LA CUCINA NEI LIBRI...

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  1. gheagabry
     
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    LA CUCINA nella LETTERATURA



    In una delle pagine più celebri e citate della letteratura, il sapore e il profumo di una madeleine, grazie a un'improvvisa e travolgente sinestesia, riportano alla memoria di Marcel Proust la sua infanzia. Questa sensazione, e la necessità di trasformarla in scrittura, dà origine all'intero ciclo di Alla ricerca del tempo perduto, un romanzo dove le pagine legate al cibo sono assai numerose e intense: basti pensare al ruolo centrale di Francoise, la cuoca della zia Léonie, alla passione per il gelato dell'amata Albertine (e a quella di Odette de Crécy per il cioccolato), o alla straordinaria sinfonia sonora delle grida dei venditori del mercato di Parigi; e alle dettagliate descrizioni del ricevimento in casa di Mme de Villeparisis e del pranzo dalla duchessa di Guermantes (che occupano complessivamente circa la metà della Parte di Guermantes), della serata da Mine Verdurin nella Prigioniera o del ricevimento dalla principessa di Guermantes nel Tempo ritrovato.

    La madeleine proustiana, un piccolo dolce morbido in forma di conchiglia inzuppato nel tè, può esemplificare la complessità delle reazioni tra la letteratura e il cibo, ma non è certo un caso isolato: l'alimentazione è un elemento talmente importante e pervasivo nell'esperienza quotidiana, e può avere una tale forza evocativa, che è pressoché impossibile trovare un'opera letteraria che non abbia una qualche relazione con il cibo.

    Anche l'altro grande romanzo che apre il Novecento letterario, l'Ulisse di Joyce, inizia illustrando i gusti del protagonista Leopold Bloom, certo assai meno raffinati di quelli di Proust: «Mr Leopold Bloom mangiava con gran gusto le interiora di animali e di volatili. Gli piaceva la spessa minestra di rigaglie, gozzi piccanti, un cuore ripieno arrosto, fette di fegato impanate e fritte, uova di merluzzo fritte. Più di tutto gli piacevano i rognoni di castrato alla griglia che gli lasciavano nel palato un fine gusto d'urina leggermente aromatica».

    La simbiosi di parole e sapori non è un frutto della modernità: basti pensare, tra i capolavori della letteratura antica, a un «poema-mondo» come l'Odissea, che illustra ed esemplifica il variegato e complesso rapporto tra letteratura e cibo. Nel corso dei secoli questi intrecci si sono ulteriormente arricchiti, tanto che è possibile immaginare una molteplicità di percorsi di lettura sul tema dell'alimentazione.

    Nel Calamaio di Dioniso lo storico della letteratura italiana Pietro Gibellini percorre il «sentiero bacchico» che attraversa la nostra letteratura dal Settecento agli albori del Novecento: Panini assapora e insieme contesta i delicati tokay del Giovin Signore; Verri e Goldoni amano conversare in caffè ben illuminati mentre Porta e Belli, per farsi beffe del Palazzo, si rifugiano in ombrose osterie; un sorprendente Leopardi con il bicchiere in mano si sente libero dall'infausta ragione e forte come gli idoleggiati antichi; Manzoni mesce a Renzo il vino diabolico della rivoluzione e quello benedetto della grazia, Verga offre ai suoi vinti un bicchiere di quel dono divino che può diventare una trappola mortale; se Carducci brinda alla salute di un Satana vitale e progressista, il malinconico Pascoli trova nell'ebbrezza la metafora del vagheggiato oblio.

