ABBAZIE, BASILICHE e CATTEDRALI

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  1. gheagabry
     
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    Nella trabeazione, al di sotto del frontone centrale, è impressa l'iscrizione:
    « IN HONOREM PRINCIPIS APOST PAVLVS V
    BVRGHESIVS ROMANVS PONT MAX AN MDCXII PONT VII »
    « In onore del principe degli apostoli; Paolo V
    Borghese Pontefice Massimo Romano anno 1612 settimo anno del pontificato »


    BASILICA DI SAN PIETRO in VATICANO



    Dopo essere salito al potere, l’Imperatore Costantino (306-337) concesse ai Cristiani la “libertà” di professare la loro fede con l’editto di Milano nel 313 d.C.. Allo stesso tempo egli divenne il ”Pontifex Maximus” , ovvero il Capo della Chiesa Cristiana e il tredicesimo Apostolo. La chiesa poteva finalmente, dopo tanti anni di persecuzione godere della “libertà di culto” al pari dei pagani. Costantino restituì alle chiese le proprietà che erano state loro confiscate dai suoi predecessori durante le persecuzioni Egli, inoltre, cercò in tutti i modi di propagare la nuova fede. Costantino, in questa maniera, divenne una sorta di “capo visibile” della Chiesa perché incominciò a comandare in maniera di fede e dottrina anche sui vescovi che erano costretti ad inchinarsi davanti alle sue decisioni, anche nelle cose spirituali, se non volevano perdere i loro privilegi. Il bisogno più urgente fu quello di creare una nuova casa per il Cristianesimo, dove, come nel rito pagano, la messa cristiana si concentrò su un atto di carattere simbolico di sacrificio, recitato da un prete sull’altare, cioè la trasformazione del vino e del pane consacrato nel sangue e corpo di Cristo, che veniva consumato dai fedeli per ottenere la loro salvezza spirituale. Poiché questi riti divennero sempre più complessi, fu necessario costruire degli edifici per facilitare l’ingresso e l’uscita delle processioni, un altare dove i prelati potessero celebrare la messa, uno spazio per la separazione dei prelati dai fedeli durante la processione e la comunione, ed un’area per la separazione, durante il servizio, di quelli che stavano per convertirsi al cattolicesimo da quelli che si erano convertiti precedentemente. Tutte queste funzioni e attività spiegano il motivo per cui fu costruita la prima chiesa monumentale. Infatti, Costantino diede nel 313 all’Arcivescovo di Roma il palazzo imperiale del Laterano come residenza personale e vi fece costruire a fianco la Basilica di San Giovanni in Laterano come luogo di manifestazioni religiose. Per quanto San Giovanni in Laterano fosse il modello “standard” delle basiliche cristiane in Roma, la basilica più importante costruita da Costantino fu la Basilica di San Pietro, intorno al 333 d.C., ma probabilmente progettata un decennio precedente. La storia della Basilica di San Pietro iniziò con il martirio di San Pietro. Essa fu costruita sulle scarpate della collina del Vaticano, sul sito del Circo di Caligola e di Nerone, dove Pietro, il primo vescovo di Roma, fu crocifisso nel 64 d. C. Questo sito, vicino al Circo, segna il luogo dove fu sepolto Pietro, Principe degli Apostoli.
    Nel 330 d.C. Costantino volle spostarsi a Bisanzio e chiamò la vecchia città Costantinopoli (al giorno d’oggi Istanbul), per farne la capitale dell’Impero Romano. A Roma, così, si creò un vuoto politico che fu immediatamente preso dal vescovo, che oltre svolgere funzioni religiose cominciò ad esercitare anche delle funzioni politiche, diventando in questo modo la persona più potente della città . Nel 380 d.C. l’Imperatore Teodosio emanò un editto che faceva del cristianesimo la religione ufficiale dell’Impero Romano e nel 381 d.C. il Concilio di Costantinopoli riconobbe il primato della sede romana, e stabilì che il patriarca di Costantinopoli aveva il primato d’onore secondo a quello del vescovo di Roma. Sotto Papa San Leone il Grande (440-461 d.C.) la facciata e la navata furono decorate con mosaici ed affreschi. Il santuario fu modificato dal Papa San Gregorio il Grande (590-604 d.C.). Sollevando il santuario di circa un metro o un metro e mezzo, egli rese possibile la costruzione di una cripta circolare. Questa trasformazione rese più facile ai pellegrini l’adorazione degli Apostoli, poiché essi potavano in quel momento avvicinarsi da una parte delle scale e allontanarsi dall’altra. Inoltre, l’altare maggiore fu posto esattamente sopra la tomba di San Pietro. Papa Leone IV (847-855 d.C.) fece costruite delle pareti intorno all’area della basilica, per proteggerla dalle incursioni dei Saraceni. Per questo fatto l'area fu chiamata “la Città Leonina”. Nel 1377, quando il papato ritornò da Avignone, dove si era insediato dal 1372, il Vaticano tornò ad essere la residenza ufficiale del Papa. In quel periodo la Basilica di San Pietro era in cattive condizioni ed era in condizioni assolutamente disastrose quando Papa Nicola V (1447-1455) divenne Papa. La basilica era stata abbellita ripetutamente nel corso di oltre mille secoli, da diversi artisti, pittori e architetti, inclusi fra i quali fu Giotto, finché nel verso la metà del quindicesimo secolo, Papa Nicolò V decise di iniziare una sostanziale e completa ristrutturazione dopo un tremendo incendio, che sembra che non sia stato casuale, che distrusse una buona parte della basilica.
    Egli chiese a Bernardo Rossellino di progettare una nuova chiesa. Il lavoro iniziò nel 1452, ma alla morte di Nicola V in 1455 i lavori furono sospesi per quasi cinquant’anni, con alcune eccezioni durante il pontificato di Paolo II. A quel punto i lavori non erano andati oltre la demolizione della vecchia basilica.
    Fu Papa Giulio II (1503-1513) nel 1506 a riprendere i lavori sospesi per tanto lungo tempo e a re-iniziare i lavori della nuova basilica che durarono fino al 1612, sotto il papato di Paolo V. Questo progetto, inizialmente, prevedeva una ricostruzione, poiché nello stesso sito sorgeva ancora la vecchia basilica fatta costruire dall’Imperatore Costantino. Il lavoro di progettazione fu assegnato a Donato Bramante, il quale demolì completamente la vecchia basilica. Egli disegnò la basilica con una pianta centrale, a croce greca, con una grande cupola.
    Alla sua morte, nel 1511, furono nominati in successione tre architetti per continuare la progettazione dell’opera: Raffaello, Fra Giacomo da Verona e Antonio Sangallo. Poiché i tre progettisti conclusero che c’era assolutamente bisogno di ulteriore spazio per la basilica, fu progettata una navata più lunga, creando una croce Latina invece della croce Greca originariamente disegnata dal Bramante. Poiché l’ultimo dei tre architetti, Sangallo, morì nel 1546, il compito di finire la basilica fu assegnato a Michelangelo. Egli tentò di ritornare alla pianta con la croce greca del Bramante, ma la sua pianta, originariamente centralizzata, fu soggetta a moltissime critiche dovute al fatto che la chiesa non sembrava funzionale e poiché il progetto della nuova Basilica veniva considerato inappropriato per celebrare le Messe o qualunque altra funzione religiosa, non essendo stato progettato secondo le regole e i principi ecclesiastici, fu scartato.
    Infatti Michelangelo non aveva incorporato tutti i secondari spazi necessari, quali cappelle, sacrestie, vestibolo, e soprattutto la loggia per le benedizioni. Ad ogni modo é principalmente nell’area dell’abside che si può notare il suo lavoro. Egli, inoltre, progettò la cupola, ma morì prima che il suo lavoro fosse finito. Il progetto originario della cupola intendeva proporre una decorazione con mosaici per il Giubileo del 1600, ma non poté essere finito in tempo e i piani furono cambiati: i mosaici furono disegnati dal Cavaliere d’ Arpino.
    La Basilica venne consacrata definitivamente nel 1626 da Urbano VIII. Al tempo della morte del Maderno nel 1629, egli era l’esponente più autorevole del nuovo dinamico stile architettonico del primo barocco. Nella generazione che lo seguì, tre grandi architetti , Gian Lorenzo Bernini, Francesco Borromini e Pietro da Cortona, portarono l’architettura barocca in Roma alla sua fase più alta e geniale, includendo il periodo dal 1630 al 1660, quando gli edifici romani raggiunsero un livello così sofisticato, audace e pieno di inventiva da marcare quel momento storico come uno dei periodi supremi nella storia dell’architettura.
    Alla morte del Maderno, il Bernini, che stava lavorando per la costruzione di un baldacchino sopra l’altare maggiore, fu nominato il nuovo architetto della Basilica. Tutte le parti principali della costruzione erano già completate, ma c’era ancora tanto lavoro da tenerlo impegnato per il prossimo mezzo secolo. Il suo lavoro incluse la Piazza San Pietro e molte delle decorazioni interne della basilica. Quando fu completata, la basilica di San Pietro fu ed ancora lo é, la chiesa più grande al mondo, con un’area coperta totale di 21.477 metri quadrati. Il suo perimetro esterno é di 1,778 metri, é lungo 186.35 metri e largo 97.50 metri. La navata principale é alta 40 metri, e la cupola é alta 132.50 metri. Vi sono 44 altari (la basilica Costantiniana ne aveva addirittura ben 120), contiene 11 cupole minori, 778 colonne, 395 statue e 135 pannelli con mosaici.(laboratorioroma.it)


    All'insieme delle opere necessarie per la sua realizzazione edile e artistica, fu preposto un ente, la Reverenda Fabrica Sancti Petri, del quale recentemente il Vaticano ha aperto gli archivi agli studiosi: fra i preziosi documenti catalogati vi sono migliaia di note, progetti, contratti, ricevute, corrispondenze (ad esempio fra Michelangelo e la Curia), che costituiscono una documentazione del tutto sui generis sulla quotidianità pratica degli artisti coinvolti. L'ente è tuttora operante per la gestione del complesso. È da segnalare che l'immenso cantiere della basilica non passò inosservato alla cultura popolare romana: per far passare i materiali per il cantiere alle dogane senza che essi pagassero il dazio si incideva su ogni singolo collo l'acronimo A.U.FA. (Ad Usum FAbricae: [destinato] ad essere utilizzato nella fabbrica [di San Pietro]). Nella tradizione popolare romana nacque subito la forma verbale "auffo" o "auffa", tuttora utilizzata a Roma, per indicare qualcuno che vuole ottenere servigi o beni in modo gratuito. Sempre a Roma, ancora oggi, quando si parla di un lavoro perennemente in cantiere si è soliti paragonarlo alla Fabbrica di San Pietro.

    Lasciate alle spalle le migliaia di turisti, superati i controlli, le transenne, un portale, una scala a chiocciola, si possono vedere cose mai viste, dentro la basilica di San Pietro. Che quella cupola - la centrale, michelangiolesca - a più di cento metri da terra, splendente di ori e colori, omaggio alle memorie costantiniane, alla chiesa e alle glorie delle origini, sia tutta composta di tessere di mosaico, così come le altre sei cappelle che le girano intorno, ciascuna con la sua pala d'altare ridondante e barocca, e che si possa vederle da vicino, affacciandosi da una finestra nascosta è la scoperta di certi segreti che il Vaticano custodisce meravigliosamente, pur mostrandoli al mondo. Come in quello che è un vero e completo Museo della basilica, nascosto in uno degli otto Ottagoni, grandi aule nascoste e inaccessibili, che si trovano in corrispondenza delle cappelle laterali: chiuso da qualche secolo, custodisce dipinti e disegni, gessi e stucchi della basilica, realizzata durante la reggenza di ventisei pontefici e con il lavoro di cinque generazioni di architetti. Maestoso il "modellino" in legno del progetto di Antonio da Sangallo il Giovane, struttura che Michelangelo giudicò "cieca di lumi" quando la prese in carico, ormai settantenne, rivoluzionandone l'impianto, inseguendo quella sua ossessione per una cupola senza uguali. A guardar bene tutto - sotto la dottissima guida di Pietro Zander, uno dei responsabili della Fabbrica di San Pietro, i "modellini" sono quasi due monumenti, in legno di tiglio e di abete, come perfette macchine sceniche, visibili anche all'interno. Da qui, fra i tanti cartoni dipinti, i gessi di Thorvaldsen e gli angeli del Canova, le stampe che mostrano come Nicola Zabaglia costruisse i ponteggi per i mosaici, si apre il più incredibile affaccio a un soffio dalle decorazioni a mosaico. Dal basso il gioco delle tessere è indistinto, più custodite 25 mila tonalità, per garantire la conservazione del patrimonio della basilica. Per la prima volta, i diecimila metri quadrati di mosaici che decorano la basilica sono stati fotografati al millimetro, registrata nel volume "San Pietro in Vaticano - i mosaici e lo spazio sacro" edito da Jaca Book.
    Da vicino i mosaici sono ancora più affascinanti, le figure imponenti, i disegni smisurati e vividissimi. Un altro affaccio possibile è dall'Ottagono in cui ha sede l'Archivio della Fabbrica di San Pietro, una miniera di documenti che racconta la nascita della basilica attraverso i registri di tutto ciò che è stato commissionato, acquistato, realizzato nel corso del tempo, tra testi autografi di Michelangelo e di Bernini e quelli di semplici capomastri.
    Ma il meglio si scopre alla fine, salendo ancora alla cupola centrale, tra oro zecchino e figure alate, a un passo dal cielo.
    (FRANCESCA GIULIANI. repubblica.it)


    Edited by gheagabry - 2/12/2013, 19:40
     
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  2. gheagabry
     
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    Cappella Sistina,
    capolavoro Michelangelo ha 500 anni
    La volta fu svelata da Giulio ii il 31 ottobre 1512




    Capolavoro assoluto di tutti i tempi, "lucerna dell'arte nostra", come la definì Giorgio Vasari, ancora oggi meta (ogni anno) di 5 milioni di visitatori provenienti da ogni parte del mondo (e che ne mettono a rischio l'integrità), la Cappella Sistina celebra il 31 ottobre i 500 anni dallo svelamento degli affreschi della volta. Il pontefice Giulio II della Rovere, che l'aveva commissionata a Michelangelo Buonarroti nel 1508, dovette aspettare ben 4 anni prima di ammirare quell'immane, insuperata opera popolata di centinaia di figure e scene delle Scritture, capaci di rivoluzionare la storia dell'arte influenzandola per secoli. Solo nell'agosto del 1511, il 'papa guerriero' era riuscito a compiere una parziale visione degli affreschi, che andavano a sostituire nella volta della Sistina il magnifico cielo stellato dipinto da Pier Matteo d'Amelia, di certo ispirato dalla padovana Cappella degli Scrovegni. Una meraviglia che perfettamente si armonizzava con le decorazioni volute Sisto IV, anche lui un della Rovere, che aveva fatto edificare tra il 1477 e il 1483 la Cappella. A tal scopo erano stati chiamati i maestri indiscussi del '400 italiano da Botticelli al Ghirlandaio, da Signorelli a Perugino, il quale coordino' il lavoro dei ponteggi e realizzò per la parete dell'altare 'La Nativita' di Cristò e 'Mose' salvato dalle acqué, nonché la pala dell'Assunta. La nuova commessa di Giulio II si rese necessaria per la grande crepa che si era prodotta sulla volta per un inclinamento della parete meridionale. Vasari racconta che fu proprio il Bramante, uno dei maggiori sostenitori di Raffaello Sanzio, a suggerire al pontefice il nome di Michelangelo, conosciuto soprattutto come scultore. Tra il Buonarroti e il genio urbinate si stava consumando un'aperta rivalità, e il primo architetto del papa, sicuro che Michelangelo non sarebbe stato in grado di eguagliare i capolavori di Raffaello, secondo l'autore delle Vite trovò questo espediente per "levarselo dinanzi". Anche per la soluzione di mettere a punto dei ponteggi idonei a quell'impresa (la volta è a 20 metri da terra), Bramante elargì consigli dubbi, tali da danneggiare lo stesso edificio. Capita l'antifona, prosegue il Vasari, l'artista fiorentino decise di costruirsi da solo l'impalcatura e affrontò quell'immane lavoro con pochi collaboratori fidatissimi. I problemi arrivarono subito con lo strato di intonaco steso sulla volta, che cominciò ad ammuffire perché troppo bagnato. Michelangelo dovette rimuoverlo e ricominciare da capo, ma provò una nuova miscela creata da uno dei suoi assistenti, Jacopo l'Indaco. Questa non solo resistette alla muffa, ma entrò anche nella tradizione costruttiva italiana. Inizialmente il Buonarroti era stato incaricato di dipingere solo dodici figure, gli Apostoli, ma presto l'impegno cambiò. Su sua richiesta, ritenendo il progetto iniziale "cosa povera", ricevette da Giulio II un secondo incarico che lasciava all'artista la piena ideazione del programma. In solitudine Michelangelo si mise all'opera e concepì una possente architettura in cui inserì nove Storie centrali, raffiguranti episodi della Genesi, con ai lati figure di Ignudi, a sostenere medaglioni con scene tratte dal Libro dei Re. Alla base della struttura architettonica, ecco i dodici Veggenti, Profeti e Sibille, assisi su troni monumentali contrapposti più in basso agli Antenati di Cristo, raffigurati nelle Vele e nelle Lunette. Nei quattro Pennacchi angolari, l'artista rappresentò infine alcuni episodi della salvazione miracolosa del popolo d'Israele. Durante l'impresa, Michelangelo pretese che nessuno vedesse il suo capolavoro, rifiutando regolarmente le richieste di Giulio II di ammirare, insieme alla sua corte, lo stato dei lavori. Il rivale Raffaello, che in realtà ne comprendeva il genio, riuscì nel 1510 a contemplare parzialmente la prima parte degli affreschi e ne rimase così colpito da inserire un ritratto di Michelangelo (l'Eraclito) nella Scuola d'Atene. E quando fu necessario smontare parte dei ponteggi, anche il papa e il suo seguito videro quello che il Buonarroti stava realizzando. L'artista stesso si rese conto che doveva portare delle modifiche al suo modo di dipingere. Nelle scene del Peccato originale e della Cacciata dal Paradiso Terrestre e nella Creazione di Eva la raffigurazione divenne quindi più spoglia, con corpi più grandi e massicci, accentuando la grandiosità delle immagini. Ma non cedette mai alle pressioni del pontefice per aggiungere più oro e decorazioni. Nel tardo pomeriggio del 31 ottobre 1512, Giulio II inaugurò la conclusione della volta della Cappella Sistina celebrando la liturgia dei Vespri alla vigilia di Ognissanti. Lo stesso gesto che per omaggio al capolavoro assoluto di Michelangelo ripeterà a 500 anni di distanza esatti papa Benedetto XVI.

    Nicoletta Castagni

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    Ansa.it




    Pare essere stato il Creatore ad affidare a Michelangelo il compito di decorare la volta della Cappella Sistina, punto nevralgico per la cristianità, nonché stazione di confine tra il prima e il dopo, tra l’esperienza terrena e il trascendente. E questo accadde nel 1504, allorché, all’interno della struttura, una serie di crepe larghe come saette (forse anche causate dai lavori nel vicino cantiere della Basilica di San Pietro) si presentarono in modo preoccupante nella parte alta della sala, a quel tempo dipinta con un cielo uniforme, punteggiato da stelle dorate. Fu, infatti, a seguito di quell’emergenza,terminati i necessari lavori di ristrutturazione, che Papa Giulio II pensò di affidare al grande artista fiorentino la colossale impresa di dipingerne la volta, seguendo anche il consiglio di Bramante. Anche se, c’è da credere che il grande architetto sperasse malignamente di fare un torto a Michelangelo, suo nemico, sapendolo quasi a digiuno nella tecnica dell’affresco, non fosse che per i primi rudimenti appresi nell’oramai lontano periodo di apprendistato trascorso nella bottega di Ghirlandaio, quando vi arrivò tredicenne.




