PEARL JAM - Copertine dischi in vinile

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    PEARL JAM: Backspacer.
    I Pearl Jam sono un gruppo vecchio. Anzi, per vecchi. Come direbbe Cormac McCarthy. Vecchi ragazzi (degli anni 90), s'intende. Ma pur sempre invecchiati. E mica tanto bene. Neppure male. Così così, diciamo. Anche per questo, oltre che per un fisiologico calo dell'ispirazione dopo quasi vent'anni di militanza, i loro ultimi lavori palesano uno standard abbastanza immobilistico, manierato, conservatore. Perché hanno principalmente due motivi d'essere: ospitare i vecchi fan alloggiandoli in sonorità datate e rassicuranti e immettere nuovo carburante da incendiare nel motore inesausto delle loro tournée mondiali, dimensione nella quale il gruppo riesce ancora a dare il meglio di se, giustificando nel tempo la propria costanza e linearità.

    "Backspacer", infatti, denota una certa continuità rispetto all'approccio teso, ruvido e diretto del predecessore (l'omonimo con l'avocado in copertina) ma, smaltita per loro stessa ammissione la sbornia d'indignazione civile contro l'amministrazione Bush, i toni si fanno meno accesi e vibranti, le gradazioni più soft, l'umore generale più disteso ed edonista. Rock classico con qualche escrudescenza punk, qualche anabolizzazione hard, la solita innata predisposizione al pathos e alla melodia, qualche episodio cantautorale, questo suonano i Pearl Jam ormai da tanto, troppo tempo.

    E così suona anche "Backspacer" che ha di apprezzabile i pochi fronzoli del formato (dall'altro lato del vetro insonorizzato torna Brendan O'Brien), la velocità d'esecuzione, l'entusiasmo forse un po' ingenuo ma genuino di Vedder & soci, ma che, al di là del grande mestiere e di qualche scampolo d'innegabile pregio, fa decisamente rimpiangere sia il sopracitato "Pearl Jam" (2006), un album che non ha messo d'accordo pubblico e critica sebbene, a insindacabile giudizio di chi scrive, resti l'unico, in questo decennio, a laurearsi con un'abbondante sufficienza, sia il riuscitissimo intermezzo solista del front-man col pluripremiato "Into The Wild" (2007).

    L'opener "Gonna See My Friends" con quel riff stentoreo e familiare, che fa molto Chuck Berry via Sex Pistols, è una botta street-rock, magari un po' triviale ma piacevolmente adrenalinica. La voglia c'è anche se il passo non è più quello d'una volta e persino l'inattaccabile voce di Vedder qua e là annaspa. Poi anche "Got Some", "Johnny Guitar" e "Supersonic" insistono e sviluppano, con risultati non proprio esaltanti, quest'ebbrezza rock'n'roll un po' da "American graffiti". Sempre meglio di "The Fixer", comunque, spuntatissimo singolo di punta con non meglio identificate (e ancor peggio assimilate) fregole sintetiche vagamente new wave (!?).

    La scrittura si risolleva quando la palla torna di nuovo tra le mani di Vedder che pennella due acquerelli acustici (voce, chitarra e archi appena palpabili che germogliano in sottofondo) niente male - la bucolica "Just Breathe" e la sofferta "The End", che risentono non poco dell'ispirazione di "Into The Wild" (e inducono maliziosamente a pensare: no, davvero, se le cose stanno così, chi ha bisogno degli altri quattro?) - e in quelle di McCready con la fluente vena soft-rock di "Force Of Nature". Per il resto, niente di nuovo sul fronte occidentale: "Amongst The Waves" e "Unthought" sono strade che gli abbiamo già visto percorrere e che difficilmente li porteranno da qualche altra parte, mentre "Speed Of Sound", un accorato mid-tempo col piano e l'organo in evidenza e le chitarre in sordina, punta (quasi) tutto sullo charme dolente e carezzevole del cantato.

