Michael Jackson - Copertine dischi in vinile

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    Michael Jackson: Thriller.
    Meglio parlarne ora, prima che sia troppo tardi. Anche perché poi arriveranno i soliti furbetti che farneticheranno di “rivalutazione postuma”, di “recupero tardivo” o di “revival intellettualistico”. No no, meglio confessare tutto e subito, prima di essere tacciati di sciacallaggio, di far la figura di quello che porta i fiori sulla tomba del dittatore appena assassinato.

    Le ultime notizie dicono che il suo volto si stia decomponendo, che si sposti su una sedia a rotelle, che abbia un polso stranamente incurvato e che faccia fatica a parlare. Insomma, pare debba morire da un giorno all’altro. Non ci dicono se sia malato, se abbia un cancro, una leucemia o cos’altro. Dicono solo che sta morendo, come se avesse novant’anni. Invece ne ha cinquanta, e muore senza un motivo scientifico, da alieno, un po’ come stava accadendo a E.T., il protagonista di uno dei suoi film preferiti.

    Non siamo qui per fare aneddotica della vita della pop-star più celebre della storia della musica. Anzi, l’intenzione è quella di evitare il solito sciorinamento di dati di vendita ed eventi bizzarri, perché proprio quegli eventi, ed il loro esagerato richiamo mediatico, hanno trasformato un bambino troppo cresciuto in un uomo troppo bambino. Perché Michael Jackson, all’età di 5/6 anni interpretava il soul con una voce ed una padronanza inimmaginabili. Provate a cercare i vecchi filmati in cui attaccava “Who’s Loving You?” di Smokey Robinson praticamente a cappella, guardando dritto la telecamera e modulando le note come un veterano. Parliamo di questo e poi, se volete, raccontiamo di nuovo delle plastiche facciali, della camera iperbarica, del parco con lo zoo, di Ronald Reagan che gli stringe la mano alla Casa Bianca, di “We Are The World”, del figlio in fasce a penzoloni dal balcone dell’albergo, delle accuse di pedofilia e delle coltellate ricevute da una stampa, quella britannica, che ha ormai sulla coscienza una serie di morti illustri.

    Dopo gli anni dell’adolescenza passati a fare la fortuna della Motown, con un padre despota come manager, Diana Ross come seconda mamma e i fratelli come compagni d’avventura, Michael Jackson aveva quasi abbandonato i Jackson 5 (successivamente denominati “The Jacksons”) e la stessa Motown, aveva firmato un contratto con la Epic Records e aveva pubblicato il suo quinto album solista, “Off the Wall”. Il successo di questo album – ottimo mix di sonorità soul e disco rese accessibili da uno sforzo melodico smaccatamente pop - travolse la vita di Jackson, definitivamente trasformato in divo da copertina e personaggio da favola: un nero che non solo sconfigge i rivali bianchi, ma li schiaccia, li sottomette e li umilia.

    Non stupisce che uno capace di autoproclamarsi “The King of Pop” abbia sempre avuto il desiderio di pubblicare il disco più famoso di tutti i tempi. “Thriller” venne creato a questo scopo e studiato nei dettagli per soddisfare il palato di chiunque, tenendo conto di una sensibilità tanto particolare e – verrebbe da dire – di “transizione” come quella dei primi anni ’80. La cosa incredibile è come questo disco continui a suscitare interesse e raccogliere nuovi estimatori a distanza di quasi trent’anni. Sarebbe sufficiente trascorrere qualche ora sintonizzati su Mtv per capire quante odierne pop-star siano debitrici nei confronti di Jackson e nei confronti di “Thriller”, un disco creato affinché ogni brano possa trasformarsi in un singolo, “senza brani da LP”, come ebbe a dire lo stesso Jackson. Pensate a come questa concezione sia attuale in tempi in cui il formato album sembra destinato ad essere sostituito da singoli brani caricati sugli I-pod. Oppure pensate, più semplicemente, ad artisti come Justin Timberlake e all’intero genere chiamato “nu-soul” che, spinto da Mtv, spopola in tutto il mondo.

    Nove singoli, dunque. A cominciare da quella “Wanna Be Startin' Somethin'” che si ricollegava direttamente all’ apertura di “Off the Wall” (affidata a “Don’t stop ‘till you get enough”) per i riferimenti disco-funk ma che infittiva le proprie strutture armoniche con uno sfrenato gusto afro (memorabile il minuto finale a base di handclapping, percussioni, fiati e voci). A seguire, la penna di Rod Temperton, che aveva firmato il singolo migliore di “Off the Wall” (“Rock With You”) si ripeteva su altissimi livelli creando l’ennesimo hit radiofonico con “Baby Be Mine”: la voce di Michael Jackson si muove ancora su registri black alla maniera di Stevie Wonder e tutto il pezzo sembra voler attualizzare (in chiave ricercatamente pop) i canoni sonori della Motown. Altra firma di lusso per “The Girl is Mine”, sofisticato duetto scritto ed interpretato dallo stesso Jackson con Paul McCartney, che mette in scena un curioso litigio tra i dei due, innamorati della stessa ragazza: il pezzo è una melodia appiccicosa e trascurabile, ma l’interpretazione dei due (soprattutto nella parte recitata finale) è un distillato di classe.

