LED ZEPPELIN - Copertine dischi in vinile

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.  
    .
    Avatar

    Senior Member

    Group
    Administrator
    Posts
    13,795

    Status
    Offline
    Condividi

    LED ZEPPELIN: Led Zeppelin III.
    Il cuore caldo di questo splendido album trae la sua genesi da una pausa di relax vissuta insieme da cantante e chitarrista della formazione, rifugiatisi nella campagna del Galles per una quindicina di giorni a ritemprarsi dopo il primo, pazzesco anno e mezzo di vita del gruppo durante il quale il Dirigibile aveva prodotto due album (uno in poche e febbrili notti a Londra, l’altro a spizzichi e bocconi in giro per gli studi di mezzo mondo nelle pause fra un concerto e l’altro), cinque tournée in America, una enorme e irripetibile sensazione in giro.

    Niente corrente elettrica nel rifugio scelto dai due musicisti e allora è il momento buono per Jimmy Page di imbracciare l’acustica portata con sé e dar copioso frutto agli insegnamenti appresi dalla scuola folk inglese a lui tanto cara, sperimentando le sue accordature strane e inusuali, nonché per Plant di adeguarvisi felicemente canticchiando sopra gli insoliti accordi del partner e dando fondo al suo lato hippy e sognante. Ne viene fuori un bel mazzo di temi che andranno a costituire non solo l’ossatura di questo lavoro, ma pure parte di quelli a venire fino al “Physical Graffiti” di quattro anni dopo. Il tema più bello scaturito da quei giorni ispirati viene in ogni caso momentaneamente accantonato, andrà a costituire l’incipit della celebre “Stairway To Heaven”, pronta solo per l’album successivo.

    Quando però, una volta rientrati a Londra dal Galles, tutto quel certame acustico e quieto viene posto sotto le grinfie degli altri due compari, soprattutto del bombastico batterista che si ritrovano in formazione, si ha la mutazione zeppeliniana del placido folk rurale in un suono autenticamente mai sentito prima, un “heavy folk” drammatico e teso in cui gli strumenti acustici, tirati per la giacchetta da tale cattiveria ritmica e dall’esuberante ugola del giovane Plant, sferragliano tosti e circondano la sua strepitosa voce in una intensa gazzarra che non ha nulla di placido.

    Sotto questo aspetto la seconda traccia “Friends” e la sesta “Gallows Pole” sono due luminosissimi archetipi di un modo di pompare tensione e pesantezza pur giostrando con banjo e roba simile che non ha/avrà uguali. La centralità ed indispensabilità di John Bonham nel suono Zeppelin trova qui la sua dimostrazione più evidente, è lui a spingere più di tutti il gruppo verso vette di intensità e cuore mai più raggiunte da altri. Parlare di cuore per uno strumento che fa “boom” con la cassa e “stra” col rullante eccetera potrebbe sembrare strano ma è proprio così: l’ascolto di John Bonham mentre accompagna i suoi pards nelle grandi canzoni di quest’album e in generale di tutta la produzione Zeppelin è un esperienza prima di tutto di cuore, del grande cuore che aveva quest’uomo semplice, ingenuo, ubriacone, capace di pestare fortissimo e al contempo con una dannata umanità (e creatività). Nel suo genere, il migliore di sempre, senza alcuno scampo per possibili alternative.

    In “Friends” ci mette poi molto del suo anche il “quarto uomo” John Paul Jones, sovrapponendo all’incedere ritmico un grosso, drammatico bordone di sintetizzatore dal sapore vagamente mediorientale, uno spunto musical/culturale che ritornerà volentieri in altri capolavori del gruppo (“Kashmir” soprattutto, proprio su “Physical Graffiti”).

    “Gallows Pole” invece è costruita maggiormente in crescendo e ci pensa l’interpretazione di Plant, sempre più pressante e parossistica, a gonfiare via via di urgenza e tragedia al brano, nel quale viene raccontata la supplica di un condannato al suo boia che lo sta per immolare sul patibolo.