    Viceversa, la letteratura può offrire agli storici utili indicazioni per ricostruire abitudini e gusti di una civiltà, e in generale la cultura materiale di quel contesto. Recuperando magari la dualità tra il crudo e il cotto, sulle tracce dell'antropologo Claude Lévi-Strauss, che ha posto al centro della sua riflessione il fuoco come mediatore tra uomo e natura.
    Ma alla confluenza tra parola e gusto si possono inseguire percorsi più curiosi, anche senza arrivare agli estremismi del Manifesto della cucina futurista (1930) in cui Marinetti chiedeva «l'abolizione della pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana», a favore di un'alimentazione più attenta alla chimica. Si possono per esempio catalogare le «ricette d'autore» che i grandi scrittori ci hanno lasciato nei loro capolavori: tra tutte il minuzioso e spassoso «Récipe» del «Risotto patrio» vergato da Carlo Emilio Gadda nelle Meraviglie d'Italia. Un altro itinerario letterario-gastronomico lo offre il tema della fame; partendo dalle fiabe e dalle più celebri maschere della Commedia dell'Arte, Arlecchino e Pulcinella, che trovano la loro energia di personaggi proprio in una fame atavica e mai soddisfatta di cibo e di sesso; al «paese della fame» (raccontato magistralmente da un grande storico della cultura materiale come Piero Camporesi) si potrebbe affiancare la fantasia compensatoria del Paese di Bengodi, o di Cuccagna, dove si ergono montagne di formaggio e maccheroni, mentre nei fiumi scorre il vino. Poi, passando per le travolgenti abboffate del gigante Gargantua nato dalla fantasia di Rabelais, si potrebbe approdare a un capolavoro come Fame di Hamsun e al Digiunatore, protagonista di un frammento di Kafka: «sono costretto a digiunare... perché io non ho mai potuto trovare il cibo che mi piacesse. Se lo avessi trovato, credilo, non avrei fatto tante storie e mi sarei rimpinzato come te e tutti gli altri». A una fame metafisica rimanda anche la misera carota che si dividono Vladimiro ed Estragone di Aspettando Godot di Beckett. Ultima tappa, la moderna alternanza di diete e cibo spazzatura, tra anoressia e bulimia, al centro dell'esilarante Diario di Bridget Jones (1998) di Helen Fielding, o come metafora del disagio interiore e della fame esistenziale, della Biografia della fame (2004) di Amélie Nothomb.

    Si potrebbero elencare i libri costruiti intorno a un pranzo, dal Simposio di Platone al Satyricon di Petronio, con le cinquanta portate (circa) della cena di Trimalcione, dal Pranzo di Babette di Karen Blixen (in Capricci del destino), al testo teatrale di José Bergamin Los naufragos (che ha ispirato il film di Luís Bunuel, L'angelo sterminatore), a Trappola per topi di Agatha Christie. I drammaturghi prediligono i banchetti di nozze, soprattutto in atti unici come Le nozze di Cechov, La cimice di Majakovskij o Le nozze piccolo borghesi di Brecht. La sontuosità delle tavole ricche genera virtuosismi descrittivi e preziosità barocche nelle pagine del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e dei Buddenbrook di Mann.

    In alternativa, si possono inseguire i cuochi e gli osti protagonisti di testi teatrali e di romanzi: il Falstaff di Shakespeare (e di Verdi) e la Locandiera di Goldoni (anche autore di una Bottega del caffè); la signora Kazu che gestisce un ristorante a Tokyo in Dopo il banchetto di Mishima; e le anticonformiste Ruth e Idgie, la coppia al femminile che gestisce un piccolo bar-ristorante nel profondo sud degli Stati Uniti in Pomodori verdi fritti al caffè di Whistle Stop (1987) di Fannie Flagg. Alla categoria si potrebbe iscrivere anche la Madre Courage di Brecht, la vivandiera al seguito degli eserciti nella Guerra dei Trent'Anni che vede morire i suoi figli uno dopo l'altro.

