GRECI

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  1. gheagabry
     
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    « Dopo aver ridistribuito la terra, assegnando la stessa porzione a tutti i cittadini, dicono che partì per un lungo viaggio; di ritorno, mentre percorreva la campagna subito dopo la mietitura, vide i covoni di grano, perfettamente allineati e tutti uguali: compiaciuto e sorridente, disse ai presenti che l'intera Laconia sembrava un podere diviso da poco tra tanti fratelli. »
    (Plutarco, Apophtegmata Laconica, 226B)



    LICURGO





    Licurgo (in greco antico Λυκοῦργος, traslitterato in Lykùrgos, in latino: Lycurgus; IX secolo a.C. – VIII secolo) è stato, secondo la tradizione di Sparta, il suo principale legislatore. Difficile dire se Licurgo sia esistito veramente, se fosse visto come uomo ed eroe storico, poi successivamente divinizzato, oppure se sia stato, per i Greci, un Dio prima eroicizzato come uomo e poi decaduto come divinità. Gli unici dati sicuri su Licurgo sono quelli relativi all'esistenza di un santuario a lui dedicato nel II secolo d.C., e la pratica, ai tempi, diffusa a Sparta, di offrire ogni anno sacrifici in suo onore.
    Del legislatore spartano, Erodoto racconta che l'oracolo di Delfi disse: "Sono in dubbio se proclamarti uomo o dio, ma ti considero piuttosto un dio, Licurgo" (I, 65,3). Plutarco ricorda che prima di Licurgo Sparta si trovava in una condizione di anomia e ataxia a causa del conflitto fra i re e il popolo: mancava cioè sia il nomos, nel senso ampio di legge, convenzione, consuetudine, sia l'ordine costruito che può essere detto taxis. Nomos e taxis vengono successivamente posti dal legislatore: questo significa che l'ordine della città, sebbene religiosamente sanzionato, si crea e si conserva solo in quanto saputo e voluto. Licurgo appartiene al mondo dell'oralità: Plutarco riferisce che non solo diede alla città leggi non scritte, ma proibì addirittura di produrre delle leggi scritte (13, 1). Il biografo spiega questa disposizione con una motivazione di stampo platonico: egli attribuì alla paideia l'intero compito della legislazione (13, 3). In un contesto più arcaico, la preferenza a favore di leggi non scritte è indice di un ideale aristocratico-gentilizio originariamente prepolitico, come nel caso di Antigone: ma l'aristocrazia di Sparta è costruita e dunque politica.




    "Il legislatore Licurgo, vedendo che i suoi concittadini vivevano nella mollezza, decise di richiamarli a una condotta di vita più disciplinata e di renderli più virtuosi. Così cominciò ad allevare due cuccioli di cane, nati dallo stesso padre e dalla stessa madre: al primo permetteva di starsene in casa, e lo abituava all’ingordigia; all’altro invece impartiva un severo addestramento, portandolo a caccia con sé. Poi li portò in assemblea , pose davanti a loro degli ossi e altre prelibatezze, e contemporaneamente lasciò libera una lepre. Tutti e due si lanciarono sui loro obiettivi abituali, e il secondo catturò la lepre. Allora Licurgo disse: “Come potete vedere, cittadini, questi sono nati dagli stessi genitori, ma poi sono diventati molto diversi, in conseguenza del diverso modo di vivere; non vi sembra allora che l’educazione sia molto più importante della nascita per produrre buoni risultati?”.
    Altri invece dicono che non prese due cani nati dagli stessi genitori, ma uno di razza domestica e un altro di razza adatta alla caccia: addestrò poi alla caccia quello di razza inferiore, e al secondo insegnò soltanto a riempirsi la pancia. Quando i due cani si precipitarono sugli obiettivi a cui erano abituati, Licurgo fu certo di aver dimostrato l’importanza dell’educazione, in positivo e in negativo, e disse: “E’ lo stesso anche per noi, cittadini: quella nobiltà di sangue che tutti ci invidiano e la nostra discendenza da Eracle non ci servono a nulla se non ci dedichiamo alle imprese per le quali Eracle si è rivelato il più glorioso e il più nobile degli uomini; perciò pratichiamo ed esercitiamo la virtù per tutta la vita”.



