SCOPERTE SCIENTIFICHE

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    Le 10 più importanti scoperte
    scientifiche del 2012


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    Dalle ricerche spaziali alla genetica, dalla fisica delle particelle all'archeologia


    La scoperta del bosone di Higgs
    Il 2012 è stato un anno proficuo per le scienze: dalle ricerche spaziali alla genetica, dalla scienza dei materiali all'archeologia. La redazione ha selezionato le dieci scoperte che secondo Corriere.it hanno caratterizzato l'anno sotto l'aspetto scientifico. Con la possibilità di votare e cambiare la classifica.
    1 - 4 luglio 2012: una data da ricordare nella storia della scienza. Al Cern di Ginevra viene annunciata la scoperta del bosone di Higgs, o per lo meno di qualcosa che gli assomiglia molto. Il bosone di Higgs (chiamato anche «particella di Dio»), teorizzato da un fisico scozzese circa 50 anni fa, è la particella quantistica che determina la massa e quindi l'esistenza della materia come noi la conosciamo

    2 - Decodificato il genoma del frumento. Un passo importantissimo per la conoscenza della pianta alla base dell'alimentazione umana, con la quale conviviamo da 8-9 mila anni. Si potranno creare nuovi ibridi più nutrienti e soprattutto più resistenti alla siccità e alle temperature più alte causate dal riscaldamento globale.

    3 - Scoperto il meccanismo universale di trasporto all'interno delle cellule per la fabbricazione delle proteine. Si tratta di un passaggio chiave per la produzione dei «mattoni della vita» e una speranza per la cura delle distrofie e dei tumori

    I ricercatori di Sheffield e di Harvard hanno scoperto un passaggio chiave per la produzione dei «mattoni della vita»


    Ecco svelato come funziona la fabbrica delle proteine. I ricercatori delle università di Sheffield e di Harvard hanno scoperto il processo che permette di produrre i mattoni della vita, sia negli organismi più semplici come i lieviti, sia in quelli più complessi come l'uomo. Una sorta «stele di Rosetta» che apre la strada a nuove terapie per i disturbi del movimento, le distrofie muscolari e il cancro.
    LO STAMPO DELLE PROTEINE - Lo studio pubblicato su pubblicato su Nature Communications rivela, per la prima volta i dettagli del complesso meccanismo che all'interno della cellula regola il trasporto dello «stampo» necessario alla fabbricazione delle proteine, ovvero la molecola di Rna messaggero (mRna). Una volta prodotto nel nucleo della cellula a partire dalle informazioni contenute nei geni del Dna, l'mRna deve infatti essere trasferito nel citoplasma, dove viene usato come stampo per la produzione delle proteine in una specie di catena di montaggio costituita dai ribosomi.

    IL TRASPORTO - Grazie a questa nuova ricerca, è stato possibile scoprire che il passaggio dal nucleo al citoplasma è regolato da un complesso sistema di proteine chiamato Trex, che consegna il passaporto alle molecole di mRna pronte per il viaggio perchè complete e promosse ai test di controllo qualità nel nucleo. Il trasporto vero e proprio è poi affidato alla proteina Nxf1, che attraversa la «dogana» della membrana nucleare. «Quando un'auto viene prodotta in una fabbrica, attraversa diversi stadi in cui vengono man mano aggiunti pezzi, e alla fine viene sottoposta a un controllo di qualità prima di uscire per finire negli autosaloni», spiega il coordinatore dello studio Stuart Wilson. «Allo stesso modo - aggiunge - l'mRna passa attraverso diverse modificazioni nel nucleo, dove alcuni pezzi vengono aggiunti e altri rimossi. Solo quando raggiunge la fine della linea di produzione e passa tutti i controlli, ottiene il passaporto che le permette di andare nel citoplasma per la produzione delle proteine. Finora non era chiaro come la cellula venisse a sapere che l'mRna fosse pronto. Ora abbiamo scoperto come viene rilasciato questo passaporto, permettendo il trasporto dell'mRna nel citoplasma e la produzione delle proteine».

    BLOCCARE LE MALATTIE - «Questo processo è essenziale per la vita e quando funziona male nell'uomo può provocare malattie come quelle che colpiscono i neuroni del movimento o il cancro», ricorda Wilson. «Un tipico esempio è quello delle malattie da accumulo di Rna come la distrofia miotonica», afferma Giuseppe Novelli, genetista dell'università Tor Vergata di Roma. «In questi malati si ha la produzione di una molecola di mRna difettosa, troppo lunga, che non riesce a uscire dal nucleo: forma così degli agglomerati che vanno a bloccare anche il trasporto degli mRna di altri geni. Per questo si tratta di una malattia molto complessa e multisistemica, che non colpisce solo i muscoli». Al momento sono diverse le terapie sperimentali allo studio, «come quelle che usano degli 'spazzinì molecolari per liberare il nucleo dagli agglomerati, ma grazie a questa nuova scoperta - conclude Novelli - sarà possibile mettere a punto nuove strategie che risolvano questo intasamento andando ad agire direttamente sui meccanismi di trasporto».


