FABRIZIO DE ANDRE' - Copertine dischi in vinile

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    FABRIZIO DE ANDRE’: Non al Denaro non all’Amore nè Al Cielo.
    A distanza di un solo anno dalla pubblicazione di La Buona Novella, opera tratta dai Vangeli Apocrifi, Fabrizio De André, l’anno seguente dà alle stampe Non al Denaro non all’Amore né al Cielo, concept album ispirato alla Spoon River Anthology, una raccolta di poesie pubblicate nel 1919 da un avvocato americano: Edgar Lee Masters.
    L’Antologia di Spoon River, al giorno d’oggi, è considerata una specie di Divina Commedia in chiave moderna, un monumento della letteratura americana; un’accusa all’America provinciale e conformista dei primi anni del Novecento.
    A parlare, nell’Antologia, sono i morti, gli ex abitanti di Spoon River, ormai sepolti nel cimitero sulla collina del loro paesino.

    Intorno agli anni ’30, la poetica di Edgar Lee Masters, ancor prima di stregare Fabrizio De André, stregò in particolar modo Cesare Pavese, allora semplice professore e lavoratore infaticabile nelle file di Giulio Einaudi.
    Spoon River, infatti, influenzò pesantemente l’intera opera di Pavese. E’ facile trovare nei libri di Pavese elementi che caratterizzano la Spoon River di Masters. Paradossalmente, nell’Antologia c’è tanto Cesare Pavese (suonatori, ubriachi, uomini-bestie, lavoratori e agricoltori, campi, feste e merende).
    Da anni, lo scrittore piemontese, sognava di poter tradurre quest’opera, nonostante le forti censure del governo (in Italia, nell’epoca fascista, l’Antologia fu messa al bando).
    Sul finire degli anni ‘30 conobbe una studentessa universitaria, Fernanda Pivano, ex allieva del Liceo d’Azeglio di Torino, e iniziarono a frequentarsi. Girando per i viali di Torino, a piedi o in bicicletta, passavano i pomeriggi a discutere e a parlare di letteratura. Interrogato sulla differenza tra letteratura inglese e letteratura americana, Cesare Pavese, come risposta, le fece leggere l’Antologia di Spoon River.
    Fernanda Pivano dopo aver aperto il libro su una poesia a caso (in un’intervista disse che si trattava di Francis Turner) venne folgorata all’istante.
    Pavese, che nel frattempo si era innamorato della giovane studentessa, per amore (le propose due volte il matrimonio) fece tradurre a lei l’Antologia, rinunciando così ad un antico sogno.
    Nel 1943, raggirando il Ministero Della Cultura, ottennero il permesso di pubblicare l’opera, e così, Fernanda Pivano potè pubblicare nello stesso anno, per Einaudi, la traduzione di Spoon River, e Pavese, orgoglioso della sua ex allieva, scrisse una lunga e appassionata recensione su Il Saggiatore.

    Questo invece è quello che dirà De André nel 1971 intervistato (di nascosto) da Fernanda Pivano:
    “Spoon River l’ho letto da ragazzo, avrò avuto 18 anni. Mi era piaciuto, e non so perché mi fosse piaciuto, forse perché in questi personaggi si trovava qualcosa di me. Poi mi è capitato di rileggerlo, due anni fa, e mi sono reso conto che non era invecchiato per niente. Soprattutto mi ha colpito un fatto: nella vita, si è costretti alla competizione, magari si è costretti a pensare il falso a non essere sinceri, nella morte, invece, i personaggi di Spoon River si esprimono con estrema sincerità, perché non hanno più da aspettarsi niente, non hanno più niente da pensare. Così parlano come da vivi nono sono mai stati capaci di fare”.

    E’ proprio questo che sembra aver colpito particolarmente Faber: la sincerità dei personaggi dal momento della loro morte. Decise così di musicare le storie di Spoon River. Ma a colpire il lettore, oltre alla sincerità, è la maestosità della morte, che regna padrone nelle poesie (quasi trecento; una poesia per ogni voce).
    Questi ex abitanti di Spoon River parlano e vivono nel silenzio della loro morte (dormono, dormono sulla collina) ma tutto, invidie, gelosie, amori, matrimoni, altarini, sembra che la morte abbia, non cancellato (proprio no), ma almeno perdonato e aiutato i personagi a superarli. No, perdonato forse no, ma è come se soltanto con l’arrivo della morte la gente viene a conoscenza della verità.

