CHEF e CIBI nella STORIA

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    « O voi immortali dèi, quale cuoco può competere con il mio amico,
    il Maestro Martino di Como,
    cui devo in gran parte quello che qui vado scrivendo? »
    (Bartolomeo Sacchi, De honesta voluptade et valetudine)



    La cucina creativa di Maestro Martino
    Principe dei Cuochi




    Maestro Martino può essere definito il Leonardo da Vinci della cucina, paragone non eccessivo se si considera che lo stesso Platina - al secolo Bartolomeo Sacchi, grande umanista rinascimentale, nominato nel 1478 da Papa Sisto IV primo direttore delle Biblioteca Vaticana - cita Maestro Martino all’interno del suo De honesta voluptade et valetudine definendolo: “Principe dei cuochi ai nostri tempi, dal quale ho imparato a cucinare ogni pietanza.”
    Poco si sa della sua storia, per molti secoli dimenticata e a lungo rimasta sconosciuta, tanto che alcune notizie su di lui ci arrivano dall’America nella prima metà del ‘900, quando fu rinvenuto un libro di cucina titolato Libro de Arte Coquinaria - attualmente conservato presso la Library of Congress di Washington - dedicato al cardinale Trevisan, al secolo Ludovico Scarampi Mezzarota, che portava la firma di Maestro Martino.
    In Italia, invece, dobbiamo attendere sino alla seconda metà degli anni ’70 perché l’interesse di studiosi di gastronomia e storici dell’alimentazione si concentri sulla figura di Maestro Martino, grazie al ritrovamento di altri due esemplari del Libro de Arte Coquinaria - il primo conservato presso la biblioteca Vaticana, il secondo presso la biblioteca di Riva del Garda. È proprio questo secondo esemplare, che porta la dedica al nobiluomo Gian Giacomo Trivulzio, che rende più chiare le vicende del nostro Maestro Martino.
    Martino de Rossi, anche noto come Martino da Como, nasce nella Valle del Blenio nel secondo o terzo decennio del XV secolo. Ai tempi i territori della Valle del Blenio - valle secondaria che da Bellinzona conduceva attraverso il passo del Lucomagno nei Cantoni tedeschi - appartenevano al Ducato di Milano sotto l’egemonia della signoria viscontea e, successivamente, degli Sforza. Tali vie rappresentavano le principali strade di scambio e di comunicazione tra il Nord e il Sud Europa. Successivamente è logico supporre che Martino, com’era pratica di quel tempo, dopo una breve formazione come cuoco nella Valle del Blenio, sia sceso verso Milano in cerca di fortuna. Troviamo riscontro di questa tesi nei registri sforzeschi, dai quali apprendiamo che Martino non rimase per molti anni alla guida della rettoria dell'ospizio di S. Martino Viduale - posto lungo la “strada francesca” o “maestra” - ma si trasferì presso la corte ducale già nel 1457 a imbandire la tavola di Francesco Sforza, dove affinò il suo gusto, la sua cultura e la sua tecnica, sperimentando ricette e inventandone di nuove.
    Ritroviamo le tracce di Martino nel 1462, questa volta a Roma, alla corte pontificia a servizio del cardinale Trevisan, soprannominato “cardinal Lucullo” per l'opulenza dei suoi banchetti. Nelle cucine vaticane si consacra il suo successo e la sua fama di cuoco provetto, in particolare è apprezzata la sua fantasia creativa ed il fatto che, a differenza di molti suoi colleghi, Martino non ami copiare ricette già note, quanto piuttosto inventarne di nuove o rielaborare, con estro e gusto moderni, quelle tradizionali. È proprio durante il periodo romano che Maestro Martino ha l’occasione di imbattersi nel Platina - altro autorevole personaggio storico lombardo - incontro che cambierà le sorti della storia della cucina moderna. Da questa amicizia e dallo scambio reciproco nasce infatti De honesta voluptade et valetudine, stesura firmata dal Platina e datata 1468, in cui l’autore stesso riporta “Quale cuoco, o dèi mortali, può essere paragonato al mio Martino da Como, dal quale ho imparato la maggior parte delle cose che vado scrivendo?” E, a ben guardare, il debito di Bartolomeo Sacchi nei confronti di Maestro Martino è tutt’altro che irrisorio, se si considera che dal VI al X libro del Platina - la parte dell’opera che l’autore dedica alle ricette - 240 piatti dei 250 proposti devono la propria paternità a Maestro Martino che, non dimentichiamolo, a quei tempi ha già dato alla luce il suo Libro de Arte Coquinaria, composto negli anni 1450-1467.A partire dal 1470 circa ritroviamo Maestro Martino nuovamente nelle sue terre d’origine, a Milano, a servizio del conte Gian Giacomo Trivulzio, personaggio assai complesso e controverso alla corte degli Sforza tra contrasti e tradimenti, tra regno di Napoli e di Francia. Questi complessi passaggi storici compaiono in modo speculare anche all’interno dei ricettari di Maestro Martino che, sovente, presentano le pietanze con indicazioni che riportano “alla catalana” o “alla siciliana” a testimonianza dei trascorsi politici del Trivulzio. È qui che Maestro Martino conclude la sua carriera, lasciando il proprio segno nella storia del Rinascimento italiano. Padre della Cucina d’Autore italiana, Maestro Martino rappresenta l'archetipo del grande chef dell'era moderna
    (www.maestromartino.it/)
    (Per le informazioni biografiche il prezioso contributo di Federica Fanizza, responsabile presso la Biblioteca Civica di Riva del Garda)