    Dopo aver sancito l’annullamento dei debiti, decise di dividere in parti uguali anche tutti i beni privati, in modo da eliminare ogni forma di disuguaglianza e di disparità. Ma poiché vedeva che la gente non era entusiasta di questa forma diretta di confisca, tolse valore alla moneta d’oro e d’argento, e lasciò in circolazione solo quella di ferro; poi fissò il limite massimo dei patrimoni privati definendolo in base a questa moneta. Così facendo liberò Sparta da ogni ingiustizia. Infatti nessuno più aveva interesse a rubare o a farsi corrompere o a truffare o a rapinare, dato che non era possibile nascondere il maltolto, era rischioso farne uso, era pericoloso importarlo o esportarlo, e possederlo non era un simbolo sociale. Inoltre bandì tutto ciò che non fosse indispensabile, e così nessun mercante, nessun sofista, o indovino o vagabondo, nessun fabbricante di articoli di lusso mise più piede a Sparta. Licurgo infatti non permetteva di usare altra moneta se non quella di ferro da lui introdotta …
    Quando gli chiesero perché non aveva introdotto leggi scritte, rispose: “Perché quelli cresciuti ed educati secondo una giusta disciplina capiscono benissimo quel che si deve fare in ogni circostanza”
    Se qualcuno criticava l’usanza di mandare le ragazze in processione nude e ne chiedeva il motivo, egli rispondeva così: “Voglio che le ragazze seguano la stessa educazione dei maschi, in modo che non siano inferiori né per vigoria fisica e salute né per dirittura morale e virtù; e voglio che si disinteressino di quel che gli altri pensano di loro”. A questo proposito si racconta un episodio che ebbe per protagonista Gorgo, la moglie di Leonida; una donna – probabilmente una straniera – le disse una volta: "Solo voi Spartane comandate ai vostri uomini”. Gorgo replicò: “Sì, perché solo noi mettiamo al mondo uomini”.
    Quando un tale una volta gli chiese perché aveva disposto che le ragazze si sposassero senza dote, rispose: “Non deve succedere che una sia trascurata perché è povera o un’altra sia ambita perché è ricca. Gli uomini devono guardare il carattere di una ragazza e fare la scelta in base alle sue virtù”. Per lo stesso motivo proibì in città l’uso dei cosmetici.
    Proibì il profumo, poiché diceva che guastava e corrompeva l’olio d’oliva, e anche le tinture che considerava un inganno per i sensi.
    Bandì da Sparta tutti gli artigiani che si occupavano dell’abbellimento del corpo, dicendo che con i loro trucchi insultavano le altre arti.
    Quando uno gli chiese perché aveva stabilito che i sacrifici agli dei fossero così piccoli e modesti, rispose: “Così saremo sempre in grado di onorare la divini.
    Gli Spartani si prendevano cura dei loro capelli, memori di un detto di Licurgo, secondo il quale una chioma fluente rende più gradevoli i belli e più minacciosi i brutti.
    (Tratta da Plutarco, Le virtù di Sparta, Introduzione di Dario Del Corno, Traduzione e note di Giuseppe Zanetto, Adelphi, Milano, 1996, pp. 106 ss.)