    "There is no marriage in haeven
    but there is love"

    Nei canti di Spoon River si tocca proprio con mano la morte, e la spudorata sincerità dei personaggi sotterrati nella collina ci fanno capire che la morte deride la vita: il rancore e tutti i problemi di noi esseri umani, alla luce della morte, sono “cose da poco”, e, sembra dirci il poeta americano, visto che un giorno arriverà la morte a perdonare (far luce sulla vita), tanto vale agire noi stessi quando si è ancora in vita. Un discorso che dovrà fare Fabrizio De André anni dopo, quando morirà suo padre, che per colpa del loro rapporto conflittuale non furono mai vicini.

    "And why not? For my very dust is laughing
    for thinking of the humorous thing called life"

    In questo album, il musicista genovese, collabora con Giuseppe Bentivoglio per quanto riguarda il concept e la stesura dei testi, mentre gli arrangiamenti musicali sono affidati a musicista del calibro di Nicola Piovani (l’autore delle musiche di La Vita è Bella), membri dell’orchestra di Ennio Morricone, Vittorio Scalza dei New Trolls, Dino Asciolla e molti altri.
    Tra le voci narranti, De Andrè e Bentivoglio, hanno scelto le lapidi di Frank Drummer ("Un Matto"), Selah Lively ("Un Nano"), Wendell P. Bloyd ("Un Blasfemo"), Francis Turner ("Un Malato Di Cuore"), Siegrfied Iseman ("Un Medico"), Trainor ("Un Chimico"), Dipplod ("Un Ottico") e Jones ("Il Suonatore Jones").
    Gli arrangiamenti sono molto ricchi e si sposano benissimo con i temi e lo spleen dell’intero album.
    Essendo un concept album il suono è molto omogeneo, ma si passa dalle musiche di “Un Matto”, una classica canzone folk, a “Un Ottico”, che presenta invece suoni progressive, in voga in quegli anni, con una pesante inlfuenza Floydiana. Le linee melodiche allucinate di Faber sembra che abbiano notevolmente influenzato lo stile di Giovanni Lindo Ferretti, futuro leader dei C.C.C.P. e C.S.I.

    L’incipt, così come nell’Antologia è affidato a “La Collina” (The Hill), che funge anche qui come brano introdutttivo e presenta un po’ il mondo che troveremo nel resto dell’album, e ovviamente nel libro di Masters. "La Collina" ci scaraventa all’improvviso in un Inferno dantesco:

    "Dove se n'è andato Elmer
    che di febbre si lasciò morire
    dov'è Herman bruciato in miniera.

    Dove sono Bert e Tom
    il primo ucciso in una rissa
    e l'altro che uscì già morto di galera"

    Ma il percorso scelto dal cantautore affronta temi a lui cari, già trattati nei suoi precedenti album, ad esempio in Tutti Morimmo A Stento: la morte e la droga (“Un Ottico”), in La Buona Novella, la religione, ad esempio in “Un Blasfemo”, che si può accostare a “Il Testamento Di Tito” o a “Laudate Hominem”; l’amore, in cui Trainor (“Un Chimico”), uomo di scienza che non riesce ad amare e morirà senza una donna:

    Fui chimico e, no, non mi volli sposare.
    Non sapevo con chi e chi avrei generato:
    Son morto in un esperimento sbagliato
    proprio come gli idioti che muoion d'amore.
    E qualcuno dirà che c'è un modo migliore"
    (Un Chimico)

    Altro pezzo grosso dell’intera discografia di Faber è la conclusiva “Il Suonatore Jones”, che sembra proprio ideata per essere cantata da Fabrizio De André:

    Finii con i campi alle ortiche,
    finii con un flauto spezzato,
    e un ridere rauco, ricordi tanti
    e nemmeno un rimpianto

    In una discografia contaminata da capolavori, Non al Denaro non all’Amore nè al Cielo (dopo La Buona Novella e prima di Storia Di Un Impiegato) sa distinguersi ulteriormente, oltre al merito delle canzoni (bellissime), grazie alla capacità intellettuale del cantautore genovese che con disinvoltura poetica e sensibilità riesce a entrare magicamente nelle liriche di Masters, al punto di convincere l’ascoltatore di trovarsi davanti a un lavoro 100% Fabrizio De André.
    In “Un Malato di Cuore”, trasposizione della storia di Francis Turner, si tocca forse il vertice poetico più alto di Non al Denaro, non all’Amore, né Al Cielo, almeno per quanto riguarda la capacità di De Andrè di ispirarsi alla poetica di Edgar Lee Masters e aggiungerci la propria:


    "Cominciai a sognare anch'io insieme a loro
    poi l'anima d'improvviso prese il volto

    Da ragazzo spiare i ragazzi giocare
    al ritmo balordo del tuo cuore malato
    e ti viene la voglia di uscire e provare
    che cosa ti manca per correre al prato,
    e ti tieni la voglia, e rimani a pensare
    come diavolo fanno a riprendere fiato.