    4 - Scoperti gli «intraterrestri», organismi che vivono in ambienti estremi in rocce provenienti dal mantello terrestre sotto le dorsali oceaniche. Una scoperta che apre grandi prospettive sull’origine stessa della vita e alla ricerca di forme di vita su Marte
    - Se gli extraterrestri non sono ancora stati trovati, gli «intraterrestri» sì. E a scoprire forme di vita nelle viscere profonde della Terra (non nelle miniere o nelle grotte, ma in rocce provenienti dal mantello terrestre) è stato un gruppo di ricerca italo-francese, guidato da Daniele Brunelli del dipartimento di scienze della Terra dell'Università degli studi di Modena e Reggio Emilia, pubblicato dalla rivista Nature Geosciences. Una scoperta che apre grandi prospettive sull’origine stessa della vita e che eccita molto chi è alla ricerca di forme di vita anche su Marte, dove numerose sono le analogie rispetto all’ambiente in cui vivono gli «intraterrestri».
    LA SCOPERTA - Da tempo è nota una grande famiglia di organismi estremofili che cioè vivono in ambienti estremi, e che ricavano energia e alimenti per vivere da reazioni chimiche, senza svolgere la fotosintesi. Questi sono stati scoperti nelle miniere, nelle perforazioni, e molti batteri cosiddetti «sulfatoriduttori» hanno a che fare con i giacimenti petroliferi. La grande novità consiste nel fatto che questi microorganismi ora per la prima volta sono stati trovati in rocce portate in superficie nelle dorsali oceaniche - rocce che provengono cioè da centinaia di chilometri di profondità con temperature di centinaia di gradi - e raffreddandosi fuoriescono da spaccature della crosta terrestre che si aprono sotto gli oceani. Qui avviene un importante processo di progressiva idratazione chiamato serpentinizzazione (perché forma un minerale chiamato serpentino) che fa acquisire acqua al reticolo dei minerali.

    ORIGINE DELLA VITA - Durante questo processo si libera una grande quantità di idrogeno. «L’idrogeno è uno degli elementi principali per la respirazione di questi organismi», spiega Daniele Brunelli, con il quale hanno collaborato Valerio Pasini dell’'Università di Modena e Reggio Emilia e Benedicte Menez dell'Institute de Physique du Globe di Parigi. «Quindi l’ipotesi fatta qualche anno fa è che nelle serpentiniti ci siano le condizioni ideali per l’inizio della vita sulla Terra (idrogeno, disponibilità di metalli che permettono la formazione di molecole per lo scambio di elettroni, l’azoto e una temperatura ideale, al di sotto dei 100 gradi ma non così fredda come quella degli oceani). Inoltre in questo processo si formano quelle molecole complesse di carbonio che in maniera romantica vengono definite brodo primordiale. «Viste queste condizioni favorevoli all’inizio della vita, è partita la caccia a cercare microorganismi dentro queste rocce e noi siamo stati i primi a trovarli. Da anni raccogliamo le rocce del fondo oceanico. Queste provengono dal fondo dell’Atlantico portate in superficie attraverso la dorsale. Sono organismi degradati», continua il ricercatore, «con la materia organica cotta, visto l’ambiente caldo in cui si trovava. Però vediamo gli effetti della vita di questi microorganismi nei minerali utilizzati dalla loro attività metabolica, gli effetti del pasto, visto che hanno mangiato i minerali: siamo certi che è materia biologica».

    COME SU MARTE - «È un primo passo, come aver messo piede sulla Luna, ora gli studi proseguiranno», conclude Brunelli. «Ma le serpentiniti sono state scoperte anche su Marte, dove c’è anche l’acqua e questo è molto attraente per chi cerca la vita extraterrestre, visto che sul pianeta rosso si trovano condizioni simili».


    5 - Il Dna dei Denisoviani svela incroci con i Sapiens (cioè noi). Non solo i Neandertal, il nostro patrimonio genetico contiene probabilmente anche geni dei Denisoviani, una specie umana «cugina» che viveva 80 mila anni fa in Siberia nella zona dei monti Altai

    Il frammento di mignolo sul quale è stato eseguito lo studio (Mpi for Evolutionary Anthropology)
    È arrivato il momento di rispolverare l'album di famiglia. Scorriamolo rapidamente fino alle ultime pagine, quelle in cui gli uomini sono già pienamente uomini, nel tardo Pleistocene. Al centro, nella posizione d'onore, ci sono i nostri antenati venuti dall'Africa, quelli che abbiamo imparato a chiamare sapiens. Di fianco c'è la foto degli uomini di Neanderthal, chiari, massicci e accigliati, con il grosso naso e il toro sopraorbitario sporgente. Nel corso della storia li abbiamo accolti, cacciati e poi riaccolti nel nostro albero genealogico. La famiglia umana, però, è più estesa e promiscua di quanto non si racconti nelle aule scolastiche. E ora c'è un ritratto nuovo a cui fare spazio nell'album: la giovinetta bruna di Denisova. La sequenza del suo Dna, analizzata sulla rivista Science, ci dice che questa siberiana arcaica vissuta 80 mila anni fa non è soltanto una nostra lontana cugina estinta, ma una parente stretta. Proprio come Neanderthal. Quasi una sorella.

