CHEF STAR

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  1. gheagabry
     
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    STAR CHEF




    Sono le star del nuovo millennio, osannate da critica e pubblico. Sono entrati nell’olimpo degli dei passando dai cooking show ai talk show. Una volta si chiamavano cuochi, oggi si chiamano chef. Anzi: chef star. Più che ai fornelli stanno in giro a firmare autografi, a presenziare in programmi televisivi, fiere del cibo e aperture di nuovi ristoranti. RAPPRESENTANO LA VERSIONE MODERNA DELL'UOMO VITRUVIANO, CAPACI DI ESPRIMERSI IN DIVERSI CAMPI CONTEMPORANEAMENTE Non c’è tv che non faccia di tutto per averli in studio, non c’è giornalista enogastronomico che non mostri il selfie con lo chef più stellato e blasonato del momento. Rappresentano la versione moderna dell’uomo vitruviano, capaci di esprimersi in campi diversi contemporaneamente: sono chef ma anche scrittori e imprenditori di successo, abili strateghi di marketing e comunicazione. Gli chef hanno messo in moto una macchina potente e ben organizzata che ruota intorno alla parola magica: food. Anche questa volta gli Stati Uniti dettano legge sullo star system, trasformando in un business da milioni di dollari quello che prima era un lavoro faticoso e spesso mal retribuito. La top 10 di Agrodolce degli chef americani misura l’indice di popolarità con il gradimento di critica e pubblico, i ristoranti più famosi, i personaggi che questi stessi chef hanno fatto di sé stessi.




    1 - Anthony Bourdain. In principo c’era lui, il più irriverente e ribelle, anticipatore di tempi e tendenze. Era già una star, forse inconsapevolmente, quando pubblicò il suo primo libro Kitchen Confidential, mettendo a nudo la vita delle cucine newyorchesi, lontano da quell’aspetto glam a cui tutti credevano. Il resto è arrivato dopo: executive chef di ristoranti newyorchesi, fra tutti la Brasserie Les Halles di Manhattan, Anthony Bourdain ha abbandonato le cucine per diventare un giornalista e uno scrittore. Il suo programma in onda sulla CNN, No Reservations, è una finestra sul mondo della cultura del cibo. Anticipatore di tempi e tendenze, aprirà a New York un locale dedicato alla tradizione dello street food.





    2 - Thomas Keller. Due dei suoi ristoranti sono considerati templi della gastronomia mondiale: The French Laundry nella Napa Valley e Per Se a New York, gli stessi che hanno ottenuto 3 stelle Michelin. Thomas Keller è uno chef raffinato che ha sempre voluto comunicare un concetto elegante legato alla ristorazione. Pluripremiato dalla James Beard Foundation e da Time Magazine che, nel 2001, lo ha eletto Best American Chef, non ha trascurato né la scrittura, né il cinema: il suo primo libro, The French Laundry Cookbook, è un must have per gourmet e gourmand, mentre lo abbiamo visto sul grande schermo come consulente del film Ratatouille e in Spanglish a dare lezioni su come preparare il sandwich migliore al mondo.




    3 - Marcus Samuelsson. Ha avuto l’onore di preparare la prima cena di stato ufficiale del presidente Obama. In quell’occasione, in onore del primo ministro indiano Singh, ha servito un menu che ha omaggiato la tradizione vegetariana indiana. Etiope ma adottato da una famiglia svedese, Marcus Samuelsson inizia la sua carriera come stagista nel famoso ristorante newyorchese Aquavit. Nel 2010 apre a Harlem il suo ristorante Red Rooster dopo che il NY Times lo aveva già consacrato nell’olimpo dei migliori chef.




    4 - Daniel Boulud. Il ristorante preferito dall’alta borghesia dei personaggi di Woody Allen, quella della Upper East Side per intenderci, porta il nome di Daniel. Lui, Daniel Boulud, francesissimo, è stato tra i primi a portare l’alta cucina francese oltreoceano. Il suo ristorante è quasi un tempio della formazione per giovani chef poi diventati star. Oggi conta 7 ristoranti in America e 6 nel resto del mondo, Singapore inclusa. In Francia, per la sua missione di Ambasciatore della cultura francese, ha ricevuto l’ufficiale investitura di cavaliere della Legione d’Onore.




    5 - David Chang. Un curriculum da giocatore di golf che vira, a un certo punto, verso la vocazione culinaria. Una formazione di tutto rispetto e molto blasonata: The French Culinary Institute di New York e il Cafè Boulud. David Chang, il più eclettico e originale dei giovani chef, ha creato l’impero Momofuku. Il noodle bar di New York sperimenta la cucina asiatica in chiave contemporanea. Su di lui brillano due stelle Michelin.




    6 - Bobby Flay. Il re del food channel è lui: da Great Chefs a Iron Chef, Bobby domina nelle case degli americani. Ha una formazione blasonata: è passato dai banchi del French Culinary Institute e ha all’attivo numerosi ristoranti, da New York a Las Vegas. Considerato uno dei massimi rappresentanti della cucina americana contemporanea, Bobby Flay ha inaugurato a New York lo scorso autunno il suo ultimo ristorante, Gato, con una cucina di ispirazione mediterranea.




    7 - Eric Ripert. Un altro francese che ha conquistato il suolo americano. È proprietario di uno dei 50 ristoranti migliori al mondo, Le Bernardin di New York: cucina francese che non tradisce le origini, classe e tecnica che diventano un’esperienza culinaria unica.