    Ci mise due anni Giulio II a convincerlo, non solo perché Michelangelo (1475-1564) si sentiva scultore, più che pittore, ma perché aveva capito che accettare quell’incarico avrebbe provocato un punto di interruzione eccessivamente lungo all’altra sua impresa, da poco avviata e a cui teneva moltissimo: la realizzazione, in San Pietro, della tomba del Papa. Cosa questa che, evidentemente, aveva messo nel conto anche Bramante.

    Come poi è andata lo sappiamo. Nel 1508, dieci anni dopo aver scolpito la Pietà, Michelangelo inizia ad arrampicarsi come un geco su quella volta, confondendo la notte con il giorno. E’ però necessario immaginarlo, altrimenti si fa fatica a parlarne: la sua è un’impresa solitaria, in vetta a dialogare con se stesso, misurando i propri limiti (dirà Goethe: “Senza aver visto la Cappella Sistina non è possibile formarsi un’idea di cosa un uomo da solo sia in grado di ottenere”).

    Egli avrà modo di manifestare in piena libertà la propria indole attraverso il segno inciso nell’intonaco ancora fresco, la sapienza prospettica, la ricerca del movimento, la chiarezza del racconto, ma anche, e soprattutto, attraverso la qualità timbrica del colore, con contrasti decisi, talvolta acidi e violenti, i medesimi che verranno fatti loro dai Manieristi, Pontormo e Rosso Fiorentino, in particolare. Di Vasari non occorre dire, se non che rimase folgorato dal suo genio, al punto da scrivere che “il benignissimo Rettore del cielo (…) dispose di mandare in terra uno spirito (capace) di praticare la maniera difficile con facilissima facilità” lodandone il grado di sapienza con la quale riusciva ad unire “la vera filosofia morale, con l’ornamento della dolce poesia” e non meno “nella vita, nell’opera, nella santità dei costumi e in tutte l’azzioni umane era più tosto celeste che terrena cosa”. Quello che per “troppo amore” non capì Vasari è che Michelangelo, anche e specialmente lassù, immerso in una condizione di costante penombra, solo parzialmente rischiarata da qualche finestra o dal bagliore delle torce e dalle candele, non era il mistico che l’autore delle “Vite” aveva idealizzato. Ma, più ancora sorprende come Vasari dia per scontato che Michelangelo si accostasse all’arte con “facilissima facilità”. Era sempre scontento, toccato dal dubbio: lo dice più volte e, quando non lo dice, lo fa capire. La consapevolezza che la sua mano fosse mossa da un talento impressionante, amplifica in lui questo sentimento.




    Sibille e Profeti. La Creazione, la Cacciata dal Paradiso terrestre, la scena con Noè che ringrazia il Signore dopo il Diluvio: volti ed episodi lavorati con una minuzia di particolari che da lontano sarà impossibile cogliere. Michelangelo lo sa, ma, in cuor suo e prima di ogni altra cosa, egli vuole soddisfare se stesso e, pur di riuscirci, si lancia in questa nuova, enorme impresa. Cerca di riassumere all’interno di una sola opera l’illimitata complessità dei sentimenti che accompagnano l’animo umano. Ma, appunto, è nell’avvicinarsi alla perfezione che egli, ancora una volta, pare individuare con crescente nitidezza, i segni della propria sconfitta. Questo gli crea grande tormento e anche qui è annidata la sua grandezza. Non maschera né disperde la sua rabbia, vive le sue contraddizioni: era anche un uomo avaro, scontroso, arrogante, presuntuoso. E’ proprio il sapersi uomo, in costante dialogo con la morte, la più vitale delle sue energie.

    Quattro anni di lavoro. Quattro lunghissimi anni, evitando per quanto possibile ogni interruzione, superando caparbiamente ogni difficoltà , con la testa e le mani verso l’alto e il corpo sdraiato per ore sulla schiena, in bilico sui ponteggi dell’epoca, senza caschetto protettivo, a oltre venti metri dal pavimento, in quella Cappella voluta da Sisto IV della Rovere nel 1473. Progettata con l’intento di ricreare uno spazio combaciante col tempio di Salomone a Gerusalemme: 40,93 metri di lunghezza e 13,41 metri di larghezza, 20,70 di altezza



    Michelangelo: il suo genio, la sua forza, il suo coraggio, trascinano lo sguardo stupito, oltre che ammirato, in un vortice che sentiamo nostro. Ed è bello scoprire con quanta delicatezza e con quanta dolcezza, dopo averci allarmato (mai, comunque, quanto riuscirà a fare un quarto di secolo dopo, con la parete del Giudizio Universale), alla fine ci accoglie e ci consola, quasi ci sfiorasse con le dita dopo aver modificato il nostro modo di vedere le cose.

    Pressato da Giulio II, che temeva di non riuscire a vedere l’opera terminata (morirà meno di quattro mesi dopo), Michelangelo, con venti giorni di anticipo sulla data prevista, darà disposizione di smantellare le impalcature e di togliere i teli sottostanti, tesi a protezione degli affreschi di Botticelli, Ghirlandaio, Signorelli, Cosimo Rosselli, raffiguranti episodi tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento, ma anche per non dare la possibilità né al Papa né a nessun altro di vedere l’opera durante la lavorazione. Era il 31 ottobre 1512, giusto cinquecento anni fa.

    Silvio Lacasella




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  3. gheagabry
     
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    “Senza aver visto la Cappella Sistina non è possibile formare un idea apprezzabile di cosa un uomo sia in grado di ottenere.”
    (Goethe)




    In realtà la Cappella Sistina, costruita su volere di Papa Sisto IV (a cui deve il nome), era stata aperta al culto già nel 1483 abbellita dagli straordinari affreschi di artisti come Botticelli, Perugino, Pinturicchio, Ghirlandaio, Signorelli.
    A causa di una crepa nel soffitto, era però rimasta inutilizzata per molti mesi finchè, conclusi i lavori di messa in sicurezza condotti dal Bramante, la volta aveva ora bisogno di essere ridipinta.
    L’impresa si dimostrava di proporzioni colossali ed estremamente complessa, anche perché Michelangelo era fondamentalmente uno scultore e poco si era esercitato fino ad allora nella tecnica dell’affresco.

    Pur dissuaso dallo stesso Bramante, “Lui non ha fatto troppo di figure, e massimo le figure sono alte e in iscorcio ed è altra cosa che dipingere a terra”, Giulio II decise comunque di affidare l’incarico a Michelangelo.
    L’idea di Michelangelo era di raccontare la storia del mondo fino alla nascita di Gesù, di cui la parte più significativa avrebbe dovuto trattare la storia della Creazione fino a Noè, novello Adamo.
    La teologia rinascimentale che fa da supporto alla volta della Cappella Sistina non è tragica come quella del Giudizio Universale. Il dio della Genesi è infatti dipinto come un eroe magnanimo, che crea dal nulla lo splendore dell’universo, raggiungendo il culmine della perfezione con la creazione di Adamo.

    Costretto a lavorare per parecchio tempo steso sulla schiena col braccio teso in alto e il colore che gli gocciolava in faccia, contrae una serie di malattie e deformità.

    Uno sfrozo immenso di cui dobbiamo essere tutti grati a Michelangelo Buonarroti che ci ha lasciato uno dei più preziosi documenti artistici nella storia dell’uomo, di qualsiasi religione egli sia.

    “Quest’opera è stata veramente un faro della nostra arte, e ha portato tale beneficio e illuminazione all’arte della pittura che fu sufficiente a illuminare il mondo che per molti secoli era rimasto nell’oscurità. E, a dir la verità, chiunque sia un pittore non ha più bisogno di preoccuparsi nel vedere innovazioni e invenzioni, nuovi modi di dipingere le pose, i vestiti sulle figure, e vari dettagli che ispirino un timore reverenziale, perché Michelangelo diede a quest’opera tutta la perfezione che può essere data a tali dettagli.”
    (G. Vasari)

     
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  4. gheagabry
     
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    L'ABBAZIA DI MELK



    L'abbazia di Melk è un'abbazia benedettina che si trova in Bassa Austria, uno dei più famosi siti monastici del mondo. Venne costruita in posizione dominante sulla città di Melk su un promontorio roccioso alto 60 mt, a lato del fiume Danubio.
    Nata come fortezza nel X secolo, fu trasformata in abbazia nel 1089. Dell'edificio originario rimane ben poco, dato che l'aspetto attuale è frutto di numerosi interventi.
    L'elegante facciata bianco-gialla stretta tra i corpi di fabbrica dell'abbazia, le statue che la decorano e le preziose coperture delle sue torri ne fanno una delle più significative testimonianze dell'arte barocca in Europa. Attraversato il parco (un tempo anch'esso barocco, poi risistemato all'inglese), si raggiunge il monumentale portale con cupola ottagonale, fiancheggiato da poderosi bastioni e ornato da statue di santi, dal quale si accede agli ambienti interni.
    Balconate, obelischi, sculture, stucchi e fontane danno luogo a un autentico manifesto del barocco, stile che con la sua opulenza continua negli appartamenti imperiali, oggi adibiti a museo insieme alla lunga galleria. Segue la Marmorsaal, dove la maestria degli artisti che lavorarono alla decorazione è evidente negli splendidi affreschi prospettici. Fa parte del paesaggio culturale di Wachau, un sito classificato come Patrimonio Mondiale dell'Umanità dall'UNESCO.
    Si tratta di uno splendido esempio di lusso e raffinatezza del barocco tedesco. Fu usato magistrale la topografia ed il profilo degli edifici si adattano all' insolito paesaggio. La competenza del suo architetto Jakob Prandtauer ha ridefinito le facciate e interni di edifici più vecchi. Gli interni sono lussuosamente decorate con affreschi, marmi, sculture e dorati. Soprattutto la chiesa e la biblioteca sono notevoli in questo senso.
    L'Abbazia di Melk è stata progettata fin dall'inizio come un opera per la glorificazione di Dio attraverso la bellezza, e l'alto successo di questo desiderio è chiaramente visibile. Le caratteristiche attuali del tempio prendono spunto dalle grandi riforme soprattutto da Dietmayr abate nei primi anni del XVIII secolo, ed eseguiti dall'architetto Antonio Prandtauer e Beduzzi, Johann Michael Rottmayr, Paul Troger, Giuseppe Galli-Bibiena, Lorenzo Mattielli e Peter Widerin. Sull'altare maggiore l'iscrizione coronabitur non nisi legittimo certaveri, può interpretare la sintesi ideale del significato di tutta Abbazia ed è visivamente incarna in statue, in decorazione pittorica e l'architettura stessa.

    L’abbazia di Melk è una meta che incuriosisce anche per essere stata collegata al famoso romanzo e film “Il nome della Rosa” che Umberto Eco scelse come luogo di origine del manoscritto attorno al quale si svolge la trama. Le memorie di un anziano frate, Adso da Melk, raccontano infatti le vicende da lui vissute quando era novizio al seguito di Guglielmo da Baskerville, impersonato nel film da Sean Connery.

    Anche se l'abbazia di oggi ha poco a che fare con quella del medioevo - la forma barocca odierna risale alla completa ricostruzione avvenuta tra il 1702 e il 1736 dall'architetto Jakob Prandtauer - la sua ricchissima biblioteca rimane tutt'oggi una delle parti più famose e più suggestive dell'intero complesso architettonico che costituisce il più grande monastero dell'Austria. La biblioteca dispone di 12 camere, possiede attualmente 1.800 manoscritti medievali e 750 incunaboli, oltre e migliaia di lavori pubblicati dal XVI secolo, per un totale di più di 100.000 volumi, tra teologia, Geografia, Diritto, Storia, lessicali e astronomia, con una sezione speciale di Bibbie. L'interno è magnifico sculture in legno e una scala a chiocciola di grande bellezza, e affreschi allegorici di Paul Troger. Nel 1997 si è scoperto, tra i manoscritti medievali, un frammento di una copia del 1300 del Canto dei Nibelunghi.

    ..la storia..


    Melk è stato un centro importante per le origini dello Stato austriaco. Già nel 996 il primo margravio della regione, Leopoldo I, eretto un castello a Melk a sua residenza, ed i suoi successori accumolarono reliquie e tesori. Il castello è stato dato ai monaci benedettini di Lambach nel 1089, e da allora è stato occupato da loro e adattato come un monastero. Il tempo della fondazione del monastero è stato segnato dalla questione della dotazione, e fiorì nel periodo dopo il Concordato di Worms, quando fu creata una scuola.
    Nel XV secolo il monastero è stato il punto di partenza della Riforma di Melk, una riforma religiosa di grande impatto ispirato da ideali umanistici e che portò ad una più stretta aderenza alla Regola di San Benedetto, che mirava a austerità e disciplina. Durante il prestigio barocco è cresciuta di nuovo, diventando un modello di disciplina benedettina. L'importanza del luogo e il suo abate Berthold Dietmayr questo periodo sono evidenziate dalla sontuosità delle riforme che aveva tenuto tra il 1702 e il 1736. In quel momento l'abbazia sviluppò un'attività significativa anche per la musica e le arti liberali.

    Per questo prestigio, l'abbazia è stata relativamente risparmiata nelle riforme religiose profonde, intraprese dall'imperatore Giuseppe II, anche se ha subito alcune restrizioni amministrative; la scuola fu trasferita a St. Pölten e la sua scuola di teologia fu chiusa. Ha molto sofferto, per il peso di aumentare la sua giurisdizione ecclesiastica, essendo responsabile di 27 parrocchie. La difficoltà peggiorò con le guerre napoleoniche, ma nel XIX secolo vide il primo restauro nella costruzione e potenziamento delle infrastrutture.

    Disturbi nell'economia nazionale hanno portato alla dissoluzione della abbazia alle porte dopo l'Anschluss del 1938, i monaci sono stati minacciati di arresto e l'edificio fu confiscato e trasformato in una scuola. Sopravvissuto a tutto ciò, tornò ad essere un centro di cultura e di spiritualità, di fama mondiale.

    Tra il 1975 e il 2001, il complesso ha subito un importante restauro, e il suo reddito oggi proviene principalmente dal turismo culturale. Ha ospitato importanti mostre d'Arte e di storia, teatro e musica. Ha creato un museo sulla storia dell'abbazia, l'attività didattica è stata ampliata e ha circa 900 studenti di entrambi i sessi, e rimane alla testa e il cuore di 23 parrocchie della regione.
     
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    LA SACRA DI SAN MICHELE



    La Sacra si San Michele, chiamata anche S. Michele della Chiusa è un abbazia piemontese, situata sulla cima dello sperone roccioso del monte Pirchiriano, all'ingresso della val di Susa.
    Il Monastero Nuovo, oggi in rovina, venne edificato sul lato nord e aveva tutte le strutture necessarie alla vita di molte decine di monaci: celle, biblioteca, cucine, refettorio, officine. Questa parte del complesso si trova nel posto in cui probabilmente sorgeva il castrum di epoca romana. Di questa costruzione rimangono ora dei ruderi affacciati sulla Val di Susa: era un edificio a cinque piani, la cui imponenza è manifestata dai muraglioni, dagli archi e dai pilastri. Svetta, su tutte le rovine, la torre della bell'Alda. L'abate Ermengardo, che resse il monastero dal 1099 al 1131, fece realizzare l'opera più ardita di tutta l'imponente costruzione, l'impressionante basamento che, partendo dalla base del picco del monte, raggiunse la vetta e costituì il livello di partenza per la costruzione della nuova capiente chiesa. Questo basamento è alto ben 26 metri ed è sovrastato dalle absidi che portano la cima della costruzione a sfiorare i 1.000 metri di altitudine rispetto ai 960 del monte Pirchiriano. Proprio la punta del monte Pirchiriano costituisce la base di una delle colonne portanti della chiesa ed è tuttora visibile e riconoscibile grazie alla presenza di una targa riportante la dicitura: "culmine vertiginosamente santo" modo in cui amava definire questo posto il poeta rosminiano Clemente Rebora.
    La nuova chiesa, che è anche quella attuale, è stata eretta su strutture possenti e sovrasta le più antiche costruzioni che sono state così inglobate. Questa costruzione dovette richiedere molti anni e il trascorrere del tempo è documentato nel passaggio che si trova all'interno delle campate tra il pilastro cilindrico e quello polistilo e nel variare del gusto che passa dal romanico al gotico sia nelle decorazioni che nella forma delle porte e delle finestre. Il lavoro durò a lungo e fu più volte interrotto a causa delle difficoltà che si incontravano nella realizzazione di un'opera tanto imponente; in particolare richiese molto tempo la costruzione del basamento e delle absidi, che furono costruite per prime con la prima campata sostenuta da due pilastri rotondi. Tutto questo ha comportato, nelle navate, il sovrapporsi di tre tipi di architettura: uno stile romanico con caratteristiche normanne, uno stile romanico che si può definire di transizione ed infine uno stile gotico francese.

    .... storia ....


    Secondo alcuni storici, già in epoca romana esisteva, nel luogo in cui sorge ora l'abbazia, un presidio militare che controllava la strada verso le Gallie. Successivamente anche i Longobardi installarono un presidio che fungesse da baluardo contro le invasioni dei Franchi, facendo del luogo un caposaldo delle cosiddette Chiuse longobarde delle quali rimangono alcune vestigia.
    Le fasi iniziali della nascita della sacra di San Michele sono incerte e avvolte in un'alternanza di storia e racconti leggendari. Lo storico più antico fu un monaco Guglielmo, vissuto proprio in quel cenobio e che, intorno alla fine del XI secolo, scrisse il Chronicon Coenobii Sancti Michaelis de Clusa. In questo scritto, la data di fondazione della sacra è indicata nel 966, ma lo stesso monaco, in un altro passo della sua opera, afferma che la costruzione iniziò sotto il pontificato di papa Silvestro II (999 - 1003), in precedenza abate dell'abbazia di San Colombano di Bobbio. Guglielmo non trascura in verità di considerare la partecipazione agli eventi della fine del sec. X anche di s. Giovanni Vincenzo, la cui iniziale esperienza religiosa sul monte Caprasio, posto di fronte al Pirchiriano, è illustrata in queste due fonti, databili tra la metà e la fine del sec. XI, e ripresa nella Vita sancti Iohannis Confessoris di un anonimo monaco del XII secolo. Con il preciso intento di evidenziare e rilanciare le radici eremitiche della tradizione clusina, si attribuisce infatti a S. Giovanni Vincenzo la nascita di una prima cappella dedicata a S. Michele, eretta sulla sommità del Porcariano ('monte dei porci'), nobilitato per l'occasione in Pirchiriano, in seguito a una miracolosa apparizione dell'arcangelo che gli indicò esattamente il sito.
    Questa costruzione è dovuta alla magnanimità e alla fede di Hugo di Montboissier, governatore di Aurec-sur-Loire, nell'Alvernia. Ottenuto da Arduino, marchese di Torino, il possesso del monte Pirchiriano, questi affidò al benedettino Atverto, già abate del monastero di Saint-Pierre a Lézat, la direzione della comunità. Il carattere aristocratico della fondazione contribuì a determinare il ruolo del monastero, che fu consacrato tra il 988 e il 1002. Lo spirito autonomistico del monastero, manifestato fin dalle origini dagli abati che abbracciarono una politica dichiaratamente filopapale, raggiunse piena soddisfazione con la bolla del 1114 di papa Pasquale II (1099-1118), nella quale si dichiara la completa esenzione del monastero dal controllo vescovile.
    Nei decenni successivi, la struttura dell'abbazia, affidata ai Benedettini, si sviluppò progressivamente dando asilo ai pellegrini e protezione alle popolazioni della zona. Nel XI secolo fu infatti costruito l'edificio della foresteria, staccato dal monastero, e in grado di accogliere i numerosi pellegrini che, percorrendo la via Francigena, vi salivano per trovare ristoro fisico e spirituale. Un grande impulso fu dato dall'abate Adverto di Lezat (diocesi di Tolosa) chiamato da Ugo di Montboissier a dirigere il primo cenobio. Probabilmente l'architetto Guglielmo da Volpiano realizzò il progetto della chiesa posta sopra le tre preesistenti. Il periodo interessato da questo sviluppo è compreso tra il 1015 e il 1035.

