La guerra nella letteratura

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    La guerra nella letteratura
    di Giovanni Ghiselli

    Nella letteratura antica non mancano le maledizioni della guerra.
    Già nell'Iliade Zeus dice ad Ares:"e[cqisto" dev moiv ejssi qew'n oi{ [Olumpon e[cousin (V, 890), tu per me sei il più odioso tra gli dei che abitano l'Olimpo.
    Nel primo Stasimo dei Sette a Tebe di Eschilo il Coro dissacra il dio della guerra: Ares è un domatore di popoli che infuriando soffia con violenza e contamina la pietà "mainovmeno" d j ejpipnei' laodavma"-miaivnwn eujsevbeian"(vv. 343-344).
    Nel primo Stasimo dell’Agamennone (del 458) Ares viene definito "oJ crusamoibo;" d' j [Arh" swmavtwn"(v.437), il cambiavalute dei corpi, nel senso che la guerra distrugge le vite e arricchisce gli speculatori.
    Secondo Gaetano De Sanctis, Eschilo con questa tragedia ha voluto mettere in guardia gli Ateniesi"contro le guerre ingiuste, pericolose e lontane, onde tornano, anziché i cittadini partiti per combattere, le urne recanti le loro ceneri. La lista dei caduti della tribù Eretteide mostra quale eco dovesse avere nei cuori tale monito durante quella campagna d'Egitto (anni 459-454) in cui fu impegnato il fiore delle forze ateniesi".
    "invece di uomini
    urne e cenere giungono
    alla casa di ciascuno"(434-436).

    In maniera analoga il tenente Mahler, il disertore amante della contessa adultera del film Senso di Visconti pone questa domanda retorica:"Cos'è la guerra se non un comodo metodo per obbligare gli uomini a pensare e ad agire nel modo più conveniente a chi li comanda?".

    Nel terzo Stasimo dell'Aiace di Sofocle il Coro, formato da marinai di Salamina, maledice l'inventore della guerra:" oh se prima fosse sprofondato nel grande etere o nell'Ade comune a tutti quello che mostrò ai Greci Ares comune delle armi odiose.
    Oh travagli causa di travagli: quello infatti rovinò gli uomini.
    Quello non mi concesse che mi fosse compagna la gioia delle corone né delle coppe profonde, né il dolce suono dei flauti, disgraziato, né di gustare la gioia del riposo notturno; dagli amori, dagli amori mi ha fatto cessare (ejrwvtwn d j- )ejrwvtwn ajpevpausen), ahimé. Giaccio invece così trascurato, sempre bagnato nelle chiome da fitte rugiade, ricordi della funesta Troia" (vv. 1199-1210).

    Nella Parodo dell’Edipo re Ares viene deprecato dal religiosissimo autore come "il dio disonorato tra gli dei" ( ajpovtimon ejn qeoi'" qeovn, v.215). Il dio è ajpjovtvimo" poiché la guerra del Peloponneso dopo la morte di Pericle veniva condotta dal becero e sanguinario Cleone senza rispetto dell'etica eroica e senza riguardo per l'umanità: Tucidide nel dialogo senza didascalie del V libro fa dire dagli Ateniesi ai Meli di non volgersi a quel senso dell' onore (aijscuvnhn, 111, 3) che procura grandi rovine agli uomini.

    Pochi versi prima la sofferenza delle donne per le guerre degli uomini è compianta dal Coro di vecchi Tebani: "La città muore senza tenere più conto di questi/e progenie prive di pietà giacciono a terra portatrici di morte senza compassione,/ e intanto le spose e anche le madri canute/di qua e di là, presso la sponda dell'altare/gemono supplici/per le pene luttuose"( vv. 179-185).

    Nel secondo stasimo dell’Ecuba, il coro delle prigioniere troiane compiange non solo i lutti della propria gente ma anche quelli delle donne spartane: sulle rive dell’Eurota dalla bella corrente stevnei, piange la ragazza spartana con molte lacrime Lavkaina poludavkruto~ kovra (v. 651) e le madri si percuotono il capo canuto e si lacerano il volto per i figli morti.
    Anche il quarto stasimo dell’Andromaca cantato dalle donne di Ftia mette in rilievo che i la Grecia soffrì non meno di Troia per la guerra (vv. 1041-1046).

    Empedocle ricorda un aspetto canonico dell’età dell’oro: l’assenza di conflitti. Nel Poema lustrale (fr. 119) narra che gli uomini della primitiva età felice non avevano un Ares come dio, né il Tumulto della battaglia (“oujdev ti" hn keivnoisin [Are" qeo;" oujde; Kudoimov"",), né Zeus, né Crono né Poseidone, ma solo Cipride regina (vv. 1-3). Inoltre non si bagnava l'altare con il sangue dei tori, ma si offriva mirra, incenso e miele, poiché per gli uomini era massima contaminazione (muvso~…mevgiston, v. 9) divorare le membra staccandone l'anima (vv. 9-10).