    Da uomo avvertire il tempo sprecato
    a farti narrare la vita dagli occhi
    e mai poter bere alla coppa d'un fiato
    ma a piccoli sorsi interrotti,
    e mai poter bere alla coppa d'un fiato
    ma a piccoli sorsi interrotti.

    Eppure un sorriso io l'ho regalato
    e ancora ritorna in ogni sua estate
    quando io la guidai o fui forse guidato
    a contarle i capelli con le mani sudate.

    Non credo che chiesi promesse al suo sguardo,
    non mi sembra che scelsi il silenzio o la voce,
    quando il cuore stordì e ora no, non ricordo
    se fu troppo sgomento o troppo felice,
    e il cuore impazzì e ora no, non ricordo,
    da quale orizzonte sfumasse la luce.

    E fra lo spettacolo dolce dell'erba
    fra lunghe carezze finite sul volto,
    quelle sue cosce color madreperla
    rimasero forse un fiore non colto.

    Ma che la baciai questo sì lo ricordo
    col cuore ormai sulle labbra,
    ma che la baciai, per Dio, sì lo ricordo,
    e il mio cuore le restò sulle labbra.

    "E l'anima d'improvviso prese il volo
    ma non mi sento di sognare con loro
    no non si riesce di sognare con loro"

    "Kissing her with my soul upon my lips
    it suddendly took flight"

    In definitiva: De André fa centro, e, nonostante l’attualità dell’Antologia, il suo trasportare questi personaggi e renderli non più unici ma come tanti altri (noi) negli anni settanta italiani è riuscito alla perfezione. Il cantautore genovese non si limita a tradurre e trasportare, ma aggiunge il suo tocco poetico, presente in ogni rima, e senza timore posso affermare che tutti gli appassionati dell’Antologia di Spoon River dovrebbero fare proprio anche questo album per aver una più ampia prospettiva sull’intera Opera, perché le poesie di De André sono migliori di quelle originali.

    01. La Collina
    02. Un Matto
    03. Un Giudice
    04. Un Blasfemo
    05. Un Malato Di Cuore
    06. Un Medico
    07. Un Chimico
    08. Un Ottico
    09. Il Suonatore Jones.
    (panopticonmag.com)
     
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    FABRIZIO De ANDRE’: Fabrizio de André (L'Indiano).
    C'erano queste cassette, che mio babbo metteva sempre quando mi portavano ai funghi. Una parlava di nani e oculisti, mentre l'altra aveva uno strano pellerossa con la faccia di pietra in copertina, e parlava di massacri indiani e donne fatte a pezzetti. Odiavo andare per funghi, odiavo alzarmi presto e odiavo tutta quella strada piena di curve che inevitabilmente mi faceva star male di stomaco. Però la musica che sputava l'autoradio mi piaceva, anche se ne allora ne capivo ben poco, e pazienza se durante il lungo tragitto la cassetta ripartiva infinite volte, a me andava bene continuare ad ascoltarla guardando fuori dal finestrino per ore e ore.

    Quell'album con il pellerossa dalla faccia di pietra era Fabrizio de André, ma per tutti è "L'Indiano".