    Altri sipari acustici presenti nel disco sono comunque assai meno acri, ad esempio “Bron-Y-Our Stomp” celebrazione del rifugio campagnolo trovato da Plant e Page, una marcetta debitamente appesantita dalla rimbombante cassa di Bonham, nella quale il suo chitarrista si diverte a correre agile e geniale sullo strumento accordato in Mi Maggiore ed il cantante a miagolarvi sopra il suo potentissimo falsetto. E ancora “Tangerne”, non un prodotto di quelle giornate a Bron-Y-Our bensì un “avanzo” degli ultimi tempi degli Yardbirds il gruppo rock/beat di provenienza di Page, in effetti una ballata con tutt’altra atmosfera, dolciastra (sin dal titolo “Mandarino”) e manierosa, un poco fuori contesto in un album così obliquo e misterioso. Meglio sarebbe stato, a mio giudizio, inserire al suo posto l’ottima “Hey Hey What Can I Do”, ennesima “heavy folk ballad” magari ripetitiva rispetto ad altri episodi dell’album ma assai più asciutta e in riga col resto, rimasta invece inopinatamente fuori e relegata a lato B di un singolo.

    Dal punto di vista della dolcezza, assai più riuscita la ballata “That’s The Way” dal profilo ondeggiante grazie ad una deliziosa risacca di chitarra acustica (per gli strimpellatori: accordata abbassando di un tono la prima, seconda e sesta corda) rafforzata da mandolino e steel guitar, una festa del Page più californiano e campagnolo.

    Se la seconda parte dell’opera è veramente il festival dell’acustico (ma quasi sempre con nerbo e tensione, come si è detto) la prima parte dispone di alcune bellissime cose elettriche. L’apertura di “Immigrant Song” è di nuovo grande archetipo: una cavalcata giocata su di un semplice irresistibile riff, economicissimo dato che adopera un’unica nota di FA# giocata ritmicamnte su due ottave diverse. Robert Plant entra fantasticamente come una specie di sirena pericolosa e poi sciorina il primo testo della storia alle prese con dei, paradisi nordici, martelli di Thor e compagnia cantante. Siamo né più né meno che al cospetto del capostipite di un intero, fiorentissimo genere che verrà, l’heavy metal di ispirazione gotica e pagana; non sto a far presenti i fiumi di parole, le migliaia di canzoni, le decine di gruppi, le centinaia di copertine di dischi alle prese con l’al di là nordico ed i suoi miti, con corollario di nerboruti cavalieri brandenti grosse asce sanguinanti, spadoni ed elmi e poi le battaglie e l’onore e la gloria…tutto un mondo musicale (per molti assai burino ed esagerato senz’altro) del quale questa canzone può essere indicata a vero prototipo. Il brano è assai breve, meno di tre minuti giacché Page non ritiene opportuno, a ragione, inserirvi un assolo di chitarra. Lo farà nelle esibizioni dal vivo, senza risultati particolarmente rimarchevoli.

    L’hard rock in posizione n° 3 “Celebration Day” è meno celebre ma sempre notevole grazie soprattutto alla performance ritmica di Page, stavolta non inchiodata ad un riff ma fluida e creativa nel tracciare con settime e none gli spunti armonici per il cantato genialmente asincrono e libero di Plant che rende estremamente dinamico il tutto: una perla semi-nascosta del repertorio, forse oscurata dal fatidico blues che la segue a ruota.

    Fra i capolavori assoluti di questa band riconosciuta di tanti capolavori, “What Is And What Should Never Be” è IL blues, che piace anche a chi non sopporta il genere, tale è l’intensità, la drammaticità, la voglia, la perizia e la coesione del gruppo colto qui in assoluto momento di grazia. Page imperversa con una performance piena di anima e fuoco, piazza il suo assolo più devastante del repertorio, letteralmente portato in spalla dal suo batterista che a suon di sberle inaudite a piatti e tamburi riempie e sottolinea impagabilmente tutte le pieghe sonore di un brano che ne è ricchissimo. L’organo Hammond ed il basso di Jones fanno il loro dovere alla grande, Plant geme e urla posseduto dal sacro fuoco della sua giovane energia: uno spettacolo, sette minuti grandiosi.