    Nel 1381 l'istituzione della commenda, che concedeva ad Amedeo VI di Savoia, vescovo di Torino, il diritto di protettorato sul monastero, cambiò inesorabilmente il destino della potente abbazia, che nel periodo di massimo splendore (sec. 11°-12°) era giunta a ospitare un fiorente scriptorium e una rinomata scuola di grammatica.
    Dopo seicento anni di vita benedettina, nel XVII secolo, la Sacra restò quasi abbandonata per oltre due secoli. Nel 1836 Carlo Alberto di Savoia, desideroso di far risorgere il monumento che era stato l'onore della Chiesa piemontese e del suo casato, pensò di collocare, stabilmente, una congregazione religiosa. Offrì l'opera ad Antonio Rosmini, giovane fondatore dell'Istituto della carità, che accettò, trovandola conforme allo spirito della sua congregazione. Papa Gregorio XVI, con un breve dell'agosto 1836, nominò i rosminiani amministratori della sacra e delle superstiti rendite abbaziali. Contemporaneamente, il re affidò loro in custodia le salme di ventiquattro reali di casa Savoia, traslate dal duomo di Torino, ora tumulate in santuario entro pesanti sarcofaghi di pietra. La scelta di questa antica abbazia evidenzia la prospettiva della spiritualità di Antonio Rosmini che, negli scritti ascetici, richiama costantemente ai suoi religiosi la priorità della vita contemplativa, quale fonte ed alimento che dà senso e sapore ad ogni attività esterna: nella vita attiva il consacrato entra solo dietro chiamata della provvidenza e tutte le opere, in qualsiasi luogo o tempo, sono per lui buone se lo perfezionano nella carità di Dio. I padri rosminiani restano alla sacra anche dopo la legge dell'incameramento dei beni ecclesiastici del 1867.

    ...miti e leggende...


    Si racconta che San Giovanni Vincenzo, nel X secolo, volesse costruire un'abbazia sul Monte Caprasio. Cominciò così a costruire, ma i lavori non andavano mai avanti: ogni giorno posavano le prime pietre della costruzione e ogni notte queste sparivano. Così San Giovanni decise di rimanere sveglio per svelare il mistero. A sorpresa, scoprì che non si trattava di ladri di materiale, ma di angeli. I messaggeri celesti comparivano con il buio e trasportavano le pietre sul monte Pirchiriano. Fu così che San Giovanni decise di costruire l'abbazia dove sorge ancora adesso. Da quel giorno infatti non ci furono più impedimenti "divini" e il santuario fu ultimato.

    Alla "Torre della bell'Alda" è legata una delle leggende più popolari sulla Sacra di San Michele. Si racconta che Alda era una ragazza molto bella, pia e devota. Mentre stava andando al santuario per pregare, venne assalita da dei soldati. Per scappare alla violenza si gettò da una torre del monastero. Precipitò nel vuoto e la sua fine sembrava inevitabile. Ma quel gesto di purezza e sacrificio impietosì talmente tanto gli angeli e la Madonna che la salvarono, facendola arrivare a valle sana e salva. Purtroppo la ragazza si fece prendere dalla superbia, raccontando a tutti di come era stata salvata dagli angeli e di come fosse "protetta" dal cielo. Nessuno le credeva e così, per vanità, la bell'Alda tornò sulla torre e si gettò nel vuoto. Visto il futile motivo per cui la ragazza si era buttata questa volta, non ci fu nessun intervento divino a salvarla e la ragazza si sfracellò a terra. Un modo di dire locale afferma che "l'orecchio fu la parte più grande che trovarono della bell'Alda".

    La Via Michelita o la Via Angelica è un percorso che molti pellegrini percorrevano nel Medioevo. Unisce le Basiliche di Mont Saint Michel in Normandia, la Sacra di S. Michele in Piemonte e Monte Sant’Angelo in Puglia. La leggenda vuole che questa via fu tracciata dalla spada di San Michele durante la lotta contro il demonio. Si creò così una fenditura ancora presente ma invisibile che collega le tre basiliche dedicate a San Michele. Si dice che la Sacra di San Michele in Piemonte si trovi esattamente a metà della Via Michelita, a 1000 chilometri da Mont Saint Michel e a 1000 chilometri da Monte Sant'Angelo in Puglia.
    (www.chiarabunino.blogspot.it)
     
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    "Situato al confine tra Normandia e Bretagna, Mont Saint – Michel sorge, come un prodigio, dalle acque di una baia. Innalzato su un minuscolo isolotto roccioso, è un incredibile giustapposizione di tetti, facciate e guglie: una delle più straordinarie sfide architettoniche realizzate dall’uomo. La sua storia è una successione di periodi di splendori e crisi."


    MONT SAINT MICHEL



    Il piccolo isolotto granitico di Mont Saint Michel sorge sulla costa nord della Francia, appena oltre il confine che dalla Bretagna porta in Normandia, in una radura sabbiosa che si allunga per oltre un chilometro verso l’oceano. È questa l'unica formazione rocciosa all’interno dell’ampia baia di Saint Malo.
    La sua bellezza architettonica, unita alla suggestione della baia e delle sue maree quotidiane, tra le più estese d’Europa, fanno infatti di Mont Saint Michel il luogo maggiormente frequentato della Normandia e della Francia. L'abbazia benedettina fu edificata a partire dal X secolo con parti che si sono sovrapposte le une alle altre negli stili che vanno dal carolingio al romanico al gotico e gotico fiammeggiante.
    La primitiva chiesa abbaziale, costruita al momento della fondazione benedettina nel 966, fu in seguito interamente inglobata nei successivi ingrandimenti dell'abbazia. Altre costruzioni abbaziali sorsero ad est della chiesa originaria, sulla sommità della roccia e ad un livello superiore. Questa chiesa originaria arrivò ad essere del tutto dimenticata, fino alla riscoperta ad opera di scavi effettuati tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. Oggi, restaurata, offre un esempio di architettura pre-romanica.
    A causa dell'intensificarsi dei pellegrinaggi si ingrandì l'abbazia edificando una nuova chiesa al posto di altre costruzioni abbaziali, che furono spostate a nord della primitiva Notre-Dame-Sous-Terre. La nuova chiesa aveva tre cripte, ossia la "cappella dei Trenta Ceri" (des Trente-Cierges) a nord, la "cripta del coro" (o "Cripta dei grandi pilastri") ad est e la "cappella di San Martino" (1031-1047) a sud. L'edificazione della navata fu iniziata dall'abate Ranulphe nel 1060. Nel 1080 tre piani di edifici conventuali erano stati edificati al nord della chiesa primitiva, comprendendo la sala dell'Aquilone, che serviva per l'accoglienza dei pellegrini, la passeggiata dei monaci e il dormitorio. Furono inoltre iniziate l'elemosineria e la dispensa della futura Merveille. La chiesa primitiva di Notre-Dame-Sous-Terre, completamente inglobata nelle nuove costruzioni, era tuttavia ancora utilizzata per il culto.
    Le tre campate occidentali della navata della nuova chiesa, poco solidamente costruite, crollarono sugli edifici conventuali nel 1103. La ricostruzione avvenne sotto l'abate Roger II (1115-1125). L'abate Robert de Torigni (1154-1186) fece edificare a ovest e sud-ovest un nuovo insieme di edifici conventuali, che comprendevano nuovi alloggiamenti, un'infermeria e la cappella di Santo Stefano. Rimaneggiò inoltre i camminamenti che portavano a Notre-Dame-Sous-Terre con lo scopo di evitare i contatti tra monaci e pellegrini. L'abate Raoul-des-Îles (1212-1218) iniziò la costruzione del complesso detto la Merveille ("Meraviglia"), situato immediatamente a nord della chiesa abbaziale. Edificò sull'elemosineria di Roger II la Sala degli Ospiti (1215-1217) e il Refettorio (1217-1220), e al di sopra della dispensa la Sala dei Cavalieri (1220-1225) e il Chiostro (1225-1228).
    Sotto l'abate Richard Turstin (1236-1264) venne costruita ad est la Sala delle guardie, che diventerà il nuovo ingresso dell'abbazia, e una nuova Sala di Giustizia (Officialité, 1257), che costituiscono l'insieme della Belle-Chaise.
    Nel 1421 crollò il coro romanico della chiesa abbaziale, che venne ricostruito in due fasi (1446-1450 e 1499-1523) in stile Gotico fiammeggiante con, deambulatorio a cappelle radiali ed enormi finestroni. Sotto l'abate Pierre Le Roy (1386-1410) si completarono le fortificazioni: verso il 1393 furono edificate le due torri del Châtelet e successivamente la Tour Perrine e la Bailliverie. Furono inoltre costruiti gli Appartamenti dell'abate.

    In seguito ad un incendio nel 1776 si decise di demolire le tre campate occidentali della chiesa abbaziale e nel 1780 fu edificata la nuova facciata neoclassica, le cui fondazioni tagliarono a metà la sottostante chiesa primitiva di Notre-Dame-Sous-Terre. Dopo la classificazione dell'abbazia come monumento storico nel 1874 furono effettuati da Corroyer i primi urgenti lavori di consolidamento e restauro.
    Nel 1896 fu costruita sopra la chiesa una guglia con la celebre statua dorata di San Michele, che raggiunge i 170 m sul livello del mare. Nel 1898 gli scavi di Gout sotto il pavimento della chiesa portano alla riscoperta di Notre-Dame-Sous-Terre, che verrà resa agibile nel 1959.

    Come monastero, Mont Saint – Michel è notevolmente anomalo. Invece di distendersi su una pianta quadrata, con la chiesa a nord, la sua capitolare a est, il refettorio a sud e la foresteria a ovest, presenta al centro la grande chiesa, attorno alla quale si ‘avvolge’ il resto degli edifici. Si tratta di una necessita dovuta all’orografia del terreno, che non consentiva nessun’altra disposizione. Ne nasce un complesso del tutto insolito, che concresce su se stesso, assumendo quel profilo aguzzo e ‘puntato’ che caratterizza in maniera inconfondibile il monastero normanno. La stessa logica vale per le case del borgo ai piedi del monastero, anch’esse disposte ‘a cipolla’ lungo i pendii del monte. Quanto alle fortificazioni, si ‘incistano’ tra case e costruzioni religiose, dando vita a un insieme estremamente pittoresco.

    "Più di una volta gli abati di Mont Saint – Michel dovettero temporaneamente abbandonare la croce per la spada. Talvolta, non si trattò di un dovere ma quasi di un ‘piacere’, o meglio di un eccessivo attaccamento alle vicende terrene. Nel loro insieme, queste necessità e attività belliche finirono per plasmare il volto del monte, con la sua inestricabile commistione di edifici ecclesiastici e fortificazioni."


    …storia…


    Nei pressi di Mont Saint-Michel, la foresta di Scissy, allora non ancora invasa dal mare, era sede di due tribù celtiche, che utilizzavano la roccia per i culti druidici. Secondo l'abate Gilles Deric, uno storico bretone del XVIII secolo, il santuario era dedicato a Beleno, il dio gallico del Sole (Mons vel tumba Beleni, ossia "Monte o tomba di Beleno"). Con l'arrivo dei Romani si vide la costruzione di nuove strade che percorrevano l'intera Armorica: una di queste, che collegava Dol a Fanafmers (Saint-Pair) passava ad ovest del Mons Belenus ("Monte Beleno"). Man mano che le acque avanzavano fu progressivamente spostata verso est, fino a fondersi con la via che passava per Avranches. Il Cristianesimo fece la sua comparsa in Armorica intorno al IV secolo e un primo oratorio dedicato a Santo Stefano, il primo martire cristiano, sorse a mezza altezza del monte, a cui ne seguì un secondo in onore di San Sinforiano, primo martire dei Galli, ai piedi della roccia. Vegliavano sui luoghi degli eremiti, sotto la tutela del curato di Astériac (Beauvoir); il monaco irlandese San Colombano evangelizzatore d'Europa, attorno al 590 avrebbe pregato nell'oratorio di Santo Stefano nel cammino destinato a condurlo a Luxeuil ed infine a Bobbio.
    Il culto di San Michele fu introdotto, nel 708, sul monte Tombe da san Aubert, vescovo di Avranches che vi stabilì un santuario, in suo onore, in seguito ad un sogno. Secondo la leggenda l'arcangelo Michele apparve nel 709 al vescovo di Avranches chiedendo che gli fosse costruita una chiesa sulla roccia. Il vescovo ignorò tuttavia per due volte la richiesta finché san Michele non gli bruciò il cranio con un foro rotondo provocato dal tocco del suo dito, lasciandolo tuttavia in vita. Il cranio di Sant'Auberto con il foro è conservato nella cattedrale di Avranches.
    Nel 966, i conti di Rouen, poi duchi di Normandia allontanarono i religiosi, d’accordo con il papa e diedero il santuario ai Benedettini di San Wandrille. Il Mont Saint-Michel aveva inoltre acquisito valore strategico con l'annessione al Ducato di Normandia della penisola del Cotentin nel 933, venendosi a trovare al confine con il Ducato di Bretagna. I monaci costruirono una magnifica abbazia che gli uomini del Medioevo consideravano come l'immagine di Gerusalemme celeste in terra. Innalzarono, nel XI e XII secolo, un monastero romanico la cui la grande chiesa è situata in cima alla roccia.Durante lo scontro tra il re inglese Giovanni Senza Terra e quello francese Filippo II Augusto, l’abbazia di Mont Saint – Michel si schierò dalla parte del primo. Di conseguenza nel 1204 i francesi si presentarono sotto le mura del monastero, che fu assediato, ma non espugnato. I francesi in ritirata si fecero dello smacco dando fuoco al borgo accoccolato sotto il complesso religioso, sulle pendici dello scoglio roccioso. Le fiamme divamparono con violenza, estendendosi anche sul complesso ecclesiastico. Poiché il costume del tempo ammetteva la conquista di edifici religiosi, ma non la loro distruzione, la Francia pagò al monastero un risarcimento che servì a edificare l’ala abbaziale detta la Merveille (la Meraviglia).
    Furono gli anni più fulgidi del grande complesso. La ricchezza e la potenza di questa abbazia e il suo prestigio come centro di pellegrinaggio durarono fino al periodo della riforma protestante. Un villaggio si sviluppò ai piedi del santuario per dare accoglienza ai pellegrini. L'abbazia continuò a ricevere doni dai duchi di Normandia e quindi dai re di Francia. Durante la guerra dei Cento Anni, il villaggio ai piedi dell’abbazia fu cinto da potenti bastioni. L'eroica resistenza del Monte agli inglesi ne fa un luogo simbolico di identità nazionale.
    Il coro della chiesa crollato nel 1421, fu sostituito, fin dal ritorno della pace, da un edificio gotico. A partire dal 1523 l'abate fu nominato direttamente dal re di Francia e fu spesso un laico che godeva delle rendite abbaziali. In seguito alle Guerre di religione il monastero si spopolò. Nel 1622 l'abbazia passò al ramo benedettino della Congregazione di San Mauro (Mauristi) che vi fondarono una scuola ma tralasciando la manutenzione degli edifici.
    Nel 1791, in seguito alla Rivoluzione francese gli ultimi monaci furono cacciati dall'abbazia, il monastero fu trasformato successivamente in prigione.
    Nel 1794 un dispositivo telegrafico ottico (sistema di Chappe), fu installato sulla sommità del campanile e il Mont-Saint-Michel fu inserito nella linea telegrafica tra Parigi e Brest. L'architetto Eugène Viollet-le-Duc visitò la prigione nel 1835. In seguito alle proteste per la detenzione dei socialisti Martin Bernard, Armand Barbès e Auguste Blanqui. La prigione fu chiusa nel 1863 per decreto imperiale. L'abbazia passò quindi al vescovo di Coutances e venne profondamente restaurata. In occasione del millenario della fondazione, nel 1966, una piccola comunità monastica si è nuovamente insediata nell'abbazia.

    "Nel monastero si stratificano vari edifici in un intreccio stilistico d’insieme che consente di ripercorrere, semplicemente voltando lo sguardo, mezzo millennio di storia dell’architettura."


    MONT SAINT MICHEL
    Tra sabbia e mare...

    di Matteo Liberti



    Fu il vescovo di Avranches, sant’Aubert che consacrò la prima chiesa di Mont Saint Michel. Era il 709 d.C., e tradizione vuole che la decisione fu figlia di tre sogni che il vescovo fece, e nei quali ebbe chiare direttive da parte dell’arcangelo Michele: costruire una chiesa su quella specie di monte marino.
    A corroborar la leggenda di Mont Saint Michel, va sottolineato che la suggestione estetica delle sue maree, la distesa immensa di acqua e sabbia che la contorna, sono anche elementi, da sempre, di forte difficoltà per qualsiasi opera d’ingegneria. Furono in tanti, nei secoli, che tentarono di raggiungere l’isola rocciosa durante i periodi di bassa marea, ma spesso senza altro risultato che non fosse la morte, causata dall’arrivo di improvvise ondate o, più semplicemente dall’impasto di sabbie mobili che caratterizzano la zona.
    In ogni caso, tre secoli dopo l'iniziativa del vescovo, nel 966, giungerà a Mont Saint Michel una comunità di benedettini che inizieranno la costruzione dell’abbazia. I lavori si protrarranno per quasi otto secoli, con continuo perfezionamento (ed ingrandimento) di quella che venne, già nel XIII secolo, considerata una vera e propria Meraviglia, La Merveille, riassumente in se più stili contemporaneamente, dall’arte romana a quella gotica.
    La chiesa preromanica di Mont Saint Michel risale all’anno mille, mentre nel XII secolo furono ampliati gli edifici conventuali posti ad ovest e a sud. Infine, sempre nel XII secolo, un’importante donazione del re francese Filippo Augusto diede il via alla costruzione del complesso in stile gotico. La rocca divenne in epoca medievale un importante centro spirituale e tra i principali luoghi di pellegrinaggio d’Occidente.
    La guerra dei Cent'Anni (XIV e XV secolo) rese poi urgente la protezione dell'abbazia. Ciò avvenne attraverso la costruzione di un complesso di edifici militari. Durante la Rivoluzione francese, quando il sito fu ribattezzato Mont Libre, e poi ancora sotto Napoleone, l’abbazia venne convertita a prigione, per essere poi, nel 1874, affidata alla Soprintendenza alla Belle Arti. Nell’occasione del suo millenario, una comunità monastica tornò sull’isola a rinsaldare la sua storia di centro spirituale.
    In questo stesso periodo Mont Saint Michel fu oggetto di importanti interventi di restauro (iniziati già nel XIX secolo). Oltre all’abbazia sono innumerevoli le strutture presenti nell’isola classificate come rilevanti monumenti storici, mentre l'intero sito fa parte, dal 1979, del Patrimonio mondiale dell'umanità dell'UNESCO. Nel 1987 l’ultimo intervento di rilievo: la posa di una gigantesca statua di San Michele sulla guglia del campanile, ennesimo sforzo di costruzione verticale laddove lo spazio è limitato dal mare.
    Il villaggio che è sorto intorno all’abbazia coltiva oggi una vocazione prettamente turistica, divenuto nel tempo uno dei simboli dell’intera nazione francese, forse simbolo anche (al pari della Tour Eiffel) eccessivamente sfruttato, particolarmente dal lato commerciale. Tutto ciò è stato anche facilitato dalla costruzione, avvenuta alla metà del XIX secolo, di un diga che permette all’unica strada di accesso alla rocca di non venire invasa dalla marea (che però si ferma solo a pochi centimetri da questa, ben coprendo tutta la zona attorno alla strada, parcheggi compresi). La Piramide dell’arcangelo, come viene chiamata dagli autoctoni, resta in ogni caso, ancora oggi, una meravigliosa fusione tra opera umana e opera della natura.(www.instoria.it)


    A Mont Saint Michel storia e leggenda spesso si mescolano. Così accadde, per esempio, per quanto riguarda la posizione insulare del monastero. Nell’VIII secolo, infatti, dove ora si stende la vasta baia ‘anfibia’ (col terreno durante la bassa marea, tutta ricoperta d’acqua durante l’alta marea), che separa il monte dalla costa, verdeggiava una lussureggiante foresta: quella di Scissy. Dai suoi alberi emergevano due ponticelli rocciosi: il piccolo faglione di Tombelaine e il grosso roccione di Mont – Tombe. Quando, dopo l’intervento dell’arcangelo Michele, l’abate Oberto si mise all’opera per costruire il monastero, mandò i suoi delegati all’altro grande convento di San Michele esistente nelle terre cristiane, quello di Monte Sant’Angelo in Puglia. Al ritorno degli inviati, il santuario in costruzione troneggiava non più su una verde foresta ma sui flutti. Per volontà divina, dissero i monaci. Per un bradisismo, affermano gli scienziati.

