FIABE DEI F.LLI GRIMM, Jacob e Wilhelm

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  1. gheagabry
     
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    Nella prefazione alle “Fiabe” si legge:

    “Forse era arrivato proprio il momento di metterle [le fiabe] per iscritto; coloro che devono conservarle, infatti, si fanno sempre più rari…”.

    Con queste parole inizia la più famosa raccolta di favole al mondo, pubblicata per la prima volta nel 1812. Sono oltre duecento i testi raccolti da Jacob e Wilhelm Grimm, attingendo, il più delle volte a Kassel e nei dintorni, alla tradizione sia scritta che orale.


    Jacob e Wilhelm Grimm





    Jacob Grimm e Wilhelm Grimm nascono rispettivamente il 4 gennaio 1785 e il 24 febbraio 1786 a Hanau.
    Nel 1802 Jacob Grimm e, l’anno seguente, suo fratello Wilhelm intraprendono gli studi di giurisprudenza a Marburgo. Jacob e Wilhelm viaggiano molto, sia in Germania che in Europa, per esempio a Vienna, Parigi, Bruxelles. A Weimar Wilhelm Grimm incontra Johann Wolfgang von Goethe con cui s’intrattiene più volte.
    Nel 1812 i fratelli Grimm pubblicano il primo volume della loro raccolta di fiabe (Kinder- und Hausmärchen). Quattro anni più tardi segue il primo volume di saghe germaniche.
    Nel 1829 entrambi i fratelli si trasferiscono a Gottinga. Dal 1830 Jacob lavora dapprima come bibliotecario, per diventare poi professore dell’Università di Gottinga. Anche Wilhelm inizia come bibliotecario per diventare, nel 1835, professore.
    Nel novembre del 1837 il Re Ernesto Augusto I di Hannover abroga la Costituzione del Regno di Hannover, promulgata quattro anni prima, scatenando le proteste dei “Sette di Gottinga” (Göttinger Sieben): un gruppo di sette professori dell’Università di Gottinga, fra cui anche Jacob e Wilhelm Grimm. In seguito alla protesta i fratelli Grimm vengono licenziati dall’impiego statale e rientrano in un primo momento a Kassel. Il 2 novembre 1840, grazie all’impegno di personalità influenti come Bettina von Arnim, Alexander von Humboldt e altri, Re Federico Giuglielmo IV di Prussia invita i fratelli Grimm a Berlino, dove, l’anno successivo, sono assunti dall’Accademia delle Scienze.
    Il 16 dicembre 1859 Wilhelm Grimm muore a seguito di un colpo apoplettico. Jacob Grimm si spegne il 20 settembre 1863. All’epoca il “Dizionario di tedesco di Jacob Grimm e Wilhelm Grimm” è arrivato solo alla lettera F. Oltre agli studi scientifici condotti dai fratelli Grimm a Berlino, questo dizionario ha segnato l’inizio della linguistica tedesca.
    (goethe.de)



    All'inizio del XIX secolo la Germania era frammentata in centinaia di principati e piccole nazioni, unificate solo dalla lingua tedesca. Una delle motivazioni che spinsero i Grimm a trascrivere le fiabe, altro retaggio culturale comune dei popoli di lingua tedesca, fu il desiderio di aiutare la nascita di una identità germanica. I fratelli perseguirono questo scopo anche lavorando alla compilazione di un dizionario di tedesco, il Deutsches Wörterbuch. Sebbene meno noto al grande pubblico moderno, il Deutsches Wörterbuch fu un passo essenziale nella definizione della lingua tedesca moderna "standard", probabilmente il più importante dopo la traduzione della Bibbia da parte di Martin Lutero. Il dizionario dei Grimm, in 33 volumi, è ancora oggi considerato la fonte più autorevole per l'etimologia dei vocaboli tedeschi. Jacob Grimm è soprattutto famoso in linguistica per aver formulato la legge sulla prima mutazione consonantica, legge di Grimm (o Erste Lautverschiebung), nelle lingue germaniche rispetto all'indoeuropeo e, più in particolare, sull'evoluzione di alcuni dialetti tedeschi rispetto alle altre lingue germaniche (zweite Lautverschiebung), anticipata dagli studi comparativi del filologo danese Rasmus Rask nel "Saggio sull'origine dell'antico norvegese o islandese" pubblicato nel 1818, ma scritto nel 1814. Grimm è tuttora considerato il più importante tra i fondatori della moderna filologia germanica. Egli approfondì le tematiche studiate da Rask e, nel 1822, le sviluppò nella seconda edizione della Deutsche Grammatik.