    8 - Mario Batali. Insieme a Lidia e Joe Bastianich ha costruito l’impero della ristorazione in America, senza contare la grossa operazione Eataly di cui è socio. Mario Batali,origini italo-americane di parte paterna, è uno dei personaggi più ricercati e popolari dei food channel. Il suo ristorante più famoso, Babbo a New York, conserva gelosamente una stella Michelin.




    9 - Tom Colicchio. Il leggendario Gramercy Tavern ha fatto di Tom Colicchio uno dei primi chef a segnare il passaggio tra la cucina e la televisione. Giudice di numerosi programmi televisivi, come Top Chef con cui ha vinto anche un Emmy Award, premiatissimo dalla James Beard Foundation, a New York domina la scena con il Riverpark, American contemporary cuisine.




    10 - Gary Danko. Porta il suo nome il famoso ristorante di San Francisco, un must per chi ama la cucina americana contemporanea con influenze francesi. Dopo i suoi studi al famoso Culinary Institute of America, Danko eredita una cucina che nasce dalla tradizione ebraica e ungherese, da cui la sua famiglia ha origine.
    (22 luglio 2015di Liliana Rosano)




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    CESARE GIACCONE

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    Un solo cuoco al comando della cucina langarola: il suo nome è Cesare Giaccone. Affermarlo oggi, con le tre stelle di Enrico Crippa che brillano sul campanile del duomo di Alba e tutte le altre felicemente sparse tra le colline di Fenoglio e Pavese, può suonare vagamente retrò. Eppure, nulla di tutto quanto è stato costruito qui negli ultimi quarant’anni — fino all’inclusione nel virtuosissimo elenco dei patrimoni protetti dall’Unesco — avrebbe lo stesso senso senza Cesare di Albaretto-Torre.

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    Nome e provenienza vanno pronunciati tutti di un fiato, in quanto complementari e indivisibili, come lui stesso ama ripetere: "Mi hanno cresciuto le Alte Langhe. I pascoli di collina sono stati la mia aula, i boschi le pareti, mucche e pecore i compagni, e come sfondo la profondità e la maestosità oltre la finestra. Quando ripenso alla scuola del pascolo, i ricordi sono da pelle d’oca". Difficile trovare un miglior esempio del concetto di identità. Giaccone è nato in un francobollo di Langa arrampicato una ventina di tornanti sopra Alba, meno di trecento anime e una torre d’avvistamento rimasta a vegliare dai tempi in cui i Saraceni varcavano i monti che separano dalla Liguria per accaparrarsi vini e vitelli già allora piuttosto apprezzati. E come tanti langhetti, ha con la sua terra un rapporto quanto meno ambivalente. Così semplice, oggi, raccontare bellezza e opulenza dei cru che si inseguono da un crinale all’altro.

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    Ma quando Giaccone, settantadue anni a fine novembre, era alto come un soldo di cacio, in Langa si faceva la fame e il Barolo era l’evoluzione obbligata di un vino che bevuto giovane entrava in bocca con i gomiti larghi e aguzzi. Era il tempo in cui i ragazzi sconfinavano per cercare un futuro migliore, e a volte quando tornavano in estate portavano a casa " le francesine" a conoscere i futuri suoceri, invidiati da chi era rimasto a masticare la terra di casa. Cesare- di- Albaretto non si è sottratto al destino dei suoi conterranei, allungando semplicemente la traiettoria del viaggio dopo molto girare per l’Italia, migrante in America con la benedizione di un magnifico talento culinario. E quando nel 1981 è tornato davvero a casa, mettendo finalmente in bolla i punti cardinali della sua vita — tavola, pittura, donne e Langa — il successo era lì, che lo aspettava a braccia aperte. Da allora, pur con alcune intermittenze lavorative e sentimentali non di poco conto, la sua fama si è consolidata fino a sfiorare la categoria del mito. Perché il sogno di una cena nella nebbia di Albaretto ha accompagnato chiunque abbia varcato i confini gastronomici del Piemonte dagli anni ’ 80 in poi, in un rincorrersi di appuntamenti semi-clandestini, camere prenotate per evitare lo strazio della guida alcol-zero al rientro, la giusta compagnia per una serata da condividere con chi lo merita davvero. Certo, l’archetipo del capretto allo spiedo — il migliore del pianeta, senza se e senza ma —, i plin nel brodo di bue (e cognac), i grandi vecchi nel bicchiere, uno zabajone da perdere la testa. Ma anche e soprattutto un’atmosfera calda&colta quasi suo malgrado, la ruvidezza affettuosa di un padrone di casa che dipinge come cucina, attingendo a forme, colori e sapori in modo solo apparentemente naïf.

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    Un solipsista della cucina, che gli appartiene fino al midollo, anche a costo di usare la cartavetro nelle relazioni esterne. Pronto a mettere le mani avanti perfino quando gli venne assegnata la stella Michelin, e lui, invece di brindare e godersela, affisse alla porta del ristorante un cartello con su scritto: "Se siete qui soltanto perché avete letto il mio nome sulla Michelin o sulla Veronelli, per favore non entrate". Toccò alla moglie Silvana, con uno stoico esercizio di pazienza, convincerlo a farne a meno.


    (LICIA GRANELLO, WWW.REPUBBLICA.IT)
     
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