    La posizione ha contribuito a rendere inespugnabile l’abbazia. Oggi una diga, eretta nel 1877, consente di percorrere all’asciuto il breve tratto di mare che separa Mont Saint – Michel dalla terraferma, ma in passato ci si poteva arrivare solo in barca, lottando contro la potente spinta delle maree. Con la bassa marea era anche possibile camminare sul fondo marino asciutto, col rischio però di sprofondare nelle sabbie mobili o di farsi sommergere dalle acque montanti. Ciò nonostante parecchi tentarono la sorte. Nella città di Bayeux si conserva un arazzo dell’XI secolo sul quale è raffigurata, come su un lungo fumetto, la conquista normanna da parte di Guglielmo il Conquistatore. Una delle scene dell’arazzo mostra i Normanni intenti a combattere, durante un’azione militare in Bretagna, nelle sabbie della foce davanti a Mont Saint – Michel. Il testo latino dice: “Et hic transierunt flumen Cosnonis. Hic Harold dux trahebat eos de arena” - "E qui attraversarono il fiume Cuesnon. Qui il duca Harold li tirò fuori dalla sabbia" .

    Henry Beyle (1783 – 1842), lo scrittore francese noto sotto il più celebre pseudonimo di Stendhal, un anticonformista nato, che volle mostrare la sua ‘originalità’ anche di fronte a Mont Saint – Michel. Infatti, di passaggio ad Avranches, la cittadina che fronteggia, sulla costa normanna, la celebre abbazia fortificata, liquidò il monumento con una sola battuta: “Mi è sembrato così piccolo, così meschino, che ho rinunciato all’idea di andarci”.

    L’abitato si avviluppa intorno alla “grande Rue”, la via principale, un tempo percorsa dai pellegrini che salivano al monastero e oggi costellata di negozi di souvenir. Il percorso si snoda attraverso la Città bassa lungo il pendio del monte, che le mura proteggono dal mare. Il monte è racchiuso da due anelli di fortificazioni: uno sulla costa, a difesa del borgo, e uno più in alto, a protezione dell’abbazia. Se nella Merveille si svolgeva, per cosi dire, la vita ‘interna’ del monastero, l’ala dell’Officialité era riservata alle occasioni ufficiali. Si trovavano qui, infatti, la sala del tribunale, gli appartamenti di rappresentanza dell’abate e del balivo della giurisdizione. Tra gli edifici minori è significativa la ‘cripta dell’Aquilone’, che nonostante il nome non è affatto una cripta, bensì l’antica Sumònerie, cioè la forestiera. La cripta vera e propria è dedicata a San Martino; vi fa riscontro, dall’altra parte della roccia centrale dell’isola, la cappella dei Trenta Ceri, Notre-Dame-des Trente Cierges. Nella vecchia cantina, dove un tempo si distribuivano le elemosine ai poveri, oggi è allestita la libreria del museo. (dal web)
     
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    Il diario avventuroso di un pellegrino medievale

    "Le Mont-Saint-Michel: la storia di un'abbazia e di una regione all'epoca dei grandi pellegrinaggi medievali"


    di Andrea Maugeri

    L'inizio

    San Michele e il drago, sopra Mont Saint Michel. Nell'Apocalisse San Michele è il comandante dell'esercito celeste contro gli angeli ribelli del diavolo, che vengono precipitati a terra.
    Anno del Signore 1352.

    Mi chiamo Gauvain e sono bretone. Ho scritto questo diario per mantenere memoria del mio pellegrinaggio al Sacro Monte. Sono anni difficili per la mia terra. Da poco tempo, 4 anni per la precisione, si è spento l'ultimo fuoco della terribile epidemia di peste che ha decimato le popolazioni delle campagne francesi e ancora, sebbene siano passati 40 anni, la mia terra vive nel terrore di quelle persecuzioni che si sono moltiplicate contro i Cavalieri del Tempio e, prima, contro quei poveri Catari del sud della Francia.

    Viviamo dunque in tempi oscuri. E credo di essere nel giusto se affermo che mai, come in questi momenti, la ricerca della speranza divina sia forte in me come in tutti i miei conterranei. Pertanto ho deciso di percorrere la strada che dalla mia natia casa di Cap Frehel porta all'abbazia. Racconterò qui le vicissitudini che ho vissute durante il viaggio e il mio soggiorno presso quel sacro luogo, fin nei minimi dettagli. Ma prima credo sia giusto che tu, lettore, meglio conosca chi hai avuto la ventura di incontrare leggendo queste pagine. Se porto quel nome che menzionai in inizio di pagina è perché il mio è retaggio nobile. Ho servito in qualità di ufficiale di cavalleria a Nantes, presso il castello dei Duchi di Bretagna, e non solo. Anche io sono stato un Cavaliere del Tempio ed ho subito l'offesa del re Filippo il Bello e del Papa in quei giorni terribili del 1314. Dunque puoi facilmente comprendere che sono vecchio e stanco. E tuttavia ho deciso dedicare le ultime forze che Iddio ha voluto concedermi a questo viaggio che ora mi preme raccontare. E quindi iniziamo dal giorno in cui questa avventura ha avuto il primo momento di vita.

    Era l'alba di un giorno che sembrava cominciare come qualunque altro. Vivevo, allora, in una piccola casa bianca con il tetto di paglia, sulla sommità di una falesia a strapiombo su quell'oceano tempestoso che tante volte ha destato i miei sonni come un incubo nero e tangibile. In cuor mio sapevo che quella era la vera Bretagna; non certo quella di quei rubicondi frati nantesi, a malapena costretti nelle loro tuniche tanta era la loro florida condizione. Quella mattina che sembrava così eguale a quelle che l'avevano preceduta era invece l'alba della mia partenza. Avevo già pronte sulla mia tavola le provviste per il viaggio. Poche cose, del pane, del formaggio, della carne essiccata, una bisaccia di vino e dell'acqua. Guardai il sole sorgere di là del mare. Ora che stavo per partire il suo colore rossastro sembrava diverso da qualsiasi altra alba io avessi visto in passato. Mi voltai verso il mio giaciglio su cui avevo disteso la mia tenuta di viaggio. La indossai con cura. Avevo scelto un cappello nero con dei fregi marroni di cuoio, una blusa verde, una giacca bianca e delle brache di fustagno anch'esse di colore verde. Ai piedi legai delle semplici scarpe di cuoio ormai liso dagli anni con quelle allacciature tipiche dei pastori che salgono fin su al polpaccio e che si legano quasi fin sotto il ginocchio. In un angolo, vicino alla porta di ingresso riposava un bastone alto quasi un metro e mezzo. Era un vecchio ramo d'olivo che il mare aveva trasportato con la sua forza davanti alla mia casa in uno dei suoi frequenti momenti di collera. Chissà da dove proveniva. Sta di fatto che lo intagliai con il mio vecchio coltello da caccia, anch'esso parte integrante del mio equipaggiamento, fino a modellarlo a guisa di quel bastone santo che Mosè impugnava allorché guidò il suo popolo verso la terra promessa. Forse anche io mi sentivo così quando lo strinsi nelle mie mani. Data un'ultima occhiata alla mia vecchia casa uscii sapendo che non avrei voluto più fare ritorno nel mio dorato eremo bretone.



    Mi diressi dunque verso Est, dalla parte da cui sorge il sole, verso la Normandia, la terra di Guillaume, di Guglielmo, il Conquistatore, come lo chiamano al di là del mare. Lì, al confine con la mia Bretagna, si trova l'abbazia di Mont Saint Michel. Pur essendo stato ordinato cavaliere, mai avevo potuto ascendere al monte e venerare l'arcangelo e il Dio Creatore come i miei uffici avrebbero dovuto costringermi a fare. La paura che il mio lignaggio potesse essere scoperto mi impediva di compiere il doveroso pellegrinaggio. Ciò nonostante molto avevo udito di quella santa abbazia di monaci. Di essa dicevano che fosse una prodezza di architettura monastica che si snoda su tre livelli principali attorno alla roccia granitica del Monte. Le cripte e la navata, di quello stile che chiamano romanico, il coro e quella che tutti dicono la "Merveille", la Meraviglia, formavano un vasto complesso la cui bellezza certo era all'altezza della sua importanza per la cristianità tutta. Ai piedi dell'abbazia era un piccolo villaggio con case a graticcio, strette l'una all'altra e abbracciate da una cinta muraria fortificata che tutti asserivano essere costruita sulla sabbia. Vorrò essere maggiormente accurato nella descrizione di quello che si offrì ai miei occhi, che certo superava quanto mi veniva narrato da viandanti e pellegrini. Il Mont Saint Michel e lo scoglio di Tombelaine, situato qualche miglio più a nord, si innalzano al centro di una baia sulla Manche, molto aperta, con una superficie di circa 40.000 ettari. Tre piccoli fiumi costieri, la Sèe, la Se lune e il Couesnon, vi si gettano e vi disegnano maestose anse con la bassa marea. In questa immensa baia, dai confini spesso impercettibili, le maree sono tra le più potenti del mondo. Con l'acqua alta possono raggiungere un'ampiezza di 15 passi ( ca. 15 metri ndA ). Il mare si ritira allora di una ventina di miglia, lasciando scoprire vaste distese di una finissima sabbia di argilla e di calcare, che i locali chiamano la "tangue". Con i flussi il mare si sposta così rapidamente che una leggenda vuole che l'acqua avanzi con la velocità di un cavallo al galoppo. In realtà essa avanza con una media di circa 62 passi al minuto; questa velocità costituisce per i viandanti un pericolo inimmaginabile. Il Monte e Tombelaine, come il monte Dol nella mia Bretagna, sono costituiti da una roccia cristallina resistentissima, la granulite, sorta dal centro della terra, attraversando gli scisti del sottosuolo della baia che si sono a loro volta induriti al contatto. La circonferenza del Mont Saint Michel è di circa 950 passi e la punta più alta si innalza notevolmente al di sopra dei greti. Lo scoglio di Tombelaine ha una base un po' più grande, ma un'altezza inferiore. Questo lo spettacolo si parò davanti ai miei occhi quando giunsi al termine del viaggio che ora, sia pur senza dilungarmi eccessivamente, vorrò raccontare.
    Il viaggio
    Sapevo per la mia esperienza di Cavaliere Templare che il pellegrino viveva terribili traversie pur di giungere alla propria meta. Ed in verità, quelle stesse terribili traversie rappresentavano il necessario processo di espiazione dei propri peccati che ogni viaggiatore doveva affrontare per presentarsi al Monte con animo sereno. Presi dunque la strada che dalla scogliera scendeva verso l'interno. Quasi subito trovai sul mio cammino una specie di carovana, fatta di vecchi, donne, bambini, uomini d'arme e non solo, chi con un mulo, chi con un cavallo, chi con un carro, tutti diretti, mi dissero verso la mia stessa meta. Decisi dunque di condividere con loro il viaggio che mi ero ripromesso di compiere. In massima parte si trattava di povera gente, ma come ho già detto si poteva incontrare anche qualche nobile individuo, riconoscibile dalla tenuta cavalleresca, dai paramenti sacri del cavaliere, quegli stessi paramenti che anche io ben conoscevo. Nonostante questa disparità di tenore sociale, durante il pellegrinaggio si creava uno spirito di comunità itinerante, legate dalle leggi di solidarietà del comune intento. E dunque queste carovane sfidavano il freddo invernale ed il calore estivo, le intemperie ed i briganti che infestavano il cammino, le malattie e gli imprevisti di un viaggio lungo ed estenuante. Tutto sommato potevo dire di avere non poi così tanta strada da percorrere. Vi era chi proveniva dalla Cote Sauvage, da Vannes, da Lorient, da Nantes e chi da Rennes, o addirittura dal sud della Francia e dalle regioni della Piccardia. Alcuni di coloro che viaggiavano con me, avevano in realtà peregrinato per gran parte della loro vita, essendo prevenuti all'adorazione del sepolcro di San Giacomo in Portogallo e della tomba di Pietro in Roma. Ma il Monte, per chi come me era cavaliere, aveva un diverso valore. Per un cavaliere, San Michele è il santo patrono. Ed esiste un altro Mont Saint Michel, proprio in Italia, in Puglia, per l'esattezza; il santuario e la grotta di San Michele, nei pressi del Monte Gargano, presso cui gli uomini diretti in TerraSanta, che proprio dal Mont Saint Michel provenivano, passata Roma, si fermavano per l'ultimo ufficio sacrale prima di tentare la riconquista dei luoghi santi. Molti di coloro che mi camminavano al fianco mi somigliavano nelle vesti e nell'incedere lento, ma costante. Alcuni recavano immagini sacre, altri croci ed altri santi simboli che tenevano stretti al petto, quasi fossero necessarie ancore nel mare magnum del viaggio che essi compivano. La giornata era scandita dai momenti della preghiera, da una religiosità profonda e convinta, quasi ai limiti dell'isteria, ma che tuttavia mi colpì per devozione e convinzione. Non era la fatica del viaggio a stremarli, né la fame li piegava. La forza della preghiera sosteneva i nobili tanto gli umili, in una sorta di mistica coda diretta da voci inaudibili e lontane, il cui forte richiamo essi tuttavia sapevano cogliere nel fischio del vento che spazzava ora i muschi della costa, ora i boschi dell'interno, ora le rocce e le fronde degli alberi. La vita del pellegrino è una condizione difficile. Si consumano pasti semplici, frugali per meglio dire, si riposa in giacigli improvvisati o spesso e volentieri sulla nuda terra; e si vive nel terrore notturno di un attacco di banditi o di belve fameliche nascoste tra i boschi e i cespugli. In una sera come queste un mio compagno di viaggio, un certo Simon, un contadino delle campagne della Loira, mi raccontò la storia del Mont Saint Michel. La riporto interamente. Originariamente il Mont Saint Michel veniva denominato Mont Tombe, dal latino tardo tumba che ha il doppio significato di tumulo e tomba. A partire dal VI secolo vi risiedettero alcuni eremiti cristiani che vi avevano edificato due santuari; uno era consacrato al primo martire cristiano, il diacono Stefano, l'altro era dedicato al giovane martire di Autun, san Sinforiano. L'introduzione del culto di san Michele è riferita da un manoscritto del X secolo, la Revelatio ecclesiae sancti Michaelis. Secondo questo testo basilare, durante una notte dell'anno 708 il vescovo di Avranches, chiamato Aubert, vide l'Arcangelo in sogno che gli ordinava di costruire una chiesa sulla roccia. Dato che sant'Aubert era titubante, il visitatore celeste dovette apparirgli tre volte; la terza volta gli bucò il cranio con il dito! Avendo infine capito il messaggio, Aubert ubbidì. Fece edificare una cappella che era la replica del Monte Gargano, santuario della Puglia costruito all'interno di una grotta nella quale san Michele sarebbe apparso nel 492. Dato che sul monte Tombe non c'erano grotte, Aubert fece realizzare una costruzione grossolana suscettibile di evocare la grotta italiana. Inviò inoltre due chierici in Italia a cercare reliquie. Questi riportarono un frammento del mantello rosso abbandonato dall'Arcangelo sull'altare del monte Gargano e un pezzo del blocco di marmo sul quale era apparso. Per assicurare la permanenza del culto il vescovo di Avranches lasciò sul posto alcuni canonici regolari. Nel periodo di insicurezza dell'epoca merovingia, il fervore dei fedeli per l'Arcangelo tutelare conobbe un rapido sviluppo. Folle di fedeli vennero a porsi sotto la sua protezione sul Monte Tombe, che divenne così uno dei maggiori luoghi di pellegrinaggio della cristianità medievale e fu presto battezzato "Mont Saint Michel". Da questo racconto, tu stesso che leggi queste mie pagine, avrai capito che Simon non era un semplice pellegrino. Egli compiva il santo cammino verso il Monte con la medesima devozione di noi tutti, ma con un elemento che lo rendeva, se possibile, ancora più ardente nella sua fede; era egli stesso un monaco. Volle così proseguire nella sua opera di elevazione della mia cultura, che sebbene notevole visti i miei trascorsi, era tuttavia piacevolmente stimolata dalle nozioni che Simon mi impartiva mentre il fuoco del campo strepitava e qualche scintilla moriva sui verdi prati su cui eravamo seduti.



    Mont Saint Michel, Monastero

    Il monaco Simon vestiva una lunga tunica nera con un cilicio di cuoio e due semplici calzari. Portava sempre il caratteristico cappuccio calato sul viso e gli occhi si vedevano appena. Ma doveva essere un bell'uomo, dagli occhi di un azzurro paradossalmente fiammeggiante. Continuò con voce melodiosa la sua esposizione. Monaco e monastero derivano dal greco "monos" che significa solo. Il monaco è colui che si ritira dal mondo per offrirsi a Dio. Alcuni monaci vivono isolati; sono gli eremiti o gli anacoreti. Altri vivono in comunità come fratelli e vengono chiamati cenobiti. I cenobiti seguono una regola tra le quali la più celebre è quella composta da san Benedetto verso il 534. San Benedetto pone alla guida del monastero un abate, da cui è derivata la parola abbazia. Eletto a vita dai monaci, l'abate deve governare come un padre, nello stesso tempo deciso e misericordioso. I benedettini pronunciano i tre voti tradizionali: obbedienza all'abate, povertà e castità; aggiungendovi quello di stabilità che li impegna a fissarsi in un monastero e a non errare da un luogo all'altro. La spiritualità benedettina è fondata sulla meditazione biblica (lectio divina) e sulla lode di Dio o servizio divino (Opus Dei). Ogni giorno i monaci si recano sette volte in chiesa per pregare: all'alba, di mattina, e poi durante tutta la giornata, alle funzioni di prima, terza,sesta, nona, vespri e compieta. Si alzano anche nel cuore della notte per le veglie. Vanno in chiesa anche per la messa mattutina e per la messa solenne. Oltre la preghiera i monaci lavorano perché la comunità deve provvedere al proprio bisogno. Il motto dei benedettini è semplicissimo : "Ora et Labora". Finite di dire queste parole sorrise e mi guardò negli occhi. Ero sospeso ad osservare il fuoco scoppiettante del campo, intento a ripensare a quella regola che anche noi Templari conoscevamo, quel testo fondamentale che regolava la nostra vita di ogni giorno, nei gesti grandi ed in quelli piccoli, scritta da San Bernardo di Clairvaux. Rivolto che fui verso Simon, gli sorrisi di rimando e gli chiesi donde gli venisse quella conoscenza così approfondita di Mont Saint Michel. Lui dapprima scoppiò a ridere, quasi stupefatto della mia domanda, poi si riprese e mi rispose...che stava tornando a casa.

