RUDOLF NUREYEV

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  1. gheagabry
     
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    Corpi che rasentano la perfezione, che sfidano la gravità e i principi di locomozione, la materia si spinge oltre l’umana soglia di dolore, di fatica ben oltre tutti i limiti fisici umanamente pensabili. Attraverso un lavoro così intenso si forgia la muscolatura di un atleta, così come quella di un danzatore; ma la danza si sa è un arte, tra le arti forse la più sublime, e l’arte non si accontenta della forma con cui si esprime ma attraversa il mezzo di cui si serve per manifestarsi, ben oltre la tela in pittura ben oltre il corpo nella danza…

    La fisicità di un ballerino diviene un elemento marginale rispetto alla poesia e all’intensità del gesto, perché è proprio nel gesto che risiede l’abissale differenza che fa di un individuo dalla muscolatura scultorea un danzatore. La storia però spesso ci regala personalità che ne cambiano il susseguirsi della stessa, così come dell’intera umanità, figure ineguagliabili a cui nessun termine o definizione si addice, perché dalla loro comparsa in poi hanno privato di senso le parole e gli aggettivi atti a descriverli inutili, così per queste persone si devono plasmare nuovi termini per parlarne e questo è il caso di Rudolf Nureyev.

    Nureyev non può definirsi semplicemente un danzatore, è stato la personificazione della danza, ne incarnava la tragedia così come la passione, la grandezza, la gioia al pari del dolore. Era più creativo dell’arte stessa, degno di interpretare ogni ruolo che impersonava con un’umanità e una veridicità mai viste prima di lui. La sua vita e il suo temperamento sono stati unici, estremi, tormentati egli stesso diceva : “ Se non si ha passione, temperamento nelle cose uno non vive ma semplicemente esiste”. Molti critici, studiosi e giornalisti parlando di questo talentuoso maestro del balletto, sostengono che esista un prima e un dopo Nureyev ed è innegabile che da quando Rudolf ha calcato i suoi primi palchi nulla nella danza è rimasto immutato.



    Così lo ricorda l’etolie Carla Fracci:

    “Rudolf aveva fama di uomo difficile, estroso, capriccioso. Eppure io non ho mai avuto problemi con lui. Certo, aveva un carattere fiero, esigente, che pretendeva sempre il massimo. Ma anche lo dava. Non dimenticava mai che il nostro è un mondo fatto di rose ma soprattutto di spine. Il nostro è stato un rapporto leale e caldo. Rudy e’ venuto spesso a passare le vacanze con noi”… Ricordo un Natale a Firenze. Eravamo tutti riuniti, si passavano le serate da una casa all’ altra a farci gli auguri, a scambiarci piccoli doni. Rudolf ci seguiva ovunque. Lui non aveva patria, ne’ casa, ne’ famiglia. Con le sorelle non andava d’ accordo, gli altri legami erano sempre precari. Era affamato di affetto, di calore domestico. E un mattino mi confessò : “sai Carlina, ho fatto un sogno molto, molto doloroso. Ho sognato che camminavo in un deserto tutto ricoperto di neve e a un tratto mi son trovato innanzi una scalinata fatta di grandi fette di pane, come quello vostro, toscano. Al culmine c’ era mia madre: piangeva”.