    E ora che si sono tolti questo peso, tutti in sella agli strumenti per il tour che li vedrà protagonisti a partire da ottobre. Sperando che, nel 2010, si ricordino anche di noi vecchi ragazzi del paese per vecchi per eccellenza e facciano un salto a trovarci.
    (ondarock.it / Recensione:)


    Curiosità sulla Copertina

    Per la copertina dell’album “Backspacer” uscito nel 2009, i Pearl Jam si sono rivolti al disegnatore Tom Tomorrow conosciuto dal leader Eddie Vedder durante la campagna elettorale di Ralph Nader nel 2000. Tom creò nove immagini che prima dell’uscita dell’album furono sparse per il web su vari siti internet e una volta cercarte e ricomposte su una griglia presente sul sito dei Pearl Jam si otteneva il download gratuito della demo di “Speed Of Sound”, una delle canzoni presenti nel disco. Per creare queste immagini l’artista si ispirò guardando alcune foto di infanzia dei componenti della band, ascoltando inoltre i loro sogni e i loro ricordi di quando erano piccoli. La prima immagine presente sulla copertina illustra uno degli incubi del bassista Jeff Ament al quale, vivendo vicino ai binari, dicevano sempre di non avvicinarsi ai treni in movimento a tal punto che più volte sognò si essere inseguito tra un treno infuocato. La seconda immagine rappresenta un modellino che riproduce l’anatomia umana e nella raffigurazione Tom Tomorrow aggiunse l’ombra di una falce simbolicamente associata alla morte. Nella terza immagine è rappresentato un sogno o un ricordo del leader Eddie Vedder in cui troviamo il mago Howard Thurston con in mano un teschio da cui fuoriescono elementi spettrali, occhi, figure femminili e stranamente un tamburello. La quarta immagine potrebbe rappresentare un sogno del batterista Matt Cameron, in cui vediamo un bimbo che guarda dentro un acquario all’interno del quale c’è una donna che danza in un paesaggio sottomarino insieme a dei pesci e una tartaruga. Nella quinta immagine troviamo una rielaborazione della foto di un cervello umano conservato al Science Museum di Londra. La sesta immagine celebra la prima passeggiata nello spazio di Edward Higgins White II nel 1965 e nella rielaborazione di Tom Tomorrow l’astronauta diventa un batterista spaziale. Nella settima immagine è rappresentato un ricordo del chitarrista Stone Gossard e cioè il robot di “Lost In Space” serie televisiva degli anni 70 mentre l’uomo con il cappellino è il personaggio di un’altra serie televisiva di quegli anni con il volto del mago Thurston. L’ottava immagine rappresenta la copertina di un disco di Johnny “Guitar” Watson la quale ispirò la canzone “Johnny Guitar” presente nell’album, mentre le gambe femminili al centro sono di Raquel Welch nel film “Un milione di anni fa”, mentre le gambe con i bikini sulla destra sono quelle di Ursula Andress nel film “Agente 007 licenza di uccidere”. La nona e ultima immagine è la rielaborazione di uno scatto del fotografo Robert Wiles effettuato pochi minuti dopo la morte di Evelyn McHale la quale si suicidò gettandosi dall’osservatorio dell’Empire State Building, cogliendo così la violenza della morte e la sua compostezza. (dal web)
     
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    PEARL JAM: Binaural.
    Questo disco ha un attacco risoluto e punkeggiante, una parte centrale variegata ed eccelsa con i quattro o cinque brani migliori, un epilogo rarefatto e psichedelico. Grande varietà quindi, anche perché da questo disco in poi tutti e cinque i musicisti del gruppo collaboreranno alle musiche mentre i testi restano quasi tutti appannaggio del cantante Eddie Vedder e oscillano, al solito, fra dura protesta politica, amara denuncia di difficoltà nei rapporti affettivi e, per quanto riguarda quelli più ermetici, non si sa bene cos’altro.

    Onore ai Pearl Jam la cui umiltà, volontà di mantenere sempre i piedi per terra, indipendenza e rispetto per se stessi e per gli altri sono unici ed esemplari nel business musicale, almeno ai livelli che loro competono di notorietà e successo. Tutt’altro che depressi come l’iconografia grunge da loro ben presto smentita vorrebbe, sono per fortuna sanamente incazzati con chi fa il bello e il cattivo tempo in America ed soprattutto intraprendenti nello sfruttare la notorietà ed il palco per lanciare critiche ed iniziative politiche a getto continuo. L’enorme ed istantaneo successo iniziale è stato da loro nobilmente sfruttato per svincolarsi da qualsiasi condizionamento, fare quello che si sentivano di fare, suonare quello che decidevano di suonare. Hanno “pagato” per questo, con un proseguo di carriera dai risultati molto meno pirotecnici, comunque sostanziosi e gratificanti: massimo rispetto per questi uomini.