    Il mattino seguente, durante la marcia, Simon riprese il suo racconto. Nella seconda metà del IX secolo, mi disse, lo sviluppo del centro di pellegrinaggio è stato perturbato dalle invasioni normanne che,tuttavia, non ne hanno interrotto del tutto il funzionamento. Il santuario ha conosciuto in seguito una nuova prosperità quando il Cotentin è stato unito alla Normandia, nel 933. I nuovi signori della regione hanno allora capito rapidamente l'importanza del pellegrinaggio e l'hanno posto sotto la loro protezione. Su richiesta del terzo duca di Normandia, Riccardo I, alcuni monaci benedettini di Fontanelle (l'attuale abbazia di San Wandrille, Seine Marittime, ndA) si stabilirono al Monte nel 966, rimpiazzando i canonici i quali, secondo i loro successori, non menavano più una vita edificante. Da quel momento la nuova abbazia non cessò di prosperare, grazie alla generosità dei pellegrini e alle rendite lasciate al cenobio dai grandi di questo mondo. Agli inizi dell'XI secolo la comunità contava già una cinquantina di monaci; nel corso della seconda metà del XII secolo il loro numero raggiunse presto sessanta, cifra che non è mai stata superata. I monaci innalzarono dapprima durante l'XI e il XII secolo, un'abbazia romanica, che comprendeva una grande chiesa situata sulla sommità del promontorio e in basso – a nord, a ovest e a sud – un insieme di edifici conventuali su tre livelli. Per mancanza di spazio e a causa della configurazione del promontorio, era impossibile realizzare un monastero con costruzioni equamente distribuite intorno al chiostro. Questi edifici non servivano esclusivamente ai religiosi. Essi permettevano anche di ospitare i pellegrini. Probabilmente più che altrove, pur privilegiando il lavoro intellettuale, i monaci non si accontentavano soltanto della preghiera e del lavoro quotidiano, ma accoglievano pellegrini sia umili che potenti, come aveva loro raccomandato san Benedetto. Una parte di questi edifici scomparve nel 1204, quando Filippo Augusto riunì al regno di Francia il ducato di Normandia, le cui sorti erano legate all'Inghilterra dal 1066. Il re di Francia fu aiutato nella conquista da soldati bretoni che incendiarono il Monte. E a queste parole, sollevò lo sguardo verso di me. Quella luce che dicevo più sopra si accese per un momento e mi fulminò, quasi volesse accusarmi di quel misfatto per il semplice motivo del mio essere bretone. Poi proseguì. Filippo Augusto, desideroso di far dimenticare la triste iniziativa dei suoi alleati, non badò a spese per restaurare l'illustre monastero. Infatti quest'ultimo non rimase a lungo in rovina e le residenze distrutte furono presto sostituite dal celebre edificio della "Merveille", la Meraviglia, innalzato in pochi anni, a nord della chiesa. In seguito, edifici comprendenti gli appartamenti dell'abate e sale riservate ai servizi temporali del monastero completarono verso est e verso sud la cinta delle costruzioni che circondano la chiesa.
    I pellegrini e il Mont Saint Michel
    Simon decise dunque di raccontarmi del rapporto tra il monte e i suoi pellegrini. A quanto pare il primo pellegrino noto è un monaco franco chiamato Bernardo, il quale, di ritorno da un viaggio a Roma e al Gargano, si recò al Mont Saint Michel verso l'867 – 868. Il numero dei pellegrini aumenta a partire dall'XI secolo contemporaneamente al moltiplicarsi di resoconti sui miracoli: una giovane di Lisieux sorpresa dai dolori del parto in mezzo alla baia, fu risparmiata dalla marea; una forza soprannaturale impedì ad un'altra donna, in peccato mortale, di salire all'abbazia prima della confessione; un italiano si ammalò per aver portato via una pietra del Monte senza l'autorizzazione dei monaci; un religioso guarì dopo aver bevuto l'acqua nella quale avevano immerso la testa di sant'Aubert; un altro religioso, colpito dalla stessa malattia, rifiutò di bere quest'acqua e morì...



    Come ho avuto modo di dire prima, il gruppo di pellegrini nel quale mi trovo a vivere questa traversata è decisamente animato da un fervore fideistico non comune. Molti di loro rientrano in quelli che al giorno d'oggi sono definiti i "pastorelli", giovani e bambini, molti dei quali sono guardiani di greggi, spinti verso il Monte da una forza invisibile. Tutti questi pellegrini, senza distinzione di condizione, seguono strade convergenti verso il Monte, chiamate i "sentieri del Paradiso". Vi trovano alloggi per la sosta e ospizi per riposarsi e curarsi. Ed ho altresì fatto già menzione del fatto che le strade non erano sempre molto sicure, vi si incontravano spesso briganti che assalivano i pellegrini per derubarli. Una volta giunti al Monte questi ultimi dovevano affrontare anche altri pericoli : nel 1318, ad esempio, tredici pellegrini morirono per soffocamento a causa della folla che si ammassava nel santuario, altri diciotto annegarono nella baia e una dozzina di essi furono inghiottiti dalle sabbie mobili. Un proverbio normanno, mi disse Simon, ricorda ai pellegrini di regolare i propri affari : "prima di salire al Monte fai testamento". Due festività, oltre a quelle per così dire tradizionali, richiamano numerosi pellegrini : l'8 maggio o la domenica più vicina a questa data, in cui si commemora l'apparizione dell'Arcangelo Michele sul Monte Gargano, e il 29 settembre, anniversario della consacrazione del santuario di Roma, dedicato a San Michele nel VI secolo.
    Il villaggio e le mura

    Mont Saint Michel

    Giunti che fummo all'abbazia, il monaco Simon si offrì di farmi da guida. Ecco il resoconto della mia visita al Mont Saint Michel.

    La storia del villaggio è strettamente legata a quella dell'abbazia: è l'affluenza dei pellegrini che ha spinto quei fastidiosi commercianti di icone a stabilirsi sul promontorio. Gli albergatori e i mercanti di cose sacre ( sempre pronti come avvoltoi a lanciarsi sul malcapitato di turno cercando di strappargli qualche moneta di bronzo in cambio di favolose reliquie...) proliferano. Il villaggio si rannicchia dietro le mura formando alla base del Monte uno zoccolo così potente che lo rese inespugnabile per lungo tempo. Le mura furono in gran parte concepite dall'abate Jolivet. Alcuni elementi delle fortificazioni, come la torre Nord, sono anche più antiche delle presenti; la torre nord stessa, cilindrica, appollaiata sullo sperone roccioso, poteva essere assalita soltanto arrampicandosi o mediante un lavoro di scalzamento. Le mura innalzate successivamente sono meno alte, in modo da offrire meno facilmente il destro ad un attacco. Le cortine e le torri sono della stessa altezza e riunite da un sentiero di ronda continuo che permetteva ai difensori di spostarsi rapidamente da un punto ad un altro della fortezza. La configurazione delle torri è studiata per migliorare i tiri di fiancheggiamento. Le torri del Re e dell'Arcade presentano una pianta circolare tradizionale, mentre la torre Beatrix prende la forma di un ferro di cavallo che permetteva una gittata più ampia. La torre Boucle, bastione cilindrico a difesa delle pareti del fossato ovest, è stata realizzata dal luogotenente Gabriel du Puy. L'ingresso alla città era difeso anch'esso da tre porte che costituivano tre ostacoli successivi. La prima, la porta dell'Avenceè è stata aggiunta da Gabriel du Puy; precede un cortile di forma triangolare. La seconda a protezione del rivellino detto del "Boulevard", e la seconda, la porta del Re, sono opera di Louis d'Estouteville. L'unica strada del villaggio è circondata da costruzioni tra le quali sono ancora alcune antiche, come la case dell'Arcade, che fa tutt'uno con la torre dallo stesso nome, l'albergo della Lycorne, con la dipendenza posta a cavalcavia e ricoperta di legno di castagno, l'ostello della Sirena che mostra una di queste nuove facciate a graticcio o ancora il vecchio forno il cui pignone poggia su due archi di granito. Il villaggio dispone anche di un cimitero, ai piedi della chiesa parrocchiale dedicata a San Pietro, diventato il centro del pellegrinaggio di San Michele.

    Tombelaine
    Battuto dai flussi ad ogni alta marea, Tombelaine, mi disse Simon, servì ben presto da rifugio ai monaci del Mont-Saint-Michel che venivano a cercarvi la calma di cui avevano bisogno. Nell'XI secolo, Robert de Tombelaine e Anastasio il Veneziano, due tra i monaci più colti della comunità, vi si ritirarono per qualche anno. Un secolo dopo, Bernard du Bec, abate del Monte, vi edificò un priorato la cui chiesa, dedicata alla Vergine, divenne la meta di un piccolo pellegrinaggio, complementare a quello dell'Arcangelo. Agli inizi del XIII secolo gravi dissensi in seno alla comunità del Monte costrinsero l'abate Jourdain a ritirarsi nel priorato di Tombelaine, dove morì nel 1212.
    Le Mont Saint Michel

    Mont Saint Michel, pianta

    Simon proseguì il suo racconto e la sua piacevole voce accompagnava ciò che i miei occhi esterrefatti avevano modo di vedere. D'un tratto prese a raccontarmi un aneddoto che voglio riportare qui. Mentre sant'Aubert pregava per trovare una sorgente d'acqua dolce, l'Arcangelo gli apparve e gli mostrò ai piedi del Monte, sul lato nord, una fontana, la quale sarebbe stata utile non solo per appagare la sete ma anche per guarire i malati. Questa fonte miracolosa, oggi prosciugata, è servita ad approvvigionare il Monte fino all'installazione di cisterne nell'abbazia. Una di esse, la cisterna dell'Ospizio, fu costruita a ridosso di un edificio destinato al cappellano, da allora soppresso. Si tratta di un elegante costruzione quadrangolare le cui pareti sono ornate su tre lati da archi trilobati e da un fregio a fogliame.



    La chiesa preromanica

    La venerabile chiesa conosciuta con il nome di Notre Dame sous Terre è un luogo di culto modesto, poiché misura soltanto 14 passi per 12; un muro mediano nel quale si aprono due archi a tutto sesto, la divide in due navate gemelle; ogni navata è chiusa ad est da un'abside quadrata sormontata da una tribuna, nella quale probabilmente erano un tempo non lontano esposte le reliquie. Sono assenti le semi colonne verticali che sottolineano solitamente la separazione in campate, così come le fasce orizzontali in pietra; le pareti non presentano alcuna articolazione, l'architettura rimane semplice e robusta, nondimeno le proporzioni restano armoniose. L'edificio doveva essere ricoperto da un intonaco dipinto, di cui è ancora visibile qualche frammento. Le pareti presentano uno spessore notevole e sono costituite da massi di granito squadrato in modo grossolano e posti di taglio; gli archi sono approntati laterizi piatti collegati da uno spesso strato di malta di calce; nei piedritti delle antiche finestre i laterizi si alternano con modiglioni di granito. Tutte queste caratteristiche portano il segno degli edifici del X secolo; si ritrovano in alcuni edifici della stessa epoca in Normandia, di cui i più conosciuti sono Sant Aubin di Viex Pont en Auge (Calvados) e Notre Dame outre l'Eau di Rugles (Eure). Notre Dame sous Terre è stata costruita probabilmente dai primi monaci benedettini verso il 966, durante il regno di Riccardo I, duca di Normandia. La chiesa ha con buona probabilità sostituito l'oratorio eretto da Sant'Aubert nel 708-709. Addossato al promontorio, nel X secolo, l'edificio era aperto su tre lati. Nella seconda metà dell'XI secolo venne trasformato per servire da fondamenta alle prime tre campate della navata centrale della chiesa abbaziale; in quell'occasione fu allungato da ovest e per un terzo della lunghezza da una specie di narcete. In seguito è stato inglobato nelle costruzioni del monastero romanico che lo circondano a nord, ad ovest e a sud.

    La Meraviglia

    La Meraviglia, i cui potenti contrafforti esterni sottolineano lo slancio verticale, è stata edificata fra il 1212 e il 1228 in seguito all'incendio provocato dai soldati bretoni alleati di Filippo Augusto. Diversi motivi ci chiariscono la rapidità della ricostruzione del monastero: da una parte il re di Francia finanziò il cantiere per via del suo interesse nei confronti del santuario; dall'altra, l'edificio preesistente non era stato interamente distrutto dal fuoco e poteva quindi essere in parte recuperato. Ora posso vedere che le mura dell'ospizio e del cellario, nonché le sale del primo livello, sono più antiche delle sale superiori; il piano terra della Meraviglia è in gran parte anteriore ai miei tempi. L'abate Raoul des Iles , artefice principale della Meraviglia, fece costruire prima la parte orientale dell'edificio che ospita dall'alto in basso l'ospizio, la sala degli Ospiti e il refettorio dei monaci; questa superposizione evoca la divisione della società medioevale in tre ordini complementari: quelli che lavorano, quelli che fanno la guerra e quelli che pregano. Raoul des Iles intraprese in seguito la costruzione occidentale dell'edificio, dove si sovrappongono il cellario, la sala dei Cavalieri e il chiostro. L'appellativo Meraviglia per designare queste due costruzioni congiunte, le cui diverse sale rappresentano testimonianze eccezionali dell'architettura monastica medioevale. L'ospizio ha sostituito la sala dell'Aquilone divenuta troppo esigua; i monaci in questa sala di 35 metri di lunghezza, in conformità con le prescrizioni di san Benedetto, incominciarono a provvedere all'ospitalità e al sostentamento dei poveri. Dice la Regola : " particolare cura dovrà essere riservata all'accoglienza dei poveri e dei pellegrini, perché Cristo è ricevuto maggiormente da essi." Una serie di colonne sopporta semplici volte a crociera prive di archi di rinforzo e divide la sala in due navate uguali; i capitelli sono lisci, il loro abaco come la base delle colonne è di forma quadrata. L'accoglienza dei pellegrini rendeva necessarie delle sistemazioni più pratiche: nell'angolo sud-ovest un montacarichi, ricavato nello spessore del muro, permette di far scendere dalla cucina il cibo che i monaci dividono con i poveri. I resti vengono evacuati attraverso due condotte poste nel vano delle finestre nord. Il cellario, più semplice dell'ospizio con cui comunica, è diviso da due ordini di pilastri quadrati in tre navate di dimensioni diverse. Anch'esso è ricoperto da volte a crociera senza archi di rinforzo; qui tuttavia la costruzione appare ancora più rudimentale, poiché le volte poggiano direttamente sui pilastri, senza far ricorso ai capitelli. La straordinaria acutezza delle volte della navata laterale nord si spiega soltanto grazie ad un cambiamento decisivo nei progetti del capomastro. La primitiva pianta del cellario riproduceva quella dell'ospizio: una fila di piloni situati nell'asse del pilastro, che si può ancora osservare vicino alla porta nord, divideva la sala in due navate della stessa larghezza. Questo progetto venne abbandonato quando venne stabilita la disposizione dei livelli superiori, la sala dei Cavalieri e il chiostro. Affinché quest'ultimo non fosse troppo stretto il capomastro decise di sfruttare il pendio del promontorio, allargando l'edificio man mano che si costruiva.
    ………

    due problemi fondamentali affrontati dagli architetti sono stati l'enorme peso che il complesso, studiato originariamente in pietra, gravava sui muri ed il fatto che per avere in cima al monte una superficie sufficiente per ospitare i 70 metri si sono dovute costruire esternamente le fondamenta intorno alla cima del monte.
    Per questo motivo possiamo parlare di "sotteranei" anche in questo caso, avendo l'abbazia numerose cripte e passaggi nascosti sotto di essa.

    La Navata
    Partiamo quindi a scoprire i segreti dell'architettura dell'abbazia dalla navata.
    La chiesa originale aveva sette campate. Quattro di esse avevano come supporto la vecchia chiesa carolingia di Notre Dame sous Terre. Di queste quattro campate oggi ne resta solo più una.
    Come imposto dallo standard delle grandi chiese romaniche della Normandia, l'elevazione era di tre livelli, caratterizzati dalla sovrapposizione di grandi arcate di gallerie reali, di false gallerie e di finestre molto alte.
    Per poter reggere questo peso la soffittatura veninva costruita in legno, elemento decisamente più leggero della pietra, capace quindi di esercitare una spinta più delicata sui muri portanti.
    I due lati della navata sono diversi tra di loro per via di un crollo del lato nord, avvenuto solamente vent'anni dopo il suo completamento. E' stato quindi ricostriuto all'inizio del XII secolo.
    Per questo motivo troviamo i lati costruiti con tecniche diverse. Nel XI secolo l'archiettura è ancora rozza, le grandi arcate ed i trasversali delle navate laterali sono fasciati, ovvero costiuiti da una muratura a secco compressa tra due rivestimenti apparecchiati.
    All'epoca della ricostruzione del lato nord, avvenuta nel XII secolo, gli archi sono interamente apparecchiati, ovvero costituiti da pietre tagliate che non possono spaccarsi come era accaduto adoperando la vecchia tecnica della malta del secolo precedente.
    Gli archi sono inoltre leggermente spezzati al fine di diminuire le spinte laterali per dare più stabilità all'edificio.
    Sebbene la tecnologia ed i progressi, l'architetto del XII secolo non ha osato quanto il suo predecessore. Infatti il muro ricostruito è troppo massiccio, le aperture dei matronei sono decisamente più strette e l'intero lato regge per effetto di massa.
    E' evidente che il lato sud appaia più leggero e le mezze colonne che raggiungono la volta in legno sono incassate nelle costole poste in cima al muro dove si ricongiungono formando dei grandi archi di scarico.
    Nel 1834 la navata venne nuovamente distrutta da un incendio e quindi ricostruita. Molte opere scultoree andarono perse e distrutte, mentre i pochi capitelli originali rimasti, scopliti nel granito sono molto danneggiati.


    Il Transetto

    Il transetto venne costruito tra il 1030 ed il 1048, quindi qualche anno prima rispetto alla navata. Esso è l'unico elemento dell'abbazia che ha come fondamenta direttamente la roccia, dovendo sopportare l'enorme peso del campanile, decisamente troppo massiccio per poter gravare sulle cripte.
    Nel XIX secolo la crociera è stata ricostruita dalla base a terra fino alla cime della punta della cuspide.
    I due bracci del transetto sono però stati costruiti su altrettante cripte.
    A sud su quella di San Martino, oggi ancora intatta. In effetti manca solamente il rivestimento pittorico, ma è ancora conservata l'intelaiatura in legno adoperata per la costruzione della volta, a tutto sesto. I suoi capitelli sono stati realizzati in stile corinzio.
    A nord sulla cripta della Nostra Signora dai Trenta Ceri, modificata in modo non radicale nel XIII secolo. Sebbene siano state costruite con la funzione principale di sorreggere il transetto, lo spazio al loro interno è ampio come quello di una vera cappella.
    Sopra di esse, al piano superiore, i due bracci del transetto vantano volte a botte a tutto sesto.
    Quando nel XIII secolo si decise di creare il complesso della Merveille a nord della chiesa, dovendo fare posto, il pignone del braccio nord venne ricostruito con un grande finestrato gotico.