    Nel corso del VII e del VI secolo a.C. , l’età arcaica della storia ellenica, quasi tutte le città della Grecia vissero un periodo convulso, segnato da sanguinose lotte di classe fra i piccoli proprietari da una parte e i grandi latifondisti dall’altra, sfociate infine nella tirannide. Vi fu però un eccezione: Sparta, la città che sfuggì a tale destino grazie a una costituzione che ne garantì la stabilità per lungo tempo. Ne era stato artefice Licurgo, che secondo la leggenda ricevette da Apollo la Grande Rhetra o “Grande Pronunciamento”, la legge fondamentale su cui Sparta fondò la propria società e il proprio potere militare. Lo storico Plutarco riferisce che Licurgo apparteneva alla famiglia degli Euripontidi, una delle due antiche case regnanti di Sparta, discendenti dal mitico Eracle, benchè sulla sua biografia “non possa dirsi nulla affatto che non sia controverso” Secondo il racconto di Plutarco, in una Sparta dominata dall’anarchia e dai disordini sociali, il legislatore assunse le redini del regno in seguito alla morte del padre, pugnalato mentre cercava di reprimere una rivolta, e del fratello maggiore. Tuttavia, non appena si scoprì che la regina, sua cognata, aspettava un figlio, Licurgo dichiarò immediatamente che, nel caso in cui fosse stato maschio, la dignità regale sarebbe spettata al nipote ed egli stesso avrebbe esercitato la reggenza come suo tutore. Di lì a poco la donna gli propose un accordo: si sarebbe sbarazzata del neonato, a condizione che egli la sposasse una volta salito al trono. Licurgo astutamente finse di aderire al patto e promise che, una volta nato, avrebbe assassinato il bambino. Invece, quando fu giunto il momento del parto, si fece portare il neonato, Carilao, e, tenendolo tre le braccia, lo mostrò ai suoi concittadini proclamando: “ Ecco, o Spartani, il vostro re”. Tutti furono conquistati dallo spirito nobile e giusto di Licurgo, eppure, con il suo gesto magnanimo egli attirò su di sé il rancore della famiglia materna del nuovo re, che iniziò a seminare calunnie contro di lui, lasciando intendere che il suo vero scopo fosse usurpare il potere. Per liberarsi da ogni sospetto, Licurgo decise di allontanarsi dalla polis. Intraprese allora un lungo viaggio nel Mediterraneo orientale e ne approfittò per studiare le legislazioni vigenti nelle regioni più prospere del mondo antico; da queste avrebbe poi tanto spunto per rinnovare il sistema spartano. Si diresse innanzitutto a Creta, leggendaria patria di Minosse, che aveva fama di savio legislatore. In seguito, approdato nei regni dell’Asia Minore, sulla costa occidentale dell’odierna Turchia, avrebbe messo a confronto il modello di moderazione e austerità incarnato dalla grande isola greca con la sontuosità e il lusso della Ionia, da lui fortemente deplorati. Più istruttiva fu la sua visita in Egitto, dove, secondo quanto ricorda lo storico Erodoto nelle Storie, Licurgo rimase positivamente colpito dalla separazione esistente fra uomini di guerra e le altre professioni dello Stato, distinzione che gli avrebbe introdotto nella società spartana e che si sarebbe rilevata determinante per l’avvenire della polis.



    Altre tradizioni narrano che Licurgo giunse fino all’ Iberia e persino in India, dove avrebbe incontrato i gimmosofisti, i “saggi nudi”, con cui secoli dopo la stesso Alessandro Magno avrebbe intrattenuto discussioni filosofiche. La tappa cruciale del suo viaggio fu il santuario di Delfi. Lì Apollo, per bocca della Pizia, sacerdessa del dio, gli tramise la Grande Rhetra, l’insieme di leggi con cui Liturgo avrebbe riformato la società spartana. Nel frattempo, Sparta, in preda alle turbolenze civili, era sul punto di cadere nella più profonda anarchia ed erano sempre più numerose le voci che invocavano il ritorno di Licurgo. Il saggio legislatore tornò allora in patria e, dopo aver ottenuto l’approvazione dei principali uomini della città aver ottenuto l’approvazione dei principali uomini della città, si recò nell’agorà scortato da alcuni uomini armati; ma, lungi dall’impadronirsi del potere con la forza e trasmormarsi in un tiranno, illustrò ala popolo le modifiche che intendeva apporre al governo e le nuove istituzioni che desiderava instaurare. Avrebbe impiegato il resto della vita per perfezionare le sue leggi.

    La Rhetra, il cui testo è in gran parte oscuro a causa del suo tono profetico, recitava così:

    “Istituita una gherusia di 30 anziani inclusi gli archagetai, raduna l’apella di tanto in tanto tra Babica e Cnacione, ove presentare e respingere proposte di legge; il popolo spetti il potere di approvarle”

    La gherusia era il Consiglio degli Anziani; gli archagetai le “guide”, i due re, e l’apella l’Assemblea degli Spartani, i cittadini aventi pieni diritti politici e civili.