    Dopo tanta possanza, il rockblues che segue “Out On The Tiles” fa la figura del riempitivo, col suo riff un poco contorto e forzato, condito di sincopi e sonori stacchi che però non riescono a far decollare del tutto la musica, malgrado anche il gran daffare di Bonham ai tamburi. Altro riempitivo è l’episodio conclusivo del disco “Hats Off To Roy Harper”, un esperimento blues trattato con un’esasperata distorsione, voce e chitarra in un tunnel sonoro aspro e melmoso, assai sperimentale ma in definitiva sfocato, uno dei pochissimi episodi zeppeliniani passati completamente nel dimenticatoio.
    (storiadellamusica.it - Pier Paolo Farina)
     
    Top
    .
  2.  
    .
    Avatar

    Senior Member

    Group
    Administrator
    Posts
    13,795

    Status
    Offline
    LED ZEPPELIN: Physical Graffiti.
    Nel 1975 venne pubblicato Physical Graffiti, il sesto album degli Zeppelin. Solo le prenotazioni del disco fruttarono alla band 15 milioni di dollari, con esordio direttamente al terzo posto nelle classifiche per quello che, a detta dei membri stessi della band, è il disco più "hard" da loro mai realizzato. A dire il vero le registrazioni dell’album erano iniziate molto prima, esattamente nel novembre del 1973, però John Paul Jones si ammalò e il tutto venne rimandato al febbraio dell’anno successivo. Inoltre, sebbene i quindici pezzi fossero pronti e mixati fin dal giugno del 1974, passò un ulteriore anno prima che il progetto del loro album doppio vedesse la luce nei negozi. Questo avvenne perchè il contratto quinquennale degli Zeppelin con l’Atlantic Records era scaduto, e i quattro musicisti erano impegnati nella fondazione della loro nuova compagnia musicale, la Swan Song. Inotrodotti gli aneddoti storici, parliamo più in dettaglio dell'album.
    Una citazione doverosa va sicuramente alla bellissima copertina, raffigurante un edificio americano, di tipo vittoriano, attraverso le cui finestre è possibile vedere varie immagini intercambiabili: fotografie di Lee Harvey Oswald e W.C. Fields si alternano con i ritratti dei Led Zeppelin in costume (scattati la notte in cui avevano erroneamente preso in giro Stevie Wonder). In quel periodo i Led Zeppelin si sentivano in gran forma e i nuovi pezzi vennero scritti quasi di getto. CUSTARD PIE venne ispirata da Shake ‘Em On Down di Bukka White, chitarra a mitraglia, gemiti d’armonica e un’atmosfera di volgarità, senza vergogna. La monumentale e drammatica KASHMIR era destinata a diventare il nuovo pezzo forte degli Zeppelin, chi non ha mai ascoltato questa canzone si perde un grossa fetta della storia dell’hard rock. IN THE LIGHT guarda di nuovo ad oriente, replicando il ronzio dell’armonium con la sovraincisione di chitarre suonate con l’archetto, lo shenai indiano e il testo descrivente la ricerca spirituale. IN MY TIME OF DYING era un vecchio spiritual, reinterpretato da Page con la sua bizzarra slide guitar, che preannuncia un decollo verso un rock duro e rapidissimo (per l’epoca). Il pezzo si conclude con Plant che implora Gesù, un’anomalia visto il repertorio della band. Altro grandissimo pezzo è TRAMPLED UNDER FOOT, che comincia con una parte di clavinet suonata da Jones e che ha una lirica che parla di una donna che viene paragonata ad un’automobile. Eccezionale qui la prova canora di Plant, veramente al di sopra delle righe. TEN YEARS GONE descrive il rimpianto dello stesso Robert per la sua prima ragazza. Questo è uno dei miei pezzi preferiti dell’album, con la sua atmosfera malinconica e dolce allo stesso tempo, dotata di un pathos che è secondo solo a quello di Kashmir. SICK AGAIN e THE WANTON SONG nacquero sostanzialmente come rifacimenti (e che rifacimenti!!!) di The Rover e The Crunge. Parecchi gruppi del tempo, e non solo, si sarebbero baciati i gomiti per scrivere due pezzi del genere, che si riferivano entrambi allo stormo di ragazze che assediavano i Led Zeppelin. A questi otto nuovi brani furono aggiunti sette vecchi "scarti" remixati, al fine di realizzare quel doppio album che da anni Page voleva produrre. Il collasso chitarristico di BRON-YR-AUR e lo splendido panorama marino di DOWN BY THE SEASIDE risalgono entrambe alle sedute del 1970 per Led Zeppelin III, mentre NIGHT FLIGHT e la jam BOOGIE WITH STU (canzone fuori di testa) provengono dalle registrazioni del 1971 per il quarto album senza titolo. I tre pezzi rimanenti facevano parte delle sedute dell’anno prima. HOUSES OF THE HOLY , l’unico pezzo del lotto che, a mio parere, è sottotono, aveva dato il titolo all’album precedente del gruppo, pur senza apparire nella tracklist. BLACK COUNTRY WOMAN è una jam sciolta e improvvisata, su cui Plant declama la sua supplica più visionaria per l’unità, l’amicizia e gli ideali trascurati degli anni ’60. Infine la bellissima THE ROVER, che nella scaletta del disco è messa come secondo pezzo, con Custard Pie come primo, apre l’album in maniera potente e sublime (diciamo pure geniale).
    In definitiva è un album stupendo, che io reputo alla pari con il quarto, e se non avete mai ascoltato pezzi come Trampled Under Foot, In My Time Of Dying, Custard Pie, Ten Years Gone e soprattutto Kashmir, mi dispiace perché non conoscete veramente il vero valore dell’Hard Rock nella sua forma originale. (truemetal.it)