    Aristofane negli Acarnesi dichiara guerra alla guerra.
    Il protagonista Diceopoli, il cittadino giusto, fieramente avverso alla guerra, convince il coro che la guerra è un male e lo induce a dire: "io non accoglierò mai in casa Povlemo" (v. 977), la personificazione del conflitto, visto come " un uomo ubriaco (pavroino" aJnhvr, v. 981) il quale "ha operato tutti i mali e sconvolgeva, e rovinava"(983) e, pur invitato a bere nella coppa dell'amicizia, "bruciava ancora di più con il fuoco i pali delle viti/e rovesciava a forza il nostro vino fuori dalle vigne"(986-987).
    Il campagnolo pacifista Diceopoli si fa portavoce dei contadini, esasperati poiché la guerra del Peloponneso nella fase archidamica distruggeva tutti gli anni i raccolti.
    Respinto Polemos, arriva la Pace connessa alla festa, all'amore e alla bellezza dell'arte: infatti è compagna della bella Cipride e delle Cariti amabili (v. 989). Quindi giunge l'inviato di un marito che porta doni e chiede una coppa di pace:" i[na mh; strateouit j ajlla; kinoivh mevnwn" (v. 1052), perché non vuole andare in guerra, ma rimanere in casa a fare l'amore.
    Diceopoli, che ha sofferto l'incomprensione dei concittadini, non si commuove per lo sposo non sposo, ma si adopera per la sposa: la donna non si merita di soffrire per la guerra (v. 1062).

    Nella seconda commedia pacifista (Pace del 421) la festa che segue alla pace odora di frutta, conviti, di grembi di donne che corrono verso la campagna ( kovlpou gunaikw'n diatrecousw'n eij" ajgrovn, v. 536) e di tante altre cose buone.
    Qui si racconta che gli dèi si sono allontanati dagli uomini per non vederli sempre combattere e li hanno abbandonati a Polemo il quale ha gettato la Pace in un antro profondo (v. 223). Intanto però il pestello (aJletrivbano" , v. 269) degli Ateniesi, il cuoiaio (oJ bursopwvlh" , v. 270) che sconvolgeva l'Ellade è morto. Così pure Brasida, il pestello dei Lacedemoni.
    La pace accresce le possibilità di vita secondo Trigeo, anche questo un contadino pacifista: essa consente di navigare, rimanere dove si è, fare l'amore, dormire, andare a vedere le feste, banchettare, giocare al cottabo, e gridare iù iù (vv. 341-345). Vogliono le guerre i fabbricanti di lance e i mercanti di scudi per i loro guadagni (vv. 447-448).
    Alla fine questi guerrafondai riceveranno le pernacchie mentre i contadini potranno tornare al lavoro dei campi richiamando alla memoria l'antica vita che la Pace largiva: i pani di frutta secca, i fichi e i mirti, il dolce mosto, le viole accanto al pozzo e le olive di cui si ha desiderio. La pace per i campagnoli significava la zuppa d'orzo verde e la salvezza (ci'dra kai; swthriva, v. 595) sicché le vigne e i teneri fichi, e quante altre piante vi sono, rideranno liete accogliendola.
    Segue nell'agone un'eziologia della guerra meno ridicola di quella presentata negli Acarnesi : Pericle, spaventato dalle accuse intentate a Fidia, per non seguire la stessa sorte, mise a fuoco la città e provocò tanto fumo che tutti i Greci lacrimavano. Alla pace ritrovata seguono progetti e preparativi di feste a base di scorpacciate culinarie e sessuali: Teoria ha un culo da festa quinquennale e va molto bene; la focaccia è cotta, la torta col sesamo è impastata e tutto il resto è pronto:"tou' pevou" de; dei' " (v. 870), manca solo il bischero. Quindi Trigeo cita due esametri omerici[12]:"è privo di legami sociali, di leggi, di focolare quello che/ama la guerra civile agghiacciante ( polevmou e[ratai ejpidhmivou)vv. 1097-1098).
    Cfr. i versi degli Uccelli di Aristofane, 1320 ss., che enumerano i Poteri che presiedono a Nubicuculia-Sapienza Desiderio Ambrosia Grazie –il volto sereno della dolce Tranquillità. Queste sono le divinità di coloro che sono stanchi della guerra e vogliono scapparne.

    Ogni guerra è una guerra civile.
    Nei conflitti interni molti valori si capovolgono: lo afferma Tucidide a proposito della stavsi" di Corcira (427-425), quando ci fu una tranvalutazione generale e le stesse parole cambiarono il loro significato originario:"Kai; th;n eijwqui'an ajxivwsin tw' ojnomavtwn ej" ta; e[rga ajnthvllaxan th'/ dikaiwvsei. Tovlma me;n ga;r ajlovgisto" ajndreiva filevtairo" ejnomivsqh" (III, 82, 4), e cambiarono arbitrariamente l'usuale valore delle parole in rapporto ai fatti. Infatti l'audacia irrazionale fu considerata coraggio devoto ai compagni di partito.
    "Un'audacia " ajlovgisto"" prende il nome di coraggio, la prudenza si chiama pigrizia, la moderazione viltà, il legame di setta viene prima di quello di sangue, e il giuramento non viene prestato in nome delle leggi divine, bensì per violare le umane. Sinistro carnevale, mondo a rovescio, in cui è necessario lottare con ogni mezzo per superarsi e in cui nessuna neutralità è ammessa. Così appare, a Corcira, per la prima volta tra gli Elleni, la più feroce di tutte le guerre (Tucidide, III, 82-84)".
    Nel Bellum Catilinae di Sallustio, Catone, parlando in senato dopo e contro Cesare, il quale aveva chiesto di punire i congiurati "solo" confiscando i loro beni e tenendoli prigionieri in catene nei municipi, denuncia questo cambiamento del valore delle parole:"iam pridem equidem nos vera vocabula rerum amisimus: quia bona aliena largiri liberalitas, malarum rerum audacia fortitudo vocatur, eo res publica in extremo sita est " (52, 11), già da tempo veramente abbiamo perduto la verità nel nominare le cose: poiché essere prodighi dei beni altrui si chiama liberalità, l'audacia nel male, coraggio, perciò la repubblica è ridotta allo stremo.