    Nei 64 fogli del suo trattato Martino si rivela come moderno e innovatore, pur consapevole di come i cambiamenti alimentari fossero rallentati da pregiudizi e abitudini. Marino si distaccò dalla cucina medievale basata sugli equilibri degli umori del corpo che spettava al cibo ristabilire, valorizzò quanto gli orti e i campi fornivano, moderò l'uso delle costosissime spezie che venivano da lontano, servite ai festini come esibizione di ricchezza. Nelle cucine delle corti papali in cui prestò servizio rielaborò ricette e ne creò di nuove, confrontandosi con Bartolomeo Platina, autore de 'Il piacere onesto e la buona salute”, una summa di saperi sull'arte cucinaria, sull'igiene alimentare, sull'etica dell'alimentazione e sui piaceri della tavola. Di fatto segnò il passaggio dalla cucina da medievale a rinascimentale. Celebre e conteso nelle cucine curiali, fu al servizio di due Papi, Paolo II e Sisto IV, nonché del cardinale camerlengo Ludovico Scarampi detto per l'opulenza dei suoi banchetti 'Cardinal Lucullo”.
    Questo cuoco innovatore viaggiò al seguito di prelati, venne in contatto con la cucina araba e la spagnola, inventò nuovi utensili, valorizzò la presentazione dei piatti studiandone i colori, con lo zafferano. Le mandorle e le erbe. Cambiò i tempi di cottura, misurandone i tempi col la recitazione di un miserere, poiché gli orologi erano ancora al di là da venire. Usò per primo il temine polpetta anche se in realtà si trattava di un involtino, e questa non fu la sua una unica invenzione. (Mariella Morosi)




    Le invenzioni di Martino

    A lui si deve la prima menzione della parola polpetta, assente nei ricettari fino al XIV secolo, anche se - leggendone la preparazione - pare alluda non già alla polpetta come la intendiamo oggi, bensì ad un involtino allo spiedo. È il primo cuoco che scrive la ricetta della finanziera piemontese ed è il primo a descrivere una preparazione che possiamo considerare come la progenitrice dell'attuale mostarda vicentina.
    Inoltre, a Maestro Martino si ascrive anche il merito d'essere stato il primo ad aver trattato, in maniera approfondita, dei vermicelli. Lo aveva già fatto in uno scritto precedente (De arte Coquinaria per vermicelli e maccaroni siciliani, probabilmente del 1450), che riprende nel Libro de Arte Coquinaria, esaltando, tra l'altro, i vantaggi della pasta essiccata che, in questo modo, la si può conservare «doi o tre anni».
    Martino fu anche inventore di nuovi arnesi da cucina e fu tra i primi ad utilizzare alcune accortezze igienico-sanitarie tra i fornelli.
    Le sue innovazioni ispirarono Bartolomeo Sacchi verso inedite quanto avveniristiche osservazioni, ad esempio, sugli aspetti dietetici della cucina, sull'importanza del sapore autentico delle materie prime, valorizzando il cosiddetto "cibo del territorio" e, addirittura, sull'utilità di una regolare attività fisica come toccasana per una migliore qualità della vita.