    I denti attribuiti ai Denisoviani
    DENTI - Del suo popolo non ci restano che due bizzarri molari. Di lei abbiamo appena una minuscola falangetta, ma ci ha spalancato la vista sul suo intero genoma. Geneticamente parlando sappiamo molte più cose di lei che di qualsiasi altro esemplare arcaico, neandertaliani compresi, perché il suo paleo-Dna è stato sequenziato con tecniche nuove e con una precisione senza precedenti.
    DNA - Sciogliendo la doppia elica è possibile lavorare su entrambi i filamenti, raddoppiando le informazioni. È così che questo fossile senza volto, nelle mani dei ricercatori dell'istituto Max Planck di Lipsia guidati da Svante Pääbo, ne ha acquistato uno. «Aveva varianti genetiche che sono associate con pelle, occhi e capelli scuri. È bello poter risalire da un pezzetto di Dna all'aspetto di un individuo di cui, ricordiamolo, ci resta solo un frammento del mignolo», dice al Corriere Guido Barbujani, genetista dell'Università di Ferrara.
    Quel che più conta, però, è che la nuova musa della paleogenomica non parla solo di sé, ma anche di noi.

    DIFFERENZE - Confrontando la sua e le nostre sequenze si scoprono oltre 100 mila differenze, che rappresentano l'equivalente di una «ricetta per l'uomo moderno». «Alcune mutazioni sono implicate nella sintesi di neurotrasmettitori e in disturbi cognitivi. Fanno pensare che la nostra specie differisse piuttosto marcatamente da loro a livello di percezioni, ragionamento e comportamento», sostiene Barbujani. Eppure l'analisi genomica rintraccia anche dei geni denisoviani in alcune popolazioni moderne, come nella Papua Nuova Guinea, facendo diventare quasi irresistibile la tentazione di affermare che sapiens e denisoviani si sono incrociati. E pensare che tutto è cominciato quattro anni fa sui monti Altai, in Siberia, nella grotta di Denisova appunto.

    STESSI SPAZI - Ai cacciatori-raccoglitori del tempo doveva sembrare una residenza di lusso, con un suggestivo fascio di luce e una superba vista sul fiume. Nello stesso strato sono affiorati i piccoli resti denisoviani, insieme a un alluce neandertaliano e ad artefatti moderni. Tre gruppi umani, dunque, si sono trovati a condividere gli stessi spazi in tempi vicini. Ma se i nostri antenati sapiens hanno avuto una progenie mista, nata dall'incontro con altre specie umane, come ipotizzano Pääbo e colleghi, possiamo ancora considerarci una specie a parte? O dobbiamo ricongiungerci anche nella classificazione a Neanderthal e Denisova, e magari anche ad altri gruppi arcaici di cui iniziamo solo ora a sospettare l'esistenza? Il fascino magnetico di queste domande non si esaurisce nel filone voyeuristico che potremmo ribattezzare «50 sfumature di paleolitico».

    SERVONO ULTERIORI DATI - Gli interrogativi sul melting pot interspecifico rimettono in discussione la nostra identità. Bastano degli incroci occasionali, magari consumati soltanto là dove gli habitat di due specie si intersecano, a far cadere ogni barriera tassonomica anche tra gruppi che sono anatomicamente e geneticamente distinguibili? Forse sì, «ma è necessario che l'analisi genomica di nuovi esemplari di Neanderthal e Denisova confermi la mescolanza», ragiona David Caramelli dell'Università di Firenze. Nel dubbio possiamo sempre scegliere una pragmatica terza via. Spogliarci dell'aggettivo sapiens e accettare di definirci semplicemente «uomini moderni», in alternativa agli arcaici. Quando arriva una ragazza in famiglia spesso non basta aggiungere una stanza e questa volta potremmo essere costretti a riprogettare la casa.