    Ma torniamo da Aristofane. Nella II Parabasi della Pace il Coro di contadini proclama la sua gioia per la libertà dagli impegni bellici e la possibilità che la pace offre di stare vicino al fuoco a bere con i compagni, arrostire ceci, mettere ghiande al fuoco e sbaciucchiare la serva tracia mentre la moglie si lava (vv. 127-1139).
    Poi arriva l'estate con la dolce canzone della cicala.
    La guerra dunque rovina la gioia dell’estate. (1159-1160)
    L’estate attiva il contatto con la natura, con il cielo, con le stelle, con il cosmo. Vincenzo Cardarelli ha scritto una poesia degna sull’estate: “stagione la meno dolente/d’oscuramenti e di crisi,/felicità degli spazi,/nessuna promessa terrena/può dare pace al mio cuore/quanto la certezza di sole/che dal tuo cielo trabocca…e sembri mettere a volte/nell’ordine che procede/qualche cadenza dell’indugio eterno” (Estiva).
    Sentiamo anche Leopardi: “L’estate, oltreché liberandoci dai patimenti, produce in noi il desiderio de’ piaceri, ci dà anche una confidenza di noi stessi, e un coraggio, che nascono dalla facilità e libertà di agire che noi proviamo allora per la benignità dell’aria. Dalla qual sicurezza d’animo, e fiducia di se, nasce, come sempre, della magnanimità, della inclinazione a comparire, a soccorrere, a beneficare; siccome dalla diffidenza che produce il freddo, nasce l’egoismo, l’indifferenza per gli altri ec.”.
    “Nelle città sull’acqua, l’estate è grande luce marina…L’estate è propizia all’infanzia, all’amicizia, all’amore, a quegli stati d’animo in cui si vive nel presente senza distruggerlo…colori assoluti del mare, vento caldo fra oleandri carnosi, cieli di miele e di fuoco, isole che sprofondano lentamente nella sera, tempo che sembra fermo come il sole a mezzogiorno, incessante canto di cicale. E’ la stagione della confidenza erotica con la vita…l’ansia ritorna quando si accende l’aria condizionata, che isterilisce e prosciuga l’intera e calda vita, e quando si reindossano i vestiti, sotto i quali il povero Io ricomincia a essere ossessionato dalle proprie magagne…Il chiasso che impedisce di sentire le cicale è una buona droga per la nostra vitalità scalcagnata; per chi è abituato all’aria viziata uscire all’aperto, si sa, può essere pericoloso”.
    Torniamo ancora alla Pace di Aristofane. Trigeo gode nel vedere maturare viti precoci e mangiare i fichi dicendo "w|rai fivlai" (v. 1168), che bella stagione! Tutto questo invece di essere arruolati prima dei cittadini e di dover obbedire a un capitano vigliacco.
    Alla festa finale arriva un mercante di falci che ha ripreso la sua attività ed è grato a Trigeo, mentre il mercante di armi è addolorato. Il cimiero che lui vende può servire al massimo per pulire la tavola e la corazza per cacarci dentro (1228). Le lance segate in due potranno fare da pali di viti (1263). Infine c'è la festa di nozze fra Trigeo e Opora (il raccolto): lui ce l'ha grande e grosso, lei ha la fica dolce (vv.1350-1351).
    La terza commedia pacifista è la Lisistrata del 411. La donna qui non è causa della guerra, come Elena di Troia, bensì fautrice della pace attraverso lo sciopero del sesso.
    Le donne "odiose a Euripide e a tutti gli dèi", come le definisce il corifèo (v. 283) hanno occupato l'Acropoli e intendono fare lo sciopero del sesso per impedire la continuazione della guerra. La parola d'ordine lanciata dalla loro "capa" Lisistrata è :"ajfekteva toivnun ejstivn hJmi'n tou' pevou""(v. 124), bisogna astenersi dal bischero.
    Interessanti in questa commedia sono anche motivi femministici ante litteram. Cleonice afferma, come già la Medea di Euripide, che per le donne è difficile uscire di casa (v. 16), caleph; toi gunaikw'n e[xodo" "(v. 16), è difficile per noi donne uscire. Infatti, spiega questa sposa ateniese, una di noi deve attendere il marito, l'altra deve svegliare lo schiavo, l'altra mettere a letto il bambino, l’altra lavarlo, l'altra imboccarlo (vv. 17-20). Ma, ribatte Lisistrata, ci sono cose più importanti per loro (v. 20). Si tratta di porre termine alla guerra. Noi donne di Atene, con quelle di Beozia e con quelle del Peloponneso, sostiene la protagonista, insieme salveremo la Grecia (koinh'/ swvsomen th;n JEllavda" (v. 41).
    Al progetto collabora la spartana Lampitò, una tebana e una corinzia. La parola d'ordine è:"dobbiamo astenerci dal bischero" (v.124) . Il giuramento: "nessuno mai, né amante né marito" (vv. 212-213). Lisistrata rinfaccia al Probùlo intervenuto il tributo di dolore, solitudine e lacrime pagato dalle donne durante le guerre.

    Il Coro è diviso in due: le vecchie difendono le donne, mentre i vecchi le attaccano:"non c'è belva più indomabile della donna, nemmeno il fuoco, e nessuna pantera è così impudente" (vv. 1014-1015).
    Alla fine prevalgono la pace e le ragioni della solidarietà e dell'istinto: nessun regime e nessuna guerra potrà mai sciogliere il vincolo naturale che allaccia uomini e donne né annullare l'eterno richiamo dei sessi.
    Anche Euripide, che pure aizza spesso l'odio ateniese contro Spartani e Spartane, attribuisce a Poseidone una condanna delle devastazioni belliche nel prologo delle Troiane :"mw'ro" de; qnhtw'n o{sti" ejkporqei' povlei", -naou;" te tuvmbou" q ,JJjj iJera; tw'n kekmhkovtwn,-ejrhmivvva/ dou;" aujto;" w[leq ' u{steron"(v. 95-97), è stolto tra i mortali chi distrugge le città, gettando nella desolazione templi e tombe, sacri asili dei morti; tanto poi egli stesso deve morire.