    Un suntuoso banchetto. Fra i commensali vediamo, al centro della scena, un cardinale. Tra i numerosi servitori possiamo riconoscere, a sinistra, vestito di blu, il "cantiniere" e, al centro, vestito di verde, il "tagliatore di carni". A destra, sul tavolo, scorgiamo un prezioso portaspezie in oro a forma di nave. Illustrazione tratta dal Libro delle ore intitolata: "Janvier, Très Riches Heures du Duc de Berry" (1410-1416).


    Al Maestro Martino, cuoco quattrocentesco autore del primo trattato di enogastronomia in lingua volgare, 'Libro de arte coquinaria”, la Città del gusto del Gambero Rosso e l'Ambasciata svizzera hanno dedicato una serata tutta medievale. è stato riproposto un banchetto dell'epoca con le ricette originali di questo cuoco svizzero, nato nel Canton Ticino, con tutta la suggestione delle musiche del tempo e dei profumi delle spezie. Una narrazione accurata del cerimoniale e del bon ton dell'epoca, tra un 'Servizio” e l'altro, è stata eseguita da Marta Lenzi della Bibliothèque internationale de gatronomie di Lugano mentre Luca Ogliotti, chef del Gambero Rosso, ha eseguito in diretta alcune ricette di Maestro Martino.
    I piatti scelti erano straordinariamente 'moderni”, e qualcuno anche attualissimo, come la salvia fritta o le uova ripiene. Nessuna divisione tra dolce e salato, come si usava allora, con convivenze intriganti tra agrodolce, spezie, erbe, zucchero e frutta secca. Le ricette sono state riproposte con variazioni minime per ingredienti oggi introvabili, come l'agresto, sostituito dall'aceto di mele o la mammella di vitella, dalla pancetta di maiale fresca.
    La sua modernità, almeno come si intendeva allora, ha soddisfatto il gusto e la curiosità degli ospiti del banchetto al Gambero Rosso. I servizi- cioè l'ordine delle portate- non prevedevano un solo piatto alla volta così che il convitato potesse scegliere liberamente. Per la serata ne sono stati scelti quattro, ma potevano essere infiniti, perché nel '400 i banchetti potevano durare giorni e notti interi. Per cominciare è stata servita la Collatione, antenato del nostro aperitivo in piedi: Frittata con herbe, Frittelle di salvia, Ova pyene, Torta di riso biancho e Armandolle (mandorle) e confetti: tutte ricette attualissime. A seguire il Primo Servizio: Torta papalle, specie di frolla ripiena, Tructe a modi di carpioni (trota fritta e marinata) e Brodetto bono e bello (di pollastra).
    Sul Secondo Servizio era evidente il genio di Martino, con i Macharoni romaneschi e Torta di dattilli (datteri), armandolle et d'altre cosse. I macharoni - li chiamava lacci - erano tagliatelle di semplice a acqua e farina conditi con burro e cannella e la torta, tanto gradita ai suoi Papi, era una specie di strudel piatto con dentro frutta secca,mandorle e spezie. All'epoca trionfavano gli arrosti, soprattutto la selvaggina di piuma, servita da sembrar viva. Si sterminavano soprattutto i superbi pavoni, prima che Colombo portasse il tacchino dalle Americhe. Il Terzo Servizio prevedeva un Pipione (piccione) con sapore camellino,cioè speziato, contornato da un indovinato mix di funghi e zucca. Infine, come Quarto Servizio, un Bono zabaglione ha concluso il festino. Il rispetto della storia non ha privato gli ospiti di buon vino che fortunatamente nulla aveva a che fare con i bibitoni improbabili e aromatizzati dell'epoca. Sono stati serviti, in omaggio alla nazionalità di Martino, vini svizzeri, soprattutto del Vallese. Epesses La Perle 2011, Sutah du Valais Germanier 2010, Viognier Lavaux Aoc Chardonne Gran Cru Cave des Curtis 2011, Cornalin Aoc Valais Cave du Rhodan Salquenen 2011, Petite Arvine Aoc Cave le Bosset Leyerton 2011 e Le Passerilllé La COte Aoc Morges Grand Cru,Domaine de La Ville de Morges 2010. Sui tavoli non mancava la ciotola con l'acqua di rose per pulirsi le dita, profumata ma ai tempi nostri inutile per la presenza di tovaglioli e posate. Mancavano solo i paggi in costume, i funamboli e le torce, ma tutti gli ospiti si sono dichiarati soddisfatti non solo per la degustazione dei piatti ma soprattutto per il loro coinvolgimento in una rappresentazione fastosa, quasi teatrale. ( Mariella Morosi)
    (www.italiaatavola.net/)





