THE SMITHS - Copertine dischi in vinile

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    THE SMITHS: Meat Is Murder.
    Album che raggiunse la prima posizione nella classifica inglese scalzando il Boss di “Born in the USA”, “Meat is Murder” è un lavoro in cui violenza e problematiche sociali la fanno da padrona, in un’epoca dai toni soft e superficiali.

    L’alone piovoso di Manchester grava sulle melodie che vanno dal rockabilly più sregolato alle ballate più atmosferiche, il suono compatto del precedente “The Smiths” viene abbandonato e le scelte produttive sono più efficienti rispetto al passato. Le chitarre stratificate di Marr e le costruzioni musicali sono atipiche ma fresche e immediate. Su tutto impera il narcisistico vittimismo di Morrissey, che nell’album forse più cupo della band pervade ogni canzone di un’ironia amara che non lascia scampo.

    Il tema portante del disco è quello dell’ingiustizia a cui spesso segue un’immorale violenza, è un'opera combattiva e inquietante che si scontra con l’ordine costituito della società, delle sue leggi, delle sue istituzioni (famiglia compresa). La risposta di Morrissey a tutto questo è la rivolta, alla Cyrano de Bergerac, una rivolta a colpi di stilografica e velenoso sarcasmo albionico.

    The “Headmaster Ritual” apre il disco spalancando ai nostri occhi la desolata realtà dell'oppressione scolastica. L’attacco chitarristico di Marr entra di soppiatto dalla porta posteriore ad atterrire il corpo docenti, la rabbia del protagonista è tangibile anche se l’aggressione viene subita senza colpi di testa (tipico di Moz): “Mi prende a calci nelle docce e mi afferra e mi divora, voglio andare a casa, non voglio restare”. Il brano presenta accordature e sequenze armoniche molto articolate, composte da mini frasi ritmiche a susseguirsi l’una dietro l’altra e continue modulazioni.

    Segue “Rusholme Ruffians”, in cui il protagonista dopo aver girovagato per una fiera ed essere stato spettatore di delitti e infatuazioni, torna a casa puntualmente solo ma con “la fiducia nell’amore intatta”. I prestiti letterari non mancano, ma vengono resi opportunamente più poetici: “Incidi il mio nome sul tuo braccio con una penna stilografica, questo significa che mi ami veramente”.

    “What she said”, è un pop rock gasato che dà in escandescenze grazie ai riff minimali di Marr che ricamano le composizioni senza concedere virtuosismi. È la storia irrequieta di un amore instabile consumato negli anni ‘40 il cui riferimento letterario a Elizabeth Smart è più che palese. Citazioni della Smart vengono utilizzate anche per “Well I Wonder”, ed è interessante notare che le frasi prese in prestito esprimono sempre un senso di disagio nei confronti della fisicità, il contrasto (perenne in Morrissey) tra passione e razionalità.

    “Barbarism begins at home” è un’altra sferzata al conformismo, su un frizzante manto melodico Moz ci ricorda che “una botta in testa è quello che ottieni per quello che sei, per le cose che fai, per le cose che dici e per quelle che non dici”, conclusione: sii te stesso ma rassegnati alle inevitabili conseguenze.

    Morrissey fronteggia se stesso sul piano umano parlando apertamente di introspezione e insicurezza, “voglio quello che non posso avere” dice “e questo, mi sta facendo perdere la testa”, un atteggiamento che alimenta sempre di più il dibattito sul suo essere estremamente avvilente.

    La morte è un argomento che si affaccia più volte in questo lavoro, Moz sembra quasi chiedersi quante volte si muoia prima di morire davvero. Le canzoni sono popolate da personaggi che sperano in una morte prematura e hanno bisogno di aggrapparsi a qualcosa (What she said), che si augurano di fermare il tempo in un momento di eccitazione per poter morire con un sorriso (That joke isn’t funny anymore), che vengono inghiottiti dai flutti mentre chiedono di essere ricordati (Well I wonder), ma il vertice di questi disperati desideri di morte è indubbiamente “Nowhere Fast”, dove il sarcasmo tutto inglese di Morrissey emerge con veemenza da un testo meravigliosamente impudente: “Mi piacerebbe abbassarmi i pantaloni davanti al mondo, sono un uomo provvisto di mezzi (di scarsi mezzi) / penso alla vita e poi penso alla morte, ma nessuna delle due mi attira particolarmente / e se venisse il giorno in cui provassi un’emozione autentica avrei un colpo tale che probabilmente mi stenderei in mezzo alla strada e morirei”.

    Quasi a metà album si fa strada uno stato mentale sotto forma di canzone: “How soon is now?”, brano che seduce e terrorizza, nonché vero manifesto del “miserabilismo” morrisseyano. La voce dolce e affilata di questo ragazzo “dalla timidezza criminalmente volgare” diffonde con naturalezza parole incandescenti (“Come puoi dire che affronto le cose nel modo sbagliato? Sono Umano e ho bisogno di essere Amato proprio come chiunque altro"), e ti ritrovi ad essere consolato dal racconto delle sue disgrazie (“C’è un club se vuoi andarci, potresti incontrare qualcuno che ti ama veramente, così vai e te ne stai seduto in disparte, e te ne torni da solo, e vai a casa, e piangi, e hai voglia di morire”). “Il figlio e l’erede di niente in particolare” ti accompagna per mano facendoti immalinconire lentamente e lasciandoti alla fine con l’amaro in bocca (“Quando dici che succederà adesso, beh, quando intendi esattamente? Vedi, ho già aspettato troppo a lungo ed ogni mia speranza se n’è andata”).

    Per la chiusura dell’album Morrissey indice una crociata. “Meat is Murder” con il suo incedere disperato è la preghiera angosciata di un vegetariano che non si rassegna alla disumanità dei mattatoi. I gemiti degli animali condotti al macello dischiudono terrificanti universi macchiati di morte: “Sapete come muoiono gli animali? / Chi ascolta quando gli animali piangono?”. Moz raggiunge picchi di drammaticità con la sua voce solitamente mite impegnata ad effondere un tale supplizio.

    In definitiva, “Meat is Murder” è la straordinaria opera di un gruppo che ha avuto (tra gli altri) il merito di intagliare l’essenza del pop, dandogli forma. Antitesi dello squallido pop imperante dei loro anni, hanno rivendicato il diritto ad essere normali, introducendo un nuovo linguaggio in cui si è identificata più di una generazione. (storiadellamusica.it)

    Note sulla copertina

    Per la copertina dell'album "Meat Is Murder" del 1985, gli Smiths utilizzarono una fotografia scattata nel 1967 durante la guerra del Vietnam. La scritta originale sull'elmetto del soldato è stata cambiata da "Make War Not Love" a "Meat Is Murder". Al momento del lancio del disco la versione inglese aveva una versione più grande della foto, mentre la versione americana aveva quattro immagini. L'immagine originale è stata anche utilizzata nel 1968 dal regista Emile De Antonio per il suo documentario "In The Year Of The Pig".
    (dal web)
     
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0 replies since 27/7/2013, 23:11   383 views
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