    L’intro di “Thriller”, con tanto di ululati ed arrangiamenti barocchi, non ha bisogno di presentazioni. Anche qui, la mossa commerciale fu un vero colpo di genio, probabilmente ad opera del produttore Quincy Jones (vero deus ex machina e principale artefice del successo di questo disco e della carriera di Jackson): il video, ad opera di John Landis, fu una rivoluzione per l’allora nascente settore dei video musicali. Un piccolo film che non si limitava a mostrare l’artista che eseguiva il brano, ma sceneggiava la storia cantata nel pezzo, visualizzandone il senso e diventando, a distanza di anni, il paradigma di confronto per tutto il settore. A dare forza e imprimere il video (e la canzone) nella memoria collettiva, un andamento ossessivo dei bassi che si legava indissolubilmente con la coreografia ballata, l’aspetto horror che affascinò i più giovani e il recitato finale, con tanto di risata, ad opera dell’attore Vincent Price.

    Le successive “Beat It” e “Billie Jean” (entrambe firmate dallo stesso Jackson) formano con “Thriller” (che invece era opera del solito Temperton) un terzetto storico al quale si deve gran parte del successo di questo disco. La prima è una breve incursione nel mondo del rock, necessaria per soddisfare anche i gusti di un settore di pubblico in netta crescita. Con lo stesso motivo si può spiegare la presenza di Eddie Van Halen alla chitarra elettrica, che si prodiga in un funambolico assolo con la tecnica del tapping. Il pezzo è assolutamente ben congegnato e trascinante e, anche in questo caso, parte della sua notorietà si deve al relativo videoclip. “Billie Jean”, se possibile, va oltre. Sviluppata intorno a un tema di bassi inventato (secondo la leggenda) al pianoforte, il pezzo rappresenta l’immagine-icona con la quale il mondo identifica ancora Michael Jackson. Durante la celebrazione dei 25 anni della Motown, in diretta televisiva, Jackson si presentò sul palco, si esibì con i Jackson 5, poi fece partire le prime note di “Billie Jean”: cappello da spia in testa, movenze feline, il “moonwalk” e la sensazione di trovarsi di fronte una specie di mostro, capace di associare e sintetizzare la vocalità di Stevie Wonder (sebbene l’intonazione, l’espressività e la potenza vocale di Wonder siano decisamente superiori) con la presenza scenica di James Brown (anche qui, fate le dovute proporzioni). Ma il mondo del pop non aveva bisogno della potenza di James Brown o della classe di Stevie Wonder: voleva un idolo, uno che sapesse intrattenere e che proponesse canzoni facili da assimilare, operazione resa ancora più semplice dalla continua associazione con le immagini. Anche in questo caso infatti, è difficile non ricordare Jackson che, indossando pantaloni al polpaccio e mocassini impallettati, eseguiva incredibili giravolte e sospensioni sulle punte sopra mattonelle che si illuminavano al suo passaggio.

    In alcune parti dell’album (il basso di “Beat it”, ad esempio) si sente la collaborazione dei Toto, reduci dal successo planetario di “Africa” e autori anche della ballata “Human Nature”, caratterizzata da un incedere estremamente felpato che oggi potremmo definire “new age”. “P.Y.T. (Pretty Young Thing)” porta (finalmente) la firma di Quincy Jones, il quale riesce a costruire un funky ricco di sfumature e carico di arrangiamenti decisamente all’avanguardia per l’epoca. In chiusura, lacrime a profusione firmate ancora Temperton nella densa e mielosa “The Lady in My Life”.

    A distanza di tanti anni ci si stupisce ancora nel notare l’attenzione maniacale per i dettagli, una produzione praticamente perfetta da parte di Jones e la partecipazione di un team di musicisti di livello eccelso.

    Sicuramente non farete fatica a reperirne una copia, per cui prendetevi una mezz’ora di tempo, sgombrate la memoria da gossip, leggende e pregiudizi, e ascoltatelo con attenzione. Poi giudicate il disco, e solo quello. Michael, a quanto dicono, otterrà finalmente l’unico giudizio meritevole di considerazione.
    (storiadellamusica.it// Recensione: Fabio Codias)


    Curiosità sulla Copertina

    Dick Zimmerman è conosciuto per aver realizzato alcune delle più famose fotografie esistenti al mondo, e tra queste c'è sicuramente quella presentata sulla copertina di "Thriller". Michael Jackson, prima di scegliere Zimmerman, ha voluto incontrare altri fotografi, voleva essere sicuro che chi gli faceva lo scatto fosse professionale al massimo e che lo trattasse con delicatezza e rispetto. Zimmerman si rivelò l'uomo giusto. Il fotografo aveva portato sul set una serie si vestiti da far scegliere a Jackson, selezionati da uno dei migliori stilisti di Los Angeles, ma il cantante non sembrava apprezzarli. Gli era piaciuto però il completo bianco indossato da Zimmerman, proprio l'abito che Michael Jackson indossa nella foto. La foto session durò circa sei ore e lo scatto che vediamo in copertina fu scelto da Quincy Jones, amico e mentore del cantante. All'interno della copertina dell'edizione speciale di "Thriller", Michael Jackson è immortalato in compagnia di un tigrotto che venne portato sul set quel giorno. (dal web)
     
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