    Associazione Maestro Martino

    L'Assessorato al Commercio, Turismo e Servizi della Regione Lombardia è promotore del Progetto Maestro Martino. L'Associazione nasce con lo scopo di valorizzare la figura storica di Maestro Martino, grande cuoco lombardo del Rinascimento e padre della Cucina d'Autore italiana, attraverso la creazione di un polo milanese dedicato alla Cucina d'Autore con valenza economica, culturale e turistica a livello internazionale.
    L'Associazione Maestro Martino è rappresentata da Carlo Cracco, protagonista di fama internazionale della Cucina d'Autore.
    (www.maestromartino.it/)

     
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    "Se vi chiedono cos'è, ditegli che è una ricetta segreta di Chantilly".


    François VATEL


    François Vatel, pseudonimo di Fritz Karl Watel (Prigi, 1631- Chantilly 1671), grande cuoco francese nato a Parigi da famiglia di origini svizzere.
    Ai tempi di Luigi XIV Vatel viene preso a servizio da Nicolas Fouquet, sovrintendente alle finanze del Regno di Francia. È in questo periodo che il nostro chef si specializza anche nell’organizzare feste e banchetti e, incaricato da Fouquet di provvedere all’inaugurazione del castello di Vaux-le-Vicomte, crea la sua ricetta più celebre, in seguito divenuta famosa come crema Chantilly, di cui parleremo a breve. Ora però restate ancora un attimo concentrati sulla storia. La ricchezza di Fouquet gli consente di servire le portate in piatti d’oro massiccio, il che, anche a detta dei cortigiani dell’epoca, aumenta di molto lo splendore delle prelibatezze che Vatel prepara. In quel periodo Fouquet stava pericolosamente diventando un personaggio scomodo per il re, che intendeva liberarsi di ogni possibile concorrente e lo fece quindi arrestare con l’accusa di corruzione, sostituendolo con Jean-Baptiste Colbert.
    Temendo di essere arrestato insieme a Fouquet, François Vatel fuggì in Inghilterra, rientrando in Francia solo quando ottenne l‘assicurazione regale di non essere arrestato e di essere invece impiegato alla reggia di Versailles. A corte Vatel viene assunto da Luigi II di Borbone-Condé e assegnato al Castello di Chantilly, in onore del quale rinominerà la crema di sua ideazione. Nel 1663 é nominato contrôleur général de la Bouche (controllore generale dei pasti) della corte personale di Luigi II, che lo rende responsabile dell’acquisto e della fornitura delle vivande per i sontuosi pranzi spesso organizzati.

    Qualche anno dopo il principe di Condé (caduto in disgrazia dopo il suo ruolo nella Fronda del 1652 che aveva tentato di detronizzare Luigi XIV ancora bambino), si decise, sull’orlo della bancarotta, a riacquistare i favori del re. Per l’occasione venne organizzata una festa della durata di tre giorni e tre notti con tre sontuosi banchetti, uno per sera. Oltre a Luigi XIV, alla festa presero parte 3.000 membri della corte di Versailles e 600 tra cortigiani minori e servitori. La festa costò al principe 50.000 scudi ma gli valse il totale perdono del re oltre alla sua ammirazione per un così gradito omaggio.
    Vatel organizzò tutta la festa in soli 15 giorni preparando menu elaborati e spettacolari per stupire la corte reale e ammaliarla con lo splendore di pietanze uniche.
    La sera di giovedì 2 aprile 1671, proprio al centro dei festeggiamenti, gli ospiti rientravano al castello di Chantilly dopo una caccia durata l’intera giornata, in attesa del banchetto serale illuminato da fuochi d’artificio. Il giorno successivo, venerdì santo, era tradizione servire in tavola pesce fresco e molluschi. Vatel si era preoccupato che il pesce fosse pescato il giorno prima e trasportato direttamente dal porto di Boulogne. Purtroppo però la consegna subì dei ritardi e quando giunse a destinazione Vatel si accorse che il pesce non risultava sufficiente per tutti gli invitati. Che fare? Famoso per la dedizione assoluta al lavoro e la sua maniacale precisione Vatel, disperato per l’inconveniente, salì nella sua stanza e si trafisse con tre colpi di spada, morendo così per un contrattempo di cui si sentiva responsabile e colpevole fino al disonore.