    Gli edifici

    Gli edifici costruiti intorno al convento non avrebbero mai potuto avere una pianta di forma tradizionale, essendo costruiti sulle cripte sottostanti, che assecondavano la naturalità del promontori.
    Non avendo molto spazio in larghezza gli edifici sono stati sviluppati in altezza. La norma infatti vedeva gli edifici costruiti intorno al chiostro, situato nell'angolo tra la navata ed il transetto.
    Durante la costruzione degli edifici di Mont Saint Michelle si dovette invertire lo schema. Le stanze sono state sovrapposte invece che allineate.
    1° Edificio
    Lungo la parete nord i primi edifici risalgono alla seconda metà del XI secolo ed il più grande di essi si articolava su tre livelli.
    Il primo piano, corrispondente al pian terreno, si trova la cripta dell'Aquilone, dove venivano assistiti i poveri.
    Al piano centrale vi era l'ambulacro, una stanza molto grande adibita a vari usi.
    Comprendeva al piano superiore il dormitorio che comunicava direttamente con la chiesa, per evitare ai monaci di dover passare all'esterno per celebrare le funzioni notturne.
    2° Edificio
    Di questo edificio ne resta solo la metà. Nel XVIII ne andò distrutta un ala, anch'essa articolata su trre livelli.
    Il pianterreno era un prolungamento laerale della cripta dell'Aquilone, a forma di squadra.
    Al piano intermedio vi era un locale, forse la cucina, che aveva accesso all'ambulacro.
    Il senso delle stanze all'ultimo piano è ancora un mistero, infati la parte rimasta in piedi comprende solo i pirmi due piani.
    Esiste ancora una stanza nella quale esisteva l'antica infermeria, comunicante con il dormitorio. Lo spazio sotto ad essa era occupato dalle latrine.

    Il Dormitorio

    In origine era lungo quanto la navata ed insieme ad essa venne accorciato nel 1776. Rimaneggiato e ricostruito, oggi ospita un museo sulla storia di Mont Saint Michelle.
    L'Ambulacro
    E' l'unica stanza degli edifici conventuali ancora risalente al XI secolo. E' posta sotto al dormitorio, divisa in due navate da colonne disposte a lisca di pesce. Il suo nome ci lascia intendere che avessa la funzione di chiostro.
    In origine venne chiusa da una soffittatura in legno e la volta a crociera ogivale sostituì quella a crociera nel XII secolo.
    All'interno del muro partiva un camminamento di ronda, accessibile dall'ambulacro attraverso una porta, che metteva in comunicazione i vari locali.
    Purtroppo il camminamento non è più agibile a causa della distruzione di alcuni edifici romanici.
    La Cripta dell'Aquilone
    Questa cripta ha grandi e pesanti volte a crociera e prende luce da grandi aperture lungo la parete nord che permettevano il passaggio ad un locale sporgente verso un altro edificio, ora andato distrutto.
    Data l'enorme facilità di accesso a questa stanza venne allestito nell'angolo nord ovest un piccolo posto di sorveglianza integrandolo al camminamento di ronda che correva dentro alle mura, il cui accesso era situato nell'ambulacro.



    Gli Ingressi

    Dal XI secolo fino alla fine del XIII l'entrata del monastero era posta a nord ovest degli altri edifici. Giunti al grande cortile si poteva accedere sia al cappellanato sia alla grande scalinata orientata da nord a sud che attraversava tutta l'abbazia passando sotto alla facciata romanica che fungeva da supporto e che conduceva alla chiesa abbaziale.
    In direzione ovest si trovava il tribunale vescovile, posto supra al cortile di entrata.
    Questa era nel XI l'unica sala adoperata per scopi laici. Venivano gestite le proprietà del monastero e tutte le funzioni di potere temporale.
    Al piano superiore si trovava un locale sporgente rispetto all'asse generale, mai costruito del tutto. Avrebbe permesso l'accesso tra il tribunale vescovile e la chiesa abbaziale. La scalinata però non fu mai completata in quanto a causa di molti crolli ed incendi gli architetti dovettero riprogettarne la struttura.
    Dobbiamo ricordarci che per tutto il tempo in cui i monaci vi vissero, Mont Saint Michelle ebbe l'aspetto di un cantiere.
    Dopo il catastrofico incendio del 1204, dopo i crolli della parte nord, dopo ancora l'altro incendio del 1138 fu Robert de Torigny, abate di Mont Saint Michelle, ad operare le più importanti modifiche.
    L'alloggio del portiere e le Segrete
    Il piano immediatamente sottostante a quello costruito sotto alle stanze dell'abate Robert de Torigny era lasciato al portiere come abitazione. Esso è attiguo al monastero attraverso una porta decorata da un arco a sesto acuto incorniciato da due archi a tutto sesto. Essa è una stanza molto piccola e parecchio rimaneggiata nel corso del tempo.
    Al primo piano, invece, esistevano due stanze, le segrete, chiamate "i due gemelli". L'accesso alle segrete era consentito da due aperture nel pavimento. Il frate portinaio era anche carceriere. Sui "due gemelli" si seppe sempre molto poco e le due stanze rimasero avvolte da un alone di mistero. Di certo si sa solo che vennero fatte costruire per volere di Robert de Torigny, il quale, avendo riorganizzato la gestione dei beni del monastero, avrebbe da quel momento anche amministrato la giustizia sulle terre che governava.
    A dispetto di ciò che molti sostengono, i prigionieri dell’Ancien Régime e del XIX secolo, non vennero mai chiusi nei due gemelli. Queste due stanze vennero adoperate solo come celle di isolamento, mentre la prigione vera e propria fu l'intero monastero.
    Gli edifici a Meridione
    Sul lato meridionale, lungo la navata, Robert de Torigny fece costruire alcuni edifici. Il più importante di essi fu quello che crollò nel 1818. Si trattava di una foresteria per il ricovero di pellegrini nobili e di un nuova infermeria per i monaci al piano inferiore.

    La Cappella di S. Stefano
    Più sotto ancora, al piano terreno vi era, ed è, la cappella di S. Stefano, giunta fino a noi, anche se restaurata in modo discutibile. La funzione principale di questa cappella era quella di vegliare sui monaci defunti. Essa poggia ancora su di un muro costruito nel XI secolo a difesa del monastero e durante tutto il XIII secolo venne pesantemente ricostruita.

    L'Ossario e la Grande Ruota
    Dal XI secolo il cimitero del monaci venne trasferito ad un livello inferiore rispetto alla parete a sud della navata dell'abbazia.
    L'abate Robert de Torigny fece costruire al suo posto un ossario con quattro arcate, di cui tre volutamente ribassate per sostenere le rampe superiori. Nel XIX tra due di queste arcate venne inserito un montacarichi per rifornire di cibo la prigione.
    Il principio era quello dei criceti nella ruota. All'interno di una grande ruota in legno entravano i monaci. Camminando in un senso piuttosto che in un altro, una lunga corda veniva avvolta oppure srotolata. Grazie ad uno scivolo il carrello di trasporto poteva correre lungo la rampa.
    Questo buffo metodo veniva adoperato parecchio nei cantieri medioevali ma era già molto ben conosciuto dai romani.

     
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  8. gheagabry
     
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    La storia dell'ABBAZIA di CHIARAVALLE




    La «institutionis paginam» già cita il nuovo nome dell’antico Careto, luogo desolato nella selvosa e paludosa landa padana, ricordandone il titolo di «Colomba». Vorrebbe la leggenda che una bianca colomba avesse delineato con pagliuzze, dinanzi agli occhi dei monaci, il perimetro dell’erigendo complesso religioso. In realtà è probabile che l’intitolazione a «Santa Maria della Colomba» (nome dedicatorio autentico della basilica e del monastero) si riferisca al mistero dell’Annunciazione, armonizzandosi così molto bene con la spiritualità cistercense.
    Questo riporta direttamente alla persona del fondatore San Bernardo, il grande abate di Clairvaux (Claravallis) cui Dante nella Commedia fa pronunciare la celebre cantica «Vergine Madre figlia de tuo Figlio». A S. Maria della Colomba spetta dunque la gloria della filiazione diretta dal grande riformatore della spiritualità dell’«ora et labora».
    La storia di Chiaravalle, almeno quella documentata, risale al XII secolo. Fondata nel 1135 in una località chiamata Bagnolo in loco Roveniano. Il nome di Chiaravalle deriva da quello dell'abbazia francese di Clairvaux, fondata da Bernardo di Fontaines in Borgogna.
    Nel novembre del 1134 giunge a Milano un gruppetto di Cistercensi provenienti da Clairvaux e vengono ospitati dai benedettini di Sant'Ambrogio. Con loro c'era Bernardo, di passaggio a Milano durante il 'giro diplomatico' dedicato al sostegno di papa Innocenzo II (1130-1143), contro il quale fu eletto l'antipapa Anacleto II (? - 25 gennaio 1138). Come il resto dell'Europa, anche l'Italia fudivisa dallo scisma. All'arrivo a Milano di Bernardo, chiamato in Italia da Innocenzo II per partecipare al concilio di Pisa, la sua predicazione risultò evidentemente convincente, poichè il clero milanese depose Anselmo e volle addirittura eleggere come vescovo della città proprio Bernardo, che però declinò l'offerta.

    Bernardo decise di fondare in una zona incolta e acquitrinosa a sudest della città, fuori Porta Romana, una nuova abbazia, che prenderà il nome di Chiaravalle. Lasciò a Milano un gruppo di discepoli, per raccogliere fondi in favore della nuova costruzione. Le terre vennero donate dai milanesi - in particolare il monastero sarà eretto sulla terra di un certo Girardo Agonis - e i lavori per la costruzione dell'abbazia partirono presto: la data ufficiale, riportata da una lapide situata sulla porta che dal chiostro portava alla chiesa, è il 22 gennaio 1135, e già il 22 luglio venne inaugurato un primo edificio, di cui però non è rimasto nulla. Non esistendo alcuna carta di fondazione dell’abbazia, si fa riferimento allapide come il più valido documento.
    Alcuni autori ritengono in realtà che già nel 1134 fosse iniziata la costruzione del monastero e nel gennaio 1135 i monaci vi si fossero insediati stabilmente, a costruzione ultimata, alla presenza dello stesso San Bernardo durante una sua seconda visita. Altri invece pensano che una tale ipotesi sia da escludersi perché in un così breve lasso di tempo (circa sei mesi) sarebbe stato impossibile costruire un monastero di tali dimensioni: quindi la data in discussione è da riferirsi alla posa della prima pietra.

    Solo intorno al 1150-60 venne iniziata, da est verso ovest, la costruzione dell'attuale chiesa, con pianta interna a croce latina con tre navate, transetto aggettante e abside rettilinea, affiancata da un chiostro quadrato su cui si affacciano gli edifici del monastero. Il materiale scelto per la costruzione fu il laterizio, abbondante nella zona. I lavori ebbero inizio dalla orientale della chiesa, con abside e coro, per consentire in breve tempo l'avvio delle pratiche religiose, insieme al dormitorio e agli ambienti comuni per i monaci. Nel 1196 vennero consacrati i primi altari e il 2 maggio 1221 l'arcivescovo Enrico Settala consacrò la chiesa ultimata.
    Tra il secolo XIII e XIV, la proprietà dell'abbazia di Chiaravalle era di 61.986 pertiche milanesi, pari a 4037 ettari, a una distanza dall'abbazia di circa 20 chilometri. Gli antichi statuti dell'ordine cistercense indicano infatti in una giornata di cammino, pari appunto a una ventina di km, la distanza massima tra l'abbazia e le sue proprietà. La terra monasterii vera e propria, circostante il monastero, era di 1300 pertiche.
    A Milano il monastero aveva una propria sede, un edificio presso la pusterla di Santo Stefano, dove stava il frate negotiator quando doveva trattare gli affari economici e commerciali.
    Nel 1444 l’Abbazia, benché benemerita per le grandi attività religiose, scientifiche, letterarie e agronomiche, fu purtroppo concessa in commenda. L’istituto della «commenda» consisteva nell’assegnazione del titolo formale di abate a illustri personaggi, i quali vivevano lontani dal monastero ma ne incameravano le cospicue rendite. Tuttavia il complesso degli edifici si ampliò notevolmente anche dal secolo XVI al XVIII, fino a che due decreti napoleonici, nel 1805 e nel 1810, confiscarono i beni e soppressero l’istituzione. I religiosi vennero allontanati; l’archivio, la biblioteca e gli arredi vennero dispersi. Al 1817 risale il decreto sovrano firmato da Maria Luisa d’Austria, duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla, che cede all’amministrazione degli Ospizi Civili il convento e i beni ad esso connessi ben mille ettari di terreno e i fabbricati
    Sino al 1937 rimase soltanto un’esigua cura spirituale per la gente del luogo nella persona di un abate-parroco del clero secolare, mentre l’insigne monumento fu esposto ad ogni genere di usi e abusi.
    Il 5 maggio 1937 ritornarono a Chiaravalle i monaci Cistercensi provenienti da Casamari nel Lazio.

    Uno dei documenti più interessanti nella storia di Chiaravalle è dato dal Libro de li Prati del Monasterio di Chiaravalle, che risale al 1578. Un'opera preziosa e fondamentale che documenta le operazioni di verifica, ricognizione e misurazione di terre e diritti, ripetute periodicamente e di norma affidate ad agrimensori professionisti, mentre nel 1578 vennero affidate a personale interno dell'Abbazia, che corredò lo studio di schizzi esplicativi e disegni: oggetto dello studio sono i terreni degli immediati dintorni di Chiaravalle, che alimentavano la 'mensa' monastica, e soprattutto il sistema di irrigazione degli stessi.
    La pratica dell'irriguo, peraltro, era già ben radicata fin dal XIII secolo. Bonvesin de la Riva, nel suo De magnalibus Mediolani cita fra le 'meraviglie di Milano' anche "i prati, ben irrigati da fertili fiumi e dalle acque di infinite fonti fornendo una quantità incalcolabile ottimo fieno", sottolineando che nel contado di Milano i prati sono così tanti che ogni anno fornivano più di 200.000 carri di fieno. E tra i maggiori produttori ricordava "il monastero di Chiaravalle, da solo raccoglie ogni anno nei propri prati più di tremila carri di fieno, come mi assicurano i monaci che vi abitano".
    All'inizio del XIV secolo, la terra monasterii doveva aver ormai superato le 5.000 pertiche, pari a circa 327 ettari, in parte servite da una rete irrigua in continuo potenziamento. L'irrigazione consentiva non solo di aumentare la quantità di fieno prodotto, ma anche di migliorarne la qualità. La coltura dell'irriguo era infatti collegata al mercato ma consentiva anche il potenziamento dell'allevamento di bestiame bovino ed equino, dando vita a un sistema misto che integrava l'allevamento stanziale alla vecchia pratica del pascolo brado.
    Nel 1722, nell'ambito di un'inchiesta preparatoria per attuare nella Lombardia austriaca il catasto cosiddetto di Maria Teresa (1717-1780), risultò che la superficie totale della comunità ammontava a 10.000 pertiche, pari a 654 ettari. Nel borgo esistevano una ventina di case da massaro, in gran parte di proprietà del monastero, due mulini e un'osteria.
    Nel 1751, in occasione di una nuova inchiesta delle autorità austriache che governavano Milano, risultava che il comune, con annesse le frazioni di Grancie e Bagnolo, appartenesse alla pieve di Dan Donato, che gli abitanti complessivi fossero circa 800 e che l'estensione totale della comunità fosse di 9840 pertiche, quasi tutte di proprietà ecclesiastica, in gran parte dei monaci di Chiaravalle. Nel 1771, da una nuova rilevazione risulta che gli abitanti sono scesi al numero di 612: 206 uomini, 184 donne e 155 bambini, oltre a 3 preti e 39 frati, di cui 28 sacerdoti e 11 laici.
    Anche Chiaravalle subisce, come tutte le istituzioni religiose, la spoliazione seguita all'espropriazione dei beni da parte della Repubblica Cisalpina nel 1798.
    Nel 1805 la comunità di Chiaravalle entra a far parte del Dipartimento dell'Olona cantone III di Milano, con una popolazione di 740 abitanti. Nel 1853 entra a far parte del Distretto II di Milano, nel 1859 entra invece a far parte del Mandamento XII di Locate.
    Nel 1860-1861 il monastero subisce la distruzione di molti edifici a est dell'abbazia: in particolare vengono demoliti o sventrati il chiostro grande bramantesco, il noviziato, il dormitorio, la casa dell'abate, la sala capitolare e parte delle cappelle del cimitero, per far posto alla costruzione della linea ferroviaria Milano-Pavia-Genova, che ancora oggi corre a pochi metri di distanza.
    Tra il 1894 e il 1898, l'Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti riscatta l'edificio dai privati che lo abitavano e ne avevano fatto scempio e dà l'avvio a un restauro generale del monastero, sotto la direzione dell'architetto Luca Beltrami.
    Nel 1923 il borgo di Chiaravalle entra a far parte della giurisdizione del comune di Milano. Il 1° marzo 1952, per interessamento del Cardinale Schuster, tornano a Chiaravalle i monaci Cistercensi e ricomincia la ricostruzione del monastero secondo le connotazioni odierne, con interventi di restauro, tra il 1958 e il 1965, diretti dall'architetto Ferdinando Reggiori.
     
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    « Structura si grande, erta sopra è cieli,
    ampla da coprire chon sua ombra tutti e popoli toscani. »
    (Leon Battista Alberti, De pictura)



    LA CUPOLA DEL BRUNELLESCHI



    Una delle imprese costruttive più significative dell'intero Rinasci-
    mento è certa-
    mente l'edi-
    ficazione, per opera di Filippo Bru-
    nelleschi,
    della cupola sovrastante la cattedrale di Firenze. L'opera, iniziata nell'estate del 1420, fu completata (lanterna esclusa) nel 1436. Il tamburo, di forma ottagonale, su cui avrebbe dovuto poggiare la cupola, misurava circa 43 metri di ampiezza e si trovava a 55 metri di altezza. La Cupola si erge su otto spicchi, "le vele", organizzati su due calotte separate da uno spazio vuoto, forma studiata senz'altro per alleggerire la struttura che altrimenti sarebbe stata troppo pesante per i quattro pilastri sottostanti. Ci sono stati molti dubbi e studi nei secoli, sulla resistenza della cupola, ma la sensazione che si ha oggi, ammirando questo capolavoro dell'arte, è di sostanziale equilibrio e proporzione tra le sue parti. L'elevazione totale dell'intera struttura, compresa la palla dorata e la croce che la sormontano, è di circa 117 metri: la lanterna è alta 21 metri, il tamburo 13 e la Cupola circa 34 metri.
    Sulla costruzione della Cupola del Brunelleschi sono state avanzate diverse ed innumerevoli ipotesi, anche relative alle ispirazioni che il maestro avrebbe preso per la sua realizzazione, dalla città eterna, o dal Medio-Oriente. In realtà l'architetto non aveva alcun riferimento tecnologico per risolvere il problema della costruzione di una cupola a spicchi, ma dovette inventare ex novo il procedimento costruttivo in tutta la sua meccanica. Infatti, tutte le altre cupole che si è cercato di proporre come modelli del Brunelleschi, o erano cupole autoportanti o centinabili, mentre quella di Santa Maria del Fiore, non permettendo nessun tipo di espedienti, si è imposta come un assoluto unicum nella storia dell'architettura.


