viaggio durato cinque mesi, in cui Rubio ha visto e provato tutto, cominciato dal mercato galleggiante di Damnoen Saduak (vicino a Bangkok) per imparare a fare il Pad Thai e conoscere un’eroica coltivatrice di jack fruit, fino ad arrivare alle piantagioni di thè di Canton e Sichuan e ai fishing village nel delta del Mekong.
    Al ritorno Rubio ha continuato a fare Gabriele Rubini: per esempio, con il suo progetto Numb_hertz incontra i detenuti di Rebibbia per rileggere con loro le tragedie greche sfruttando i classici per aiutarli a comprendere meglio se stessi e cosa saranno, gira l’Italia con Elias, che è il suo ultimo corto che racconta la storia di un’amicizia nei campi Rom di Roma, sostiene campagne di salvaguardia ambientale, rende la cucina accessibile a tutti anche con il Linguaggio dei Segni. Soprattutto Rubio continua a dire la sua sul mondo, in modo decisamente poco convenzionale per uno che come lui è anche un personaggio popolare. Forse proprio per questo è più incisivo.

    «Sono abbastanza stanco, ma molto motivato, anche perché con questo programma mi sono messo completamente in gioco», dice Rubio. «Per un anno, tra mille problemi, ho lavorato fianco a fianco con Filippo Genovese per la scrittura e con il regista Fiele Efrella: ci siamo occupati di tutto. Anche altre volte ho contribuito ai miei programmi, ma mai con così tanta libertà. Il risultato è una serie molto diversa e, senza arroganza, è la prima volta che in tv si vedrà qualcosa del genere: sono ritmi più distesi, c’è una cura molto più oculata dei dettagli per mostrare veramente i luoghi che abbiamo vissuto. Non aspettatevi abbuffate o indicazioni su dove andare: Alla ricerca del gusto perduto è un invito a perdersi».

    Cosa fai nel programma?

    «Seguo la telecamera in un viaggio mai fatto. Durante la prima scena ci sono io chiuso da sette mesi in casa da solo, poi accetto l’invito della camera a uscire: tappa dopo tappa prendo confidenza con le persone e i luoghi finché, alla fine, mi chiedo se sia giusto restare per sempre. I 7 mesi non sono casuali: dopo 7 anni di televisione vivo una specie di crisi mistica come quella dei 7 anni di matrimonio. Ora sono stanco di tutto ciò che è considerato strabiliante ma che invece per me è superfluo: i selfie, gli show, i premi, le classifiche».

    Cosa succede, poi, durante la serie?

    «Cammino tutto il tempo, incontro gente, mi imbatto in situazioni diverse, piatti che fanno parte del percorso. Prendo per buono tutto ciò che c’è sulla mia strada e lo racconto: le bellezze paesaggistiche, quelle gastronomiche, e soprattutto le persone».

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    Su Instagram hai scritto che Alla ricerca del gusto perduto è stato un nuovo inizio: sei riuscito a ritrovare te stesso?

    «Sicuramente ho trovato la libertà di esprimermi: è il primo programma in cui dico ciò che voglio e come lo voglio. Però personalmente ora sono ancora in piena crisi di stanchezza. Per questo alla fine della messa in onda scomparirò per un po’: andrò in Sri Lakna con Ifad ( International Fund for Agricultural Development, è un’agenzia ONU, ndr) per un progetto sul climate changing come quello che ho già vissuto in Guatemala (che è Ricette per il Cambiamento, ndr). Poi partirò per un viaggio e mi godrò natura e cultura: metterò libri in valigia e andrò fuori dall’Italia. Se resto qui è difficile stare lontano dalle notizie e non denunciarle».

    Perché avete scelto l’Asia per girare la serie?

    «L’Asia è dove nasce il sole, un continente simbolo di rinascita dove ho sempre avuto impressioni stupende: ho visto le persone vere, il progresso che per me è involuzione, ma anche la capacità di tenere in vita contemporaneamente culture millenarie».


    Cosa ti ha lasciato questo viaggio?

    «Dal punto di vista lavorativo mi è servito per avere la conferma che un mondo fatto di leggerezza non fa per me. Dal punto di vista umano è stata una boccata di ossigeno e speranza grazie alle persone che ho incontrato. Ora andrei per ricominciare a vivere se questo mondo dovesse fare sempre più schifo».

    In Asia dove andresti a vivere?