    Licurgo mirava a garantire un equilibrio tra i poteri (monarchia, aristocrazia e popolo), benchè a esercitare di fatto il governo fosse la gherusia. L’apella, infatti, che si riuniva una volta al mese, in occasione del plenilunio, poteva solo ratificarne o meno i decreti. Con il tempo, inoltre, sarebbe stata introdotta la magistratura degli efori, con funzioni di controllo e vigilanza sui distinti poteri. A base della nuova legislazione Licurgo pose la piena parità politica, civile ed economica degli spartiani, i discendenti degli antichi conquistatori dorici. Perciò suddivise la terra della Laconia, la regione di Sparta nel sudest del Peloponneso, in parti uguali e annullò il valore delle monete d’oro e d’argento, sostituendole con pesanti monete di ferro; così sperava di ostacolare ogni desiderio di lusso e richezza . Vietò poi la vendita dei beni stabili e per salvaguardare i patrii costumi proibì viaggi e commercio con l’estero. A riprova di ciò, l’archeologia rivela che nel VI secolo a.C. l’importazione di beni stranieri a Sparta diminuì drasticamente.
    Tra le istituzioni più efficaci di Licurgo vi fu infine quelle delle mense pubbliche, dove tutti i cittadini, ricchi o poveri che fossero, erano obbligati a consumare lo stesso pasto frugale. Veniva in tal modo cancellata l’atavica tendenza aristocratica a fare sfoggio del proprio prestigio. Tuttavia, tale provvedimento incontrò l’opposizione dei nobili e suscitò una violenta sedizione nella quale Licurgo perse un occhio. Ancora una volta, egli dimostrò grande magnanimità nei confronti del suo feritore, un giovane aristocratico di nome Alcandro. Plutarco narra che, per sottrarre il colpevole alla fura degli astanti, Licurgo se lo fece consegnare e lo condusse a casa con sé. Qui gli spiegò perché voleva stabilire a Sparta delle leggi così severe e riuscì a persuaderlo; d’allora in poi Alcandro, ammirato dalla generosità del legislatore, sarebbe diventato uno dei più zelanti propugnatore delle sue idee.



    In definitiva, il fine ultimo di Licurgo era quello di formare dei cittadini devoti alla comunità e non gli sfuggì il ruolo essenziale che l’educazione dei giovani avrebbe potuto rivestire in tal senso. Dunque, a fondamento di tutto il suo sistema di governo egli mise l’agoghé (letteralmente “guida”, “condotta”), il sistema di addestramento dei fanciulli spartiati. A 7 anni bambini venivano sottratti alla famiglia e alloggiati in un collegio militare, a spese dello Stato, dove rimanevano fino a 30 anni. Qui avrebbero preso coscienza della propria appartenenza a un comunità egualitaria e solidale che , se necessario, avrebbero dovuto difendere a costo della vita. Sono note le dure prove a cui erano sottoposti i futuri combattenti. Senza scarpe e con una sola tunica per tutto l’anno, gli allievi ricevevano cibo insufficiente, così da essere spinti a rubare per sopravvivere. Come afferma lo storico Senofonte: “ Si considerava il furto una cosa positiva [..] al fine di rendere i giovani più abili a procurarsi il necessario e più abili nella lotta”, ma , se scoperti, i ladri venivano puniti con una buona dose di frustate per essersi dimostrati “maldestri e incapaci”.
    Gli spartiati erano per definizione soldati, per questo i giovani erano tenuti a sposarsi entro i 30 anni, al fine di procreare per lo Stato dei figli il più possibile sani e forti. Ogni neonato doveva essere presentato agli anziani della tribù prima di essere accettato nella comunità: se era deforme e gracile veniva gettato da un precipizio sul monte Taigeto. Il matrimonio e la procreazione erano centro della riforma sociale di Licurgo e senza dubbio le spartane giunsero a beneficiare di una libertà sconosciuta alle altre donne greche. Le fanciulle venivano istruite nel canto e nella danza ma, al pari dei giovani, si esercitavano a correre, lottare, lanciare il disco e il giavellotto; si riteneva infatti che le madri forti e vigorose avrebbero generato figli altrettanto robusti. Inoltre , in una società in cui il problema principale era costituito dall’endemica scarsità del liberi cittadini, le donne potevano concepire dei figli con uomini diversi dal marito, che si fossero distinti per particolari doti fisiche. Come riferisce Plutarco: “A Sparta vi era una multa per chi non si sposava, una per chi si sposava tardi e una per chi si sposava male”. Infine, costringendoli a esercitare il silenzio fin dalla più tenera età, Licurgo abituò i suoi concittadini a parlare in modo breve, acuto e conciso. E il rigore espressivo dei Lacedemoni divenne a tal punto proverbiale che diede origine al termine “laconico”. A questo proposito si narra che quando fu chiesto al nipote del legislatore, Carilao, perché le leggi dello zio fossero così poche – la Grande Rhetra contava poche decine di lemmi – egli rispose che “chi usa poche parole ha bisogno di poche leggi”. Gli spartani seppero inoltre trasformare la loro abilità di sintesi in una virtù militare, sviluppando un sistema di comunicazione segreta: lo scitale, un bastoncino usato per inviare messaggi ai capi militari; su di esso era avvolta una striscia di cuoio o di altro materiale con il testo scritto verticalmente, che per essere letto andava riavvolto su un bastoncino analogo da parte del destinatario.