    Note sulla copertina

    Un doppio album, una copertina identica davanti e dietro: un palazzo con tante finestre. Questa copertina è tra le più importanti della storia del rock. La particolarità è che, i ritagli effettuati in direzione delle finestre sull'immagine del palazzo, permettevano ai diversi personaggi (tra cui i volti dei componenti della band, gatti, personaggi moderni e del passato, angeli, sequenze di film western, ecc..), di penetrare all'interno degli appartamenti. Presa da un'antica abitazione a St. Mark's Place a New York, questa copertina ha un profondo significato per il disco stesso. Da tempo Page affermava che i Led Zeppelin si stavano sforzando di trovare il perfetto equilibrio tra luce e ombra. Con "Physical Graffiti" riuscirono nel loro intento, e tutte quelle finestre e quei molteplici personaggi stavano ad indicare che era un disco pieno di sonorità diverse. Questa copertina, innovativa quanto geniale, ispirò anche altri artisti.
    (dal web)
     
    Top
    .
  3.  
    .
    Avatar

    Senior Member

    Group
    Administrator
    Posts
    13,795

    Status
    Offline
    LED ZEPPELIN: Houses Of The Holy.
    Il quinto album del Dirigibile vede un rallentamento della sua incredibile ascesa. Nel senso che questa raccolta di canzoni è di qualità eccelsa ma stavolta non c’è da rimanerne stupefatti, come puntualmente era successo per ognuno dei dischi precedenti. Per la prima volta la sensazione è ottima ma non eccezionale, con un mantenimento delle irraggiungibili posizioni di vertice nel campo dell’hard e del folk rock, mentre la fase blues viene qui messa in temporanea stasi.

    Pareri personali chiaramente, seppure largamente condivisi. Ciò non toglie che, fra le legioni di ammiratori degli Zeppelin, un robusto manipolo di essi trovi quest’album semplicemente il migliore. E perché no poi, si tratta di bellissima musica dopotutto, di un disco comunque epocale e influente, passaggio obbligato per qualunque appassionato di musica rock.

    “The Song Remains The Same” che inaugura l’album era all’origine solo strumentale e si sente, perché le strofe di Robert Plant paiono attaccate con lo scotch, suonando forzate e poco incisive. Peccato, perché la solare cavalcata sulla dodici corde elettrica di Jimmy Page, supportata dalla inevitabilmente tonica “pacca” ritmica di John Bonham, è trascinante e brillantissima. Il batterista costringe Page e il bassista John Paul Jones a tutta una serie di break e di stop&go mozzafiato, Jimmy alterna accordi pieni, arpeggi e assoli in una vorticosa dimostrazione di creatività e senso armonico. Un grande brano a cui manca, ripeto, la giusta ispirazione nelle linee vocali per entrare fra i capolavori zeppeliniani.

    Capolavoro è invece “The Rain Song”, la romantica ballata che segue a ruota, con un passaggio a contrasto così riuscito che il gruppo penserà bene di mantenerlo anche dal vivo, suonando questi due pezzi sempre uno dopo l’altro. Page riesuma e sublima qui i suoi studi sulle inusuali accordature folk, apprese dai grandi suoi maestri Bert Jansch e John Reinbourn, sfornando una successione di accordi acustici ad altissimo grado evocativo. Per ricrearli, bisogna “tirare” la prima, seconda, terza e sesta corda della chitarra su di un tono rispetto all’accordatura normale, dopodiché le posizioni da prendere con le dita risultano molto semplici. Jimmy Page è tra i tre, quattro chitarristi rock più famosi e rispettati di ogni tempo, e qui se ne ascolta uno dei motivi: la successione armonica è pura magia, la squisitezza del suo lavoro per tutti i sette abbondanti minuti del brano è una gioia per le orecchie. Il compare John Paul Jones ci aggiunge molto del suo, smanettando pesantemente col mellotron sì da rendere la faccenda molto sinfonica e progressive, allo stesso tempo struggente e barocca, forse compromettendo un poco le cose, forse no.