    Chi ha stomaco forte apprezzerà forse un'escursione nei territori del cannibalismo: dal Tieste di Seneca (Atreo uccide i tre figli del fratello Tieste e nel corso di un banchetto gli offre le loro carni) al Titus Andronicus di Shakespeare (un'altra storia di vendetta dove il protagonista dà in pasto Chirone e Demetrio alla loro madre Tamora), fino ad Hannibal «The Cannibal» Lecter, il serial killer antropofago protagonista dei best-seller di Thomas Harris; senza dimenticare però l'horror del Conte Ugolino della Commedia dantesca, che per fame divora i propri figli; né l'humour noir di Una modesta proposta, dove Jonathan Swift, per risolvere i problemi della carestia e della sovrappopolazione in Irlanda, suggerisce di mangiare i neonati in eccesso (eliminando così anche gli aborti); una citazione merita anche Un uomo da mangiare (in originale Primordial Soup, 1999) dell'americana Christine Leunens: la giovane protagonista Kate trasforma la sua anoressia in voracità erotica, trasformando i maschi in prede prima sessuali e poi cannibaliche.

    Sul fronte delle perversioni, non si può dimenticare che nelle 120 giornale di Sodoma il marchese de Sade, consapevole delle proprietà afrodisiache di certi alimenti, prevede la presenza di «tre famose cuoche»: per la delicatezza del loro compito, né loro né le loro tre aiutanti potranno essere molestate dai crudeli libertini.

    Tra assassini e dissoluti i buongustai sono dunque molti. Ma non sono da meno i loro eterni avversari: risultano infatti sorprendentemente numerosi i detective patiti della buona cucina, dal Maigret di Simenon al Nero Wolfe di Rex Stout, dal Pepe Carvalho di Manuel Vazquez Montalbàn al commissario Montalbano di Andrea Camilleri. Le loro indagini vengono spesso inframmezzate da gustosi manicaretti (di cui a volte si può leggere – e dunque preparare – anche la ricetta, assaporando così le stesse sensazioni dell'eroe).
    I romanzi con il detective buongustaio sono diventati quasi un «sottogenere» letterario, e rischia di diventarlo anche il filone dei «romanzi golosi» o «gastronomici», ovvero i testi narrativi con ricette, o più in generale quelli che affidano al palato un ruolo centrale.

    Autorevole precursore del genere, pur trattandosi di un libro di memorie, può essere considerato Il libro di cucina di Alice B. Toklas (1954), dove l'autrice racconta le vicende dei personaggi famosi che gravitavano attorno alla vita di Gertrude Stein e alla propria, e descrive le eleganti cene che lei e il loro cuoco preparavano per gli ospiti (nel 2003 Monique Truong ha centrato il suo romanzo Il libro del sale sul personaggio del cuoco indocinese della Toklas).

    Negli ultimi anni numerosi autori – anzi, più spesso le autrici – hanno saputo coniugare il piacere della lettura con l'evocazione di piatti appetitosi. Un capostipite è senz'altro Donna Flor e i suoi due mariti di Amado (1966), seguito da Dolce come il cioccolato (1989) della messicana Laura Esquivel, ovvero Romanzo piccante in 12 puntate con ricette, amori e rimedi casalinghi (come recita il sottotitolo), in cui i due giovani protagonisti, non potendo consumare il loro amore, comunicano la loro sensualità attraverso i manicaretti che lei gli prepara; dal Cile le fa eco Isabel Allende con Afrodita, ovvero Racconti, ricette e altri afrodisiaci (1997). La forza comunicativa e simbolica del cibo è anche al centro di diversi romanzi di Joanne Harris, fin dai titoli: Chocolat (il cui successo ha ispirato vari libri sul «cibo degli dei»), Vino, patate e mele rosse, Cinque quarti d'arancia... In Gola, di John Lanchester, il protagonista Tarquin Winot, un gourmet inglese, nel corso di un viaggio gastronomico attraverso la Francia intreccia sapori e autobiografia, rivelando ai lettori la propria inquietante personalità.