    Non appena il nuovo sistema di governo si fu consolidato nella polis, che si avviava ormai a diventare una grande potenza, Licurgo iniziò a pensare a come perpetuare la sua costituzione. Così, dichiarò ai compatrioti la propria volontà di interrogare ancora l’oracolo di Apollo, per scoprire come migliorare ulteriormente le leggi della città. Prima di partire, però, strappò loro la solenne promessa di rispettare quelle già in atto finchè non fosse tornato dal suo viaggio. Giunto a Delfi, la Pizia gli rispose che se avesse mantenuto le sue leggi Sparta sarebbe diventata la più illustre e felice città del mondo. Allora, eputando compiuta la sua opera, il legislatore si lasciò morire d’inedia. Il suo sacrificio non fu vano: ”Mentre la città osservò le leggi di Licurgo e mantenne i giuramenti, tenne il principato della Grecia in gloria e bontà di governo per lo spazio di 500 anni” scrisse Plutarco.
    (Tratto da Storica National Geographic, settembre 2014)

     
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  2. gheagabry
     
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    « E tuttavia, così diceva l'accusatore, Crizia e Alcibiade, che sono stati in familiarità con Socrate, fecero danni gravissimi alla città. Infatti Crizia fu il più avido e il più violento e il più assassino di tutti quelli che si impegnarono nell'oligarchia, mentre Alcibiade fu il più sfrenato, il più arrogante e il più violento tra quelli impegnati in democrazia. »
    (Senofonte, Memorabili, I, 2, 21)



    ALCIBIADE



    Alcibiade figlio di Clinia (Atene, 450 a.C. – Frigia, 404 a.C.) è stato un militare e politico ateniese. Oratore e statista di altissimo livello, fu l'ultimo membro di spicco degli Alcmeonidi. Alcibiade nacque nel demo di Scambonide; i suoi genitori furono Clinia, che faceva risalire il proprio lignaggio fino ad Eurisace e ad Aiace Telamonio, e Dinomaca, figlia di Megacle. Alcibiade, per parte di madre, apparteneva quindi alla potente famiglia degli Alcmeonidi, dato che Pericle e suo fratello Arifrone erano cugini di Dinomaca, poiché il nonno di quest'ultima e il loro nonno materno erano fratelli, entrambi figli di Megacle e Agariste di Sicione. Suo nonno materno, chiamato anch'egli Alcibiade, era amico di Clistene, il riformatore della costituzione ateniese alla fine del VI secolo a.C.
    Dopo la morte di Clinia, avvenuta nella battaglia di Coronea (447 a.C.), Pericle e Arifrone divennero i suoi tutori. Secondo Plutarco Alcibiade ebbe molti insegnanti famosi, tra cui Socrate e fu ben istruito nella retorica; in contrasto con questo resoconto, Isocrate afferma che Alcibiade non fu mai allievo di Socrate,ma soltanto di Pericle, e aggiunge che il suo presunto legame con Socrate fu creato per screditare quest'ultimo.
    Svolse un ruolo importante nella seconda parte di questo conflitto, come consigliere strategico, comandante militare e politico. Durante la guerra del Peloponneso, Alcibiade cambiò più volte il proprio partito politico: nella natia Atene, dal 420 a.C al 410 a.C. fu fautore di un'aggressiva politica estera impegnandosi nell'organizzazione della spedizione ateniese in Sicilia, ma passò dalla parte di Sparta quando i suoi oppositori politici lo accusarono del sacrilegio delle erme.
    A Sparta propose e supervisionò importanti campagne militari contro la sua città natale, ma anche da lì fu ben presto obbligato a rifugiarsi in Persia, dove divenne consigliere del satrapo Tissaferne finché i suoi sostenitori politici ateniesi non gli chiesero di tornare. Fu poi generale ad Atene per diversi anni, ma i suoi nemici riuscirono a farlo esiliare una seconda volta.
    A detta di molti storici, se avesse potuto comandare la spedizione in Sicilia da lui progettata (guidata invece da Nicia), l'operazione non sarebbe terminata con la disastrosa disfatta degli Ateniesi. Negli anni passati a Sparta, Alcibiade ebbe un ruolo determinante nella caduta di Atene: l'occupazione permanente della città di Decelea e le rivolte di molti territori sotto il controllo di Atene furono da lui consigliate o supervisionate. Una volta tornato alla sua città natale, comunque, ebbe un ruolo cruciale in una successione di vittorie ateniesi che forse avrebbero costretto Sparta alla pace.
    Alcibiade favorì tattiche anticonvenzionali, spesso assoggettando città con l'inganno, proponendo negoziati, utilizzando l'arte militare poliorcetica solo in casi estremi. Le qualità politiche e militari di Alcibiade furono spesso utili agli stati che beneficiarono dei suoi servigi, ma la sua propensione ad inimicarsi i potenti gli impedì di rimanere a lungo in uno stesso luogo e, alla fine della guerra, i giorni in cui aveva avuto un ruolo politico importante divennero solo un lontano ricordo.