    "Ci sono uomini troppo nobili per vivere con gli aristocratici!"



    "È domenica 26 aprile: questa lettera partirà solo mercoledì; ma non è una lettera, è una relazione che Moreuil mi ha appena fatto, alla vostra intenzione, degli avvenimenti di Chantilly concernenti Vatel. Vi scrissi venerdì che si era pugnalato; ecco la vicenda nei particolari. Il re arrivò giovedì sera; la caccia, le lanterne, il chiaro di luna, la passeggiata, la merenda in un luogo tappezzato di giunchiglie, tutto si svolse nel migliore dei modi. Cenarono, vi furono alcune tavole cui mancò l’arrosto, a causa di vari commensali che non erano stati previsti; Vatel ne fu scosso, disse ripetutamente: «sono disonorato, è uno scorno che non sopporterò». Disse a Gourville: «Mi gira la testa, sono dodici notti che non dormo; aiutatemi a darordini». Gourville lo sollevò quanto poté. Quell’arrosto mancato, non alla tavola del re, ma alle venticinquesima, gli tornava sempre in mente. Gourville lo disse al Principe. Il Principe andò fino in camera sua e gli disse: «Vatel, tutto va bene; niente era così bello come la cena del re». Gli rispose: «Monsignore, la vostra bontà è il colpo di grazia; so che l’arrosto è mancato a due tavole». «Niente affatto,» disse il Principe, «non v’inquietate: tutto va bene». Viene la notte, il fuoco d’artificio non riesce, fu coperto da una nuvola, costava sedicimila franchi. Alle quattro del mattino, Vatel se ne va dappertutto, trova tutti addormentati, incontra un piccolo fornitore che gli portava soltanto due carichi di pesce fresco; gli domandò: «E tutto qui?» Gli disse: «Sì, signore». Non sapeva che Vatel aveva mandato a tutti i porti di mare. Aspetta un po’ di tempo; gli altri fornitori non vengono; la testa gli si scalda, crede che non avrà più altro pesce; trova Gourville e gli dice: « Signore, non sopravvivrò a questa onta. Ho un onore e una reputazione da perdere». Gourville lo prende in giro, Vatel sale in camera, mette la spada contro la porta, e se la passa attraverso il cuore, ma fu solo al terzo colpo, perché se ne diede due che non erano mortali; cade morto. Intanto il pesce arriva da tutte le parti: si cerca Vatel per distribuirlo, vanno alla camera, bussano, sfondano la porta, lo trovano affogato nel suo sangue; corrono dal Principe, che ne fu desolato. Il Duca pianse; su Vatel s’imperniava tutto il suo viaggio in Borgogna. Il Principe lo disse al re con gran tristezza; dissero che era un modo di rispettare il proprio onore; lo lodarono molto, lodarono e biasimarono il suo coraggio. Il re disse che da cinque anni ritarda va la venuta a Chantilly, perché capiva gli eccessi di quest’incomodo. Disse al Principe che doveva preparare solo due tavole, e non farsi per niente carico di tutto il resto; giurò che non avrebbe più tollerato che il Principe si regolasse così; ma era troppo tardi per il povero Vatel. Intanto Gourville cerca di rimediare alla perdita di Vatel; fu rimediato; pranzarono benissimo, fecero merenda, cenarono, passeggiarono, giocarono, andarono a caccia; tutto era profumato di giunchiglie, tutto era incantato..."
    (Madame de Sévigné)


