RADIOHEAD - Copertine dischi in vinile

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    RADIOHEAD: Hail To The Thief.
    Hail To The Thief. Con i Radiohead il rischio di sovraccaricare l’attività esegetica è praticamente una certezza, legittimata dalla qualità media dei prodotti, dalla coerente intensità che ne pervade ogni aspetto espressivo (musicale, iconografico, etico) e non ultimo da un ambiente che brilla per minimi comuni denominatori un po’ troppo minimi e formattati, sovrastare i quali non è certo impresa da titani. L’ascolto di questo Hail To The Thief (o per essere precisi i primi sette-otto) invece mi invoglia ad ammorbidire l’approccio, a volare basso e cogliere l’attimo in cui si manifesta, frontale e vivido, denso e frastagliato, come un punto di deflagrazione estemporaneo nel ring di quotidiani sovraccarichi emozionali.
    Un evento (rock) tra i mille (e mille) non-eventi di cui son piene le nostre esistenze, che è poi né più né meno ciò che accade ogni volta che un disco centra il bersaglio. Checché siano ormai star conclamate, i Radiohead (a partire dal leader Thom Yorke) mantengono un inossidabile status da mosca bianca, sono quel piccolo mistero redditizio che la multinazionale di turno (la Emi) coccola come una benedizione incomprensibile. In fondo, l’importante è che all’uscita del sesto album (il settimo, se consideriamo l’ottimo live I Might Be Wrong) continuino a materializzarsi code di entusiasti e compositi avventori, e continui il plauso di una critica certo non unanime però piuttosto concorde nel decretarne l’eccezionalità.
    A chi li segue dagli inizi (come il sottoscritto) basta voltarsi per misurare una teoria di suggestioni diverse, di sorprese e singulti, di scatti allibenti e implosioni sospese attorno ad un centro di gravità inafferrabile eppure nitidissimo, uno stesso senso di allarme che pervade l’acerbo Pablo Honey e si è andato via via definendo con The Bends, irrobustendo e strutturando le trame in Ok Computer fino alla trasfigurazione opalina di Kid A e Amnesiac. Una poetica dell’apocalissi preventiva che disco dopo disco, canzone dopo canzone acquisiva una cifra tanto implicita quanto inconfondibile, attraverso e malgrado l’accidentalità della forma e la qualità della sostanza.
    Hail To The Thief si inserisce in questo solco con immediata solennità. Un disco chiaramente - quasi brutalmente - politico (a partire dal titolo, dedicato a George Bush il Piccolo, esplicitamente evocato nella serrata Where I End You Begin), figlio di sdegno, timore e amarezza. Quindici tracce solcate da un solo cupo presagio (la ricorrente perturbazione degli ululati gotici), fuse nella vertigine distante di una evidente spontaneità entro cui si definiscono misure essenziali (la stupenda I Will, ninna nanna folk rannicchiata, chitarra dolente, giustapposizioni vocali col cuore atterrito) e rinnovati fragori (il codice esplosivo di 2+2=5, la folkitudine impetuosa e cangiante di Go To Sleep, la lenta arrampicata di There There), di un brusio anarchico e altero che mangiucchia i margini e scortica l’essenza (della texture sintetica di The Gloaming, del dark-soul translucido di Scatterbrain), concedendosi il lusso di derive retrò (la blaxploitation narcotizzata di A Punchup At A Wedding, la black fumosa, venata di maligno afflato psych – stile Berlin - di We Suck Young Blood) proprio quando la commistione techno sembra irreversibile (le sincopi virulente di Myxomatosis, la danza “amnesiaca” di Backdrifts), quindi collassando a gomito nel ventre di una classicità tremebonda (l’evanescenza jazzy della meravigliosa Sail To The Moon).
    Il tempo di fare bilanci e mettere in riga è domani. Oggi amo ascoltare questo disco con l’urgenza che reclama, con la sua abbacinante flagranza, la ricchezza funzionale degli arrangiamenti (mai un organo, un piano, un glockenspiel o una diavoleria sintetica di troppo), la capacità di sbalordire che in Sit Down Stand Up avvita e stempera pulsazioni seriali e percosse veraci in una coda ritmica devastante, mentre nella conclusiva A Wolf At The Door cuce organetti sixties, tromba, coretti gotici, synth, corde e una batteria in vena di valzer nell’invocazione disarmata, amara e parossistica di una furia arresa, che palpeggia il vuoto dei nostri giorni per diventare subito classico.
    Pollice in alto, decisamente. Anche se la sensazione di antologia sonora programmatica (come dire: da Creep a Like Swimming Plates passando per Paranoid Android), alla ricerca forse del definitivo “Radiohead sound” – ancorché cangiante e multisfaccettato – getta sul tutto uno strisciante retrogusto di artificiosità, come di scelte estetiche vagamente forzose pur nella loro indubbia efficacia. Ma è davvero l’unico neo, se di neo si tratta. A conti fatti, un altro grande disco dei Radiohead.
    (Stefano Solventi - sentireascoltare.com)