    Il pregio di questo grande artista è sempre stata la determinazione. La promiscuità nei rapporti sessuali e la non conoscenza della pericolosità di questi, portò alle tragedie derivate dallo scoppio dell’AIDS anche in campo artistico, incominciando nel 1983 con Klaus Nomi. Secondo il dott. Michel Canesi, Nureyev probabilmente è diventato sieropositivo all’inizio degli anni ’80. Con il compimento dei quarant’anni alla fine degli anni settanta e a causa dell ‘AIDS iniziò l’inevitabile declino della straordinaria potenza fisica di Nureyev. Egli tuttavia continuò per molto tempo ancora ad interpretare ruoli da protagonista nei grandi balletti classici, causando in particolare dalla seconda metà degli anni ottanta la disapprovazione di molti dei suoi ammiratori.
    A seguito della diagnosi, il ballerino incominciò le pesantissime cure sperimentali , ma il fisico di Rudolf regge, continua a danzare, senza sosta fino alla fine della sua vita, mettendo in scena nuove versioni di vecchie opere e commissionando alcuni dei più coreografici spettacoli del suo tempo, nonostante il peso degli anni e l’inevitabile affaticamento. Fino al 1989 portò avanti il ruolo di direttore all’Opera di Parigi . Nel 1991 tentò, con scarso successo di critica e pubblico, di diventare direttore d’orchestra pur non avendone le competenze specifiche. A partire dal 1992 l’artista si ritrovò ad affrontare il periodo più difficile e doloroso della sua malattia; si rimise in maniera a dir poco straordinaria, e diresse Romeo e Giulietta a New York danzato da Silvie Giullem e Laurent Hilaire. Il 4 gennaio 1993, avvolto nel suo pigiama di lana, Rudolf entrò in coma, morì il 6 gennaio 1993.




    Con la sua inesauribile vitalità Nureyev ha dato nuova linfa ai classici del repertorio, caparbio ed intelligente si cimentò nella danza classica senza precludersi lo studio della moderna, arrivando ad eliminare il confine tra i due linguaggi artistici. Per lui hanno realizzato capolavori alcuni tra i più grandi geni della danza e della coreografia, fra cui Frederic Ashton, Roland Petit, Kenneth MacMillan, , George Balanchine, Martha Graham, Maurice Béjart, Paul Taylor.
    Rudolf Nureyev rimane un mito indiscusso, come lui stesso diceva

    «Si diventa un mito quando nessuno è in grado di conquistare il cuore del pubblico dopo che tu te ne sei andato».

    Credo che solo attraverso le sue parole di Rudolf Nureyev stesso, si possa comprendere cosa fosse per il grande maestro la danza, il senso del suo essere, del suo esistere.




    Scriveva:

    “Era l’odore della mia pelle che cambiava, era prepararsi prima della lezione, era fuggire da scuola e dopo aver lavorato nei campi con mio padre perché eravamo dieci fratelli, fare quei due chilometri a piedi per raggiungere la scuola di danza.
    Non avrei mai fatto il ballerino, non potevo permettermi questo sogno, ma ero lì, con le mie scarpe consunte ai piedi, con il mio corpo che si apriva alla musica, con il respiro che mi rendeva sopra le nuvole. Era il senso che davo al mio essere, era stare lì e rendere i miei muscoli parole e poesia, era il vento tra le mie braccia, erano gli altri ragazzi come me che erano lì e forse non avrebbero fatto i ballerini, ma ci scambiavamo il sudore, i silenzi, a fatica. Per tredici anni ho studiato e lavorato, niente audizioni, niente, perché servivano le mie braccia per lavorare nei campi. Ma a me non interessava: io imparavo a danzare e danzavo perché mi era impossibile non farlo, mi era impossibile pensare di essere altrove, di non sentire la terra che si trasformava sotto le mie piante dei piedi, impossibile non perdermi nella musica, impossibile non usare i miei occhi per guardare allo specchio, per provare passi nuovi. Ogni giorno mi alzavo con il pensiero del momento in cui avrei messo i piedi dentro le scarpette e facevo tutto pregustando quel momento. E quando ero lì, con l’odore di canfora, legno, calzamaglie, ero un’aquila sul tetto del mondo, ero il poeta tra i poeti, ero ovunque ed ero ogni cosa. Ricordo una ballerina Elèna Vadislowa, famiglia ricca, ben curata, bellissima. Desiderava ballare quanto me, ma più tardi capii che non era così. Lei ballava per tutte le audizioni, per lo spettacolo di fine corso, per gli insegnanti che la guardavano, per rendere omaggio alla sua bellezza. Si preparò due anni per il concorso Djenko. Le aspettative erano tutte su di lei. Due anni in cui sacrificò parte della sua vita. Non vinse il concorso. Smise di ballare, per sempre. Non resse la sconfitta. Era questa la differenza tra me e lei. Io danzavo perché era il mio credo, il mio bisogno, le mie parole che non dicevo, la mia fatica, la mia povertà, il mio pianto. Io ballavo perché solo lì il mio essere abbatteva i limiti della mia condizione sociale, della mia timidezza, della mia vergogna. Io ballavo ed ero con l’universo tra le mani, e mentre ero a scuola, studiavo, aravo i campi alle sei del mattino, la mia mente sopportava perché era ubriaca del mio corpo che catturava l’aria.
    Ero povero, e sfilavano davanti a me ragazzi che si esibivano per concorsi, avevano abiti nuovi, facevano viaggi. Non ne soffrivo, la mia sofferenza sarebbe stata impedirmi di entrare nella sala e sentire il mio sudore uscire dai pori del viso. La mia sofferenza sarebbe stata non esserci, non essere lì, circondato da quella poesia che solo la sublimazione dell’arte può dare. Ero pittore, poeta, scultore. Il primo ballerino dello spettacolo di fine anno si fece male. Ero l’unico a sapere ogni mossa perché succhiavo, in silenzio ogni passo. Mi fecero indossare i suoi vestiti, nuovi, brillanti e mi dettero dopo tredici anni, la responsabilità di dimostrare. Nulla fu diverso in quegli attimi che danzai sul palco, ero come nella sala con i miei vestiti smessi. C’èro e mi esibivo, ma era danzare che a me importava. Gli applausi mi raggiunsero lontani. Dietro le quinte, l’unica cosa che volevo era togliermi quella calzamaglia scomodissima, ma mi raggiunsero i complimenti di tutti e dovetti aspettare. Il mio sonno non fu diverso da quello delle altre notti. Avevo danzato e chi mi stava guardando era solo una nube lontana all’orizzonte. Da quel momento la mia vita cambiò, ma non la mia passione ed il mio bisogno di danzare. Continuavo ad aiutare mio padre nei campi anche se il mio nome era sulla bocca di tutti. Divenni uno degli astri più luminosi della danza. Ora so che dovrò morire, perché questa malattia non perdona, ed il mio corpo è intrappolato su una carrozzina, il sangue non circola, perdo di peso. Ma l’unica cosa che mi accompagna è la mia danza la mia libertà di essere. Sono qui, ma io danzo con la mente, volo oltre le mie parole ed il mio dolore. Io danzo il mio essere con la ricchezza che so di avere e che mi seguirà ovunque: quella di aver dato a me stesso la possibilità di esistere al di sopra della fatica e di aver imparato che se si prova stanchezza e fatica ballando, e se ci si siede per lo sforzo, se compatiamo i nostri piedi sanguinanti, se rincorriamo solo la meta e non comprendiamo il pieno ed unico piacere di muoverci, non comprendiamo la profonda essenza della vita, dove il significato è nel suo divenire e non nell’apparire. Ogni uomo dovrebbe danzare, per tutta la vita. Non essere ballerino, ma danzare.
    Chi non conoscerà mai il piacere di entrare in una sala con delle sbarre di legno e degli specchi, chi smette perché non ottiene risultati, chi ha sempre bisogno di stimoli per amare o vivere, non è entrato nella profondità della vita, ed abbandonerà ogni qualvolta la vita non gli regalerà ciò che lui desidera. È la legge dell’amore: si ama perché si sente il bisogno di farlo, non per ottenere qualcosa od essere ricambiati, altrimenti si è destinati all’infelicità. Io sto morendo, e ringrazio Dio per avermi dato un corpo per danzare cosicché io non sprecassi neanche un attimo del meraviglioso dono della vita… “ RUDOLF NUREYEV





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