    Jacob e Wilhelm Grimm, inseparabili sin dall’infanzia, studiarono, scrissero e vissero insieme per tutta la loro vita. Anche se ebbero interessi e temperamenti diversi, più austero Jacob (1785-1863), più solare e gaio Wilhelm (1786-1859) sentirono la stessa missione: “[…] elevare il mondo germanico a un organismo poetico-politico concluso in se stesso, ma che assumesse il valore eterno di un simbolo cui essi si ispiravano” (Grimm, Le fiabe del focolare, Torino 1951, Introduzione di G. Cocchiara p.17-18).
    I canti popolari furono il primo interesse dei Grimm: in effetti, in accordo con le idee del Romanticismo, i Grimm esaltarono la tradizione dell’antichità germanica, il Medio Evo ed il popolo. Vicini, in particolare, alla filosofia dell‘idealismo di Schelling e di Hegel, concepirono il Volksgeist, cioè lo spirito popolare, come collettività, come espressione di desideri e di tratti caratteristici comuni. Sulla base di questi principi, occorreva innanzitutto documentare l‘evoluzione nel corso dei secoli del Volksgeist, per creare una coscienza d‘identità nazionale tedesca.
    L’idea di raccogliere, registrare e pubblicare materiali provenienti dalla tradizione popolare orale, venne a due amici dei Grimm. Infatti Achim von Arnim e Clemens Brentano pubblicarono una raccolta di canti popolari con qualche ritocco e abbellimento, nell’intenzione di dare al popolo un testo educativo (Calvino, Sulla fiaba, Torino 1988, p.84). Benché mossi da obiettivi comuni, il criterio di lavoro, seguito dai Grimm, fu, sostanzialmente diverso.
    Su questo punto, in particolare, abbiamo diverse ipotesi interpretative. Secondo Italo Calvino che, nel già citato saggio Sulla fiaba, ha dedicato a Le fiabe del focolare poche ma intelligentissime pagine, i due fratelli furono i primi a intendere una raccolta di testi del folclore come un lavoro scientifico, proponendosi di rendere fedelmente con la scrittura la parola del popolo (Calvino op. cit. p. 84). Stando a Calvino, dunque, gli autori delle fiabe, oltre alla popolazione rurale intervistata direttamente dai due fratelli, sarebbero stati amici e familiari dei Grimm stessi. Avrebbero quindi avuto un ruolo di forte rilievo le narrazioni, subito trascritte, fatte dalla fidanzata e poi sposa di Wilhelm (Calvino op. cit. p.85) e poi quelle di cognate, cugine, ecc. Attingendo largamente anche a materiali tratti dall’antica tradizione germanica (manoscritti medievali, libretti, testi religiosi del tempo di Lutero) i Grimm, secondo Calvino, avrebbero tradotto dai dialetti e rinarrato le storie in base a una loro idea di semplicità popolare. Nel corso degli anni, però, cambiarono i criteri di lavoro. Infatti, se inizialmente la registrazione fedele al dettato popolare fu il loro punto d’onore (Calvino op. cit. p. 85) e, al tempo stesso, fu motivo di polemica con l’amico Arnim, poi i Grimm lavorarono esclusivamente sulla base delle varianti della stessa fiaba.
    Le teorie di Calvino sono vicine e in un certo senso assimilabili a quelle di Giuseppe Cocchiara, storico del folclore, autore del saggio Storia del folclore in Europa. Fra i due, all’inizio del 1954, vi fu uno scambio epistolare decisivo per la storia della letteratura italiana e più in generale per tutta la favolistica mondiale. In breve, nella lettera indirizzata all’amico Cocchiara, Calvino, con una reticenza molto sintomatica, si presenta come il destinatario di un mandato editoriale- quello della Casa editrice Einaudi- a cui si richiamerà fin dalla prima riga della sua Introduzione alle Fiabe Italiane (Introduzione di M. Lavagetto al saggio Sulla fiaba p.8).
    Giuseppe Cocchiara, nell’introduzione a Le fiabe del focolare, sostiene che le sette edizioni dei Kinder und Hausmarchen presentano delle differenze sostanziali, che riguardano sia il numero dei Marchen, sia il criterio di compilazione. I Grimm, infatti, erano convinti che la forma dei Marchen cambiasse col cambiare dei novellatori, assumendo di volta in volta uno stile diverso: era necessario, ove si volesse avere il più genuino dei Marchen, restituirgli la sua forma primitiva, combinando insieme le diverse varianti e integrando l’una con l’altra. (Cocchiara op. cit. pp. 6-7). Partendo, dunque, da un certo numero di varianti di una stessa fiaba, i Grimm le integravano in un’unica narrazione, introducendovi delle aggiunte personali, sostenendo tuttavia di rispettarne la verità ed il significato interiore.
    Tra i principali cambiamenti introdotti nel corpus dei racconti popolari alcuni riguardano gli aspetti stilistici. A livello tematico, spiccano i tagli e le censure, mirati a riflettere da vicino la visione del mondo della borghesia, non urtando il senso morale. Secondo Zipes, la fiaba letteraria diventò uno strumento pedegogico in mano alla borghesia: si pensi ai contenuti morali ed educativi che i fratelli aggiunsero alle storie popolari, nonché ai ruoli sessuali (donne passive e docili, uomini attivi ed avventurosi) e ai modelli comportamentali (basati su virtù tipicamente borghesi quali l’ordine, l’oculatezza, la tranquillità domestica, l’operosità ecc.) che le fiabe in questione veicolavano.
    Cusatelli, analizzando le Kinder und Hausmarchen, sfata il luogo comune che vede i due fratelli girare in lungo e in largo la Germania, alla ricerca delle radici popolari del folclore nazionale. Dal suo studio infatti risulta che i Grimm, nella fase di raccolta del materiale folclorico, si avvalsero di un gruppo di collaboratori. Si trattava di giovani universitari che, un po’ per passione, un po’ per gioco, intervistavano, con la più assoluta naturalezza gli anziani che popolavano le campagne di Munster, di Amburgo, dell’Assia fino alla zona del Mare del Nord. I materiali raccolti poi venivano inviati per lettera ai Grimm i quali, propria manu, provvedevano alla selezione e alla rielaborazione. Giunti a questo punto, consapevoli che, nel momento in cui scrivevano, la fiaba diveniva per così dire acqua purissima che scorreva dalle fonti ma che si intorbidiva al loro tocco (come scrive Cambi) i due fratelli dovevano affrontare il problema, delicatissimo, della trascrizione. Le difficoltà, naturalmente, riguardarono anche e soprattutto l’aspetto linguistico, visto che la maggior parte dei corrispondenti parlavano in dialetto. Grazie ad una fitta rete di corrispondenze epistolari con amici ed esperti, a cui veniva chiesto espressamente quali accorgimenti adottare, i Grimm in alcuni casi preferirono trascrivere le fiabe così come erano pervenute.
    Anche Schenda nell’articolo intitolato Raccontare fiabe, diffondere fiabe (in La Ricerca Folklorica No. 12, Il viaggio, la prova, il premio. La fiaba e i testi extrafolklorici Oct., 1985, pp. 77-86), afferma che “la grande maggioranza delle fiabe della loro raccolta è di origine letteraria e venne notata o meglio trascritta in ambiente borghese sotto dettatura, in particolare a Kassel, presso i Wild e gli Hassenpflug” (op. cit. p. 78). In realtà, a Kassel, i fratelli Grimm raccolsero preziose informazioni da una contadina: Frau Viehmann. Della donna, però, che compare nell’introduzione al secondo volume delle fiabe grimmiane del 1914, non abbiamo da parte dei due presunti intervistatori notizie riguardo il suo stato sociale ed il suo livello di educazione.
    Secondo Schenda, anche le Leggende tedesche, che furono pubblicate nel 1816, provengono da fonti a stampa o comunque scritte. Infatti, “là dove la loro origine è indicata come orale - precisa Schenda – si intende semplicemente che un collaboratore in una comunicazione scritta ai due fratelli aveva espresso il parere che quella particolare storia fosse stata raccontata da qualche parte e in qualche momento nei dintorni della sua zona” (op. cit. p. 78). Pur obiettando le teorie romantiche, secondo le quali, fin dall’età pagana, la narrativa popolare sarebbe nata dalla trasmissione orale degli strati sociali inferiori, Schenda riconosce ai Grimm il merito di aver creato “piccoli poemi letterari in prosa”. Individuando i valori culturali delle popolazioni rurali analfabete, secondo Schenda, i Grimm “collaborarono alla ricostruzione, che allora sembrava necessaria, di un comune passato di storia nazionale per tutti i membri dei piccoli stati tedeschi” (op cit. p. 79).
    Oltre alle fonti orali, i Grimm attinsero al repertorio già esistente di fiabe letterarie e lo rielaborarono secondo criteri stilistici propri. Naturalmente, conoscevano Le piacevoli notti di Straparola, Lu cunto de’ li cunti di Basile, Le contes de Ma mere L’Oye di Perrault, testi che leggevano in lingua originale.
    L’opera e la sua fortuna
    Le sette le edizioni che ebbero le Kinder und Hausmarchen durante la vita dei Grimm presentano delle differenze sostanziali. Esse non riguardano solo la struttura ed il numero delle fiabe, soggette a continui ampliamenti, variazioni, interventi che inizialmente furono dei due fratelli, poi, solo di Wilhelm. Lungo questo iter editoriale, che va dal 1812 al 1856, alcuni racconti furono addirittura eliminati. Il titolo, che letteralmente significa Fiabe per i bambini e per la casa, traduce la concezione dell’infanzia di Jacob Grimm.
    “Il primo volume – ci informa Calvino – uscì nel 1812 a Natale, con una vignetta (disegnata da un terzo fratello Grimm, Ludwig) in cui un angelo custode appariva a fianco del cerbiatto e della bambina di Fratellino e sorellina, dando un suggello cristiano alle metamorfosi pagane del testo […]” (Calvino op. cit. p.89).
    Sebbene i Kinder-und Hausmarchen non fossero destinati originariamente ad un pubblico infantile, tutte le edizioni dal 1819 in poi si rivolsero esplicitamente ai bambini, ed in questo senso possiamo notare una certa evoluzione del concetto d’infanzia e dell’importanza del ruolo sociale e letterario dei bambini come fruitori di fiabe nella società del tempo. Lo spostamento di destinazione è dovuto a Wilhelm che, avendo preso in mano le redini della raccolta del 1819, vi introdusse ulteriori cambiamenti affinché i racconti si adeguassero alla sua immagine dell’infanzia e esercitassero quella funzione pedagogica che egli attribuiva ad essi. Il pubblico borghese accolse questa iniziativa con tale entusiasmo che da quel momento in poi la raccolta grimmiana divenne una vera e propria istituzione nazionale, attraverso cui i bambini di molte generazioni assorbirono valori basilari della cultura dominante.
    La fortuna dei Kinder und Hausmarchen, in realtà, fu duplice. Sulle tracce delle fiabe grimmiane, adattate e tradotte in tutte le lingue, si sono mosse, generalmente, le numerose raccolte di fiabe per bambini che hanno affollato il mercato editoriale a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Ma c’è di più. L’opera dei Grimm, considerata documento folclorico di altissimo livello, aprì la via alla “novellistica popolare comparata. Durante tutto il secolo migliaia di ricercatori illustri o oscuri seguirono l’esempio dei Grimm, e registrarono i racconti della tradizione orale dei loro paesi, nelle lingue e nei dialetti d’Europa” (Calvino op. cit. p.87)
    (MAURA MASCHIETTI)