    «In Vietnam perché lì ho incontrato le persone più semplici, con sorrisi che ti fanno innamorare. Non in Cina, perché c’è la dittatura comunista mascherata da democrazia capitalista, né in Thailandia troppo mainstream per me».

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    Cosa insegna a noi questo programma?

    «Non so se piacerà a tutti dato che non ci sono ritmi gioviali e battute obbligate. Non ho pensato a questo programma per far divertire, piuttosto vorrei mostrare che ci si può emozionare anche senza paillettes davanti a chi spesso è considerato ai margini: un portatore di handicap, una persona sdentata, un povero che però è un gran lavoratore e avrebbe molto da insegnare a tanti che in politica non hanno mai lavorato ma possono decidere per tutti».

    Cos’è per te il cibo?

    «Un modo per stare insieme, per conoscere una cultura, un pretesto per conversare con chi te lo prepara anche se è un piatto umile come una scodella di riso. Se si abbandonano le infrastrutture che la società ci ha imposto, ci si può emozionare anche così. Credo si debba dare valore anche alle cose che ci sembrano superflue».

    La gente ti ama perché in tv fai cose diverse dagli altri?

    «La gente mi ama più per quello che faccio, che dico o che scrivo sui social che per i miei programmi televisivi: in tanti mi aiutano a sostenere battaglie per cui pochi cercano di affossarmi. Sono tutte persone che si riconoscono in me ma che non hanno la stessa possibilità di urlare il disappunto che ho io, e sono profondamente grato per il loro supporto. Le persone che mi amavano solo per la tv le ho anche perse per strada per divergenze ideologiche: si sono autoeliminate. Lo zoccolo duro di chi mi vuole bene, e a cui io voglio bene, sono i disturbati dal periodo storico che fanno sana e giusta resistenza».

    Perché sei salito sull’Open Arms?

    «Sono salito perché erano anni che volevo salire su una barca: sono empirico e, a differenza di chi sputa sentenze su cose che non conosce, volevo capire. Lo dovevo a chi non può andarci, e dovevo farlo perché provare l’esperienza ti racconta molto più di tanti telegiornali. Bisogna sporcarsi le mani per sentirla la puzza, ed è impossibile farlo stando sempre dietro a uno schermo: dovremmo scendere tutti per strada».

    Cosa hai visto sull’Open Arms?

    «Sull’Open Arms ho visto professionisti che lavoravano in funzione dell’essere umano, e ho visto tanti esseri umani e tante storie che nessuno ha mai voluto raccontare né far raccontare. Noi ci preoccupiamo di dare accoglienza, ma non abbiamo mai chiesto a queste persone se vogliono questa accoglienza. Ho visto tanti esseri umani privati di ogni dignità, tanti ragazzi che purtroppo nessuno saprà mai che fine faranno: se saranno baristi, avvocati, prostitute, spacciatori. Perché non interessa a nessuno: noi li abbiamo solo criminalizzati, abbiamo criminalizzato i loro viaggi, abbiamo persino messo in competizione il nostro lavoro con il loro. Invece dovrebbero essere liberi di decidere, di spendere seimila euro per prendere un aereo anziché quarantamila per viaggiare su un barcone senza la certezza di arrivare vivi».

    La tv è solo una delle cose che fai: a telecamere spente sei impegnato nel sociale su vari fronti. Consideri la tv un fine o un mezzo per poter far bene anche il resto?

    «Sempre un mezzo per dare a tutto ciò che faccio un’eco maggiore. Mi sono servito della tv per arrivare ad essere talmente forte e credibile che ora posso davvero rappresentare chi la pensa come me. Se domani smettessi di fare tv mi dedicherei a tutte le altre cose che sto già facendo».

    Se Rubio fosse ancora solo Gabriele Rubini cosa farebbe e dove sarebbe?

    «Non mi fermerei, starei girando per il mondo a fare esperienze. Per ora però da qui non mi muovo perché ho un nipote che voglio vedere crescere».

    Sei nato come cuoco: perché ascoltandoti si ha l’impressione che la cucina ti interessi meno di prima?

    «Dopo tutto quello che ho visto in questi anni non mi emoziona più se non in sé, e cioè quando è fatta da una persona entusiasta o che ha la necessità vitale di mangiare. La cucina deve essere sostentamento: le cose che ho imparato le conservo, ma per me è mangiare è riempire la pancia. Ci sono troppe persone che muoiono di fame, e altrettante che buttano via il cibo senza capire cosa fanno».


    www.vanityfair.it/vanityfood
     
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