THE WHO - Copertine dischi in vinile

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    THE WHO - TOMMY.
    Tommy, che in alcune edizioni venne pubblicato col titolo Tommy (1914-1984), è il quarto album degli Who. Pubblicato nel 1969, originariamente su doppio vinile, raggiunse il secondo posto della classifica inglese e il quarto in quella statunitense. È la prima opera rock della storia elaborata come tale, anche se è stata preceduta da due "prototipi"(The Story of Simon Simopath del gruppo britannico Nirvana e S.F. Sorrow dei Pretty Things) e, insieme a Quadrophenia, una delle due rock opera del gruppo.
    Dall'album è stato successivamente tratto il film Tommy diretto da Ken Russell. È un'opera rock basata sulla storia di un ragazzo nato alla fine della prima guerra mondiale (nella versione cinematografica, invece, la trama si svolge alla fine della seconda guerra mondiale)[1], che diviene sordo, cieco e muto. L'episodio che determina questa situazione è l'omicidio dell'amante della madre di Tommy da parte del padre, aviatore britannico al ritorno dal fronte (nella versione cinematografica è il padre naturale ad essere ucciso dall'amante). I genitori di Tommy, che assiste alla scena dietro allo specchio, dicono al bambino di non dire, vedere e sentire nulla (infatti See Me, Feel Me, Touch Me, Heal Me sarà il leitmotiv del disco). Il traumatizzato Tommy diventa così muto, cieco e sordo.
    A peggiorare la situazione subentrano nella sua vita le violenze sessuali da parte dello zio e gli atti di bullismo del cugino, personaggi, che crudamente e bestialmente, approfittano dello stato del bambino che non può né urlare né lamentarsi. Ogni cura ed ogni tentativo di riportarlo alla normalità sono vani fino a quando Tommy si scopre "mago del flipper" e come tale ottiene notorietà e ricchezza. È oltrepassando lo specchio che Tommy torna alla vita e inizia un percorso che lo porta a divenire una sorta di "messia" in grado di liberare e curare gli altri facendogli seguire il suo percorso. Un dottore ritiene che l'unico modo per comunicare con Tommy sia attraverso uno specchio, la madre non vuole credergli e distrugge lo specchio di casa. Paradossalmente questo evento rende Tommy libero e gli fa riacquistare tutti i sensi, facendolo tornare un bambino normale. La distruzione del "santuario" riporta Tommy alla propria dimensione umana. La copertina dell'album è stata creata dall'artista Michael McInnerney[2]. Una sfera di colore azzurro, nuvole e colombe che contornano le aperture quadrate, la rendono simile ad una gabbia nella quale sono racchiusi i ritratti (in bianco e nero ed altamente contrastati) dei componenti del gruppo. Sul retro le colombe in stormo vanno a riempire il fondo nero squarciato da un pugno.
    L'opera esprime - con tratti quasi onirici - il senso di oppressione e la conseguente possibile liberazione di un adolescente come Tommy, isolato sia a livello sensoriale che sociale dal mondo che lo circonda proponendogli solo ipocrisie, violenze ed ingiustizie. (Wikipedia)
     
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    THE WHO: Face Dances.
    Il Who nono album "ufficiale" studio e il loro primo con il nuovo batterista Kenny Jones dietro il kit, Danze viso ritrova la band verso la fine della strada e ad un nuovo inizio tutto in una volta. Dal pop arioso di "You Better You Bet" alla John Entwhistle scritto rocker "The One tranquillo" per la multa album più "Another Day Tricky", questo album trova The Who in transizione da quello di una volta a quello che stava diventando . Che a questo punto è stata una band con un piede nel passato e un piede molto traballante che punta al futuro. Con Townshends songwriting temi rivolgono riflessivo e più personale, e la sua musica allegra e un po 'lite, Danze viso è un tentativo ammirevole di cambiare direzione nella tempesta che è stato dopo la morte del batterista Keith Moon. Ed è in effetti i due John Entwistle brani qui che portano la "tradizionale" Chi torcia in avanti, non tendenze orientate più sommesso e pop di Pete.

    Considerato da molti come il Chi è vero ultimo album (con la successiva "E 'difficile" essere visto come un semplice contratto fullfiller) Danze faccia ha retto bene nel corso degli anni e la maggior parte dei suoni probabilmente meglio oggi poi, quando prima rilasciato sotto la bufera e polemiche che era questa band al momento. Né il flop morbida molti lo consideravano al momento o un grande Chi album con uno sforzo di immaginazione, Danze Face è semplicemente un solido rock n roll con record di alcuni ganci pop buoni e una piccola visione di essa la propria. Stretto, dritto in avanti, e solo un po 'diverso per chi la passeranno, vale la pena un acquisto, scaricare, o casual ascoltare. Se non vi aspettate troppo grandezza, si può benissimo trovare ti piace quello che senti.
    (sputnikmusic.com)