    Tornando alla musica, la mia personale reazione davanti alle loro opere, “Binaural” ancor di più che altre, è che tendo ad amare perdutamente tre, quattro, cinque delle cose ivi contenute, facendo invece tranquillamente a meno di tutto il resto. Resto indifferente ad esempio a tutte quelle schegge tardo punk (la triade d’esordio “Breakerfall”, “God’s Dice” e “Evacuation” e la ritmicamente faticosa “Grievance”) se non nelle occasionali, brevi e spesso geniali aperture melodiche che contengono (in genere nel ponte). Mi gusto poi, anche se moderatamente, le sortite del gruppo nell’hard rock assai temperamentale ma anche con una certa dose di anonimato, o meglio di appoggio a certi miti come Zeppelin e Who (è il caso di “Of The Girl” e “Rival”) oppure le uscite del cantante Vedder sul versante più intimista e malinconico (“Soon Forget”), alla lunga stancanti.

    Ma mi riempio di fervida ammirazione quando le casse dello stereo mi rimandano passaggi melodico/armonici ispiratissimi, conditi magari da interpretazioni col cuore in mano di Vedder capaci di sciogliere anche il marmo. Le ciliegine su questa torta Pearl Jam si chiamano “Light Years” e “Thin Air” mid-tempos lirici e melodicamente eccelsi, con la voce accorata di Vedder che gioca mirabilmente ai limiti inferiori della sua estensione, ed emoziona tantissimo. Altre due perle sono “Nothing As It Seems”, una dark ballad nella quale la Gibson Les Paul di Mike McCarthy, condita di pedale wah wah, stampa note pingui e sostanziose, ed “Insignificance”, capolavoro dell’album e fra le cose migliori dei Pearl Jam, intensissima come solo loro sanno fare con una strofa che si carica nel riffone cadenzato del ponte e poi deflagra nel bellissimo ritornello, in un picco melodico da maestri, coinvolgente.

    Le uscite psichedeliche infine si chiamano “Sleight Of Hands” e “Parting Ways”, ma tracce di sonorità oblique e malate vi erano già anche nelle summenzionate “Nothing As It Seems” e “Of The Girl”: espressione della volontà del gruppo di omaggiare vecchi miti formativi e comunque di dare libero sfogo ai propri background musicali per certuni, inutile e pericolosa diversificazione per gli oltranzisti, quelli che hanno orecchi solo per le più monolitiche e rigorose scalette delle opere inizial.

    “Binaural” è il terzultimo loro lavoro, fotografa il gruppo all’inizio di questo decennio in una fase più appagata, più risolta, più adulta ma tutt’altro che rincoglionita e soprattutto conformata, visto che i testi sono sempre meno malinconici e più militanti e accesi. Va bene così, viva i Pearl Jam.
    (storiadellamusica.it / Recensione: Pier Paolo Farina)


    Curiosità sulla Copertina

    L’immagine presente sulla copertina dell’album “Binaural” dei Pearl Jam pubblicato il 16 maggio del 2000 è una foto modificata della “Nebulosa Clessidrica” (nota anche come MyCn 18), una giovane nebulosa planetaria della costellazione di Mosca scoperta dall’astronoma statunitense Annie Cannon Jump, distante circa 8000 anni luce dalla terra, scattata dal Telescopio Spaziale Hubble messo in orbita il 24 aprile del 1990. La “Nebulosa Clessidrica” non è altro che il resto di una stella grande quanto il sole, che sta lentamente morendo. All’interno dell’album invece troviamo alcune immagini della “Nebulosa Elica”, una delle nebulose planetarie più vicine a noi a soli 650 anni luce dalla Terra formatasi alla fine della vita di una stella, e la “Nebulosa Aquila” che a differenza della altre due Nebulose non ha a che fare con la morte di una stella, ma con la nascita. Tutte le foto sono state utilizzate con il permesso della NASA. Il titolo dell’album, presente sulla parte inferiore della copertina, deriva da un sistema di registrazione detto appunto “bineurale” che ha come obbiettivo quello di posizionare la testa dell’ascoltatore proprio dove la fonte sonora incontra l’apparecchio di registrazione. (dal web)
     
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1 replies since 4/11/2013, 02:58   278 views
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