    Edited by gheagabry - 30/7/2012, 21:59
     
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  2. gheagabry
     
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    Favole Classiche

    Frau Holle
    Una vedova aveva due figlie. Una era bella e laboriosa, l'altra brutta e pigra. Ma la donna aveva molto più affetto per quella brutta e pigra perché era figlia sua, mentre l'altra era costretta a sbrigare tutte le faccende di casa come una serva, una cenerentola. Tutti i giorni la povera ragazza, seduta accanto al pozzo che c'era sulla via maestra, doveva filare, filare e filare fino a che le dita cominciavano a sanguinarle.

    Un giorno successe che il fuso si era tutto imbrattato di sangue e la ragazza si spenzolò nel pozzo per sciacquarlo, ma il fuso le sfuggì di mano e cadde giù. La ragazza si mise a piangere, corse dalla matrigna e le raccontò la disgrazia che le era successa. Ma la donna la rimproverò aspramente e, senza muoversi a pietà, le disse: "Hai fatto cadere il fuso nel pozzo? Bene, e allora ritiralo fuori!". Così, la ragazza tornò al pozzo senza sapere cosa fare; angosciata com'era, non seppe trovare di meglio, per recuperare il fuso, che saltare lei stessa dentro al pozzo. Perse i sensi, e quando si ridestò e tornò in sé, si ritrovò in un bel prato dove il sole splendeva su mille e mille fiori colorati. Prese a camminare e arrivò a un forno pieno di pane; il pane gridava: "Oh, tirami fuori, tirami fuori, se no brucio. E' un bel pezzo che son cotto!". La ragazza si avvicinò e con la pala tirò fuori, uno per uno, tutti i pani. Poi riprese il cammino e arrivò vicino a un albero carico di mele; l'albero gridò: "Oh, scuotimi, scuotimi, noialtre mele siamo bell'e mature!" La ragazza scosse l'albero così che le mele caddero a pioggia, e continuò a scuoterlo finche' sulla pianta non rimase un solo frutto. Dopo aver raccolto tutte le mele in un bel mucchio, proseguì per la strada. Alla fine arrivò in vista di una casetta alla quale stava affacciata una vecchia. La ragazza si spaventò perché la donna aveva dei dentoni da non si dire, ma, mentre faceva l'atto di scappar via, la vecchia le rivolse la parola: "Perche' hai paura, bambina mia! Resta da me, se farai tutte le faccende di casa a puntino, ti troverai bene! Devi solo stare attenta a rifarmi il letto per bene e a sprimacciarlo a dovere, perche' le piume volino via e cada così la neve sulla terra. "Io sono Frau Holle".

    Data la gentilezza con cui la vecchia le aveva parlato, la ragazza riprese coraggio, accettò la proposta e si mise al servizio della donna. Svolse tutti i lavori con piena soddisfazione della vecchia e il letto lo sprimacciava sempre con tale energia che le piume volavano all'intorno come fiocchi di neve. In cambio, stava bene in quella casa, mai una parola cattiva, e tutti i giorni in tavola non mancava né il lesso né l'arrosto. Era già un bel pezzo che la ragazza stava da Frau Holle, quando, a un certo punto, cominciò a sentirsi triste. All'inizio non sapeva neppure lei cosa le mancava, ma alla fine si rese conto di avere nostalgia di casa. Benché qui, da Frau Holle, stesse mille volte meglio che a casa sua, sentiva però nostalgia di tornarci. Ne parlò con la vecchia: "Mi è venuta nostalgia di casa, e anche se laggiù non sto bene come qui, non posso restare ancora; devo tornare dai miei". Frau Holle rispose: "Mi fa piacere che tu desideri tornare a casa, e poiché mi hai servito così fedelmente, ti voglio portare lassù io stessa". La prese per mano e la condusse davanti a un grande portone. Questo si aprì, e, appena la ragazza fu sotto la volta, cadde giù una scrosciante pioggia d'oro, e tutto quell'oro, che era davvero tanto, le restò attaccato addosso."E' giusto che tu lo abbia, perche' sei stata laboriosa", disse Frau Holle, riconsegnandole anche il fuso che le era caduto nel pozzo. In quel mentre il portone si richiuse e la ragazza si trovò lassù nel mondo, non distante dalla casa della madre. E quando arrivò nel cortile, il galletto che era appollaiato sul pozzo cominciò a cantare:

    "Chicchirichì!
    La nostra fanciulla tutta d'oro, eccola qui!"