    "L'Indiano", registrato nel 1981 e che vede di nuovo la collaborazione di Massimo Bubola (probabilmente questo album è il prodotto più felice della collaborazione dei due cantautori), nasce dall'idea di de André di creare un parallelo tra la storia dei pellerossa e quella dei sardi. Due popoli fieri, chiusi, trovatisi improvvisamente a contatto con genti diverse che, in maniere differenti, li hanno assoggettati.
    Data questa premessa ogni canzone del disco può avere una doppia chiave di lettura, a partire dalla prima traccia, Quello che non ho, un pezzo blueseggiante che può avere come protagonista tanto il cantautore genovese quanto l'indigeno sardo, il cui stile di vita ed i cui bisogni si contrappongono a quelli dei ricchi forestieri che invadono l'isola con le loro ville, le Ferrari, e i motoscafi.
    Già alla seconda traccia ci si rende conto che il ritmo di quel pezzo era nient'altro che un inganno, la musica diventa dolce e il sodalizio tra de André e Bubola mostra i suoi frutti maturi con una lirica a dir poco struggente. È il Canto del Servo Pastore. Qui la contrapposizione tra i due mondi diviene implicita: a parlare è un pastore a cui nessuno ha mai nemmeno "imparato" il nome ma che nondimeno mostra una sensibilità straordinaria nei confronti di tutto ciò che lo circonda, ammantandolo di poesia. Nonostante questo, però, rimane sempre un servo.
    Il terzo pezzo è probabilmente il più famoso dell'album, Fiume Sand Creek. I sardi vengono messi da parte per cantare di un vero massacro di indiani, avvenuto nel 1864 ad opera del colonnello Chivington, e visto con gli occhi innocenti di un bambino.
    La prima metà dell'album si chiude con un canto tradizionale sardo, una Ave Maria che pare anticipare la Smisurata Preghiera che de André scriverà molti anni dopo.

    La seconda parte si apre con uno dei pezzi più sofferti, e più belli, della produzione del cantautore genovese. Quell'Hotel Supramonte dedicata al rapimento dell'autore stesso e di Dori Ghezzi, nell'estate del '79. Attraverso una lirica intensa ed una musica dolce e pacata de André mostra innanzi tutto una delle risposte del popolo sardo alla "invasione" che è costretto a subire: il banditismo. Ma intrecciato a questo l'autore riesce a tessere un altro tema, l'amore, e le sue sono le parole di un innamorato il cui unico pensiero è l'amata che in quel momento si trova a soffrire con lui e per lui. Ogni descrizione ulteriore sarebbe inutile, l'unica è ascoltarla, per rendersi conto della forza che assumono le sue parole, le sue metafore (E le metafore sono pericolose, ammoniva Kundera, da una sola di esse può nascere l'amore).
    Mi limito a riportare un'unica strofa:

    E ora siedo sul letto del bosco che ormai ha il tuo nome
    ora il tempo è un signore distratto è un bambino che dorme
    ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano
    cosa importa se sono caduto se sono lontano
    perché domani sarà un giorno lungo e senza parole
    perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole
    ma dove dov'è il tuo cuore, ma dove è finito il tuo cuore.

    Il discorso sull'amore continua anche nel pezzo successivo, Franziska, ma con una sorta di ribaltamento: L'amore cantato stavolta è quello tra una ragazza ed un bandito alla macchia, un "marinaio di foresta", e si traduce unicamente in solitudine e dolore, senza neanche la possibilità di un contatto fisico tra i due innamorati (e in tema di contrapposizioni è da notare anche la musica quasi gioiosa che fa da contraltare alla tetraggine di ciò che viene cantato). E l'amore ritorna anche nella canzone che segue, un altro momento altissimo dell'album, Se ti tagliassero a pezzetti. Come spesso accade con de André l'amore cantato è un amore finito ma non per questo meno assoluto, totale. La doppia lettura si fa in questa canzone più fine ma a ben vedere ancora visibile: chi canta de André, una donna in carne ed ossa o la sua amata di sempre, la Libertà? Qualunque sia la risposta che si vuole dare, certo non è un caso che dal vivo il verso "signorina fantasia" diventasse spesso "signorina anarchia".
    L'album si chiude con la classica eccezione alla regola: Verdi Pascoli è una sorta di dedica ai figli da parte di un padre troppo distratto dai propri concerti, e se ne scorre via allegra e festosa.

    Come tutte le opere di de André è impossibile non consigliare anche questa.
    È un album di metafore e speranze, ogni canzone una perla che si mostra a chi la vuole scoprire. E, a volte, quando il disco finisce puoi ritrovarti un po' più confuso a guardare fuori dal finestrino, pensando che là, proprio dietro quegli alberi, gli indiani si stiano prendendo la rivincita. (debaser.it – Morfeo - )

    Curiosità sulla Copertina

    La copertina scelta a rappresentare il decimo album in studio di Fabrizio De Andrè è l'immagine di un nativo americano a cavallo in una prateria ed è un dipinto dell’artista statunitense Frederic Remington dal titolo “The Outlier” (La sentinella) del 1909. L’album dal titolo omonimo “Fabrizio De André” per tutti è conosciuto come “L’Indiano” proprio grazie alla sua copertina. (dal web)
     
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1 replies since 21/7/2013, 03:18   411 views
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