    I «romanzi golosi» possono diventare anche la chiave per esplorare inquietudini e insoddisfazioni attraverso luoghi e sapori carichi di echi simbolici. In Kitchen (1988) Banana Yoshimoto racconta il proprio disagio giovanile proprio partendo dal locale più caldo della casa, fin dalla prima frase: «Non c'è posto al mondo che io ami più della cucina...» (La cucina è anche il titolo del testo teatrale di Arnold Wesker: in questo caso si tratta di quella di un grande ristorante, in una trilogia che comprende anche Patatine di contorno e Brodo di pollo con orzo). Nel racconto Fragola e cioccolato (1990), Senel Paz denuncia le difficoltà dei gay nella Cuba «machista» di Fidel Castro. Le quattro protagoniste di Mangiami (1996) dell'australiana Linda Jaivin coniugano fantasie erotiche, humour paradossale e piaceri del palato. Nel suo romanzo La vendetta della melanzana (1998) Bulbul Sharma collega le infelicità e le aspirazioni femminili alle prelibatezze della cucina indiana. Fragranze, aromi e amori proibiti si mescolano in La maga delle spezie (1997) di Chitra Banerjee Divakaruni, anch'essa indiana.
    (BARTOLOMEO SACCHI- BARTOLOMEO SCAPPI)


    LA CUCINA nei LIBRI



    "[…] Forse non riuscirò a trovare quello che sto cercando, ma almeno avrò avuto l’occasione di rievocare tutto questo: la carne grigliata, l’insalata machouia, il tè alla menta e le corna di gazzella. Mi sentivo Alì Babà. La grotta del tesoro era questo, il ritmo permetto, l’armonia scintillante tra elementi di per sé già squisiti, ma la cui successione strettamente rituale rasentava il sublime…"



    Estasi culinarie


    di Muriel Barbery





    Quando ho preso in mano "L'eleganza del riccio" non avevo mai letto nulla di questa autrice francese. Un suo libro in effetti era già stato pubblicato, ma era passato in sordina. Si trattava di Una golosità e, quando ho scritto un commento sul romanzo che l'ha resa celebre in Italia, era ancora in catalogo, tanto che, se andate a rivedere la recensione troverete un link a una pagina che ora non esiste più.
    Sì, perché quell'edizione, esaurita, è stata sostituita con questa, tutta nuova, che ha anche un titolo più accattivante, Estasi culinarie.
    Comunque, stavo dicendo che in ogni caso quel romanzo non l'avevo letto, come la maggior parte dei lettori che hanno così amato il successivo lavoro di Muriel Barbery.

    È stata perciò una piacevole sorpresa rivedere le scale del palazzo signorile che già conoscevo, quello di rue de Grenelle, incontrare nuovamente in queste pagine Renée, la portinaia, e la famiglia Arthens (quella del quarto piano).

    Bisogna senz'altro sottolineare che si tratta del primo capitolo di questa storia, il primo romanzo di Muriel, quello con cui, giustamente, la casa editrice e/o la presentava al pubblico italiano. Quello che tutti avremmo dovuto leggere prima. Pazienza, ci rifacciamo adesso.
    È indubbiamente di un romanzo meno d'ambiente e più incentrato sulla figura e sulla memoria di un protagonista unico. Un uomo di sessantotto anni.


    È il maggior critico gastronomico del mondo (non posso evitare di immaginarlo con il volto di Robert Morley grande portagonista del film di Ted Kotcheff Qualcuno sta uccidendo i più grandi cuochi d'europa), il vate della gastronomia internazionale, ha vissuto a lungo in questo palazzo e ora sta morendo.

    La sua vita, piena, egocentrica, sontuosa sta per terminare, ma questo evento non crea disperazione nel suo intimo. Il pensiero che più lo tormenta non è la fine, ma il ricordo di un indefinito, mitico sapore perduto nel tempo, nascosto nel cuore, un sapore d'infanzia che desidererebbe ritrovare più di qualsiasi altra delizia gastronomica.
    Circondato dall'odio dei figli, dalla pietà e il rimpianto inspiegabili di una moglie trascurata e tradita da sempre, dall'amore dell'unico nipote stimato, Paul, monsieur Arthens cerca di ripescare nella memoria quella sensazione prima di morire, riesumando gli effluvi del suo animo bambino, i primi passi della sua vocazione, ripercorrendo la sua vita in prima persona o attraverso i ricordi di chi l'ha conosciuto.