    Entrò in casa e, dato che era tutta coperta d'oro, ebbe una buona accoglienza dalla madre e dalla sorella. La ragazza raccontò tutto quello che le era capitato, e quando la madre sentì come le era arrivata tutta quella ricchezza, s'intese di procurare la stessa fortuna alla figlia brutta e pigra. Quest'ultima dovette mettersi accanto al pozzo a filare, e, per sporcare di sangue il fuso, si punse la mano infilandola fra i rovi. Poi gettò il fuso nell'acqua e ci saltò dentro anche lei. Come l'altra arrivò su un bel prato e imboccò il medesimo sentiero. Quando fu in prossimità del forno, ecco il pane che grida: "Oh, tirami fuori, tirami fuori, se no brucio! E' un bel pezzo che son cotto". Ma la pigra rispose: "Sì, avessi voglia di sporcarmi!" e tirò avanti. Subito dopo arrivò vicino al melo, che gridò: "Oh, scuotimi, scuotimi, noialtre mele siamo bell'e mature!". Ma lei rispose: "Ma che sei matto, me ne avesse a cascare una in capo!". E tirò dritto. Quando fu davanti alla casa di Frau Holle, non ebbe paura perché sapeva già dei dentoni, e subito si mise al suo servizio. Il primo giorno, facendo forza su se stessa, fu laboriosa ed eseguì tutto quello che Frau Holle le diceva di fare. Il secondo giorno, però, cominciò a bighellonare, e il terzo ancora di più e finì che la mattina non voleva neppure alzarsi. Non rifaceva neanche a dovere il letto di Frau Holle e non lo sprimacciava in modo che le piume volassero via. Tutto ciò non piacque alla vecchia che la licenziò. La pigra ne fu contenta perché pensava che adesso sarebbe stato il momento della pioggia d'oro. Frau Holle condusse anche lei al portone, ma, quando fu sotto la volta, al posto dell'oro, le si riversò addosso un paiolo di pece. "E' in ricompensa dei tuoi servigi", disse Frau Holle, e chiuse il portone. La pigra arrivò a casa, ma era coperta di pece, e il galletto sul pozzo, appena la vide, si mise a gridare:

    "Chicchirichì,
    la nostra fanciulla tutta sudicia, eccola qui!"

    E la pece le restò attaccata addosso e non volle andarsene finché visse.

    (F.lli Grimm)
     
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  3. gheagabry
     
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    Favole Classiche

    "Gli gnomi e il calzolaio" – Seconda e Terza Favola -
    C'era una volta una povera serva, era laboriosa e pulita, spazzava la casa tutti i giorni e buttava le immondizie su un grosso mucchio davanti alla casa. Un giorno, mentre stava per mettersi al lavoro, trovò una lettera e, poiché non sapeva leggere, mise in un angolo la scopa e la portò alla sua padrona. Era un invito da parte degli gnomi, che la pregavano di tenere a battesimo un bambino. La serva non sapeva cosa fare, ma alla fine, dopo molto dirle che una cosa simile non si poteva rifiutare, si lasciò convincere ed acconsentì. Vennero tre gnomi e la condussero in una caverna, dove abitavano. Là tutto era piccolo, ma bello e sfarzoso oltre ogni dire. La puerpera giaceva in un letto d’ebano con i pomoli di perle, le coperte erano trapunte d’oro, la culla era d’avorio e il bagnetto d’oro. La ragazza fece da madrina, poi voleva tornare a casa, ma gli gnomi la supplicarono di restare con loro tre giorni. Ella rimase e passò il tempo divertendosi e i nani le facevano molte gentilezze. Alla fine, quando si mise in strada, le riempirono le tasche d’oro e la portarono fuori dal monte. Quando arrivò a casa volle rimettersi al lavoro, prese in mano la scopa che era ancora nell’angolo e cominciò a spazzare. Dalla porta uscirono persone che non aveva mai visto e chiesero chi fosse e che cosa facesse.

    Non erano stati tre giorni, come lei aveva pensato, ma sette anni quelli che aveva passato dagli omini e nel frattempo la sua antica padrona era morta.
    Terza Favola
    A una madre gli gnomi avevano rubato il bambino dalla culla e al suo posto avevano messo un mostriciattolo con un testone e due occhi in fuori che non faceva che bere e mangiare.Nella disperazione la donna andò dalla vicina per chiederle un consiglio. Questa le disse di portare il mostro in cucina e di metterlo sulla stufa, di accendere il fuoco e di far bollire l’acqua in due gusci d’uovo: lo avrebbe fatto ridere e, se rideva, con lui era finita. La donna fece quello che la vicina le aveva detto. Quando mise sul fuoco i gusci d’uovo pieni di acqua, quello dalla gran testa disse: "Sono vecchio come il grande bosco ma mai ho visto cucinare dentro i gusci d'uovo." E cominciò a ridere. Mentre rideva a un tratto arrivarono un gran quantità di gnomi che portavano il bambino giusto, lo misero sul fuoco e si ripresero il mostro.

    (F.lli Grimm)
     