    Anna Meldolesi


    6 - Scoperto l'ormone del cuore che «brucia» i grassi. Si chiama peptide natriuretico atriale e stimola la formazione di grasso bruno, capace di trasformare le calorie in energia. Un'importante scoperta per combattere l'obesità
    Combattere l’obesità è una questione (anche) di cuore. Ecco il perché. Un gruppo di ricercatori americani, francesi, giapponesi e italiani (Marica Bordicchia, Paolo Dessì–Fulgheri e Riccardo Sarzani dell’Università Politecnica delle Marche) ha scoperto che un ormone prodotto dal miocardio, il peptide natriuretico atriale (ha a che fare con la regolazione della pressione del sangue) stimola il metabolismo dei grassi, con meccanismi simili a quelli attivati dall’organismo quando è esposto al freddo e deve bruciare grassi per produrre calore. Più nel dettaglio, l’ormone è in grado di trasformare il tessuto adiposo bianco, tipicamente associato all’obesità, in tessuto adiposo bruno che è in grado di immagazzinare grassi, ma anche di trasformare le calorie in energia (un processo che funziona male nelle persone obese).
    IN LETARGO- E’ da tempo che i ricercatori stanno studiando il grasso bruno (tipico degli animali che vanno in letargo e dei neonati, ma presente anche negli adulti, come è stato da poco dimostrato), con l’obiettivo di aumentarne la quantità nell’organismo umano e favorire così la perdita di peso. Con questa nuova ricerca, pubblicata sul Journal of Clinical Investigation e finanziata anche dalla Società Italiana dell’Ipertensione, dimostrano che la chiave di volta potrebbe essere il peptide natriuretico. Questo ormone, infatti, non solo è in grado di trasformare cellule adipose bianche in cellule brune, quando viene messo a contatto in vitro con le prime, ma iniettato nei topi, aumenta il dispendio energetico.

    DUE RECETTORI - L’effetto metabolico dell’ormone dipende dall’equilibrio fra due diversi tipi di recettori presenti sulla superficie delle cellule adipose. Uno, chiamato NPRA, funziona da stimolo per le cellule brune e aiuta a bruciare il grasso bianco. L’altro, chiamato NPRC, sembra impedire al peptide natriuretico di stimolare l’NPRA, favorendo quindi l’accumulo di grasso nel tessuto adiposo bianco. Il prossimo obiettivo dei ricercatori sarà quello di capire se è possibile manipolare i recettori e, di conseguenza, mettere a punto nuove terapie per curare l’obesità e altre malattie metaboliche. Un esempio: bloccando il recettore NRPC o stimolando l’NPRA si potrebbero aiutare le persone obese a perdere peso.

    SCOMPENSO DI CUORE - E non solo: la ricerca potrebbe essere utile anche ai pazienti con cachessia cardiaca, uno stato di deperimento generale che si manifesta in caso di grave scompenso cardiaco. Questa condizione comporta elevati livelli di ormone natriuretico che favorirebbe l’aumento del grasso bruno. L’idea, adesso, è quella di valutare se la riduzione dell’ ormone può rallentare questo processo. Un’ultima interessante osservazione: si sa che l’esercizio fisico riduce il peso perché permette ai muscoli di usare i grassi come carburante. E si sa che durante gli sforzi aumenta la pressione del sangue e viene prodotto ormone natriuretico atriale che contribuisce, quindi, a bruciare i grassi.

    Adriana Bazzi
    [email protected]


    7 - Un esperimento dimostra per la prima volta che il fotone è contemporaneamente onda e particella.
    Risolto uno dei misteri della meccanica quantistica. Il dibattito fra le teorie ondulatorie e particellari della luce accompagna la storia della scienza fin dagli studi di Isaac Newton

    Alberto Peruzzo
    Misurata per la prima volta la «doppia» natura della luce, che secondo la meccanica quantistica è composta da fotoni, elementi che sono simultaneamente sia particelle che onde. Un team di fisici dell'università di Bristol, fra cui compare un «cervello in fuga» italiano, Alberto Peruzzo, è riuscito a inventare uno strumento in grado di misurare contemporaneamente la doppia natura dei fotoni. La ricerca è stata pubblicata il 2 novembre sulla rivista Science.
    DUALITÀ - La dualità onda-particella dei fotoni è uno degli interrogativi più intriganti della fisica, tanto da esser stato definito «il vero mistero della meccanica quantistica» dal premio Nobel Richard Feynman. Il dibattito fra le teorie ondulatorie e particellari della luce accompagna la storia della scienza fin dagli albori. Isaac Newton nel XVII secolo era il principale sostenitore della teoria particellare, che poi però dovette cedere il passo alla teoria ondulatoria, dopo gli esperimenti di Thomas Young (all'inizio del XIX secolo) per arrivare fino alla teoria dell'elettromagnetismo di James Clerk Maxwell. Nel 1905 fu Albert Einstein a sparigliare le carte: dimostrò che era possibile spiegare un particolare fenomeno, l'effetto fotoelettrico, tornando all'idea che la luce fosse formata di particelle, vale a dire i fotoni. Oggi la teoria quantistica spiega che la natura del fotone dipende dal mezzo di osservazione: particolari misure sperimentali possono attribuire alla luce la natura particellare, altri apparati quella ondulatoria. Il problema è che finora non è stato possibile concepire un apparato sperimentale in grado di misurare contemporaneamente la doppia natura del fotone.