    "E se, in fin dei conti, a sfidarmi beffardamente fosse qualcosa di insipido?" - si domanda con ansia - "Come l'orrenda madeleine di Proust, quella stramberia pasticciera di un lugubre pomeriggio scialbo, sbriciolata in pezzi spugnosi dentro un cucchiaio di tisana - somma offesa -, magari anche il mio ricordo si associa a una pietanza mediocre, che di prezioso ha solo l'emozione che rievoca: un'emozione che potrebbe svelarmi un dono di vivere finora incompreso".

    Sa raccontare molto bene Muriel Barbery quello scherzo della memoria che tutti viviamo, soprattutto con il passare degli anni, che ci fa dimenticare molte cose o ricordarne altre come in effetti non sono mai state. Sa raccontare lo struggimento di un attimo e come nella semplicità, nella misura, spesso si nasconda la felicità vera.

    E mi vengono in mente le bellissime parole di una canzone, Sempre. Un testo di Mario Castellacci che abbiamo sentito cantare da Gabriella Ferri e nessuno poteva farlo meglio di lei:
    Ognuno è un cantastoria / tante facce nella memoria / tanto di tutto, tanto di niente / le parole di tanta gente. / Tanto buio, tanto colore / tanta noia, tanto amore / tante sciocchezze, tante passioni / tanto silenzio, tante canzoni.

    Titolo originale: Une gourmandise
    Traduzione di Emanuelle Caillat e Cinzia Poli





    Il libro è Estasi Culinarie, di Barbery Muriel, un libro affascinante, coinvolgente, trainante .. tutto ciò che parla di cucina, qui, è emozione allo stato puro, sembra di assistere alla descrizione di un eclatante evento irripetibile, eccezionale. Non stanca mai, c’è un avera e propria retorica, arte del parlare, che appartiene specificamente alla gastronomia. Come se fossero tutti (o meglio, è l’autrice ad esserlo) maestri del verbo culinario.
    La trama è questa,

    Nel signorile palazzo di rue de Grenelle, il più grande critico gastronomico del mondo, il genio della degustazione, è in punto di morte. Il despota cinico e tremendamente egocentrico, che dall'alto del suo potere smisurato decide le sorti degli chef più prestigiosi, nelle ultime ore di vita cerca di recuperare un sapore primordiale e sublime, un sapore provato e che ora gli sfugge, il Sapore per eccellenza, quello che vorrebbe assaggiare di nuovo, prima del trapasso. Ha così inizio un viaggio gustoso e ironico che ripercorre la carriera di Arthens dall'infanzia ai fasti della maturità, attraverso la celebrazione di piatti poveri e prelibatezze haute cuisine. A fare da contrappunto alla voce dell'arrogante critico c'è la nutrita galleria delle sue vittime (i familiari, l'amante, l'allievo, il gatto e anche la portinaia Renée), ciascuna delle quali prende la parola per esprimere il suo punto di vista su un uomo che, tra grandezze pubbliche e miserie private, sembra ispirare solo sentimenti estremi, dall'ammirazione incondizionata al terrore, dall'amore cieco all'odio feroce. Anche in questo romanzo d'esordio Muriel Barbery racconta, assieme ai piaceri e alle tenerezze della vita, l'arroganza e la volgarità del potere (in un ambiente spietato dove - è cronaca di questi anni - un cuoco si uccide perché ha perso una stella Michelin).
    (fiordivanilla.blogspot)