    La nefandezza massima della guerra di Troia è forse l’uccisione di Astianatte.i
    Nell’ammazzare un bambino i Greci si rivelano quali veri barbari.
    Nelle Troiane, Ecuba non approva la paura se uno teme senza essere passato attraverso la ragione: “oujk aijnw` fovbon, o{sti~ fobei`tai mh; diexelqw;n lovgw/” (vv. 1165-1166). Nella fattispecie, la paura irragionevole è quella che i Greci hanno avuto del piccolo Astianatte, al punto di mandarlo a morte.
    Allora, la paura che spinge a uccidere un bambino è vergognosa: sarà disonorevole per la Grecia l’iscrizione: “to;n pai`da tovnd j e[kteinan j Argei`oiv povte” (v. 1191), questo bambino uccisero un giorno gli Argivi per paura.
    Andromaca accusa i Greci che hanno deciso di ucciderle il figlio il quale cerca rifugio neosso;~ wJseiv, come un uccellino, sotto le ali della madre (v. 751).
    I veri barbari e autori di barbarie sono i Greci nell’accusa di Andromaca: “w bavrbar j ejxeurovnte~
    [ Ellhne~ kakav-tiv tonde pai`da kteivnet j oujde;n ai[tion;” (vv. 764-765),o Greci che avete escogitato barbari orrori, perché ammazzate questo bambino che non è colpevole di nulla?

    Nelle Supplici di Euripide, l’araldo dei Tebani che pure sono governati da un tiranno, Creonte, parla contro la guerra che viene votata dal popolo nel momento in cui nessuno mette ancora in conto la propria morte (oujdei;~ e[q j auJtou` qavnaton ejklogivzetai, v. 482), ma storna la sciagura su altri. Ma se ci pensassero, allora l’Ellade non sarebbe dorimanhv~ (v. 485) folle di guerre e non andrebbe in rovina.
    La pace è cara alle Muse è ostile alle Vendette, gioisce della bella prole e gioisce della ricchezza. Ma noi uomini folli scegliamo la guerra e assoggettiamo il più debole (kai; to;n h{ssona- doulouvmeq j, 492-493) l’uomo l’uomo e la città la città.
    La sola guerra plausibile è quella difensiva di se stessi o dei più deboli oppressi dai prepotenti: Teseo la conduce contro Tebe per aiutare gli Argivi di Adrasto a seppellire i morti: il paradigma mitico di Pericle non si lascia prendere la mano dalla folla, anzi odia la massa tracotante (misei` q j uJbristh;n laovn, Supplici, v. 727) e quando sconfigge i Tebani, si ferma davanti al grido dei vecchi e al pianto dei bambini e non entra nella città: diceva che non era venuto per distruggere la città, ma per recuperare i morti (vv. 724-725). Sapeva che salire in cima alla scala significa poi precipitare.

    Tucidide scrive due capitoli cruciali (82-83) nel III libro. L'occasione che dà lo spunto ad alcune considerazioni di carattere universale è la stavsi" di Corcira durante la quale (427-425 a. C.) si abbatterono sulle città molte gravi sciagure che avvengono e avverranno sempre finché la natura degli uomini rimarrà la stessa:" {ew" a]n hJ aujth; fuvsi" ajnqrwvpwn h/" (III, 82, 2). Il succo delle riflessioni è che la guerra è "bivaio" didavskalo"" maestra di violenza e assimila alle circostanze i caratteri dei più:"kai; pro;" ta; parovnta ta;" ojrga;" tw'n pollw'n oJmoioi'"(III, 82, 2). In pace e nella prosperità invece, le città e i privati provano sentimenti migliori:"ajmeivnou" ta;" gnwvma" e[cousi".
    In quella situazione dunque cambiarono arbitrariamente l'usuale valore delle parole in rapporto ai fatti. :"kai; th;n eijwqui'an ajxivwsin tw'n ojnomavtwn ej" ta; e[rga ajnthvllaxan th'/ dikaiwvsei" (III, 82, 4). Riporto alcuni esempi di questo slittamento linguistico e cerco analogie possibili: l'audacia sconsiderata (tovlma...ajlovgisto") fu ritenuto coraggio leale al partito (ajndreiva filevtairo"), l'indugio prudente invece (mevllhsi" de; promhqh;"), viltà speciosa (deiliva eujprephv"), la moderazione poi schermo della viltà (to; de; sw'fron tou' ajnavndrou provschma).