    « Fu un grandioso progetto in cui un generale ateniese era al comando
    del più grande esercito organizzato nel Peloponneso,
    con l'intento di attaccare Sparta nel momento
    in cui la sua reputazione era maggiormente venuta meno.»
    (A.W. Gomme, A Historical Commentary on Thucydides, 70)



    Bello e seduttore. Impulsivo e ambizioso. Nobile e ricco. All’ occorrenza gentile. Ma, e necessario, spregiu-
    dicato al limite dell’irrive-
    renza. Le donne impazzi-
    vano per la sua eleganza e la sua erre moscia. Gli uomini erano sedotti dalle sue doti strategiche e dalla sua appassionata arte oratoria capace di far sognare un ritorno agli antichi splendori proprio mentre l’Atene del V sec a.C. viveva una crisi profonda di valore e prospettive, accresciuta dalla logorante Guerra del Peloponneso. Esponente dell’ala democratica della città, pose sempre le sue ambizione al di sopra del senso dello Stato e della Patria. Gli ateniesi lo amarono (e lo odiarono) pazzamente. Come gli spartani, con cui ebbe una breve liaison, e i nemici persiani , di cui crcò la benevolenza. Ma chi fu davvero Alcibiade (450-404 a.C.)? Un uomo per tutte le stagioni pronto a cambiare casacca pur di vincere e rimanere a galla, o piuttosto un figlio del suo tempo, relativista e arguto, capace di muoversi con furbizia nei corridoi del potere e di parlare alla “pancia” della gente, esponendosi così alla volubilità del giudizio popolare. Sicuramente fu un abile stratega. Figlio di una cugina di Pericle, crebbe frequentando la casa del politico ateniese che tuttavia, a quanto risulta, si disinteressò di lui. Il clima intellettualmente frizzante dell’ Atene di quegli anni fece il resto: allievo di Socrate frequentò anche i circoli dei sofisti dove imparò le migliori tecniche di arte oratoria, dibattendo il temi caldi del momento. Alcibiale rese la massima dei sofisti “la giustizia è l’utile del più forte”, sua filosofia di vita. Sostenere che è giusto che il più forte comandi era da un lato la premesso dell’imperialismo ateniese – giustificava il potere dei più ricchi sulla città e sulle colonie – ma dall’altro lato era anche alla base di quel “relativismo etico” secondo cui non esiste un’idea di bene assoluto. L’abilità nell’individuo sta piuttosto nel persuadere gli altri con le argomentazioni più convincenti ( che non necessitano essere le più giuste). La capacità di persuasione ad Alcibiale non mancava. A dieci anni dallo scoppio della Guerra del Peloponneso, a quasi 30 anni (età necessaria ad Atene per ottenere incarichi politici), contava già un certo numero di fedelissimi e si era distinto nella commissione incaricata di rivedere, aumentandolo, il tributo degli alleati per la prosecuzione della guerra, schierandosi apertamente sul fronte interventista. Con spregiudicatezza aveva però aperto anche ai “pacifisti”, proponendosi agli spartani come interlocutore unico per firmare un eventuale tregua, diventata possibile dopo la morte dei comandanti che avevano voluto il conflitto. Il gioco, suo malgrado, non funzionò: gli spartani firmarono si la pace (421 a. C.), ma con Nicia, a capo della fazione conservatrice ateniese. Alcibiade ingoiò il rospo, ma non desistette. Cinque anni dopo, perdurando la tregua maturò un piano bellicoso che secondo molti storici, se portato a compimento, avrebbe cambiato il destino di Atene e forse dell’intera grecia: la spedizione in Sicilia.