    Le prime pagine



    II sapore
    Rue de Grenelle, la camera


    "Quando prendevo possesso della tavola lo facevo da monarca. Eravamo i re, gli astri splendenti in quelle poche ore di banchetto che avrebbero deciso il loro futuro, che avrebbero segnato l'orizzonte tragicamente vicino o deliziosamente lontano e radioso delle loro speranze di chef. Facevo il mio ingresso in sala come il console che entra nell'arena a ricevere le acclamazioni, e ordinavo che la festa avesse inizio. Chi non ha mai assaporato il profumo inebriante del potere non può immaginare l'improvvisa scarica di adrenalina che irradia il corpo da capo a piedi, che scatena l'armonia dei gesti, che cancella ogni fatica e ogni realtà contraria al vostro piacere, l'estasi della sfrenata potenza di chi ormai non deve più lottare, ma soltanto godere di ciò che ha conquistato, gustandosi all'infinito l'ebbrezza di incutere timore.
    Così eravamo: regnavamo da sovrani e signori sulle più importanti tavole di Francia, pasciuti dall'eccellenza delle pietanze, dalla nostra gloria e dal desiderio mai sopito, anzi sempre inebriante come l'odore della selvaggina per il segugio, di decidere su quell'eccellenza.
    Sono il più grande critico gastronomico del mondo. Grazie a me quest'arte minore è assurta al rango delle discipline più prestigiose. Il mio nome è noto a tutti, da Parigi a Rio, da Mosca a Brazzaville, da Saigon a Melbourne fino ad Acapulco. Ho creato e demolito reputazioni, sono stato il capo supremo, consapevole e implacabile di tutti quei sontuosi banchetti; con la mia penna ho dispensato sale o miele ai quattro venti attraverso giornali, trasmissioni e dibattiti vari in cui ero invitato continuamente a discutere di argomenti fino ad allora relegati nella nicchia delle riviste specializzate o nella saltuarietà delle rubriche settimanali. Ho trafitto alcune delle più autorevoli farfalle della cucina e le ho esposte nella mia teca per l'eternità. A me, a me solo si deve la gloria e poi la rovina della maison Partais, il crollo della maison Sangerre, lo splendore sempre più sfavillante della maison Marquet. Li ho fatti diventare quello che sono per l'eternità, proprio così, per l'eternità."

    (wuz.it)



    .....ed ancora.....

    .....la maionese.....



    Passando ci avevo intinto un dito, incurante, come quando, dal bordo di una barca che si muove placida, lasciamo scorrere la mano sul filo dell'acqua fresca. Discutevamo insieme della nuova carta, era pomeriggio, un momento di scarsa affluenza di avventori, e io mi sentivo come nella cucina di mia nonna: un estraneo di famiglia ammesso nell'harem. Fui sbalordito da quell'assaggio. Non era altro che maionese, e fu proprio questo a turbarmi; come una pecora smarrita in un branco di leoni, il tradizionale condimento faceva qui la figura di un bislacco arcaismo. "Cos'è?" chiesi, sottointendendo: come può essere finita qui una banale maionese da casalinga? "Ma è maionese" mi rispose ridendo, "non dirmi che non sai cos'è la maionese!". "Maionese e basta?". Ne ero quasi sconvolto [...]
    Nessuno potrà mai scalfire la mia convinzione che le verdure crude con la maionese abbiano un che di spiccatamente sensuale. La consistenza della verdura si insinua nel velluto della crema; non avviene una reazione chimica come per molte preparazioni, in cui entrambi gli alimenti perdono un po' della loro natura per sposare quella dell'altro e, come succede al pane imburrato, tramutarsi per osmosi in una nuova e meravigliosa sostanza. La maionese e le verdure, al contrario, restano immutate, identiche a se stesse ma, come nell'atto sessuale, sono travolte dalla loro unione. La carne, poi, ne trae un guadagno ulteriore. I suoi tessuti friabili, infatti, si lacerano sotto i denti e si riempiono del condimento, di modo che noi, senza falso pudore, mastichiamo un cuore compatto cosparso di morbidezza. A questo si unisce la delicatezza di un sapore garbato, giacché la maionese non ha note pungenti nè piccanti e, come l'acqua, sorprende la bocca con la sua affabile neutralità; e poi le squisite sfumature del valzer degli ortaggi: la nota piccante e insolente del ravanello e del cavolfiore, quella zuccherina e acquosa del pomodoro, quella discretamente acida del broccolo, quella generosa e ampia della carota, il retrogusto di anice croccante del sedano... È una festa.


    Edited by gheagabry - 26/8/2012, 18:04
     
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