    Ora passiamo in rassegna alcuni autori latini.
    Virgilio nella prima Georgica (v.511) depreca "Mars impius " che al tempo della guerra civile infuria dovunque, come nell'età del ferro.
    Orazio chiama il dio Marte torvus in Carmina I, 28, 17 e cruentus in II, 14, 13.
    Nella prima Ode del primo libro il Venosino menziona le guerre maledette dalle madri:" bellaque matribus/ detestata" (vv. 24-25).
    Tibullo attribuisce la colpa della guerra al vizio dell'oro:" Quis fuit horrendos primus qui protulit enses? /Quam ferus et vere ferreus ille fuit!// Tum caedes hominum generi, tum proelia nata,/tum brevior dirae mortis aperta via est.// An nihil ille miser meruit; nos ad mala nostra/vertimus, in saevas quod dedit ille feras?//Divitis hoc vitium est auri, nec bella fuerunt,/faginus adstabat cum scyphus ante dapes " (I, 10, 1-8), Chi per primo ha tirato fuori le orrende spade? Oh quanto feroce e davvero ferreo fu quello! Allora la strage nacque per il genere umano, allora la guerra, allora più breve si è aperta la via della morte tremenda. Oppure quel disgraziato non ebbe colpa; ma noi volgemmo a nostro danno quello che egli ci diede contro le belve feroci?
    Questa è colpa del ricco oro, e non c'erano guerre quando una coppa di faggio stava davanti alle vivande. Non era ancora già l'età del business .
    Un giudizio critico dissacratorio può essere quello dei Romani avidi ladroni del mondo da contrapporre al virgiliano:"tu regere imperio populos, Romane, memento/ (haec tibi erunt artes) pacique imponere morem,/parcere subiectis et debellare superbos" (Eneide, VI, 851-853), tu, Romano, ricorda di guidare i popoli con il tuo impero (queste saranno le tue arti) e di imporre una regola alla pace, risparmiare i sottomessi e sgominare i superbi.
    Il Mitridate di Sallustio nelle Historiae, scrive al re dei Parti Arsace una lettera "anti-imperialista" :"Namque Romanis cum nationibus populis regibus cunctis una et ea vetus causa bellandi est, cupido profunda imperi et divitiarum "( Epistula Mithridatis, 2), infatti i Romani hanno un solo e oramai vecchio e famoso motivo di fare guerra a nazioni, popoli, re tutti: una brama senza fondo di dominio e di ricchezze. Quindi aggiunge:" an ignoras Romanos, postquam ad Occidentem pergentibus, finem Oceanus fecit, arma huc convortisse? neque quicquam a principio nisi raptum habere, domum coniuges, agros imperium?" ( 4), come, non sai che i Romani dopo che l'Oceano ha posto termine alla loro marcia verso Occidente, hanno rivolto le armi da questa parte? E che fin dal principio non hanno nulla, patria, mogli, terra, potenza se non frutto di rapina?
    Petronio nel Bellum civile del Satyricon sostituisce alla prospettiva storica del poema lucaneo quella moralistica: i Romani avevano già occupato (globalizzato diremmo ora) il mondo e ancora non bastava:"orbem iam totum victor Romanus habebat,/qua mare, qua terrae, qua sidus currit utrumque./nec satiatus erat" (119, vv. 1-3), il Romano vincitore possedeva già l'universo mondo, per dove il mare, per dove le terre, per dove corrono l'una e l'altra costellazione. E non era ancor sazio.
    Sentiamo ancora Eumolpo:"si quis sinus abditus ultra,/si qua foret tellus, quae fulvum mitteret aurum,/hostis erat, fatisque in tristia bella paratis/quaerebantur opes" (119, vv. 4-7), se c'era qualche golfo nascosto più in là, se qualche terra che esportasse biondo oro, era nemica, e preparato a tristi guerre il destino, si cercavano le ricchezze.
    Non è vero che questo poemetto si limita a riproporre il repertorio mitologico virgiliano, né, tanto meno, lo fa in maniera governativa, anzi è totale la condanna dell'imperialismo avido.
    Splendida condanna dell'imperialismo dei Romani e delle loro guerre di rapina e sterminio pronuncia Calgaco, il capo dei Caledoni ribelli nell'Agricola di Tacito:" Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, mare scrutantur: si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. Auferre trucidare rapere falsis nominibus imperium, atque ubi solitudinem faciunt, pacem appellant " (30), ladroni del mondo, dopo che alle loro devastazioni totali vennero meno le terre, frugano il mare: se il nemico è ricco, avidi, se povero, tracotanti, essi che né l'Oriente né l'Occidente potrebbe saziare: soli tra tutti bramano i mezzi e la loro mancanza con pari passione. Rubare, massacrare, rapire con nome falso chiamano impero e dove fanno il deserto lo chiamano pace.
    Un topos che continua nelle Ultime lettere di Iacopo Ortis di Foscolo"vi furono de' popoli che per non obbedire a' Romani ladroni del mondo, diedero all'incendio le loro case, le loro mogli, i loro figli e sé medesimi, sotterrando fra le gloriose ruine e le ceneri della loro patria la loro sacra indipendenza". E più avanti:" quando i Romani rapinavano il mondo, cercavano oltre i mari e i deserti nuovi imperi da devastare, manomettevano gl' Iddii de' vinti, incatenavano principi e popoli liberissimi, finché non trovando più dove insanguinare i loro ferri li ritorceano contro le proprie viscere".
    Foscolo ricorda i primi versi della Pharsalia Lucano il quale annuncia che comincia a cantare (canimus): "bella…plus quam civilia…iusque datum sceleri…populumque potentem/in suă victricī conversum visceră dextrā " (Pharsalia, I, vv. 1-3), guerre più che civili e il diritto dato al delitto e il popolo potente girato con la destra vincitrice dentro le sue viscere. E’ una specie di anti-Eneide.
    “Il poema di Lucano è qualcosa di più che l’ulteriore e più chiara prova del fallimento dell’equilibrio tentato da Seneca: è la distruzione dei grandi miti augustei: funzione provvidenziale dell’impero, certezza del suo risanamento e della sua eternità, alone soteriologico del principe, ritorno all’età aurea ecc.”.