    Quelli sono gli anni in cui la cucina transalpina si rinnova, abbandonando l'abitudine della pila di cibo ed i rozzi utensili medievali in favore di consuetudini più moderne, come il servire le portate separatamente e l'adozione di strumenti come nuove varietà di padelle e pentole e l'uso dell'argento come materiale da costruzione. Dal Nuovo Mondo arrivano nuove varietà di alimenti: in particolare tè, caffè e cioccolata si diffondono in tutti gli strati della popolazione, mentre dottori ed intellettuali discutono su costi e benefici. Il Seicento vede anche l'affermazione di alcuni rinomati fuoriclasse dei fornelli: oltre a Vatel, ricordiamo anche Louis de Bechameil (il creatore della besciamella) e Pierre Francois de la Varenne, cuciniere del marchese d'Uxelles ed autore deLe cuisinier françois (1651), considerato il manuale della moderna cucina francese.
    Al centro dell'esplosione gastronomica dell'Ancien Regime si trova però il nutrimento del monarca. I pranzi di Luigi XIV erano banchetti luculliani, basati sull'abbondanza delle vivande e la loro presentazione spettacolare, piuttosto che sulla delicatezza degli ingredienti. Secondo i resoconti dell'epoca, il sovrano spesso mangiava "quattro piatti di differenti zuppe, un intero fagiano, una pernice, una grossa ciotola d'insalata, un montone condito con aglio, due buoni pezzi di prosciutto, un piatto colmo di torte, frutta e marmellata".
    Particolarmente sontuoso il cerimoniale che circondava il Re Sole quando decideva di nutrirsi a Versailles. Deputato alla preparazione del cibo era un esercito di 324 persone, alloggiato nell'odierno Hopital Militaire.
    Alle 13 esatte scoccava l'ora di pranzo: tutti i piatti presenti nel menù venivano portati dalla cucina al sovrano mediante una processione guidata dal Primo Maitre d'Hotel, accompagnati da 36 gentiluomini "servitori" (portare i pasti al re era un onore fortemente ricercato dai cortigiani) e da 12 Maestri di corte, muniti di un bastone d'argento dorato come emblema del loro incarico; data la distanza tra il luogo di preparazione (la cucina) ed il luogo di consumazione (la camera da letto del re), divisi da corridoi e saloni, spesso le vivande arrivavano in tavola fredde.
    Mettendo da parte la moltitudine di guardie del corpo, servitori e favoriti vari, il Re Sole raramente aveva ospiti a tavola, tranne quando in occasioni speciali divideva il pasto con i familiari. Spesso, le azioni hanno più di un significato e il modo di mangiare del Re di Francia non fa eccezione.
    Sicuramente, Luigi XVI di Borbone fu un gran mangiatore, talmente amante della buona tavola da portarsi a letto uno "snack antifame" composto da 3 pagnotte, due bottiglie di vino e tre d'acqua, ma non bisogna liquidare le Diner del monarca come semplice esagerazione di un ghiottone.
    Al contrario, era un elaborato cerimoniale che ricordava quotidianamente l'importanza del personaggio cui era dedicato.
    Il numero delle vivande, la loro elaborazione (i cibi variavano da pietanza "indigene" francesi ad alimenti più esotici, importati direttamente dall'America o prodotti in speciali strutture, come le serre reali), il modo con cui venivano servite al sovrano (che in alcuni punti ricordava la procedura della Messa cattolica), il contegno tenuto dai famigliari presenti (che dovevano comportarsi come se fossero a casa d'altri): tutto sottolineava come non si stava soddisfacendo solo la voluttà di un riccone, ma si stava operando per tenere in vita l'incarnazione dello Stato stesso, il fondamento di tutto la nazione; se il Re Sole affermava "Lo Stato sono io", la sua tavola lo ribadiva con forza. Non solo ghiottoneria, ma un mostruoso macchinario di creazione ed esaltazione del consenso e di sostegno alla figura del sovrano; un macchinario che, consapevolmente o meno, poteva stritolare qualcuno, come successo a Vatel.
    (dal web)


     
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    La “ciambella a cancellu”



    A Mentana, alle porte di Roma, è attestata fin dal Settecento la preparazione della “ciambella a cancellu”, un dolce che segna ancora i principali momenti di festa.

    Le prime testimonianze storiche legate a questo prodotto risalgono alla metà del '700 e sono da mettere in relazione con la fondazione della Confraternita di Sant'Antonio Abate di Mentana.