    Curiosità sulla Copertina

    Il concept ed il design di questa copertina degli Who sono opera di Peter Blake, il geniale ideatore della famosa copertina dei Beatles "Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band". Per realizzare i sedici ritratti dei quattro componenti della band (quattro per ognuno, quattro vedute diverse realizzate da sedici artisti diversi) sono stati chiamati, nell'ordine, Bill Jacklin, Colin Self of Norwich, Richard Hamilton, Mike Andrews, Tom Phillips, Allen Jones, David Inshaw, David Hockney, Clive Barker, R.B. Kitaj, Howard Hodgkin, Patrick Caulfield, lo stesso Peter Blake, Joe Tilson, Patrick Procktor e David Tindle. Inizialmente l'album doveva intitolarsi semplicemente "The Who", ma grazie al titolo scelto in un secondo tempo, "Face Dances" (danze di volti), si è potuta dare un'immagine forte e originale a un titolo altrettanto originale. (dal web)
     
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    THE WHO: Who's Next.
    Agli Who riesce l’album perfetto nel 1971 con questo mirabile, immortale, intramontabile, eccezionale lavoro.

    Incastonato fra due opere ambiziose e abbondanti (“Tommy” del 1969 e “Quadrophenia” del 1973, a loro tempo entrambe in LP doppio ed entrambe con film al seguito) le surclassa abbondantemente grazie ad un irripetibile stato di grazia compositivo del capogruppo, il chitarrista Pete Townshend, sublimato da geniali trovate di arrangiamento, per l’epoca assai innovative.

    Gli strumentisti sono tutti al massimo delle loro possibilità: Townshend risolve la propria limitata, seppur grintosissima e peculiare, tecnica chitarristica azzerando quasi gli assoli, sferragliando da par suo a tutto braccio di acustica e di elettrica, nonché svariando a pianoforte, organo e sintetizzatore, e poi affiancando spesso e volentieri al microfono il cantante Daltrey, il quale di per sé ci dà oltremodo dentro col suo stile imperfetto, ma potente e generoso. La sezione ritmica merita ascolti dedicati (una volta familiarizzati con il disco): lo stile furioso e creativo del pazzoide Keith Moon risplende fortissimamente con colpi di tamburi e piatti pieni di cuore e potenza; le praterie melodiche che riesce a trovare il basso nodoso e agilissimo di John Entwistle sono senza confini, vere e proprie canzoni dentro la canzone .

    Come non bastasse, vi sono un paio di strumentisti ospiti che fanno cose bellissime, il pianista Nicky Hopkins nobilita un paio di ballate col suo caldissimo tocco pastorale ed il violinista Dave Arbus, correndo col suo strumento elettrificato dietro a quel matto di Keith Moon, stampa un memorabile assolo in fuga nel finale di “Baba O’Riley”.

    Costei è la canzone che apre l’album ed il primo dei consacrati capolavori di cui esso è impagabilmente disseminato. Per il suo incipit Townshend si inventa nientemeno che la prima “sequenza” nella storia del rock, una frase ostinata di sintetizzatore che compare prima da sola, viene raggiunta progressivamente dagli stacchi di piano (sempre Townshend), dal groove di batteria e poi via via da chitarre e voce, restando poi da sfondo a tutto il brano e riaffiorando negli stop e nelle sincopi. Una tipologia di arrangiamento di cui negli anni ottanta specialmente faremo poi scorpacciate, ma la sua prima genie è qui, a buon merito del nasuto Pete Townshend, esimio compositore. Il titolo del pezzo è un collage fra i due ispiratori dello stesso, il santone Baba, grande ispiratore di Townshend e il musicista Terry Riley, grande ispiratore della partitura di sintetizzatore che rende questo brano così peculiare. Daltrey canta deciso le strofe, si fa da parte per far cantare al suo chitarrista il breve ponte e conclude poi con un urlo lancia la fuga di violino elettrico, una faccenda in cui Keith Moon ci mette del suo, serrando sempre di più il ritmo e costringendo Dave Arbus ad inseguirlo fino al parossistico finale: cinque minuti di perfezione.

    In “Bargain” il senso di ricovero creato nel prologo dalle assolvenze di chitarra elettrica, controllate con il pedale del volume e sostenute dagli accordi di acustica, viene demolito dalla tipica entrata strabordante della batteria che detta un ritmo decisamente rock, subito squassato dalle altrettanto tipiche scariche ritmiche di Townshed, quelle a braccio roteato a 360°, suo marchio di fabbrica. La melodia è bellissima, splendido pure lo stacco strumentale con dei bordoni di sintetizzatore e un basso sublime. L’irruento Moon riconduce il gruppo di nuovo al rock iniziale per un’ulteriore strofa al termine della quale la chitarra acustica ed ancora il synth provvedono adeguata base per un fantastico lavoro di doppia cassa e sventole varie un po’ su tutte le pelli dell’esplosivo Moon. Cinque minuti e mezzo di libidine.