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  4. gheagabry
     
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    Favole Classiche

    Re Mentone
    C'era una volta un Re che aveva una figlia immensamente bella, ma allo stesso tempo così superba ed arrogante che nessun pretendente le andava bene. Prima li sbefeggiava, infine li scartava miseramente. Una volta il Re diede una grande festa alla quale furono invitati pretedendenti da ogni dove. Li fece mettere tutti in fila, e in ordine di rango: prima i sovrani, poi i granduchi, dopo, i principi, poi i conti, poi i baroni, infine gli aristocratici; uno per uno, furono presentati alla principessa, ma ella trovò in ognuno di loro qualcosa da obiettare. Qualcuno era troppo grasso: "Assomiglia tanto a una botticella" disse; un altro era troppo alto: "alto e smilzo, sembra un manico di scopa." Naturalmente, il terzo era troppo basso: "basso come un tappo e pure tracagnotto." Il quarto era per lei troppo pallido: "smunto come la morte". Il quinto era troppo rosso: "gallo da primo premio." Mentre il sesto era addirittura troppo poco dritto: "Legna verde fa fumo nel camino." E così via; furono ridicolizzati e bocciati tutti senza appello, in modo particolare un giovane e buon re che si trovava in prima fila, il cui mento era leggermente sporgente. "Ma guardatelo!" esclamò, ridendo, "ha un mento che sembra il becco di un tordo!" E da quel momento lo battezzò «Re Mentone». A quel punto, il vecchio Re, stufo di vedere la figlia che non faceva altro che schernire la gente e offendere tutti i pretendenti alla sua mano, andò su tutte le furie e le giurò che il primo straccione che avesse varcato la soglia del palazzo, l'avrebbe avuta in moglie. Ed ecco che appena qualche giorno dopo, giunse sotto le finestre del palazzo un suonatore ambulante venuto da chissà dove per guadagnare qualche soldo. Il Re se ne accorse e lo fece salire, e così, il vecchio cantore, vestito di stracci lerci e consunti, fu ammesso a cantare per il Re e la Principessa; a fine esibizione domandò una piccola offerta, e il Re, disse: "La tua canzone mi è piaciuta tanto, che voglio concederti la mano di mia figlia". A quelle parole la principessa inorridì, ma il Re disse: "Ho giurato che ti avrei fatta sposare al primo mendicante che si fosse presentato, e intendo mantenere la parola". La fanciulla protestò, ma inutilmente: il Re convocò immediatamente un sacerdote ed ella fu unita in matrimonio al menestrello in seduta stante. Ma non basta: appena le nozze furono celebrate, il Re disse: "Non sta bene che la moglie di un mendicante soggiorni nel mio palazzo. Ti invito, quindi, ad andartene via subito con tuo marito". Il mendicante prese sua moglie per mano, ed ella dovette andar via con lui, a piedi; arrivarono a una grande foresta, ed ella chiese al marito: "A chi appartiene questo bel bosco?". "è di Re Mentone. Se l'avessi sposato, oggi tutto questo sarebbe tuo." "Oh, me misera! Se solo avessi accettato di sposare Re Mentone.." Dopo un po', attraversarono una prateria, ed ella chiese ancora: "Di chi è questa bella e verde prateria?" "Appartiene a Re Mentone. Se tu l'avessi accettato come marito, oggi sarebbe tua". "Oh, me misera! Se solo avessi accettato di sposare Re Mentone.." "Senti, non mi va che tu stia sempre a lagnarti che hai sposato me e non un altro" disse il menestrello, "non ti vado bene, io?" Finalmente giunsero a una misera capanna, e la moglie chiese al marito: "Oh, buon Dio.. Come'è minuscola questa casa.. A chi appartiene questo misero tugurio?" Il vecchio rispose: "A me. Questa è casa mia, e da oggi è anche la tua. Ci vivremo insieme." Tanto era basso l'ingresso, che la ragazza dovette chinarsi per entrare. "Dov'è la servitù?" chiese al marito. "Quale servitù?" rispose il mendicante, "d'ora in poi dovrai arrangiarti da sola. Su, forza, adesso: accendi subito il fuoco e metti a bollire dell'acqua, e preparami qualcosa da mangiare, che sono molto stanco." Ma la principessa non ne sapeva nulla di come si accende un fuoco e di come si cucina, e quindi il mendicante dovette aiutarla a fare tutto, poiché lei non sapeva fare niente. Quando ebbero finito di consumare il loro misero pasto se ne andarono a letto, e la mattina dopo la fece alzare di buon'ora per fare i mestieri di casa. Per alcuni giorni, i due poterono tiare avanti così, come potevano, ma ben presto esaurirono le poche provviste. Il vecchio mendicante disse allora alla moglie: "Moglie, se vogliamo continuare a mangiare e a bere, dobbiamo guadagnare dei soldi. Da oggi intreccerai dei cesti." E andò fuori a tagliare dei salici, e li portò in casa; cominciò allora ad intrecciare, mai giunchi duri le rovinavano le mani delicate. "Vedo che non fa per te" disse il menestrello. "Forse è meglio che provi a filare: magari ti riesce meglio." La fanciulla sedette all'arcolaio e cominciò a filare, ma il filo duro e grezzo le tagliava le dita delicate fino a fargliele sanguinare. "Povero me! Sei proprio una buona a nulla! Non ho fatto un grande affare con te.. Proverò ad intraprendere un commercio di vasi di terracotta. Tu dovrai solo portarli al mercato e venderli." Ed ella pensò, ' Oh, me misera! Se dovessero vedermi i servi di mio padre, si prenderebbero gioco di me.. una principessa che vende terraglia all'angolo di una strada!" Protestò, invano, e alla fine dovette fare come il marito ordinava, se non voleva morir di fame. All'inizio andò tutto bene; la gente comprava volentieri da lei perché era una bella donna, e pagava senza lamentarsi: c'era persino chi le regalava il denaro senza portarsi via la merce, e con il ricavato di quelle vendite tirarono a campare, fino a quando i soldi finirono, e il marito dovette acquistare altra terracotta; la principessa si mise all'angolo del mercato ed espose la merce, ma improvvisamente un ussaro ubriaco galoppò proprio in mezzo alle terraglie, frantumandole in mille pezzi. La poveretta si mise a piangere, e si disperò tanto che non sapeva più che cosa fare. "Oh, buon Dio! Che ne sarà di me? Che cosa dirà, adesso, mio marito?" Corse a casa a accontargli la disgrazia. "Chi è così sciocco da piazzarsi sull'angolo della strada con tutta la merce?" disse il marito. "E' palese che non sei capace di lavorare, comunque, adesso smettila di piangere e ascoltami: oggi sono capitato per caso al palazzo del re, e ho chiesto se per caso avessero bisogno di una lavapiatti; mi hanno promesso di prenderti: in cambio avrai vitto gratuito." Così, la figlia del re diventò una sguattera; dovette dare una mano a cucinare e da quel momento tutti i lavori più pesanti toccarono a lei. S'allacciò una brocchetta alle tasche, e lì nascondeva gli avanzi di cibo da portare a casa, e vissero di quello.