    ESPERIMENTO - Proprio qui sta la novità introdotta dal team di Bristol. Peruzzo, Peter Shadbolt e Jeremy O'Brien del Centro di fotonica quantistica hanno fatto squadra con i teorici quantistici Nicola Brunner e Sandu Popescu per concepire uno strumento in grado di misurare simultaneamente sia il comportamento particellare che ondulatorio della luce. Peruzzo spiega che questo dispositivo si incardina su un noto principio, contro-intuitivo come gran parte della meccanica quantistica, vale a dire quello della «non-località». La teoria quantistica va contro il principio della «località» (ciò che accade in un luogo non può influire immediatamente su ciò che accade in un altro luogo) e presenta fenomeni come l'entanglemet, vale a dire che due particelle che nascono dallo stesso processo, ciò che accade a una particella ha effetti istantanei anche sull'altra, indipendentemente dalla distanza che le separa.

    NON-LOCALITÀ - Il ricercatore italiano riporta che «l'apparato di misura ha rivelato forte non-località, certificando nel nostro esperimento che il fotone si è comportato simultaneamente sia come un'onda che come una particella. Ciò rappresenta una chiara confutazione dei modelli in cui il fotone è alternativamente o un'onda o una particella». O'Brien, direttore del Centro di fotonica quantistica, aggiunge: «Per condurre questa ricerca abbiamo usato un chip fotonico, tecnologia innovativa inventata a Bristol. Il chip, che è riconfigurabile e perciò può essere programmato e controllato per realizzare circuiti diversi, è una delle tecnologie leader per la costruzione del computer quantistico».

    Enrico Orfano
    2 novembre 2012 | 14:53


    8 - I primi cani vennero addomesticati 33 mila anni fa, poi la glaciazione li fece estinguere e si dovette addomesticarli di nuovo, e l'opera di addomesticazione avvenne in diverse aree in più riprese

    - Il cane è il più antico animale addomesticato. Non sorprende quindi che ci sia molto interesse da parte del mondo scientifico per cercare di capire quando sia avvenuto quel passaggio cruciale che ha portato da un animale selvatico, qual è il lupo, al «miglior amico dell’uomo». Molti gli studi recenti. Ora però ce n’è uno di un gruppo di ricerca internazionale che vede coinvolti ricercatori russi, statunitensi, britannici e olandesi, che anticipa a 33 mila anni fa (cioè prima dell’ultimo massimo glaciale verificatosi tra 26.500 e 19 mila anni fa) la presenza dei primi cani domestici.
    L’IPOTESI CINESE - Andiamo con ordine. I primi resti di cane domestico (Canis familiaris) così come lo intendiamo oggi, risalgono a un periodo che va da circa 14 mila a 9 mila anni fa in Cina, Medio Oriente ed Europa, visto che è da allora che i cani sono diventati una componente consistente di insediamenti umani e sono stati oggetto di sepoltura intenzionale, in tombe umane. Ma una ricerca del 2009, condotta dall’Accademia delle scienze cinese, aveva indicato un singolo sito e un punto preciso per l' origine del cane domestico, intorno ai 16 mila anni fa, nella regione meridionale del Fiume Azzurro, dove , secondo gli studiosi, l'addomesticamento di centinaia di lupi era piuttosto comune. È qui infatti che è stato rinvenuto il numero più grande di «pezzi» di Dna simili, tra il lupo e il cane. Un concetto ribadito anche lo scorso novembre da Peter Savolainen del Kht, l’Istituto reale svedese di tecnologia, e dalla sua squadra: studi sul patrimonio genetico dei cani portano alla conclusione che l'area Asy (Asia South of Yangtze River) in Cina è la principale - e probabilmente la sola - zona dove è avvenuto l'addomesticamento del cane dal lupo.

    SIBERIA E BEGIO - Ma ecco la novità. Un teschio di cane, datato con il metodo del carbonio 14 a 33 mila anni fa, rinvenuto in una caverna della Siberia (monti Altaj) e un altro teschio di cane addomesticato rinvenuto in una grotta in Belgio, sollevano interrogativi circa il tempo e il luogo della più antica domesticazione del cane. I ricercatori sono giunti alla conclusione che si tratta di cane e non di lupo, dalle caratteristiche morfologiche del cranio: «Sia le ossa dell’esemplare belga che quelle dell’esemplare siberiano porterebbero a concludere che si tratta di specie domestiche», ha dichiarato Greg Hodgins, ricercatore presso l'Università dell’Arizona e co-autore dello studio che riporta la scoperta. «Essenzialmente i lupi hanno muso lungo e sottile e i loro denti sono più distanziati. I risultati della domesticazione portano invece a un accorciamento del muso, all'ampliamento delle mascelle e l'addensamento dei denti, anche se quest’ultimo parametro da solo non è sufficiente per dire che si tratta di un cane. La cosa interessante», continua il ricercatore, «è che questi esemplari non sembrano essere antenati dei cani moderni. I nostri studi ci portano a concludere che possono rappresentare un cane nei primissimi stadi di domesticazione, cioè un cane "incipiente"».