    C'è anche una concezione eroica della guerra.
    Achille aveva recepito l'insegnamento che gli eroi davano ai figli: "aije;n ajristeuvein kai; uJpeivrocon e[mmenai a[llwn", primeggiare sempre ed essere egregio tra gli altri . E' l'imperativo che ricevono i giovani campioni della guerra troiana: nel sesto canto dell'Iliade il licio Ippoloco lo prescrive a Glauco; nell'undicesimo Peleo ad Achille.
    In Guerra e pace, lo stesso ordine riceve il principe Andrej Bolkonskij dal padre Nikolaj prima della battaglia di Austerlitz:"Ricordati di una cosa, principe Andrej: se ti uccideranno, questo vecchio ne avrà dolore…" Improvvisamente tacque; poi, a un tratto, proseguì con voce stridula:" Ma se saprò che non ti sei comportato come il figlio di Nikolaj Bolkonskij, ne avrò…ne avrò vergogna!", gridò.
    "Questo potevate anche non dirmelo, batjuška," disse il figlio sorridendo". Durante la battaglia di Austerlitz il principe russo provò paura per un momento, ma poi pensò che questa non era degna del suo ruolo e della sua persona:"Mentre si avvicinava a cavallo, sopra di lui volavano l'una dopo l'altra le granate, ed egli sentì un tremito nervoso corrergli per la schiena. Ma la sola idea che potesse aver paura bastò a rinfrancarlo. "Io non posso aver paura", pensò e scese lentamente da cavallo in mezzo ai cannoni". Diversi anni più tardi, a Borodino, il nobile russo non si getta a terra, perché si vergogna di farlo, e viene ferito a morte da una granata:" Io non posso, non voglio morire, io amo la vita, amo questa erba, la terra, l'aria..." Pensava a questo e nello stesso tempo si ricordò che lo stavano guardando".
    E’ la stessa morale di Sarpedone, altro eroe licio, che rinnova a Glauco il precetto del padre Ippoloco: L'uomo eroico deve provare la sua identità eccezionale attraverso continui cimenti. Nel XII canto dell'Iliade Sarpedon spinge Glauco a rischiare la vita ricordandogli che in Licia tutti concedono speciali privilegi e onori ad alcuni " ejpei; Lukivoisi mevta prwvtoisi mavcontai"(v.321), poiché tra i primi Lici combattono.
    E’ la funzione dell’aristocrazia.
    Così avviene anche tra i Germani di Tacito:"et duces exemplo potius quam imperio, si prompti, si conspicui, si ante aciem agant, admiratione praesunt " (Germania , 7, 1) e i capi piuttosto con l'esempio che con il grado di comandante, se sono capaci, se si mettono in luce, se stanno davanti alla schiera, comandano poiché sono ammirati. E più avanti (14):" Cum ventum in aciem, turpe principi virtute vinci ", ogni volta che si è giunti alle armi, è vergognoso per il capo essere superato in valore.
    In un ambito non specificamente guerresco, nel De Providentia , Seneca fa derivare queste prove dalla volontà di Dio che vuole temprare l'uomo buono per assimilarlo alla propria natura:"Idem tibi de deo liqueat: bonum virum in deliciis non habet; experitur, indurat, sibi illum parat " (1, 6), lo stesso ti sia chiaro di dio: non tiene l'uomo buono in mezzo ai piaceri, lo mette alla prova lo indurisce, lo prepara per sé.
    Gli uomini capaci dunque vengono nobilitati dalle dure prove superate.


    Un poco di eziologia della guerra di Troia.
    Proteo in Erodoto (II, 112-116) è un faraone che custodisce Elena per Menelao, dopo avere cacciato Paride con il quale ella era giunta in Egitto.
    Nell'Elena di Euripide invece la bella donna fu condotta da Ermes nella casa di Proteo signore dell'Egitto, scelto siccome era il più assennato tra gli uomini affinché ella potesse conservare incontaminato il letto di Menelao (vv. 46-48). Ma non per ragioni morali: infatti Era, adirata per non avere vinto la gara di bellezza, mandò in fumo il coito di Paride che abbracciava un'immagine d'aria tirata giù dal cielo (v. 34) e Zeus fece scoppiare la guerra tra gli Elleni e i Frigi infelici al fine di alleggerire la madre terra dalla folla e dalla massa dei mortali (vv. 38-40).
    La medesima spiegazione della guerra dà Euripide nell' Elettra dove Castore annuncia a Oreste che Elena sta arrivando, insieme con Menelao, dall'Egitto, dalla casa di Proteo, poiché a Troia non è mai andata, ma Zeus mandò a Ilio un'immagine ("ei[dwlon") di lei, "wJ" e[ri" gevnoito kai; fovno" brotw'n" (v. 1281), affinché ci fosse guerra e strage dei mortali.
    Similmente Apollo nell'Oreste afferma che gli dèi si servirono della bellezza di Elena al fine di indurre Elleni e Frigi a scontrarsi per eliminare dalla terra l'oltraggio dell'eccessiva abbondanza dei mortali (vv. 1639-1641).
    Mi sembra particolarmente opportuno ricordare tali giudizi sull'assurdità della guerra che in questi giorni compie un mese di sangue e viene imposta agli uomini comuni, se non dagli dèi, dall'alto dei palazzi del potere, affinché questi, i mortali poveri, servano a interessi che sicuramente non sono i loro. "Sì sì, lei non era qui". Dice di Elena la Cassandra di Christa Wolf. E aggiunge:"Il re d'Egitto l'aveva tolta a Paride, quello stupido ragazzo. Lo sapevano tutti nel palazzo, perché io no? E ora? Come ne usciamo, senza perdere la faccia. Padre, dissi, con un fervore col quale non gli parlai mai più. Una guerra condotta per un fantasma, può solo essere perduta".