    Accadde poi un giorno che furono annunciate le nozze del figlio minore del re, e la poveretta andò a sbirciare attraverso la porta della salone. Quando furono accese tutte le luci e vide la sala addobbata in pompa magna per l'avvenimento, nel vedere sfilare una ad una donne bellissime, vestite da gran dame, pensò allora alla sua scarna condizione con il cuore gonfio di tristezza, e in quel mentre maledì l'orgoglio e la boria che l'avevano condannata a tanta miseria. Un odorino prelibato usciva dalle pietanze luculliane che passavano in rassegna, stuzzicando le sue narici; di tanto in tanto qualche cameriere le lanciava un boccone, che prontamente acchiappava per infilarlo nella brocchetta per portarselo a casa. Improvvisamente il promesso sposo varcò la soglia, indossando abiti eleganti di seta e velluto, portando al collo tante catenine d'oro; quando vide quella bella donna che stava ferma davanti alla porta, la prese per mano e la invitò a ballare, ma ella rifiutò, spaventata, poiché vide che era Re Mentone, il pretendente che aveva respinto e deriso. Cercò di divincolarsi, ma lui la spinse nel salone, ed ecco che la cintura che le teneva allacciata la brocca alla vita, si slacciò, finendo per rovesciarsi in terra con tutto il suo contenuto: la minestra colava e gli avanzi si sparsero dappertutto. A quella scena, gli ospiti risero e si presero gioco di lei, e lei si sentì sprofondare dalla vergogna. Con un balzo raggiunse la porta, decisa a fuggire, ma un uomo l'afferrò per un braccio e la ricondusse nella sala, e quand'ella volse lo sguardo vide che era ancora Re Mentone, che le disse affettuosamente: "Non avere paura. Sono io il povero menestrello che ha vissuto con te nella miserabile capanna nel bosco. Mi sono travestito per amor tuo, e fui ancora io l'ussaro che quel giorno ti distrusse tutti i vasi di terracotta. Ho fatto tutto questo per domare il tuo orgoglio e per punirti dell'arroganza con la quale mi avevi trattato." La principessa pianse amaramente e disse: "Ho agito malissimo, non merito di diventare vostra moglie." Ma lui disse: "Rasserenati, quel tempo è finito, e adesso celebreranno il nostro matrimonio." Entrarono due damigelle e vestirono la principessa sontuosamente; poi, venne anche suo padre, e tutta la corte augurò ogni bene alla coppia, ed ella divenne la sposa di Re Mentone, e da quel momento la loro felicità fu completa.

    Quanto sarebbe stato bello se anche noi due ci fossi stati!

    (F.lli Grimm)
     
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  5. gheagabry
     
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    Il principe Ranocchio
    Nei tempi antichi, quando desiderare serviva ancora a qualcosa, c'era un re, le cui figlie erano tutte belle, ma la più giovane era così bella che perfino il sole, che pure ha visto tante cose, sempre si meravigliava, quando le brillava in volto. Vicino al castello del re c'era un gran bosco tenebroso e nel bosco, sotto un vecchio tiglio, c'era una fontana: nelle ore più calde del giorno, la principessina andava nel bosco e sedeva sul ciglio della fresca sorgente; e quando si annoiava, prendeva una palla d'oro, la buttava in alto e la ripigliava; e questo era il suo gioco preferito.

    Ora avvenne un giorno che la palla d'oro della principessa non ricadde nella manina ch'essa tendeva in alto, ma cadde a terra e rotolò proprio nell'acqua. La principessa la seguì con lo sguardo, ma la palla sparì, e la sorgente era profonda, profonda a perdita d'occhio. Allora la principessa cominciò a piangere, e pianse sempre più forte, e non si poteva proprio consolare. E mentre così piangeva, qualcuno le gridò: "Che hai, principessa? Tu piangi da far pietà ai sassi." Ella si guardò intorno, per vedere donde venisse la voce, e vide un ranocchio, che sporgeva dall'acqua la grossa testa deforme. "Ah, sei tu, vecchio sciaguattone!" disse, "piango per la mia palla d'oro, che m'è caduta nella fonte." "Chétati e non piangere," rispose il ranocchio, "ci penso io; ma che cosa mi darai, se ti ripesco il tuo balocco?" "Quello che vuoi, caro ranocchio," diss’ella, "i miei vestiti, le mie perle e i miei gioielli, magari la mia corona d'oro." Il ranocchio rispose: "Le tue vesti, le perle e i gioielli e la tua corona d'oro io non li voglio: ma se mi vorrai bene, se potrò essere il tuo amico e compagno di giochi, seder con te alla tua tavolina, mangiare dal tuo piattino d'oro, bere dal tuo bicchierino, dormire nel tuo lettino: se mi prometti questo; mi tufferò e ti riporterò la palla d'oro." "Ah sì," diss’ella, "ti prometto tutto quel che vuoi, purché mi riporti la palla." Ma pensava: « Cosa va blaterando questo stupido ranocchio, che sta nell'acqua a gracidare coi suoi simili, e non può essere il compagno di una creatura umana! » Ottenuta la promessa, il ranocchio mise la testa sott'acqua, si tuffò e poco dopo tornò remigando alla superficie; aveva in bocca la palla e la buttò sull'erba. La principessa, piena di gioia aI vedere il suo bel giocattolo, lo prese e corse via. "Aspetta, aspetta!" gridò il ranocchio: "prendimi con te, io non posso correre come fai tu." Ma a che gli giovò gracidare con quanta fiato aveva in gola! La principessa non 1'ascoltò, corse a casa e ben presto aveva dimenticata la povera bestia, che dovette rituffarsi nella sua fonte.

    Il giorno dopo, quando si fu seduta a tavola col re e tutta la corte, mentre mangiava dal suo piattino d'oro - plitsch platsch, plitsch platsch - qualcosa salì balzelloni la scala di marmo, e quando fu in cima bussò alla porta e gridò: "Figlia di re, piccina, aprimi!" Ella corse a vedere chi c'era fuori, ma quando aprì si vide davanti il ranocchio. Allora sbatacchiò precipitosamente la porta, e sedette di nuovo a tavola, piena di paura. Il re si accorse che le batteva forte il cuore, e disse: "Di che cosa hai paura, bimba mia? Davanti alla porta c'è forse un gigante che vuol rapirti?" "Ah no," rispose ella, "non è un gigante, ma un brutto ranocchio." "Che cosa vuole da te?" "Ah, babbo mio, ieri, mentre giocavo nel bosco vicino alla fonte, la mia palla d'oro cadde nell'acqua. E perché piangevo tanto, il ranocchio me l'ha ripescata; e perché ad ogni costo lo volle, gli promisi che sarebbe diventato il mio compagno; ma non avrei mai pensato che potesse uscire da quell'acqua. Adesso è fuori e vuol venire da me."

    Intanto si udì bussare per la seconda volta e gridare: "Figlia di re, piccina, aprimi! Non sai più quel che ieri m'hai detto vicino alla fresca fonte? Figlia di re, piccina, aprimi!" Allora il re disse: "Quel che hai promesso, devi mantenerlo; va' dunque, e apri". Ella andò e aprì la porta; il ranocchio entrò e, sempre dietro a lei, saltellò fino alla sua sedia. Lì si fermò e gridò: "Sollevami fino a te." La principessa esitò, ma il re le ordinò di farlo. Appena fu sulla sedia, il ranocchio volle salire sul tavolo e quando fu sul tavolo disse: "Adesso avvicinami il tuo piattino d'oro, perché mangiamo insieme." La principessa obbedì, ma si vedeva benissimo che lo faceva controvoglia. Il ranocchio mangiò con appetito, ma a lei quasi ogni boccone rimaneva in gola. Infine egli disse: "Ho mangiato a sazietà e sono stanco; adesso portami nella tua cameretta e metti in ordine il tuo lettino di seta: andremo a dormire."