    "Pane, melone e Trebbiano a 42 metri di altezza, Il 7 agosto 1420, gli scalpellini e muratori della chiesa di Santa Maria del Fiore, a Firenze, celebrarono così lo storico momento: dopo mezzo secolo di progetti e ripen-
    samenti, stavano per comin-
    ciare la costruzione dell’enorme cupola. Appollaiati sul tamburo ottagonale su cui sarebbe sorta l’enorme copertura, potevano vedere ai loro piedi, disseminati ovunque sulla piazza antistante, parte dei materiali che sarebbero serviti: 100 abeti di 6 metri ciascuno, il primo dei mille carri di pietre previsti e decine di travi in arenaria.
    Nessuno di loro sapeva in che modo avrebbero tirato su l’ultima parte del Duomo, la più larga e alta cupola mai costruita fino ad allora. Nessuno, tranne il capomastro Filippo Brunelleschi. Lui almeno una vaga idea ce l’aveva. Per il resto era solito dire che “la pratica insegna quel che si ha a seguire”. La sua fu una sfida alla statica, alle conoscenze tecniche dell’epoca, alla architettura medievale che grazie a lui spalancò la porta al Rinascimento; ai pregiudizi, alle critiche e alle rivalità personali di committenti e colleghi. E, anche se gli ci vollero più di 15 anni, l’architetto, scultore e orafo fiorentino ne uscì vincitore.

    Era un’impresa in cui si era cimentato, almeno con la fantasia, fin da piccolo, quando da casa sua poteva osservare il cantiere della cattedrale. La prima pietra del Duomo era stata posata nel 1296, 81 anni prima della sua nascita: “I fiorentini avevano abbattuto intere foreste per ricavare il legname delle travi, raso al suolo un quartiere, due chiese e spostato le sepolture intorno al battistero di San Giovanni per far posto a quella che doveva diventare simbolo economico, più che religioso, della grandezza di Firenze” Scrive Ross King nel saggio “la cupola di Brunelleschi”. La nuova cattedrale crebbe per più di un secolo, con quel buco enorme sopra l’altare, come una vecchia rovina. Tutti erano concordi: la cupola era il maggior ostacolo alla costruzione, un gigantesco rompicapo architettonico apparentemente senza risposta.
    Nell’estate del 1418, quando ormai al Duomo nono mancava altro che la Cupola, il problema non poteva essere ignorato: l’Opera del Duomo, amministrata dai membri dell’ Arte della Lana, la corporazione più potente di Firenze, bandì un concorso per trovare la proposta migliore. Di tutti i progetti presentati, il più ardito era sicuramente quello di Brunelleschi: il geniaccio toscano sosteneva infatti di poter fare a meno della centina. “Ma quando la commissione chiese i dati tecnici di quel progetto formidabile, lui non parlò” continua King. Brunelleschi aveva 41 anni, alto un metro e mezzo, calvo e aveva l’aspetto arcigno e trasandato, non brillava per charme e neppure dimostrava particolare simpatia per il genere umano. Amava lavorare per conto proprio e, cauto e malfidato, non divulgava mai i particolari dei suoi progetti e delle sue invenzioni. Non solo: quando prendeva appunti lo faceva usando codici segreti, temendo che qualcuno potesse rubagli le idee. Perciò non volle sbottonarsi neppure in quell’occasione ma, racconta il Vasari, riuscì a vincere la diffidenza della commissione con un gioco d’ingegno: convinse i membri ad affidare il lavoro a chi fosse stato in grado a far stare un uovo dritto su un piano di marmo e, quando tutti i rivali fallirono, ruppe il guscio alla base e lo mise in piedi (un aneddoto attribuito anche a Cristoforo Colombo). “ Ci saremmo riusciti a farlo anche noi!” si lamentarono gli altri. “ Avreste saputo anche come risolvere il problema della cupola, se aveste conosciuto i miei piani” avrebbe risposto lui, vincendo l’appalto.
    Il realtà, la giuria indecisa scelse si il progetto di Brunelleschi, ma gli affiancò in cantiere l’eterno rivale Lorenzo Ghiberti, nominandoli entrambi capomastri e dividendo fra loro l’unico magro stipendio. Sempre più irritato, nel 1423 Brunelleschi di diede malato proprio all’inizio di una delicata fase delle costruzione: Ghiberti mostrò la propria incapacità di fronte a complessi progetti del collega che, rimessosi miracolosamente, lo umiliò senza pietà. Simulazione o no, il malanno giovò al progettista della cupola: entro l’anno venne infatti nominato “ inventore e governatore capo cupola”, anche se , di fatto, il vero “capo” era sempre stato lui. Il pignolo architetto che sovraintendeva persino alla produzione dei mattoni e alla scelta delle pietre e dei marmi, non arretrava mai davanti ai problemi ma, come fosse una questione personale, trovava le soluzioni da solo, senza dar retta a nessuno. In questo modo si tirò addosso il rancore e l’astio dei colleghi “demansionati”, ma contribuì a dar vita alla figura dell’architetto moderno, distinto dal capomastro e con ruolo importante sia nella fase progettuale che in quella operativa.
    Il risultato gli diede ragione: metro dopo metro, con genio e decisione, riuscì a tenere in piedi ad altezze spettacolari e con angolature impensabili, quell’agglomerato di pietra, legno, 4 milioni di mattoni e malta, dal peso stimato di 37mila tonnellate. Per farlo adottò una struttura usata per lo più nell’architettura islamica: doppia calotta, una esterna e una interna, ciascuna divisa in verticale da otto vele. La cupola esterna serviva a dare slancio all’edificio e proteggere la cupola interna. Il sostegno, invisibile, lo diedero i mattoni montanti a spina di pesce e gli archi verticali inseriti nello spesso spessore delle calotte, ma soprattutto quattro catene di arenaria sovrapposte a catena di ferro, sistemate intorno alla struttura come i cerchi intorno alla botte.
    A espedienti così innovativi facevano da pendant i macchinari futuristici per metterli in pratica, ideati dallo stesso Brunelleschi per sollevare a più di 50 metri o riportare a terra i pesantissimi materiali da costruzione, progettò un enorme argano azionato da buoi. Composto da ruote dentate e alberi cilindrici (soluzioni ereditate, secondo alcuni, dal suo passato di orafo), funzionava grazie alla fune più lunga, resistente e pesante mai uscita dai cantieri navali di Pisa: 182 metri per più di 450 chili di peso. Il cosidetto “castello” serviva invece a spostare lateralmente e posizionare con precisione travi e altri elementi. “Era una specie di gru, in cima alla cupola in costruzione: chi la manovrava, in piedi su una piccola piattaforma nel punto più alto del macchinario, occupava il posto più pericoloso di tutto il cantiere” spiega King. Nonostante le altezze e i pericoli, grazie alle trovate di Brunelleschi, la cupola costò solo una vittima.

    Brunelleschi fece installare tavole di sicurezza intorno agli stretti ponteggi in vimini e creò un sistema per schiarire il buio dei 463 gradini che centinaia di muratori, scalpellini e fabbri dovevano salire e scendere tutti i giorni per raggiungere il tamburo della cupola. Stabilì inoltre che chi lavorava nei punti più alti avrebbe bevuto vino diluito con un terzo d’acqua e vietò l’uso dei montacarichi per trasportare attrezzi o persone nel caso qualcuno avesse voluto cimentarsi nella caccia del piccione, un passatempo con cui spesso i muratori imbandivano la tavola a cena. Non si lasciava però troppo intenerire: nel 1426, quando le maestranze scioperarono per ottenere uno stipendio più alto, licenziò tutti e li sostituì con i lombardi, meno esosi. I muratori tornarono a testa bassa, chiedendo di riavere il posto e lui li riassunse: pagandoli però meno di prima.

    Ma gli scontri con il duca di Milano e la guerra con Lucca (1429) stavano impoverendo la Signoria e anche il cantiere del Duomo ne risentì: i tempi di costruzione si allungarono e la cupola non era ancora del tutto ultimatail 30 agosto 1436, quando venne consacrata. Assiepati sui tetti, i fiorentini emozionati videre l’arcivescovo di Fiesole, Benozzo Federighi, posare l’ultima pietra, accompagnato dal suono di trombe, pifferi e campane. Brunelleschi visse abbastanza per cominciare a metter mano nel marzo del 1446 al progetto della lanterna, ma morì un mese dopo, nella notte fra il 15 e 16 aprile."
    (Maria Leonarda Leone, articolo di Focus storia, maggio 2014)
     
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    La Cupola del Brunelleschi su National Geographic

     
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    IL MONASTERO DI TORBA



    Il monastero di Torba si trova a Gornate Olona, nella località di Torba, alle pendici di un’ altura su cui è situato il parco archeologico di Castelseprio. Comprende sette luoghi densi di testimonianze architettoniche, pittoriche e scultoree dell'arte longobarda, è stato iscritto alla Lista dei patrimoni dell'umanità dell'UNESCO nel giugno 2011.

    ...storia, miti e leggende...



    Il primo nucleo, il castrum fu costruito dai romani nel III secolo d.C. per difendere l'Impero romano dalle invasioni barbariche che provenivano dalle Alpi. La zona del fiume Olona dove sorge Torba, detta Sibrium, in età romana costituiva un luogo di importanza strategica sia per l'approvvigionamento delle acque, sia per la posizione lungo un asse fondamentale di comunicazione transalpino.
    Il castrum venne utilizzato nei secoli successivi anche da Goti, Bizantini e Longobardi. Fu proprio durante il lungo periodo della pax longobarda che il complesso di Torba, perdendo il suo scopo militare, acquisì una funzione civile e, in seguito, religiosa, grazie all'insediamento, nell'VIII secolo, di un gruppo di monache benedettine che fece costruire il monastero e che aggiunsero all'edificio originale i locali che ospitavano le celle, un refettorio e una sala di preghiera, oltre a un portico a tre arcate e, nell'XI secolo, una piccola chiesa intitolata alla Vergine. Durante l'epoca franca il Seprio divenne sede di un contado, acquisendo così anche una funzione agricolo-produttiva; nei secoli successivi il sito divenne terreno di scontro fra alcune delle più potenti famiglie milanesi, in particolare tra i Della Torre e i Visconti nel XIII secolo: nel 1287 Ottone Visconti, per eliminare ogni traccia dei rivali, ordinò l'abbattimento di tutto il castrum, ad eccezione degli edifici religiosi che all'interno dei quali era nel frattempo stata inglobata anche la torre romana.
    Le prime testimonianze scritte risalgono al 1049, dai documenti conservati è possibile ricostruire la storia del monastero. Ristabilito l'ordine, molte famiglie nobili si avvicendarono per dar incarico di badessa a una persona della propria stirpe, La famiglia Pusterla trasferì le monache a Tradate, nel 1482, lasciando la cura della terra a massari. Iniziò quindi il cosiddetto "periodo agricolo" del complesso, finché, in epoca napoleonica, nel 1799, con le soppressioni degli ordini religiosi Torba perse definitivamente lo status di monastero. L'intera costruzione venne riadattata alle mansioni agricole: il portico venne murato, l'entrata della chiesa ampliata e trasformata in magazzino per carri e attrezzi e tutti gli affreschi vennero coperti da un nuovo intonaco.
    I secoli successivi furono contrassegnati da numerosi passaggi di proprietà, fino al 1971. Dopo anni di incuria e abbandono, il complesso venne acquistato nel 1977 da Giulia Maria Mozzoni Crespi che lo donò al Fondo Ambiente Italiano, il quale ha provveduto a ristrutturarlo.

    La chiesa di Santa Maria venne costruita in diverse fasi tra l'VIII e il XIII secolo, utilizzando pietre di origine fluviale, raccolte dalla vicina Olona e legate tra loro da sabbia e calce. Al proprio interno ingloba parti di un precedente edificio ecclesiastico: all'interno della chiesa sono infatti ben visibili i resti di un campanile a pianta quadrata presente antecedentemente alla costruzione. La muratura esterna dell'abside, a ciottoloni, è scandita da quattro lesene che delimitano cinque campiture entro cui sono state ricavate monofore strombate. Il perimetro superiore è decorato con archetti pensili in cotto, che creano un interessante gioco cromatico, caro al romanico lombardo. All'interno della chiesa sono poi state rinvenute alcune tombe e una cripta ad ambulacro, riferibile all'VIII secolo, cui si accede da due scale di pietra poste sulle pareti laterali. Di originale forma rettangolare venne in seguito ampliata durante i secoli XII e XIII tramite l'inserimento della parte absidale, eretta con tufo e mattoni. Per restituire il volume originario degli interni, sopra la cripta è stato posizionato un soppalco removibile in legno. I restauri del FAI hanno riportato alla luce anche i grandi archi del portico del corpo del monastero, impostato sulla spina romana della muratura di Castelseprio, è ancora visibile, all'interno del refettorio, il grande camino originario.

    La torre, con funzione di avvista-
    mento all'interno del sistema difensivo romano, fu la punta avanzata verso il fiume Olona, e rappresenta una delle poche testimo-
    nianze rimaste nel nord Italia di architettura romana difensiva del V-VI secolo. Costruita con materiale tratto dalla demolizione di complessi cimiteriali romani, essa è caratterizzata da una struttura possente, ma slanciata. I muri perimetrali infatti si assottigliano progressivamenti dalla base, profondi circa 2 m fino alla copertura della torre, con lo spessore di circa 85 cm, creando una serie di gradini (detti "riseghe") visibili sia all'interno che all'esterno della struttura architettonica, alta più di 18 m. Gli angoli dei muri a valle sono inoltre rinforzati da contrafforti. Gli interni della torre rivelano in modo più evidente la complessa storia dell'edificio: al primo piano infatti, accanto alle finestre a feritoia di epoca militare, figura una finestra ogivale del XV secolo. Gli affreschi conservati sulle pareti e gli incavi ricavati nella muratura testimoniano come, in epoca longobarda, questa stanza fosse adibita a sepolcreto delle badesse della comunità. Sono ancora leggibili la figura di una monaca che riporta nell'iscrizione il nome tipicamente longobardo di Aliberga, e una croce con l'alfa e l'omega sui bracci orizzontali. Fra i materiali reimpiegati per la costruzione del piano spicca una lapide romana in marmo con il rilievo di un elmo crestato.
    Tra l'VIII e l'XI secolo il secondo piano fu adibito a oratorio dalle monache, come testimonia la presenza dell'altare, oggi perduto, e delle raffigurazioni a carattere religioso delle pareti. Sulla parete est vi è una rara testimonianza di velario.

    Pier Giuseppe Sironi, nel suo I Racconti di Torba (1994), riporta una leggenda per la quale, un tempo, un brigante si insediò a Torba, scacciando chi vi abitava e iniziando a depredare i paesi circostanti; a nulla valsero gli interventi di vari mercenari ingaggiati dalla popolazione, e lo stesso conte del Seprio perse la vita duellando contro l'invasore. Una giovane donna di nome Raffa escogitò allora uno stratagemma: si fece trovare dal brigante a fare il bagno nell'Olona e, quando questi la portò nel suo covo, lo accecò con del sale e prese a picchiarlo con un randello; l'uomo, tuttavia, resistette ai colpi e inseguì la ragazza fino in cima alla torre, ove lei lo avvinghiò e si buttò nel vuoto con lui. Il brigante perse la vita, mentre Raffa si salvò miracolosamente, e fece erigere presso la torre stessa una piccola cappella dedicata all'arcangelo Raffaele, ritenuto il proprio salvatore.
    Il Sironi, nella notazione alla fine del racconto, dice che una chiesa dedicata a san Raffaele è segnalata per Castelseprio nel Liber Notitiae Sanctorum Mediolani (cioè alla fine del XIII secolo), della quale però non si è mai avuta altra notizia. Nella mappa del Catasto Teresiano (datata al 1722), tuttavia, una chiesa di San Raffaele è indicata esattamente nel luogo di Santa Maria di Torba, che nello stesso foglio è al contrario ignorata. Esiste dunque il dubbio che la vera dedica di quest'ultima sia stata in origine all'arcangelo, e che la stessa sia andata in quasi obsolescenza dietro l'uso corrente di denominare il luogo con il nome di Santa Maria, posseduto dal monastero cui la chiesetta finì per appartenere. In questo modo, dice sempre il Sironi, la leggenda di Raffa potrebbe essere in parte capita, con qualche incongruenza storica, dato che in quel periodo,forse le monache ancora non erano apparse a Torba.

    Le monache senza volto. Nella parete ovest della Torre vi è l'affresco più bello, significativo e misterioso, un gruppo di otto monache in processione con sopra le loro teste otto sante, che si è sempre pensato fossero le protettrici delle stesse monache, oppure che fossero direttamente le stesse monache riportate nella visione celeste. C'è però un particolare che balza immediatamente all'occhio e cioè che tre di loro sono senza volto. Sono state fatte diverse supposizioni a riguardo, tra le quali, la più plausibile è stata quella in cui si ritiene che la scomparsa sia dovuta alla forte umidità del luogo che ha contribuito alla perdita dei lineamenti. Ma gli altri volti non sono scomparsi totalmente, e si presentano come un ovale perfetto, privo di qualsiasi traccia di pigmento. Una leggenda racconta che mentre veniva realizzato l'affresco, tre monache si allontanarono dal monastero per fatti ignoti, lasciando così incompleti i ritratti, vuoti, nell'attesa di essere completati con l'eventuale arrivo di nuove monache, ma ciò non accadde, perchè il luogo fu abbandonato. Le tre monache "senza identità" morirono nel corso degli anni e dato che non era stato completato l'affresco con le loro corrispettive immagini, si dice che i loro spiriti stiano vagando per i campi di Torba nel tentativo di rientrare nel dipinto. Il giorno in cui ci riusciranno, avranno un'identità e potranno finalmente accedere al Paradiso.

    Nella torre campanaria, che un tempo si trovava all'esterno, resta una figura mefistofelica e un personaggio dal nome di Gioachino, per l'iscrizione Kim.
    Al centro della cripta vi è una pietra molto particolare, quadrata con un inserto rotondo, la sua funzione è ignota e non si sa se è semplicemente una base di una colonna o se fosse stata utilizzata quale pietra sacrificale.
     
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    La cappella di ROSSLYN

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    La cappella gotica medievale di Rosslyn, nota anche col nome di cappella di San Matteo, è situata a Roslin, nel Midlothian, vicino ad Edimburgo in Scozia. Il piccolo villaggio di Roslin si trovava vicino all’antica Precettoria Templare di Ballantrodoch, oggi conosciuta come Temple. La cappella fu costruita su un luogo di culto druidico dedicato a Saturno. Il nome Rosslyn in gaelico significa “antica conoscenza” ovvero “un sapere tramandato da generazione a generazione”

    Per la sua costruzione furono chiamati in Scozia i migliori scalpellini e architetti. Ogni scultura di angelo, santo o cavaliere, doccione o colonna ha un significato preciso.

    La forma particolare della pianta della cappella si deve, probabilmente, ad un progetto incompleto di pianta cruciforme. Alcuni scavi della fine dell’Ottocento, hanno rivelato l’esistenza di fondamenta per una navata più lunga e per un transetto che non furono mai realizzati. I lavori per le decorazioni interne andarono avanti per circa quarant’anni, ma dopo la morte di William Sinclair, nel 1484, la cappella non venne più toccata, non si sa se per mancanza di fondi, di interesse o semplicemente per un cambiamento nella moda architettonica della Chiesa.