    Curzio Rufo nota che durante la campagna di Alessandro Magno in India succedeva che gli assediati dessero fuoco alla loro città e gli assedianti cercassero di spegnere il fuoco: “adeo etiam naturae iura bellum in contrarium mutat” (Historiae Alexandri Magni, 9, 4, 7), a tal punto la guerra stravolge perfino le leggi di natura.

    Brecht:
    La guerra che verrà
    Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre.
    Alla fine dell’ultima
    C’erano vincitori e vinti.
    Fra i vinti la povera gente
    Faceva la fame. Fra i vincitori
    Faceva la fame la povera gente egualmente (Poesie di Svendorg, del 1939).

    Le guerre sono scatenate dai ricchi e dai potenti che mandano a morire i poveri per il proprio vantaggio
    Peleo si scaglia contro Menelao : lo chiama infame assassino di Achille (v. 615). E aggiunge che non vale nulla (v. 641), che non ha avuto nessun merito nella presa di Troia. In Grecia c’è l’usanza sbagliata di riconoscere solo ai capi il vanto delle imprese, e il comandante, non facendo niente più di uno solo, ottiene una fama maggiore
    “oujde;n plevon drw'n eJno;" e[cei pleivw lovgon” (Andromaca, v. 698).
    La Medea di Euripide rinfaccia a Giasone l’aiuto che gli ha dato per compiere l’impresa: “ il drago, che avvolgendo il vello tutto d'oro/lo sorvegliava con le spire contorte senza dormire,/dopo averlo ucciso, sollevai per te la luce della salvezza (Medea, vv. 480-482).

    Bertolt Brecht fa eco a questa critica: “Il giovane Alessandro conquistò l’India./Da solo?/Cesare sconfisse i Galli./Non aveva con sé nemmeno un cuoco?”.

    Le guerre le vogliono i potenti e gli speculatori, le iene del campo di battaglia. Il Cappellano della pièce di Brecht Madre Courage e i suoi figli dice che la guerra non finirà mai; se ci sarà crisi “le verranno in soccorso gli imperatori, i re e il papa”

    I doni funesti di Prometeo e il male del ferro, strumento di guerra.
    Vediamo i funesti di Prometeo agli uomini:"kai; mh;n ajriqmo;n , e[xocon sofismavtwn,-ejxhu'ron aujtoi'" , grammavtwn te sunqevsei",-mnhvmhn aJpavntwn, mousomhvtor j ejrgavthn.-ka[zeuxa prw'to" ejn zugoi'si knwvdala…uJf a[rma t j h[gagon filhnivou" -i{ppou" , a[galma th'" -uJperplouvtou clidh'".-qalassovplagkta d j ou[ti" a[llo" ajnt j ejmou'-linovpter j hu|re nautivlwn ojchvmata" (vv. 459-462 e 465-468), ed io inventai per loro il numero, eccellente fra le trovate ingegnose, e le combinazioni delle lettere, memoria di tutto, madre delle muse operosa. E ho aggiogato per primo gli animali selvatici…e ho portato sotto il cocchio i cavalli divenuti amanti delle briglie, immagine del lusso straricco. Nessun altro all'infuori di me ha inventato i veicoli dalle ali di lino vaganti per i mari dei marinai.
    L'invenzione della navigazione da parte di Prometeo prefigura anche il volo.
    Inoltre Prometeo ha trovato i farmaci (vv. 480 sgg.), le tecniche dell'arte divinatoria, l'interpretazione dei sogni, del volo degli uccelli, delle viscere nella vittime sacrificali. Infine ha scoperto i metalli:"calkovn, sivdhron, a[rguron crusovn te, tiv"-fhvseien a]n pavroiqen ejxeurei'n ejmou' ;" (vv. 502-503), il bronzo, il ferro, l'argento e l'oro, chi potrebbe dire di averli scoperti prima di me?
    La scoperta delle tecniche viene maledetta più volte: nella Tebaide di Stazio, quando Eteocle e Polinice stanno per ammazzarsi a vicenda, la Pietas lamenta di essere stata creata invano dalla Natura princeps con il compito di opporsi agli stati d’animo crudeli di uomini e dèi; quindi esecra la follia dei mortali e le orribili tecniche di Prometeo: “o furor, o homines diraeque Prometheos artes!” (XI, 468).

    Il male del ferro e dell'oro. Altre invenzioni di Prometeo.
    Erodoto nei capitoli 67-68 del primo libro delle Storie racconta che gli Spartani al tempo di Creso erano riusciti a sconfiggere i Tegeati solo dopo essere ricorsi alla Pizia di Delfi la quale, interrogata, aveva risposto che dovevano riportare in patria le ossa di Oreste. E siccome i Lacedemoni non le trovavano, erano tornati a chiederle aiuto. Ella allora aveva cantato, in esametri: "c'è in Arcadia una Tegea, in luogo piano,/dove due venti soffiano per possente necessità,/ e colpo e contraccolpo, e male su male si posa" (kai; tuvpo" ajntivtupo", kai; ph'm j ejp jphvmati kei'tai, I, 67, 4). Lì era sepolto Oreste e di lì bisognava portarlo via per vincere i Tegeati. Fu Lica , uno dei benemeriti ( tw'n ajgaqoergw'n I, 67, 5), specie di ambasciatori, a trovarlo , avvalendosi del caso e della sua sapienza[40] (kai; suntucivh/ crhsavmeno" kai; sofivh/, I, 68, 1). Quest'uomo dunque, andato a Tegea, in una fucina osservava la lavorazione del ferro e aveva un'aria di meraviglia mentre guardava (ejn qwvmati hn oJrevwn I, 68, 1). Il fabbro allora gli disse che lui aveva ragioni più forti per meravigliarsi: infatti, scavando nel suo cortile per fare un pozzo, aveva trovato un'urna con un cadavere di sette cubiti, ossia lungo più di tre metri. Quindi lo aveva riseppellito. Allora Lica congetturava che quelli erano i resti di Oreste. Infatti osservando i due mantici trovava che erano i venti (ajnevmou" eu{riske ejovnta", I, 68, 4), l'incudine e il martello erano il colpo e il contraccolpo (tovn te tuvpon kai; to;n ajntivtupon), e, il ferro lavorato, il male posato su male (to; ph'ma ejpi; phvmati keivmenon) desumendolo più o meno dal fatto che il ferro è stato inventato per il male dell'uomo :" ejpi; kakw'/ ajnqrwvpou sivdhro" ajneuvrhtai".