    La principessa si mise a piangere: aveva paura del freddo ranocchio, che non osava toccare e che ora doveva dormire nel suo bel lettino pulito. Ma il re andò in collera e disse: "Non devi disprezzare chi ti ha aiutato nel momento del bisogno." Allora ella prese la bestia con due dita, la portò di sopra e la mise in un angolo. Ma quando fu a letto, il ranocchio venne saltelloni e disse: "Sono stanco, voglio dormir bene come te: tirami su, o lo dico a tuo padre." Allora la principessa andò in collera, lo prese e lo gettò con tutte le sue forze contro la parete: "Adesso starai zitto, brutto ranocchio!" Ma quando cadde a terra, non era più un ranocchio: era un principe dai begli occhi ridenti. Per volere del padre, egli era il suo caro compagno e sposo. Le raccontò che era stato stregato da una cattiva maga e nessuno, all'infuori di lei, avrebbe potuto liberarlo. Il giorno dopo sarebbero andati insieme nel suo regno. Poi si addormentarono.

    La mattina dopo, quando il sole li svegliò, arrivò una carrozza con otto cavalli bianchi, che avevano pennacchi bianchi sul capo e i finimenti d'oro; e dietro c'era il servo del giovane re, il fedele Enrico. Il fedele Enrico si era così afflitto, quando il suo padrone era stato trasformato in ranocchio, che si era fatto mettere tre cerchi di ferro intorno al cuore, perché non gli scoppiasse dall'angoscia. Ma ora la carrozza doveva portare il giovane re nel suo regno; il fedele Enrico vi fece entrare i due giovani, salì dietro ed era pieno di gioia per la liberazione. Quando ebbero fatto un tratto di strada, il principe udì uno schianto, come se dietro a lui qualcosa si fosse rotto. Allora si volse e gridò: "Rico, qui va in pezzi il cocchio!"

    "No, padrone, non è il cocchio,
    bensì un cerchio del mio cuore,
    ch'era immerso in gran dolore,
    quando dentro alla fontana
    tramutato foste in rana."

    Per due volte ancora si udì uno schianto durante il viaggio; e ogni volta il principe pensò che il cocchio andasse in pezzi; e invece erano soltanto i cerchi, che saltavano via dal cuore del fedele Enrico, perché il suo padrone era libero e felice.

    (Grimm)
     
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  6. gheagabry
     
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    Storia di uno che se andò in cerca della paura
    Un padre aveva due figli. Il maggiore era giudizioso e prudente e sapeva cavarsela in ogni situazione, mentre il minore era stupido, non imparava né‚ capiva nulla e quando la gente lo incontrava diceva: "Sarà un bel peso per il padre!" Se c'era qualcosa da fare, toccava sempre al maggiore; ma se il padre lo mandava a prendere qualcosa di sera o addirittura di notte, e la strada passava vicino al cimitero o a qualche luogo terrificante, egli rispondeva: "Ah, padre mi viene la pelle d'oca!", poiché‚ era pauroso. Oppure quando di sera, accanto al fuoco, si raccontavano delle storie da far rabbrividire, coloro che ascoltavano dicevano a volte: "Ah mi viene la pelle d'oca!". Il minore se ne stava seduto in un angolo, ascoltava e non capiva che cosa ciò potesse significare. "Dicono sempre: mi viene la pelle d'oca! mi viene la pelle d'oca! A me non viene: sarà anche questa un'arte di cui non capisco niente."

    Un bel giorno il padre gli disse: "Ascolta, tu in quell'angolo diventi grande e grosso, ed è ora che impari a guadagnarti il pane. Guarda come si dà da fare tuo fratello; ma con te è fatica sprecata." "Sì padre" egli rispose "vorrei imparare qualcosa; anzi, se fosse possibile, mi piacerebbe imparare a farmi venire la pelle d'oca; di questo non so proprio nulla". Il fratello maggiore rise nell'udirlo e pensò fra sé: "Mio Dio, che stupido è mio fratello, non se ne caverà mai nulla. Il buon giorno si vede dal mattino". Il padre sbuffò e gli rispose: "La pelle d'oca imparerai ad averla, ma con questo non ti guadagnerai il pane".

    Poco tempo dopo venne a fare loro visita il sagrestano; il padre gli confidò i suoi guai e gli raccontò che il figlio più giovane era maldestro in ogni cosa, non sapeva e non imparava nulla. "Pensate, quando gli ho chiesto in che modo voleva guadagnarsi il pane, ha risposto che voleva imparare a farsi venire la pelle d'oca!" "Oh!" rispose il sagrestano, "può impararlo da me; affidatemelo, lo sgrosserò."

    Il padre era contento perché pensava che il giovane avrebbe messo giudizio. Così il sagrestano se lo portò a casa ed egli dovette suonargli le campane. Un pa di giorni dopo lo svegliò a mezzanotte, gli ordinò di alzarsi, di salire sul campanile e di suonare. ''Imparerai che cos'è la pelle d'oca!" pensava e, per fargli prendere un bello spavento, lo precedette di nascosto e si mise davanti allo spiraglio della porta: il giovane doveva credere che fosse un fantasma. Questi salì tranquillamente fino in cima al campanile, e quando fu sopra vide una figura nello spiraglio. "Chi è là?" gridò, ma la figura non rispose nulla e non si mosse. Allora gli disse: "Che vuoi qui di notte? Vattene o ti butto giù." Il sagrestano pensò: ' Non avrà intenzioni così malvagie ', tacque e restò immobile. Il giovane lo interpellò per la terza volta e, siccome non ottenne nessuna risposta, prese la rincorsa e buttò giù il fantasma che si ruppe le gambe e il collo. Suonò poi le campane e, subito dopo, discese e si rimise a dormire senza dire una parola. La moglie del sagrestano attese a lungo il marito, ma quello non veniva mai. Alla fine si spaventò, svegliò il giovane e disse: "Non sai dov'è mio marito? E' salito con te sul campanile" "No" rispose il ragazzo, "ma c'era un tale nello spiraglio, e siccome non se ne andava e non voleva rispondermi, l'ho buttato giù. Andate a vedere se è lui." La donna corse al camposanto, piena di paura, e trovò il marito che giaceva per terra, morto. Allora si recò urlando dal padre del ragazzo, lo svegliò e disse: " Ah, che sciagura ha causato il vostro fannullone! Ha buttato giù mio marito dal campanile, e ora giace morto al camposanto." Il padre si spaventò, corse dal ragazzo e gli disse, rimproverandolo aspramente: "Queste empietà deve avertele ispirate il Maligno!" "Ah padre!" rispose egli, "sono innocente: se ne stava là di notte, come uno che ha cattive intenzioni. Io non sapevo chi fosse e gliel'ho domandato tre volte; perché non se n'è andato?" "Ah" disse il padre, "da te ho soltanto dei dispiaceri, togliti dai piedi, non ti voglio più vedere!" "Sì padre, volentieri, aspetta solo che faccia giorno e me ne andrò, e imparerò che cosa sia avere la pelle d'oca, così conoscerò un'arte che mi darà da mangiare." "Impara quel che ti pare" disse il padre, "per me fa lo stesso." "Eccoti cinquanta scudi, prendili e sparisci dalla mia vista; e non dire a nessuno da dove vieni e chi è tuo padre, perché mi vergogno di te." "Sì padre, come volete; se non chiedete altro, posso ben tenerlo a mente."