    “Over The Hills And Far Away” è l’ennesimo mirabile capitolo di una fra le più tipiche e trascinanti situazioni zeppeliniane: Page e Plant cominciano da soli, uno all’acustica e l’altro al canto tranquillo e serafico, poi cala la mazzata di Bonham, più che mai terremotante, e salta tutto per aria. Plant passa a cantare due ottave sopra, Page imbraccia l’elettrica, Jones cuce il tutto col suo sapiente basso e, fra strappi e stacchi, si va verso una stranissima e lunga sfumata del pezzo.

    La parte centrale del disco è quella più disimpegnata e superficiale: “The Crunge” è una cosa molto alla James Brown che lo stile di Bonham impedisce di essere solo funky, “Dancing Days” si regge su poche cose, un riffotto di Page e le bordate di Bonham, “D’Yer Mak’er” è un omaggio all’allora nascente affermazione internazionale del reggae. Quando sembra che gli Zeppelin vogliano cazzeggiare fino alla fine arriva la botta straniante di “No Quarter”: tutto si può dire di questo brano meno che possa passare inosservato, è talmente unico e diverso nella discografia degli Zeppelin che non può essere omesso quando si sottolinea la fenomenale ecletticità e multifunzionalità della loro musica. Il riservato e genialoide John Paul Jones si inventa una cosa al pianoforte elettrico che è quanto di più fangoso e darkeggainte ci possa essere. Inserita poi in un disco decisamente solare, sin dalla copertina, quale è in effetti “Houses Of The Holy”, essa riesce a rappresentare e smuovere con ancora più efficacia il lato oscuro delle cose e di ciascuno di noi. Page si adegua alla grande alle voglie del suo bassista/tastierista, manovrando la Gibson su sentieri acid jazz e Plant si fa aiutare da filtri e leslie per straniare adeguatamente il suo pulito timbro vocale, abbastanza per star dietro ai suoi compagni in momentaneo e profondo darkeggiamento. Un pezzo della madonna, che piaccia o non piaccia il genere, una suprema dimostrazione di forza, di evoluzione, di apertura mental/musicale.

    L’epilogo dell’album è affidato al bel riff in tempo dispari di “The Ocean”, una composizione a cui Page non è stato capace di trovare un ponte ed infatti sfuma mentre Plant si chiede scherzosamente quando arriva ‘sto benedetto bridge. Uno dei tanti riti del super patito degli Zeppelin è quello di andare a visitare le Giant Causeway, un tratto delle coste nordirlandesi dove è stata scattata la foto, poi pesantemente trattata e rifinita dal celebre studio fotografico Hipgnosys, che costituisce la magnifica copertina di questo magnifico disco di questo magnifico gruppo.
    (storiadellamusica.it// Recensione: Pier Paolo Farina)


    Curiosità sulla Copertina

    La copertina per il quinto album “Houses Of The Holy” dei Led Zeppelin fu opera di Aubrey Powell dello studio Hipgnosis. L’immagine fu ispirata dal romanzo dello scrittore di fantascienza Arthur C. Clarke dal titolo “Childhood’s End ” del 1952. La copertina è considerata una delle più belle della storia del rock, cinquantesima migliore cover di sempre secondo la rivista Rolling Stone. La foto fu scattata in Irlanda nella zona delle foreste pietrificate del “Selciato del gigante” e contiene sia nella scena che nei colori utilizzati una forte potenza mistica. Powell mise insieme un fotomontaggio surreale di due bambini che scalano delle rocce. I due piccoli modelli sono i fratelli tedeschi Stefan e Samantha Gate. Per scattare le diverse foto ci impiegò 10 giorni, furono fatte prove alle prime luci dell’alba ed al tramonto per trovare la giusta luce ma l’effetto voluto inizialmente non fu mai realizzato a causa pioggia e delle nubi costanti. Le foto dei due bimbi originariamente erano in bianco e nero e ci fu bisogno di ristamparle più volte per creare l’effetto di 11 individui distinti. I risultati furono molto soddisfacenti.(dal web)
     
    Top
    .
2 replies since 23/7/2013, 05:12   740 views
  Share  
.