    La colonia di seesta era allora in guerra con Selinunte, a sua volta sostenuta da Siracusa (in quota spartana). Portare aiuto a Segesta significava creare un avamposto ateniese sull’isola, base per la successiva espansione. “il suo sogno era ancora più ambizioso: l’occupazione dell’Italia intera e di Cartagine” spiega la storica. “ Fondato questo grande impero, Alcibiade avrebbe assalito il Peloponneso e Sparta , soggiogandoli una volta per tutte”. Per convincere gli ateniesi a sostenerlo tenne un discorso appassionato, degno della miglior tradizione guerrafondaia:” La nostra città se si manterrà inattiva finirà per logorarsi da sola. Una città abituata a essere inattiva cade rapidamente in rovina se rinuncia all’azione”. Il comizio funzionò e dall’uditorio partirono applausi scroscianti. Nicia, il suo eterno rivale, difendendo i propositi di pace, si oppose però all’iniziativa. Ma rilanciò con una mossa miope: pensando di far desistere gli ateniesi suggerì di usare un numero altissimo di nave e di armati. Fu un boomerang: gli ateniesi votarono a favore e la disfatta di Siracusa fu un colpo dal quale la città non si riebbe più. Non solo, Alcibiade cadde vittima di quella che oggi qualcuno chiamerebbe “giustizia a orologeria”: accusato di aver mutilato le erme (statue del dio Ermes poste presso i crocevia, numerosi ad Atene) e di avere organizzato parodia sacrileghe dei misteri eleusini, fu chiamato a giudizio “la prima accusa fu assurda, la secondo verosimile..fatto sta che salpate le 100 navi da Pireo, dopo i primi successi Alcibiade fu prelevato dalla Sicilia per essere portao ad Atene; ma nello scalo di Turii, lui e i suoi riuscirono a fuggire”. Latitante, fu condannato in contumacia, i suoi beni vennero confiscati e il suo nome maledetto da tutti sacerdoti di Atene. E il bel comandante? Trovò rifugio a Sparta. A casa del nemico trascorse tre anni, quanto basta per dare a quel popolo di guerrieri oligarchi, amanti della guerra e della vita da caserma, consigli che portarono alla sconfitta della sua città natale, almeno in Sicilia. E non solo: come un camaleonte si adattò ai loro consumi. “ Nessuno sa meglio di me, che ci ho vissuto dentro e ne sono vittima, cosa sia la democrazia ateniese. Non fatemi sprecar fiato su una cosa così evidentemente assurda” gli fa dire Tucidide. Musica , per le orecchie spartane. Ma per essere più convincente, Alcibiade adottò anche il loro look: lui amante dell’eleganza e delle raffinatezze rinunciò ai sandali e prese a girare scalzo con una rozza tunica sulla spalle, si nutriva di cipolle e iniziò a bagnarsi anche in inverno nelle gelide acque del fiume Eurota. Anche così conciato, riuscì a conquistare la regina di Sparta. E quando il re tornò dalle manovre militari si trovò tra le braccia un bambino di cui non poteva essere padre. Alcibiade affermò poi di aver sedotto la regina perché la sua discendenza regnasse a Sparta. Si fatto, il sovrano non grad’ e per la sfrontatezza dell’ateniese, l’atmosfera a Sparta si fece pesante. Per non sbagliare si imbarcò su una flottiglia che partiva per l’Asia: raggiunse così il saprapo persiano Tissaferne a cui, per non smentirsi, offrì i suoi servigi, questa volta contro Sparta. Atene intanto era sull’orlo della catastrofe. Dopo le sconfitta, sul banco degli imputati era finita persino la democrazia: si incolpò il regime democratico della sconfitta siciliana e gli oligarchi trovarono terreno fertile per organizzare una rivolta e affidare il potere a un consiglio dei 400, assassinando alcuni capi dell’opposizione.
    Seguì un colpo di stato e un governo guidato da un Consiglio dei 5000 (oggi parleranno di grande coalizione fra democratici e conservatori per far fonte all’ emergenza nazionale). A progetto partecipò anche Alcibiade, esule che coltivava il suo sogno di tornare in patria. Trovò gioco facile e cavalcò l’onda di protesta contro la democrazia che l’aveva messo sotto processo. Eletto stratego dalla sfotta dell’isola di Samo, condusse da qui la riscossa democratica contro le forze oligarchiche ateniesi. Quando alcuni inviati dei 400 giunsero a Samo per spiegare che il cambio di regime era volto al bene della città, i soldati stavano per far vela verso a Atene per dar vita a una guerra civile. Lui li fermò, ordinò lo scioglimento del Consiglio dei 400, aprendo la strada a quelle “grandi intese”. I 5000 decretarono così il suo ritorno in patria. Era il 411 a.C.