    MOLTI ANTENATI - Nelle migliaia di anni successivi infatti non vengono ritrovati resti di cani domestici sino alla fine della glaciazione (circa 14.000-11.500 anni fa), per cui «possiamo concludere che la linea rappresenta dal ‘cane incipiente’ della grotta di Razboinichya in Siberia non è sopravvissuta all’ultimo massimo glaciale. Tuttavia, i due teschi indicano che l'addomesticamento dei cani da parte dell'uomo si è verificato ripetutamente dagli inizi e nel corso della storia umana in diverse aree geografiche, il che potrebbe significare che i cani moderni hanno più antenati piuttosto che un singolo antenato comune».

    PROTEZIONE, AIUTO E COMPAGNIA - «La cosa interessante è che di solito noi pensiamo all’addomesticamento di mucche, pecore e capre per le cose che producono, quali il cibo, la carne o prodotti secondari come latte, formaggio e lana», conclude Hodgins. «Molto diversi sono stati i rapporti degli esseri umani con i cani, che non sono necessariamente fornitori di prodotti o carne. Essi hanno probabilmente fornito fin dall’inizio protezione, compagnia e forse aiuto nella caccia. Ed è veramente interessante che questo sia accaduto nel primo addomesticamento operato dall’uomo».

    Massimo Spampani

    9 - Rinvenuto il pianeta extrasolare più vicino alla Terra: si trova a 4,3 anni luce da noi nel sistema ternario di Alpha Centauri. È roccioso, ma in superficie ci sono almeno 2 mila gradi

    Ricostruzione del pianeta (sulla destra) che orbita intorno ad Alpha Centauri B (Afp)
    Lo teorizzavano da oltre un secolo, lo cercavano da anni e finalmente l’hanno trovato. È un pianeta quasi uguale alla Terra nelle dimensioni (1,1 volte maggiore) attorno a una delle tre stelle più citate per i viaggi oltre il sistema solare. Questo, oltre che la scienza, accende la fantasia anche se la realtà del nuovo corpo celeste non promette nulla.
    TROPPO CALDO - Alpha Centauri B, che è la stella in questione, è lievemente più piccola e meno luminosa del nostro Sole. A una distanza molto ravvicinata (6 milioni di chilometri), addirittura più vicina del nostro Mercurio al Sole, ruota intorno velocemente il pianeta identificato ogni 3,2 giorni. La vicinanza, purtroppo, lo rende molto caldo (al suolo si ipotizzano temperature di circa 2 mila gradi centigradi) e quindi è collocato al di fuori della cosiddetta fascia abitabile che consente lo scorrere dell’acqua in superficie. Niente vita, dunque. Però la storia non è chiusa.

    ALPHA CENTAURI - Accanto, in termini astronomici naturalmente, ad Alpha Centuari B lontana 4,3 anni luce, c’è Alpha Centuari A e Proxima Centauri che trovandosi a 4,2 anni luce dalla Terra è la stella più vicina a noi. Per raggiungerla dovremmo affrontare un viaggio evidentemente non compatibile con la lunghezza della vita dell’uomo. Occorrerebbero, infatti, 4,2 anni per arrivarci se viaggiassimo alla velocità della luce di 300 mila chilometri al secondo. Ma su questa possibilità Einstein avrebbe qualcosa da dire.

    SCOPERTA - La scoperta è stata ottenuta utilizzando lo strumento Harps-S installato su un telescopio dell’Eso in Cile del diametro di 3,6 metri. Harps-S è stato in grado di misurare variazioni nello spostamento della stella di appena 51 centimetri per secondo provocate dalla gravità del pianeta. È la precisione maggiore finora raggiunta con questa tecnica. Ma la scoperta sembra essere solo l’inizio della ricerca perché gli astronomi ritengono che altri pianeti siano presenti nel famoso terzetto stellare. E chissà che non vi sia anche un gemello della Terra sia nella posizione che nelle caratteristiche.

