PAROLE e RICORDI DIMENTICATI

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  1. gheagabry
     
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    Calabria, 40 anni fa
    di Felice Manti

    C’è una pagina di storia italiana scritta con il sangue e cancellata dalla memoria. Il 14 luglio di 40 anni fa Reggio Calabria alzava le barricate contro la decisione del governo di spostare il capoluogo di Regione a Catanzaro. Cinque morti, 2mila feriti, 800 arresti, danni per miliardi di lire, armerie depredate e un assalto alla Questura che non si trasformò in tragedia grazie alla tempra del questore Emilio Santillo. Che davanti ai rivoltosi armati di molotov disse ai suoi uomini: «Possono bruciarci vivi ma noi non spareremo un colpo».
    Per la prima volta nel Dopoguerra in Occidente i carri armati entrarono in un pezzo d’Europa che ancora oggi fatica a dirsi Italia. La decisione del governo di allora, guidato dal senatore a vita Emilio Colombo, soffocò mortalmente il primo (e unico) afflato «federalista» del Sud e diede un colpo forse mortale al tentativo di accorciare le distanze con il Nord. Colombo spedì a Reggio 2mila soldati a luglio, altri 6mila a settembre e 3mila a ottobre, a bordo di cingolati e mezzi di artiglieria leggera. Barricate per le strade, negozi chiusi, ferrovie e autostrade interrotte, serrande abbassate nelle scuole e nelle banche. Altro che Sud indolente e cialtrone: la rivolta di Reggio che per mesi mise a ferro e fuoco la città era ispirata da una pervicace volontà di autodeterminazione. In ballo non c’era solo il pennacchio del capoluogo né la rincorsa al treno del boom economico, ma il nodo irrisolto della questione meridionale: quello della politica. I reggini si sentivano traditi dai loro amministratori a Roma. E poco importa se l’Msi di Ciccio Franco provò a mettere un cappello nero sulla rivolta. Il rimedio si dimostrò peggiore del male, e fu la fine dei sogni. Pentapartito, sindacati e sinistra prontamente bollarono come «fascista» la Rivolta. E la decisione di usare il pugno di ferro fu forse inevitabile. Il racconto di quei giorni è racchiuso nel libro fotografico Fuori dalle barricate di Fabio Cuzzola (Città del Sole editore) e in un film (Liberarsi, figli di una rivoluzione minore).
    Ma i misteri della Rivolta sono ancora irrisolti. Sagrestie piene di armi, sequestrate dall’Arcivescovo monsignor Giovanni Ferro per evitare il peggio, giornalisti strappati alla folla inferocita, la solita manina dell’eversione nera (il principe Junio Valerio Borghese sbarcò a Reggio l’8 agosto 1970), il ruolo della ‘ndrangheta nell’attentato al treno Palermo-Torino a Gioia Tauro il 22 luglio (sei morti e decine di feriti), lo strano incidente che portò alla morte di cinque anarchici in possesso di un dossier sulla strage ferroviaria
    Lo slogan dannunziano «Boia chi molla è il grido di battaglia» riecheggiava intanto per le strade. Sui muri dei quartieri più popolosi comparvero le prime scritte «autonomiste», su una barricata ubicata nel quartiere di Sbarre sventola una bandiera azzurra con la scritta «Repubblica di Sbarre».
    Quando la rivolta è sedata, Colombo promette 70 miliardi di investimenti, la nascita del Quinto polo siderurgico a Gioia Tauro, una fabbrica a Saline Joniche e lo sdoppiamento della Regione (la giunta a Catanzaro, la sede del consiglio a Reggio). Un accordo, si disse, messo nero su bianco in una famigerata cena del gotha politico calabrese. Ma la liturgia assistenzialista della Prima repubblica partorì le solite cattedrali nel deserto e uno spreco di denaro pubblico. Il guanto di velluto e il pugno di ferro. Non è un caso che ancora oggi questo pezzo d’Italia sia ostaggio della potentissima ‘ndrangheta e non creda più alle lusinghe romane. L’autostrada Salerno-Reggio è il vergognoso simbolo dell’eterna incompiuta, il Ponte sullo Stretto rischia drammaticamente di restare un sogno. L’unico nero che sopravvive ha a che fare con l’economia sommersa e controllata dalle ‘ndrine e da commercianti compiacenti, come ha rivelato un’inchiesta della Procura. Ma la voglia di ribellarsi non è ancora sopita. A parlare di federalismo si rischia il linciaggio, anche se a microfoni spenti più d’uno confessa: «Se fossi al Nord voterei Lega». Tra la Padania e la Repubblica di Sbarre non c’è poi tanta differenza.




    articolo postato da tomiva il 15.7.10
     
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  2. gheagabry
     
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    IL DISCORSO DI MOSE'