    Note sulla copertina

    L'artwork dell'album segue lo stile di una mappa stradale, con parole e frasi al posto degli edifici. Molte frasi sono legati all'album stesso o fanno riferimento ai testi (esempi: "Punchup", "We can wipe you out", "Are you fresh?"). Nonostante i Radiohead siano inglesi, molte delle parole sono americane o usano lo spelling americano ("Color", "Xing", "VCR"). L'artowrk è stata prodotta da Stanley Donwood in collaborazione con Tchock (Thome Yorke); Donwood ha indicato nel panorama di Los Angeles la principale fonte d'ispirazione per la copertina (che infatti è una pittura chiamata "Pacific Coast"), mentre le altre "mappe" presenti nell'artwork fanno riferimento alle città di Londra, Grozny e Baghdad.
    Come "Kid A" e "Amnesiac", l'album è stato distribuito anche in un'"edizione speciale". La differenza rispetto alla versione base non risiede nella musica, ma nella copertina, sempre a cura di Donwood e Tchock, e in un grande poster con una raffigurazione simile alla copertina. Quest'ultimo è stato definito come una "tabella di marcia", con riferimento alla Road Map dell'amministrazione Bush per la pace fra Israeliani e Palestinesi. Inoltre Hail to the Thief, come i precedenti album dei Radiohead è stato pubblicato in vinile. (Wikipedia)
     
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    RADIOHEAD: The King Of Limbs.
    Ormai ci hanno preso gusto: annunciare il disco in extremis, con modalità di acquisto del tutto particolari rispetto alla normalità. Si diceva che il seguito di "In Rainbows" avrebbe avuto un afflato orchestrale. E, a sentirlo bene, forse i rumors c'avevano preso, secondo tuttavia una prospettiva differente, riferita cioè a un concetto di orchestralità legato alle nuove declinazioni musicali.
    Il quintetto, nel suo ottavo disco, intraprende una via non scontata né banale, che arricchisce la sua discografia di un lavoro ancora una volta differente rispetto ai precedenti. Non è un lavoro pop, non è elettronica, non è rock. Che cos'è, dunque, "The King Of Limbs"? È una via di mezzo di tutto, un mix nel quale possono rintracciarsi i Radiohead di sempre, seppur nel contesto di un gioco di ombre che rende questo disco forse il più misterioso e difficilmente inquadrabile della loro storia.

    In un certo senso, in cuffia, "The King Of Limbs" è forse il disco che ci aspettava. Rimane poco della bellezza pop del disco precedente, qui si osa di più. Il sound è compatto e monolitico come non mai, senza tuttavia mancare volta per volta di variazioni sul tema. Perfetto incrocio tra la freddezza di "Kid A" e le languide scie di "Amnesiac", "The King Of Limbs" offre una sorta di rivistazione dell'uno-due di inizio decennio. Uno stile inconfondibile, nel quale fanno capolino da un lato cornici elettroniche (file under: Four Tet) e dall'altro personalissime e addolcite declinazioni dubstep (file under: Flying Lotus).

    La marcetta iniziale "Bloom" racchiude perfettamente il senso dell'album: in bilico tra frastagliate linee ritmiche, superficiale freddezza e aperture alla Björk di "Debut" e "Homogenic". Il canto sinuoso di Yorke al solito si pone da contraltare rispetto alla struttura, creando un perfetto incrocio tra calore e distacco.
    E se il frenetico incedere di "Morning Mr. Magpie" sembra uscito dalle outtake di "The Eraser", i primi istanti di "Little By Little", in quota "Half To The Thief", parlano il verbo dei Portishead, col canto che si fa lamentoso e strozzato. "Feral", più di ogni altra, porta alla memoria "Kid A", tra schegge ritmiche impazzite, improvvisi stop e conseguenti accelerazioni, in un moto non distante dal Four Tet più vivido. Fino a qui emerge una grande omogeneità, sotto la quale si nascondono soluzioni non facilmente catturabili a un primo ascolto.
    Il singolo "Lotus Flower", giocato su beat serrato, organo e stupende linee vocali (che si riscaldano nel "ritornello") segna lo spartiacque del disco. Da qui è una discesa nel miele più dolce. "Codex" è episodio per piano, echi lontani e un senso di avvolgimento e calore che sfiora la perfezione, "Give Up The Ghost" è un'incantevole nenia per fiati e sovrapposizioni vocali in un incastro dolcissimo e celestiale. La conclusiva "Separator" richiama alla memoria il passo felpato di "House Of Cards", con un crescendo velatamente psichedelico.

    Un disco breve - trentasette minuti - ma densissimo, forse il più introspettivo, difficile e granitico della loro storia.
    Se la musica fosse matematica, i Radiohead sarebbero sempre un gioco a somma positiva. (ondarock.it)

    Note sulla copertina

    L’artwork dell’album “The King of Limbs” dei Radiohead del 2011 è un’ opera d'arte creata dal leader della band Tom Yorke insieme Stanley Donwood, artista, illustratore, scrittore e musicista britannico che dal 1994 collabora attivamente con i Radiohead. “The King Of Limbs” è il nome di una quercia millenaria situata nella foresta di Severnake nel Wiltshire. La quercia dista solamente 5 km dalla Tottenham House, ovvero il luogo dove si sono svolte alcune sessioni di registrazione di “In Rainbows”. Ma una spiegazione più interessante è sicuramente quella che lega il titolo del disco alla copertina. Nell'artwork vediamo raffigurati bizzari "Octopus Vulgaris" comunementi detti Polipi, come due spiriti nella foresta, né buoni né cattivi, un pò teneri e un pò spettrali di questo limbo che è la natura. Il polipo possiede 3 cuori e ha la capacità di cambiare colore molto velocemente e con grande precisione nel dettaglio. Sfrutta questa abilità sia per mimetizzarsi che per comunicare con i suoi simili e la sonorità di questo disco e la storia dei Radiohead può essere associata proprio a questa descrizione. Immagini e suoni in questo disco si intrecciano e si completano facendoci viaggiare tra le ossessioni oniriche e le preoccupazioni ambientali della nostra epoca.
    (dal web)
     
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