    Negli antichi Statuti della Confraternita, ancora oggi in vigore, all'Art. 7, nelle rubriche dedicate alla festa, si precisa che fra gli obblighi dei Confratelli, vi è quello che li impegna a portare "come da tradizione, due ciambelle a cancello e un bottiglione di vino, al vecchio e al nuovo festarolo".

    Ricetta

    2 kg. farina
    ½ litro olio oliva
    2 uova
    250 gr di acqua
    250 gr di vino bianco
    un cucchiaino di bicarbonato
    35 gr di semi di anice
    45 gr sale
    mezzo bicchierino di liquore di anice.


    Impastare e far riposare l’impasto per circa un’ora, comprendolo con la pellicola trasparente.
    Lessare le ciambelle e lasciarle riposare sulla tavola del pane per un intero giorno.
    Cuocere in forno a 200° per circa un’ora.



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    La pastasciutta antifascista



    Il 25 luglio del 1943, a seguito della riunione del Gran Consiglio del Fascismo, Mussolini viene destituito e arrestato. Dopo 21 anni terminava il governo del Partito Fascista. Il Re designò il Maresciallo dell’esercito Pietro Badoglio come nuovo capo del governo.

    Nonostante la caduta del Fascismo, la guerra continuava a fianco dei tedeschi: nei giorni successivi l’arresto vi furono numerose sollevazioni popolari.

    Era comunque un evento da festeggiare e i fratelli Cervi si procurarono la farina, presero a credito burro e formaggio dal caseificio e prepararono chili e chili di pasta (380 chili di pasta al burro). Caricarono il carro e la portarono in piazza a Campegine pronti a distribuirla alla gente del paese. Fu una festa in piena regola, un giorno di gioia in mezzo alle preoccupazioni per la guerra ancora in corso: anche un ragazzo con indosso una camicia nera (forse era l’ultima rimasta?) fu invitato da Aldo a unirsi e a mangiare il suo piatto di pasta.

    Un giorno di straordinaria generosità che ha dato vita alla pastasciutta antifascista, un piatto simbolo da non dimenticare mai per il suo valore intrinseco. Infatti, il Duce preferiva una dieta sana a base di cereali, il riso aveva spodestato la pasta, praticamente bandita - così come si evince anche da “Il Manifesto della cucina futurista” di Tommaso Marinetti - “A differenza del pane e del riso, la pastasciutta è un alimento che si ingozza, non si mastica. Questo alimento amidaceo viene in gran parte digerito in bocca dalla saliva e il lavoro di trasformazione è disimpegnato dal pancreas e dal fegato (…). Ne derivano: fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica e neutralismo”.

    locandina_pasta_25_luglio_2022-3-2




    “Il rapporto tra il fascismo e la pastasciutta era stato conflittuale ancor prima della Marcia su Roma – spiega il docente –. Lo stesso Mussolini, romagnolo di nascita, probabilmente era poco avvezzo al consumo di pasta, come quasi tutti gli italiani – esclusi i napoletani e i siciliani – fino alla prima guerra mondiale. Proprio nel primo dopoguerra, però, mentre il fascismo inizia la sua lenta ma inesorabile conquista del potere, gli italiani scoprono la pasta e se ne innamorano. La scoprono in America, dove le varie comunità italiane, così distanti nella madrepatria, si mescolano e creano una cultura nazionale che in Italia ancora non esiste. La pasta, in qualche modo, ne diventa il simbolo, e automaticamente viene associata al sogno americano”.

    Tutto questo spiega in buona misura l’ostilità del regime fascista che negli anni Venti considerava la pasta una sorta di moda americana di importazione, lontana dal ruralismo alla base dell’ideologia di regime. L’ostilità si fece via via più concreta soprattutto dopo il 1925, aggiunge Grandi, quando venne lanciata la famosa “Battaglia del grano”, che aveva lo scopo di far raggiungere all’Italia l’autosufficienza cerealicola. La pasta era un problema da questo punto di vista, dato che il grano duro per produrla è sempre stato coltivato in quantità insufficiente nel nostro Paese. Quindi meno pasta mangiavano gli italiani e meno grano duro si doveva importare.
    (DANIELE SOFFIATI -25/07/2022)


    SH_spaghetti_al_burro

     
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