    Scoperto il testo originale del discorso di Mosè al popolo ebraico
    LOS ANGELES (USA) - Dopo oltre 2000 anni sarebbe ora possibile conoscere le parole originarie pronunciate da Mosè al popolo ebraico. Sarebbe infatti nascosto in alcuni frammenti dei rotoli del Mar Morto (la serie di rotoli e frammenti trovati nel 1947 in undici grotte nell'area di Qumran e che contengono la versione più antica finora conosciuta del testo biblico), il testo autentico del Deuteronomio, una delle parti più importanti della Bibbia ed il quinto dei libri che formano la Torah ebraica. E la versione originale sarebbe diversa da quelle delle raccolte posteriori, che hanno risentito delle dispute teologiche delle varie scuole rabbiniche.
    IL DEUTERONOMIO - Il libro del Deuteronomio consiste principalmente di tre discorsi che sarebbero stati pronunciati da Mosè, poco prima della sua morte, agli Israeliti. Il primo discorso è una ricostruzione storica. Il secondo discorso, che occupa la parte centrale del libro, contiene i Dieci Comandamenti dettati sul monte Sinai e il cosiddetto codice Deuteronomico, formato da una serie di dettami. Questa sezione è costituita in gran parte da leggi, ammonizioni ed ingiunzioni relative alla condotta che il popolo eletto deve osservare per entrare nella terra promessa. Il terzo discorso tratta delle solenni disposizioni della legge divina, adempiendo alle quali è garantita la prosperità futura del popolo d'Israele.
    LA SCOPERTA - A sostenere l'esistenza di un testo originario e precedente a tutti quelli finora conosciuti è James Charlesworth, un professore di studi neotestamentari presso il Princeton Theological Seminary, il quale ha analizzato finora almeno un piccolo frammento proveniente dai rotoli del Mar Morto acquistato recentemente dalla Azusa Pacific University. Si tratta di un passo del ventisettesimo capitolo del libro. Nel frammento analizzato da Charlesworth, Mosè prescrive a chi sarebbe entrato nella Terra Promessa (privilegio che a lui non sarà accordato) di erigere un altare di pietra in onore dell'unico Dio al di là della riva destra del Giordano. E, parlando su ispirazione diretta di Dio, ordina che l'altare sorga sul Monte Gerizim. Ora, è proprio questo il particolare che suggerisce la tesi dell'originalità del testo di Qumran: in tutte le versioni ufficiali, redatte successivamente, il luogo indicato sarebbe un altro, vale a dire il Monte Ebal. Quanto basta al professor Charlesworth per affermare che, vista non solo la veridicità della versione dei manoscritti, appurata in centinaia di pubblicazioni, ma anche la loro generale correttezza si tratta delle vere parole di Mosè. O di Dio, visto per appunto che Mosè parlava su ispirazione divina. La versione successiva, presente nel testo canonico, dovrebbe essere invece frutto di una soluzione di compromesso imposta nel corso di un vero e proprio scontro tra gruppi religiosi. Il fatto che solo ora si venga a conoscenza di un testo originale diverso da quello biblico attuale non deve sorprendere. Dei 15000 frammenti conosciuti risalenti ai rotoli del Mar Morto la maggior parte infatti è in mano a privati ed è spesso inaccessibile agli studiosi.
    TESTO ORIGINALE - «Finalmente il testo originale del Deuteronomio», ha dichiarato Charlesworth al Los Angeles Times, «si tratta di una scoperta di importanza sensazionale». Il frammento oggetto del suo entusiamo è stato mostrato, rigorosamente in fotografia, dal board dell'università californiana che lo ha acquistato insieme ad altri quattro venduti da un mercante specializzato di Venezia. Si tratta, anche in questi casi, di parti dell'ultimo libro del Pentateuco ad eccezione di un papiro che riporta parte del Libro di Daniele. Tutti hanno raggiunto la cassaforte dell'Azusa Pacific University al termine di un percorso che li ha portati dalle grotte di Qumran nelle mani di collezionisti privati. Ora resteranno in California e potrebbero riservare ancora delle sorprese.

     
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    latino-lingua-morta

    " IL LATINO, LINGUA PULITA, DENSA, PRECISA

    Il latino è una delle cose più pulite che esistano al mondo. Leggendo un testo di latino non si troverà mai una parola più del necessario, una parola inutile. Non è vero che lo studio del latino non serva a nulla. E non è neppur vero che il latino sia una lingua morta. Il fatto che non lo si parli più ha un'importanza relativa: il latino è talmente vivo che, oggi, non esiste lingua parlata capace di esprimersi con tanta precisione e con così scarso numero di parole. Il latino è una lingua precisa, essenziale. Verrà abbandonata non perché inadeguata alle nuove esigenze del progresso, ma perché gli uomini nuovi non saranno più adeguati a essa. Quando inizierà l'era dei demagoghi, dei ciarlatani, una lingua come quella latina non potrà più servire e qualsiasi cafone potrà impunemente tenere un pubblico discorso e parlare in modo tale da non essere cacciato a calci giù dalla tribuna. E il segreto consisterà nel fatto che egli, sfruttando un frasario approssimativo, elusivo, e di gradevole effetto «sonoro», potrà parlare un'ora senza dire niente. Cosa impossibile col latino."

    Tratto da: GIOVANNINO GUARESCHI, Chi sogna nuovi gerani, a cura di Carlotta e Alberto Guareschi

     
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