    Intanto il teatro principale della guerra si spostò nell’ Ellesponto, dove Atene macinava vittorie. All’apice del successo della città, Alcibiade, eletto stratega (408-408 a.C.), rientrò effettivamente in patria. L’accoglienza non poteva essere più entusiasta e lui, per non farsi mancare nulla, organizzò anche una parata religiosa in occasione dei misteri eleusini, che anni prima aveva oltreggiato, guidando la processione non per mare – come si faceva ultimamente per paura di attacchi spartani – ma via terra. Una mossa studiata nei minimi dettagli: il popolo secondo una fonte lo esortò addirittura di farsi tiranno.
    E lui, saggiamente , rifiutò. Salpò invece con la sua flotta verso la Caria per saccheg-
    giarla e rifornirsi di quattrini, lasciando tempora-
    neamente il comando della flotta al luogo-
    tenente Antioco, con l’odine di non muoversi. Fu un erore fatale, Antioco, forse per ambizione, trasgredì il divieto e mosse contro la flotta spartana: fu una disfatta, e Alcibiade fu ritenuto responsabile del disastro. Gli ateniesi, che dallo stratego si aspettavano solo vittorie, gli tolsero il comando e lui, temendo per la sua vita, si recò in Tracia. A capo di un gruppo di mercenari, condusse una guerra personale contro le tribù del luogo, arricchendosi come un comune avventuriero. Da qui si fece un ultimo tentativo per salvare la propria carriera e la sua città. Trovandosi vicino al luogo dei combattimenti, a Egospotami, vide dall’alto di una collina le navi ateniesi e si accorse che erano schierate male. Si precipitò ad avvisare i suoi compatrioti, ma loro lo cacciarono, accusandolo di essere un traditore. L’indomani la flotta ateniese perse 200 navi; la guerra era finita. Gli oligarchi ateniesi e Lisandro, capo degli spartani, temevano che Alcibiade si mettesse a capo dei democratici fuoriusciti e riuscisse a restaurare ad Atene la democrazia. Mandarono perciò dei sicari a ucciderlo: a 46 anni la carriera di Alcibiade fu interrotta per sempre. Rimase il suo mito. O meglio, il suo fantasma. Forse la riflessione più efficace fu quella di un suo contemporaneo, Aristofane, nella commedia “Le rane”, dove fa dire a Eschilo:”La città lo ama e lo odia e tuttavia lo vuole. Non bisogna allevare nella città un cucciolo di leone, ma quando lo hai allevato devi adattarti alle sue abitudini”

    (Giuliana Rotondi. Focus Storia settembre 2013)
     
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