    EXOPIANETI - Del resto dal 1995 quando si trovò il primo pianeta extrasolare ne sono stati identificati, grazie soprattutto al satellite astronomico Kepler della Nasa, alcune migliaia anche se quelli confermati sono solo 800. Già molti, e ormai considerati quasi una norma intorno alle stelle del firmamento. «Scrutiamo Alpha Centuari B da quattro anni e alla fine il pianeta lo abbiamo trovato», commenta Francesco Pepe dell’Osservatorio di Ginevra e uno degli autori dell’indagine i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature. Ma il prossimo anno si potrebbe compiere un balzo nella caccia dei corpi extrasolari perché sarà pronto lo strumento Sphere, ancora più potente di Harps-S. «Sphere sarà installato sul Very Large Telescope in Cile», nota Raffaele Gratton dell’Osservatorio astronomico di Padova dell’Inaf, «e permetterà non solo di visualizzare un pianeta, ma di ottenerne lo spettro e quindi di avere informazioni sulla composizione della sua atmosfera». Con il cielo bisogna essere pazienti: tutto dipende dalla tecnologia.

    Giovanni Caprara


    10 - Scoperta una proteina-chiave del tumore cerebrale più frequente, il glioblastoma multiforme. L’obiettivo è ottenere un biofarmaco che funzioni dove chemio e radioterapia falliscono

    MILANO - Un gruppo di ricercatori italiani ha scoperto un meccanismo molecolare cruciale per lo sviluppo del glioblastoma multiforme, il più diffuso fra i tumori cerebrali. Inoltre ha identificato una proteina che frena questo processo e che potrebbe diventare una nuova terapia biologica contro una malattia ancora estremamente aggressiva e resistente alle cure convenzionali. La ricerca, che ha coinvolto centri di primo livello italiani e statunitensi, è stata diretta da Angelo Vescovi, direttore scientifico dell’Irccs Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo e studioso di cellule staminali, con il coordinamento di Elena Binda, ricercatrice del Dipartimento di Biotecnologia e Bioscienze dell’Università Bicocca di Milano. Il filone è quello che molti neuroscienziati sperano essere il vero tallone d’Achille del glioblastoma multiforme: le cosiddette staminali tumorali, che sono la radice della crescita di molti tumori, difficili da isolare e da colpire, dato che sfuggono alle terapie tradizionali anticancro.
    LO STUDIO - Riuscire a neutralizzare le cellule «cattive» del glioblastoma, confidano i ricercatori, significherebbe eradicare il tumore, scongiurare le recidive (che ora sono purtroppo la regola) e limitare gli effetti collaterali dei trattamenti. Gli scienziati italiani hanno studiato una proteina di membrana, presente normalmente sulle cellule staminali del cervello umano, che sulle staminali tumorali è espressa in quantità abnormi. Si chiama recettore A2 delle efrine (EphA2) e, se sovraespressa, determina la replicazione incontrollata delle staminali, che a loro volta generano cellule tumorali “figlie”, capaci di riprodursi in maniera tumultuosa e sostenere la crescita “esplosiva” del glioblastoma multiforme. L’utilità di questa nuova conoscenza è duplice, spiegano gli autori. «Da un lato EphA2 funge da marcatore in grado di segnalare le staminali del glioblastoma, che sono cellule rare e difficili da localizzare. Dall’altro è un obiettivo terapeutico, perché riducendone l’espressione si può sperare di bloccare il perverso meccanismo di replicazione tumorale» precisa Francesco DiMeco, direttore del Dipartimento di neurochirurgia della Fondazione istituto neurologico Carlo Besta di Milano. E la cosa si è già mostrata fattibile, almeno sui topi.

    LA PROTEINA - Gli scienziati hanno testato l’effetto di una proteina, chiamata efrina A1, in tumori cerebrali umani riprodotti negli animali. La proteina ha innescato una reazione virtuosa, riducendo l’espressione di EphA2, frenando la capacità delle staminali di replicarsi, inibendo la produzione di cellule tumorali e in definitiva la crescita del glioblastoma. E’ presto per festeggiare l’arrivo di una nuova cura contro il glioblastoma, tiene a precisare Angelo Vescovi: «Solo la sperimentazione clinica sull'uomo potrà davvero confermare se abbiamo individuato una terapia vera e propria». Ma i presupposti sono più che incoraggianti dato che l’intervento sui topi è stato condotto con le stesse modalità che si usano per la somministrazione intracerebrale di farmaci antitumorali nell’uomo (convention enhanced delivery) e c’è un precedente, quello del primo biofarmaco diretto contro le staminali di glioblastoma, la proteina BMP4, che lo stesso gruppo di Vescovi identificò nel 2006 e che è prossima alla sperimentazione umana (la si attende per il 2013). Parlando di BMP4, Angelo Vescovi nel 2008 profetizzò: «Ci vorrà ancora tempo per arrivare al letto del malato. Siamo partiti da pochi anni ma sappiamo altre proteine lavorano in maniera analoga e il potenziale impatto terapeutico di queste ricerche è enorme». Ora, commenta: «E’ possibile identificare nuovi bersagli molecolari e genetici fino ad oggi insospettati da colpire nel tentativo di fermare questo cancro incurabile». Fondamentale, sottolinea infine Vescovi, la collaborazione che ha portato a questi risultati, fra una start-up biotecnologica, la StemGen, fondata presso l'incubatore dell’Università Bicocca di Milano, e un team di neuroscienziati al lavoro in centri di primo livello, fra cui l’Irccs Carlo Besta di Milano, il Dipartimento di Neurologia del Policlinico Gemelli di Roma, la Weill Cornell Graduate School of Medical Sciences, il Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York, la University of Florida e il Sanford-Burnham Medical Research Institute, La Jolla, California. «Un approccio fruttuoso che promette di velocizzare lo sviluppo di terapie sperimentali per patologie che restano incurabili e letali, come il glioblastoma umano, e che infatti sono classificate come ‘malattie orfane’ dagli organismi regolatori nazionali e internazionali». I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Cancer Cell.