    La cappella si regge su quattordici colonne che culminano in dodici archi acuti lungo i lati della navata e la quattordicesima colonna, posta al centro tra le ultime due dell’estremità orientale, divide la navata dalla Lady Chapel, la cappella posteriore costruita su un’antica cripta (Lower Chapel) che si pensa facesse parte di un castello preesistente.

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    La struttura si caratterizza di molte decorazioni presenti sulle colonne in particolare quelle denominate la "colonna del maestro" e la colonna "dell'apprendista", e sul soffitto. Si accede dalla porta nord sotto lo sguardo di due grandi doccioni a forma di demoni; sulla finestra a destra del portale sono raffigurati un cavaliere a cavallo e due arieti che si affrontano, mentre sulla finestra sinistra vi sono una volpe che insegue una gallina, un angelo che suona uno strumento e un uomo o una donna in atteggiamento premuroso.

    Sul soffitto a volta sono scolpite innumerevoli rose, lilium, fiorellini e pentagrammi (il pentagramma e le rose erano decorazioni usate tradizionalmente nei templi babilonesi in onore della dea Ishtar e di suo figlio risorto Tammuz). Da un lato della volta si vedono due mani scolpite nella pietra che reggono lo stemma della famiglia St. Claire.

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    ….la storia…


    Per capire l’influsso esercitato dai Templari sulla cappella di Rosslyn, bisognerebbe capire a quale scopo i St. Claire la fecero costruire. Prima dell’anno Mille, il continente europeo venne saccheggiato dalle bande di Vichinghi provenienti dalla Norvegia. Alcune tribù divennero sedentarie e si stabilirono in Irlanda, Gran Bretagna e Normandia. Il capo di queste orde, un certo Hrlof o Rollone saccheggiò la valle del Tal; si giunse alla pace solo quando il re dei Franchi, Carlo il Semplice, cedette a Rollone il territorio del corso inferiore della Senna e la città di Rouen, il tutto con il leggendario trattato di St. Clair-sur-Epte. I St. Claire sarebbero i discendenti di Rollone che attraverso un attenta politica di successione estese la propria influenza fino a Chaumont, Gisors, d’Evraux, Blois e ai conti di Champagne.

    Guglielmo il Conquistatore, re d’Inghilterra, fu un successore di Rollone; da questa linea deriva anche il primo St. Claire nato in Scozia, Henry, che partecipò alla prima crociata in Terrasanta guidata da Goffredo di Buglione nel 1096. Al ritorno dalla prima crociata ricevette il titolo di Barone di Rosslyn. Caterina di St. Claire sposò uno dei nove Templari dell’ Abbazia di Notre Dame du Mont de Sion, Hugo di Payens.

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    La costruzione della Cappella di Rosslyn ebbe inizio il 21 settembre del 1446, ad opera di Sir William Sinclair,- terzo e ultimo Principe di Orkney, XI Barone di Rosslyn e Cavaliere dell’ordine di Santiago e del Toson d’Oro - e terminò 4 anni dopo, il 21 settembre 1450, giorno dell'equinozio d'autunno. La chiesa fu dedicata a San Matteo apostolo ed evangelista perché il 21 settembre corrisponde nel calendario gregoriano al giorno del santo. Durante il 1500, servì da cappella privata della famiglia Sinclair che, durante la Riforma Protestante mantenne la propria fede Cattolica incrinando i rapporti con la Kirk (la chiesa protestante scozzese). Nell’agosto del 1592 l’altare venne distrutto e la cappella cadde in disuso, usata nei decenni seguenti come stalla per le truppe di Cromwell e ulteriormente danneggiata durante la Gloriosa Rivoluzione del 1688. Il primo restauro avvenne nel 1736, ordinato da Sir Jones St. Clair e nel corso dei secoli, la Cappella venne recuperata all’antico splendore.
    Le rappresentazioni scultoree che si trovano nella Cappella sono inusuali per una chiesa cristiana tradizionale; gli unici elementi riferibili sono stati aggiunti con il restauro, in epoca Vittoriana: le vetrate ed il battistero.
    Fu realizzata in stile romanico, ma presenta numerose sculture gotiche e trasuda di simbolismi egizi, celtici, ebraici, templari e massonici; il soffitto tempestato di stelle a cinque punte, i numerosissimi Green Man celtici (oltre 130), le torri della Gerusalemme Celeste, le croci dentellate della famiglia Sinclair, le squadre, i compassi, le api ect. L’influsso della cultura celtica è notevole data anche la presenza nella Cappella del dio celtico Cernunnos con le corna, simbolo di fertilità oltre ai molti simboli gnostici come il Sole e la Luna del dualismo del Graal, figure di animali, draghi.

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    …Miti e leggende….

    Le leggende che aleggiano attorno alla chiesa sono molte, ma la principale riguarda il Sacro Graal: il mistico tesoro venne portato a Rosslyn, e qualcuno afferma che vi si trovi tutt’oggi, nascosto. Si narra che sia nascosto nella colonna dell'apprendista; leggenda vuole, che uno studioso recatosi nella chiesa con un metal detector avesse ispezionato tutta la colonna e arrivato a metà colonna, lo strumento cominciò a suonare ma non fu mai data l'autorizzazione per approfondire le ricerche. Nonostante tutte le idee, le teorie che nel corso dei secoli sono state costruite attorno al mito di Rosslyn, la cappella rimane un luogo misterioso.

    Molti esperti ritengono che Rosslyn Chapel sia il luogo dove sarebbe stato nascosto il Tesoro del Tempio, forse quello di Re Salomone; altri si dicono sicuri che nel sottosuolo della Cappella siano nascosti rotoli provenienti da Qumran, custoditi poi dai Templari e dai Catari, che potrebbero contenere la “verità” sulle origini della religione cattolica.

    Narra la leggenda che un maestro scalpellino, cui era stata commissionata una delle colonne durante la costruzione della cappella, sicuro che il suo apprendista non sarebbe stato in grado di realizzarla senza vedere l’originale, si recò a studiare. Quando tornò, però, l’apprendista aveva già realizzato la colonna nei minimi particolari e il maestro, preso dall’invidia, gli diede una martellata in testa e lo uccise. Come punizione, la sua faccia fu scolpita di fronte alla colonna del suo allievo, per sempre rivolta verso l’oggetto della sua invidia. Secondo un’altra versione della leggenda, la colonna era stata progettata dallo stesso William Sinclair, ma solo l’apprendista era stato in grado di realizzarla. Oltre al famoso soffitto indecifrabile, la cappella si distingue anche per una serie di curiosi miti e leggende sorte attorno ad essa. Pur essendo stata costruita più di un secolo dopo la fine dei templari presenta diversi elementi che richiamerebbero la loro simbologia. Una leggenda vuole che la cappella di Rosslyn sia stata costruita "imitando" l'architettura del leggendario tempio di Salomone: mettendo a paragone la pianta della Chiesa di Salomone e quella di Rosslyn, si può notare che la forma è identica.

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    Tra le sculture vi è anche la testa del grande mago Hermes Trismegistus, fondatore dei testi ermetici che sono alla base delle scuole iniziatiche greche. Il mago viene spesso paragonato al dio egizio Toth che rappresenta la conoscenza

    La cripta, un tempo accessibile per mezzo di una scala sul retro della cappella, è stata luogo di sepoltura per molti membri della famiglia Sinclair. Per decenni, però, è rimasta sigillata e inaccessibile, alimentando le leggende che la vedevano come un’anticamera di un sotterraneo più grande nel quale fossero conservati tesori mitologici quali la testa mummificata di Gesù, il Sacro Graal, il tesoro dei Templari o i gioielli originali della corona scozzese.

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    ... Cultura celtica e simboli gnostici ...

    A rendere la Rosslyn Chapel unica nel suo genere è la moltitudine di simboli che si trovano al suo interno, richiami misteriosi, riferimenti enigmatici. Non c’è angolo della struttura che non appaia decorato in modo minuzioso, quasi ossessivo: colonne, finestre, soffitto e nicchie nascoste sono ricche di particolari e qua e là appare qualche volto scolpito nella roccia che sembra osservare in modo tetro e minaccioso. Nella Cappella c’è una curiosa miscela del patrimonio nordico, celtico, egizio, greco e cristiano. Vi sono tredici colonne che formano un’arcata a dodici punte rappresentante lo Zodiaco. La colonna dell’apprendista rappresenta una trasformazione tra la mitologia nordica precristiana dello Yggdrasil: il grande albero celtico che sostiene l’universo si trasforma nell’albero della vita di tradizione cristiana; la chioma dell’albero formata dalle colonne è un richiamo ai dodici segni dello Zodiaco; le radici simboleggiano le forze terrene, rosicchiate dai draghi di Nifelheim, il mondo sotterraneo dei Vichinghi, per prenderne la fertilità. Di fronte alla Lady Chapel c’è una colonna chiamata colonna del maestro, costruita appunto dal maestro del cantiere.

    Vi sono dei cicli scultorei che rappresentano la scena di una danza di morti, una crocefissione, le sette virtù e i sette peccati capitali. Una scultura incatenata rappresenta l’angelo caduto della luce, Lucifero.

    Una delle cose più sorprendenti della Cappella sono alcune sculture che rappresentano l’aloe americana, il cactus e le piante di mais, nonostante l’America non fosse stata
    ancora scoperta da Colombo. Ma a giustificazione una leggenda racconta che

    William St. Claire fosse giunto sul continente americano molto tempo prima di Colombo, sulla base dell’esperienza dei suoi antenati Vichinghi che già navigavano verso il Nordamerica prima del X secolo.

    Nella Cappella, sotto le sculture, ci sono i resti di Robert Bruce, che combattè per l’indipendenza della Scozia, di William St. Claire e di alcuni costruttori della Cattedrale.
    Tra le tante sculture troviamo un angelo che tiene tra le mani il cuore di Robert Bruce e un’altra figura che mostra una croce templare; la figura del fabbro Adonhiram che secondo la leggenda fu il fabbro maestro, ucciso da tre dei suoi assistenti subito dopo aver completato il tempio di Salomone.

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    C’è nella Cappella di Rosslyn un chiaro richiamo alla mistica ebraica:

    i guardiani scolpiti nella pietra, il cui significato orginale è da ricercarsi sul piano magico-astrale, le colonne della Cappella di Rosslyn potrebbero essere identiche a quelle del tempio di Salomone.

    Sull’arco di trionfo della Cappella si trova l’Agnus Dei, un simbolo strettamente connesso all’ordine dei Templari tanto da essere considerato un loro Sigillo. L’Agnus Dei rappresenta un agnello che tiene una bandiera sulla cui punta è impressa una croce a bracci equidistanti, e talvolta anche una croce templare.

    Tra gli altri simboli templari troviamo un pentagramma, due cavalieri su un cavallo, una rappresentazione stilizzata del viso di Gesù come quella della Sindone e una colomba con un rametto di ulivo. Molti di questi simboli sono semplicemente cristiani e la loro attribuzione ai templari non è quindi facile.

    Nel soffitto, sparsi tra gli intricati rilievi, si trovano ben 213 cubi o scatole, la cui origine appare del tutto oscura. Recentemente è stata avanzata l’ipotesi che si tratti di carillon perché le incisioni sui lati delle scatole ricordano gli studi di cimatica, la scienza che analizza il modo in cui le onde sonore creano forme, per esempio, sulla sabbia appoggiata ad una superficie che viene fatta vibrare a varie frequenze. Associando le figure presenti sulle scatole con le note che corrispondono alla stessa frequenze da cui sono generate, i musicisti Thomas e Stuart Mitchell sono riusciti a produrre un motivo che hanno chiamato Rosslyn Motet.

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    …L’importanza della Cappella di Rosslyn per i massoni..

    Nel 2000 il Dott. Robert Lomas dell’università di Bradford affermò la propria convinzione che la cappella di Rosslyn fosse stata costruita da un massone discendente dai Templari per fornire un rifugio ai manufatti portati in Scozia dall’ordine nel 1126 dopo aver scavato fra le rovine del Tempio di Erode a Gerusalemme dove li avevano lasciati in precedenza.

    A dimostrazione di questa sua teoria cita i seguenti fatti:

    Rosslyn fu costruita da Sir William Sinclair nel 1440, diretto discendente sia di William de St Clair, ultimo Grande Master del Tempio di Scozia, morto dopo aver portato il cuore di Robert The Bruce in Terra Santa durante l’ultima crociata a Gerusalemme, sia del Primo Gran Maestro Massone di Scozia, anche lui chiamato William St Clair (Sinclair).
    La pianta di Rosslyn, è una copia perfetta del Terzo Tempio costruito a Gerusalemme da Erode e distrutto nel primo secolo dopo Cristo dai Romani. La sua architettura esterna è anch’essa una replica dell’architettura Erodiana di Gerusalemme.
    Rosslyn contiene il più antico documento sotto forma di scultura in pietra che mostra la cerimonia di iniziazione del primo grado della Massoneria condotta da un Templare. Questa scultura, scolpita nel 1440-50 fu controllata e approvata prima di essere stata scolpita in pietra e mostra in sette punti diversi elementi in comune con la cerimonia della Massoneria moderna.

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    ..opinioni opposte..


    L ‘affermazione che il progetto della “Rosslyn Chapel” sia come quello del Tempio di Salomone è stato analizzato da Mark Oxbrow e Ian Robertson nel loro libro, Rosslyn e il Graal:

    “La Rosslyn Chapel non ha alcuna somiglianza con il tempio di Salomone o Tempio di Erode gli assomiglia infatti come una casa di mattoni può assomigliare ad un libro tascabile. Se sovrapponete le planimetrie della Cappella di Rosslyn a quelle del Tempio di Salomone troverete che non sono nemmeno lontanamente simile nemmeno se cercherete di ricondurre le planimetrie alle medesime “scale” essendo una più grande dell’altra. Al contrario se sovrapporrete le planimetrie della Cappella di Rosslyn e alla Cattedrale di Glasgow troverete una corrispondenza sorprendente: le quattro mura di entrambi gli edifici si adattano con precisione. L’East Quire della Cattedrale di Glasgow è più grande di Rosslyn, ma i disegni di questi due edifici medievali scozzesi sono praticamente identici. Entrambi hanno lo stesso numero di finestre e lo stesso numero di colonne nella stessa configurazione. […] Molti scrittori di storia alternativa sono ben consapevoli di questo, ma stranamente non riescono a parlarne nei loro libri”

    Per quanto riguarda un possibile collegamento tra i St. Clair (diventati poi Sinclair) ed i Cavalieri Templari, si ha ma non è certo quello che uno si aspetta infatti la famiglia ha testimoniato contro i Templari, durante il processo a Edimburgo nel 1309. Lo storico Dr. Louise Yeoman, insieme ad altri studiosi medievali, dichiara che la connessione tra Cappella e Cavalieri Templari è falsa, anche il bassorilievo templare spesso citato mostra un solo cavaliere mentre la seconda figura è un angelo che tiene una croce. Lo studioso afferma che la Rosslyn Chapel è stato costruita da William Sinclair per le anime dei suoi familiari.

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    Le sculture nella cappella non riflettono immagini massoniche, perchè la cappella fu costruita nel XV secolo, e le prime notizie di logge massoniche nella terra di Albione risalgono solo alla fine del XVII secolo. Sembra che la simbologia massonica sia stata aggiunta in un secondo momento. Questo può aver avuto luogo nel 1860, quando James St Clair-Erskine, III conte di Rosslyn ha incaricato l’ architetto di Edimburgo David Bryce , un massone, ad intraprendere lavori di restauro zone della chiesa comprese molte delle sculture.

    Robert Lomas e Christopher Knight hanno ipotizzato che alcune sculture della cappella rappresentino spighe di grano del nuovo mondo o di mais , una pianta che era sconosciuta in Europa al tempo della costruzione della cappella, perciò Knight e Lomas vedono queste incisioni come prove a sostegno dell’idea che Enrico I Sinclair, Conte di Orkney, viaggiò verso le Americhe ben prima di Colombo. Questa teoria nasce dal fatto che Enrico I Sinclair, Conte di Orkney, barone di Roslin nel 1784, sia stato identificato da Johann Reinhold Forster come possibile Principe Zichmni ovvero il capitano descritto nelle lettere scritte intorno al 1400 dai fratelli Zeno di Venezia , in cui si descrivono un viaggio in tutto il Nord Atlantico al comando appunto del comandante Zichmni. Tutto ciò però si basa su teorie non confermate ma soprattutto su prove smentite o illogiche. L’opera in cui vi è menzione dei viaggi dei fratelli Zeno non è confermata come autentica come spesso si crede o si vuol far credere
    Le prove scolpite, poi per gli studiosi medievali, vanno interpretate solo come raffigurazioni stilizzate di frumento, fragole o gigli.

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    ….ipotesi…

    Sappiamo che il tesoro dei Cavalieri Templari non venne mai ritrovato e c'è chi pensa che questo sia stato messo in salvo dagli stessi Cavalieri Templari grazie alla loro flotta, sparita anch'essa al momento del crollo. Quella flotta e il tesoro dei Cavalieri Templari raggiunsero forse la Scozia, un regno in lotta col Papa e quindi ospitale per i Cavalieri Templari.

    Di certo c'è che St. Clair e Zeno, con 12 navi, raggiunsero alla fine del '300 il Nord Ovest dell'attuale Canada, oggi chiamata non a caso "NUOVA SCOZIA" , stabilendo un presidio a New Poss, a poco più di 30 km da quell'Oak Island dove si pensa che sia stato sepolto il favoloso tesoro dei Cavalieri Templari.
    Ma forse non tutte le ricchezze in possesso dei Cavalieri Templari sono state sepolte fuori dall'Europa. Qualcosa potrebbe essere anche qui, a Rosslyn. Risalendo dalla cripta la prima cosa che si incontra è forse il particolare più famoso di tutta la Cappella di Rosslyn: la "Colonna dell’Apprendista". E' questo forse l'esempio più evidente dell'ambiguità di questa costruzione che, formalmente cristiana, presenta numerosi riferimenti e simboli a culture e religioni che col cristianesimo non hanno nulla a che fare: qui, ad esempio siamo di fronte ad una raffinata raffigurazione dell'Albero della Vita della tradizione biblica, raffigurazione integrata da alcuni riferimenti pagani come i draghi (figure sconosciute alla mitologia ebraico-cristiana) posti alla base. Dalle fauci fuoriescono viti rampicanti che si estendono a spirale per tutta la lunghezza della colonna. Alcuni vedono in questo un legame con la mitologia nordica, secondo la quale un drago rosicchia le radici dello "Yggdrasil" , il grande albero cosmico che sostiene l'Universo. Alcune teorie, inoltre, suggeriscono che questa colonna possa contenere uno scrigno di piombo in cui è nascosta la leggendaria coppa usata da Gesù in occasione dell’Ultima Cena, e successivamente usata per raccogliere il suo sangue, il Santo Graal.

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    Questa colonna è poi anche importante perché sembra legare, già dal proprio nome, il mito fondatore della Massoneria, con i Cavalieri Templari e con la storia della Cappella stessa.
    A rendere ancora più evidente il parallelo Massoneria-Templari-Rosslyn c'è poi il fatto che la Cappella, secondo i voleri di St. Clair, è costruita secondo la piante del Tempio di Erode, costruito al tempo di Gesù sullo stesso luogo in cui era sorto il Tempio di Re Salomone.

    Vero o falsi che siano, i Cavalieri Templari di oggi possono comunque vantare un fatto indiscutibile. Le tracce di una presenza templare posteriore al 1307 sono forti qui in Scozia e nei dintorni di Rosslyn in particolare. Numerose tombe, chiese e cappelle, alcuni fatti d'arme (la vittoria di re Bruce contro gli inglesi nel 1314, ad esempio), le stesse croci templari presenti in quantità nella Cappella di Rosslyn.

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