    In Catullo c’è una maledizione dei Calibi, una popolazione della costa del Mar Nero della quale si diceva che avesse scoperto la lavorazione del ferro che ha tagliato la chioma di Berenice. I crines stessi lanciano l’imprecazione: “ Quid facient crines, cum ferro talia cedant? Iupiter, ut Chalibon omne genus pereat/et qui principio sub terra quaerere venas/institit ac ferri fingere duritiem” (66, 47-50), cosa faranno i capelli, se tali colossi cedono al ferro? Giove, che tutta la razza dei Calibi vada in malora, e chiunque per primo si mise a esplorare le vene sotto la terra e a foggiare la durezza del ferro!

    Ancora più nocivo del ferro, e decisivo per la decadenza dell'umanità, è stato l'oro secondo Ovidio : “ effondiuntur opes, inritamenta malorum; / iamque nocens ferrum ferroque nocentius aurum/ prodierat: prodit bellum, quod pugnat utroque,/sanguineaque manu crepitantia concutit arma” (Metamorfosi, I, 140-143), si estraggono dalla terra le ricchezze, stimolo dei mali; e già il ferro funesto e, più funesto del ferro, l'oro era venuto alla luce : venne alla luce la guerra, che combatte con l'uno e con l'altro, e con mano sanguinaria scuote ordigni che scoppiano.
    E' l' età non più redimibile, quella del male integrale, quando omne nefas , ogni empietà, irrompe nel genere umano.

    Le armi da fuoco
    Ho tradotto prefigurando le armi da fuoco che Don Chisciotte non mancherà di esecrare come falso progresso: “Felici e benedetti i secoli che non conobbero la furia di questi indemoniati strumenti dell’artiglieria, il cui inventore dev’essere senza dubbio nell’inferno, a goder il premio della sua diabolica invenzione, mercé la quale il braccio d’un infame codardo può cagionar morte d’un valoroso cavaliere, che una palla fuorviata, arrivatagli, non si sa come né di dove, colpisce in pieno ardore del coraggio onde sono accesi e animati i petti eroici, mentre forse colui che l’ha sparata fugge sgomentato dal lampo di fuoco prodotto, nello sparo, da quella maledetta macchina”.
    Si può pensare al film di Ermanno Olmi Il mestiere delle armi.

    Si può citare di nuovo Leopardi: “L’invenzione e l’uso delle armi da fuoco, ha combinato perfettamente colla tendenza presa dal mondo in ordine a qualunque cosa, e derivata naturalmente dalla preponderanza della ragione e dell’arte, colla tendenza, dico, di uguagliare tutto. Così le armi da fuoco, hanno uguagliato il forte al debole, il grande al piccolo, il valoroso al vile, l’esercitato all’inesperto, i modi di combattere delle varie nazioni: e la guerra ancor essa ha preso un equilibrio, un’uguaglianza che sembrava contraria direttamente alla sua natura. E l’artifizio, sottraendo alla virtù e agguagliandola, e anche superandola e rendendola inutile, ha pareggiato gli individui, tolta la varietà…infine ha contribuito sommamente anche per questa parte a mortificare il mondo e la vita” (Zibaldone, 659 e 660).
    “Per l’invenzione della polvere l’energia che prima avevano gli uomini si trasportò alle macchine, e si trasformarono in macchine gli uomini, cosicché ella ha cangiato, essenzialmente il modo di guerreggiare” (978).

    Le automobili, poi, queste macchine per paralitici, fanno la guerra agli uomini e li trasformano addirittura in belve sanguinarie che uccidono altri uomini “ for their sport “ .
    Tibullo attribuisce la colpa della guerra al vizio dell'oro:" Quis fuit horrendos primus qui protulit enses?/Quam ferus et vere ferreus ille fuit!// Tum caedes hominum generi, tum proelia nata,/tum brevior dirae mortis aperta via est.// An nihil ille miser meruit; nos ad mala nostra/vertimus, in saevas quod dedit ille feras?//Divitis hoc vitium est auri, nec bella fuerunt,/faginus adstabat cum scyphus ante dapes " (I, 10, 1-8), Chi per primo ha tirato fuori le orrende spade? Oh quanto feroce e davvero ferreo fu quello! Allora la strage nacque per il genere umano, allora la guerra, allora più breve si è aperta la via della morte tremenda. Oppure quel disgraziato non ebbe colpa; ma noi volgemmo a nostro danno quello che egli ci diede contro le belve feroci?
    Questa è colpa del ricco oro, e non c'erano guerre quando una coppa di faggio stava davanti alle vivande. Era già l'età del business .

     
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