    Donatella Barus
    (Fondazione Veronesi)

    Redazione Online

     
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    L'INSULINA



    La sera del 20 ottore 1920, il medico canadese Frederick Banting stava preparando una lezione quando si accorse che solo alcune cellule del pancreas, le Isole di Langerhans, erano vere responsabili del diabete. Ma i professori anziani non gli diedero fiducia e gli concessero solo 8 cani per gli esperimenti e un assistente di 22 anni, Charles Best. I successi furono subito eccezionali: un estratto di pancreas – chiamato isletina e poi insulina – somministrato ai cani diabetici li rimetteva in sesto. Ma gli animali erano pochi così Banting vendette l’auto per continuare gli esperimenti e andò avanti. L’11 gennaio 1922 l’estratto venne per la prima volta somministrato a un 14enne: dopo la puntura il paziente si riprese dal coma diabetico. Nel 1923 arrivò il Premio Nobel.





     
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    Abbiamo un organo in più

    È il mesentere: sapevamo di averlo, ovviamente,
    ma solo ora gli studiosi hanno capito che si comporta come un organo e va considerato tale



    Il chirurgo irlandese Calvin Coffey, dell’Università di Limerick, ha pubblicato sulla sezione di gastroenterologia ed epatologia dell’autorevole rivista scientifica britannica The Lancet uno studio in cui propone di riclassificare come organo il mesentere, una membrana che collega l’intestino alla cavità addominale, tenendoli insieme. Il mesentere è conosciuto da secoli – lo disegnò perfino Leonardo da Vinci – ma finora si pensava consistesse in una serie di membrane scollegate tra loro, sparse nell’intestino. Il nuovo studio suggerisce invece che sia un’unica struttura, e che vada quindi classificata come organo. Non è vero, come hanno fatto intendere molti articoli sui siti italiani e stranieri, che “è stato scoperto un nuovo organo”, e che “era sempre stato sotto i nostri occhi ma non ce ne eravamo accorti”: ce ne eravamo accorti eccome, ma lo chiamavamo in un modo diverso. Lo studio di Coffey è stato pubblicato lo scorso novembre, ma è stato scoperto dai siti internazionali di news solo negli ultimi giorni.


    (J Calvin Coffey/D Peter O’Leary/Henry Vandyke Carter)

    Un organo è un’unità anatomica composta da tessuti diversi associati per svolgere una o più funzioni precise, utili all’intero organismo. Il mesentere, che è una ripiegatura del peritoneo (la membrana che ricopre l’interno dell’addome) ricca di vasi sanguigni, che parte dal pancreas e arriva fino al colon, è secondo Coffey un organo proprio perché è una struttura indipendente con delle sue funzioni, che devono ancora essere scoperte. Lo studio dice anche che non è ancora chiaro se vada inserito nell’apparato digerente, in quello circolatorio, in quello endocrino o in un altro ancora. Secondo i ricercatori dell’Università di Limerick, comunque, è più di un semplice connettore, e potrebbe servire a regolare lo spostamento di globuli bianchi nell’intestino. Le prime scoperte di Coffey sull’unità strutturale del mesentere risalgono al 2012.
    Coffey ha spiegato: «Finora non c’era un campo come la scienza mesenterica. Ora abbiamo stabilito l’anatomia e la struttura del mesentere. Il prossimo passo è la sua funzione. Se capisci come funziona puoi capire quando non funziona, e quindi le malattie». Secondo Coffey, uno studio approfondito del mesentere potrebbe aiutare nella ricerca sul cancro al colon-retto, sulle cure alle malattie infiammatorie croniche intestinali, sul diabete e sull’obesità.
    La scoperta di Coffey è quindi una specie di primo passo per la definitiva classificazione del mesentere come organo, ma è già a buon punto: l’Anatomia del Gray, tra i più autorevoli manuali di anatomia al mondo, identifica già il mesentere come organo. Contando il mesentere, il corpo umano avrebbe 79 organi classificati. Lo stesso Coffey ha detto però di non sapere come si possa arrivare alla “ufficializzazione” della scoperta: «È una bella domanda. In realtà non so a chi spetta la decisione finale», ha detto a Discover Magazine.




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