    Melodicamente fortissimo pure l’attacco del terzo brano, “Love Ain’t For Keeping”: due chitarre acustiche dettano ritmo e armonia, Daltrey è sonoro ed evocativo, il bassista e il chitarrista lo sostengono ai cori. Non vi è traccia di chitarra elettrica e il tutto si conclude dopo poco più di due minuti, semplici ma decisi ed efficaci. In “My Wife” parecchie cose cambiano, è l’unico episodio dell’album non composto da Townshed ed alla voce ed al pianoforte vi è l’autore del brano, il bassista Entwistle: è un rocchetto piacevole ma senza quelle genialità melodiche e armoniche proprie del suo collega chitarrista, uno fra i migliori compositori della storia del rock, nel quale una sezione fiati prova a dare un certo nerbo .

    Torna ad innalzarsi il disco con l’attacco chitarra/pianoforte di “The Song Is Over”. Si sente che sta lavorando un pianista coi fiocchi, pochi e semplici accordi ma suonati dall’ospite Hopkins con una sensibilità da concertista. La canzone si inerpica poi per sentieri ritmici e melodici più impervi, con Daltrey che ha modo di spingere la sua tonante voce fino al limite, per poi riacquietarsi sul pianoforte, ripartire una seconda volta e planare sulla sezione strumentale, risolta da un incrociarsi di pianoforte e sintetizzatore da una parte, basso e batteria dall’altra fino al reiterato finale: bellissima. Ma ancora più bella è “Getting In Tune”, che nel vecchio LP apriva la seconda facciata: ancora il pianista Hopkins ad introdurre la prima strofa e poi accompagnare Daltrey con incommensurabile classe. Essi vengono poi raggiunti dall’esuberante sezione ritmica, per uno sviluppo del brano assolutamente convincente, specie quando la strofa viene ricantata in coro a tre voci ed in altra, più elevata tonalità. Il brano si conclude con la solita irruenta jam session nel quale svetta il solito Keith Moon a suon di rullate.

    La seguente “Going Mobile” è cantata da Pete Townshend. La sua voce nasale e afona è sostenuta nuovamente ed adeguatamente da una ritmicissima chitarra acustica e da saltuari contrappunti di sintetizzatore, conclusi da un assolo all’elettrica con il pedale wah wah, anch’esso molto ritmico. L’episodio senz’altro meno interessante del disco, soprattutto per la mancanza del forte timbro vocale di Daltrey. Il quale torna alla grande per cantare la ballata “Behind Blue Eyes”, vetta melodica del disco: un arpeggio di acustica giocato sui rivolti di quarta, sesta e nona sostiene la bellissima progressione vocale e sfocia in un ritornello a tre voci di grande suggestione. La batteria entra solo per il ponte e la sezione strumentale, per poi acquietarsi e far cantare a Daltrey un’ultima strofa: da brividi.

    L’epilogo del disco è fornito da un abbondante brano (oltre otto minuti) che ha messo d’accordo un po’ tutti quelli che masticano musica rock più o meno appassionatamente: trattasi di assoluto capolavoro. “Won’t Get Fooled Again” inizia con una scarica di chitarra elettrica che libera una partitura di organo sintetizzato VCS3 che ha fatto epoca: in maniera simile a ciò che sta nel prologo “Baba O’Riley”, il disegno armonico/ritmico dell’organo resta da sfondo a tutto il pezzo, sommerso dagli altri strumenti nelle fasi più concitate e pronto a riemergere appena essi tacciono. A parte il genialissimo e trascinante lavoro d’organo, in questo pezzo d’arte Townshend mette al massimo anche la sua grande abilità di chitarrista ritmico, accompagnando Daltrey con grande personalità e poi tagliandosi passaggi ritmico/strumentali di inestimabile gusto e sonorità. “Won’t Get Fooled Again" si dipana a lungo senza però minimamente stancare, alternando cantati e perfetti intrecci strumentali. Particolarmente memorabili le fasi in cui è il VCS3 al proscenio, da solo o colla sola strabordante batteria di Keith Moon a scandire gli ottavi battuti dall’organo, mitico anche l’urlaccio accappona pelle che Daltrey decide di emettere per introdurre l’ultima strofa: di una potenza mai sentita. Il pezzo, e il disco, si concludono con gli ultimi stacchi all’unisono di basso chitarra e batteria.

    Melodia, originalità, grinta, furia, personalità, passione, lucidità d’intenti circolano copiosamente in questa grande opera di musica popolare dello scorso secolo, della quale è indispensabile la conoscenza.
    (storiadellamusica.it / Pier Paolo Farina)

    Curiosità sulla Copertina

    La copertina dell'album "Who's Next" degli Who mostra una foto della band scattata a Easington Colliery, ritratta appena dopo aver urinato su un monolite in cemento di grandi dimensioni che sporge da un cumulo di scorie. Secondo il fotografo Ethan Russell, la maggior parte dei membri non erano in grado di urinare, così dell'acqua piovana venne gettata sui lati della costruzione per simularne l'effetto. La fotografia è spesso vista come un riferimento al monolite scoperto sulla Luna nel film "2001: Odissea nello spazio" di Stanley Kubrick. Nel 2003, negli Stati Uniti, il canale televisivo VH1 nominò la cover "Who's Next" come una delle più grandi copertine di tutti i tempi. (dal web)
     
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2 replies since 15/6/2013, 02:34   640 views
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