    Allo spuntar del giorno, il giovane si mise in tasca i suoi cinquanta scudi e se ne andò sulla via maestra dicendo fra sé: "Ah, se mi venisse la pelle d'oca! Se mi venisse la pelle d'oca!" Lo raggiunse un uomo che sentì questo discorso; quando ebbero fatto un pezzo di strada e furono in vista della forca, questi disse al ragazzo: " Vedi, quello è l'albero su cui sette uomini hanno sposato la figlia del funaio: siediti là sotto e aspetta che venga notte, allora imparerai che cos'è la pelle d'oca" "Se è tutto qui, "rispose il giovane, "è presto fatto; se imparo così in fretta che cos'è la pelle d'oca, avrai i miei cinquanta scudi: ritorna da me domani mattina presto."

    Il giovane andò allora alla forca, vi si sedette sotto e attese la sera. Poiché aveva freddo, accese un fuoco; ma a mezzanotte il vento soffiava così gelido che egli non riusciva a scaldarsi nonostante il fuoco. Quando il vento spinse gli impiccati l'uno contro l'altro facendoli oscillare su e giù, egli pensò: "Tu geli qui accanto al fuoco, chissà che freddo hanno quelli lassù! E come si dimenano!" E siccome era di buon cuore, appoggiò la scala alla forca, salì, li staccò a uno a uno e li portò giù tutti e sette. Poi attizzò il fuoco, ci soffiò sopra e ci sedette intorno gli impiccati perché si scaldassero. Ma essi se ne stavano seduti senza muoversi e il fuoco si appiccò ai loro vestiti. Allora egli disse: "Fate attenzione, altrimenti vi riappendo di nuovo lassù" Ma i morti non sentivano, tacevano e continuavano a lasciar bruciare i loro stracci. Perciò egli andò in collera e disse: "Se non volete fare attenzione, io non posso aiutarvi: non voglio bruciare con voi". E li riappese l'uno dopo l'altro. Poi si sedette accanto al fuoco e si addormentò.

    Il mattino dopo venne l'uomo che voleva i cinquanta scudi e disse: "Hai imparato che cos'è la pelle d'oca?" "No" , rispose egli, "come avrei potuto impararlo? Quelli lassù non hanno aperto bocca, e sono così stupidi da lasciar bruciare quei due vecchi stracci che hanno addosso." L'uomo capì che per quel giorno non poteva prendersi i cinquanta scudi, se ne andò e disse: "Non mi è mai capitato di incontrare un tipo simile ". Anche il giovane andò per la sua strada e ricominciò a dire fra sé: "Ah, se mi venisse la pelle d'oca! Se mi venisse la pelle d'oca!" L'udì un carrettiere che camminava dietro di lui e domandò: "Chi sei?" "Non lo so" rispose il giovane. Il carrettiere domandò ancora: "Da dove vieni?" "Non lo so" "Chi è tuo padre?" "Non posso dirlo" "Che cosa vai borbottando fra i denti?" "Ah" rispose il giovane, "vorrei farmi venire la pelle d'oca, ma nessuno sa insegnarmelo." "Piantala di dire sciocchezze" disse il carrettiere, "vieni con me, ti troverò un posto di lavoro."

    Il giovane andò con il carrettiere e la sera giunsero a un'osteria dove volevano pernottare. Entrando egli disse ad alta voce: "Se mi venisse la pelle d'oca! Se mi venisse la pelle d'oca!" L'oste, all'udirlo, disse ridendo: "Se ne hai tanta voglia, qui ci sarebbe una bella occasione!" "Ah taci!" disse l'ostessa. "Troppi audaci hanno già perso la vita. Sarebbe un vero peccato se quei begli occhi non dovessero rivedere la luce del giorno!" Ma il giovane disse: "Anche se è difficile, voglio impararlo una buona volta: me ne sono andato di casa per questo".

    Non lasciò in pace l'oste finché questi non gli raccontò che nelle vicinanze c'era un castello fatato, dove si poteva imparare benissimo che cosa fosse la pelle d'oca, purché ci si vegliasse tre notti. A chi aveva tanto coraggio, il re aveva promesso in sposa sua figlia, la più bella fanciulla che esistesse al mondo. Nel castello erano inoltre celati dei favolosi tesori custoditi da spiriti, e sarebbero diventati di proprietà di chi avesse superato la prova. Già molti erano entrati nel castello, ma nessuno ne era uscito. Il mattino dopo, il giovane si presentò al re e disse: "Se fosse possibile vorrei vegliare tre notti nel castello fatato" Il re lo guardò e siccome gli piacque disse: "Puoi chiedermi anche tre cose e portarle con te al castello, ma devono essere cose prive di vita". Allora egli rispose: "Chiedo un fuoco, un tornio e un banco da ebanista con il suo coltello". Il re gli fece portare ogni cosa al castello durante il giorno.

    All'imbrunire il giovane vi entrò, si accese un bel fuoco in una stanza, vi mise accanto il banco da ebanista con il coltello, e si sedette sul tornio. "Ah, se mi venisse la pelle d'oca!", disse egli, "ma non lo imparerò neanche qui.."

    Verso mezzanotte volle attizzare il fuoco; mentre ci soffiava sopra, udì all'improvviso gridare da un angolo: "Ohi miao! che freddo abbiamo!" "Scimuniti," esclamò "perché gridate? Se avete freddo, venite, sedetevi accanto al fuoco e scaldatevi." Come ebbe detto questo, due grossi gatti neri si avvicinarono d'un balzo e gli si sedettero ai lati guardandolo ferocemente con i loro occhi di fuoco. Dopo un poco, quando si furono scaldati, dissero: "Camerata, vogliamo giocare a carte?" "Sì" egli rispose, "ma mostratemi le zampe". Essi allora tirarono fuori gli artigli. "Oh," egli disse, "che unghie lunghe avete! Aspettate, devo prima tagliarvele!" Li afferrò allora per la collottola, li mise sul banco ed imprigionò loro le zampe."Vi ho tenuti d'occhio" disse, "e mi è passata la voglia di giocare a carte." Li uccise e li gettò in acqua. Ma aveva appena tolto di mezzo quei due e stava per sedersi accanto al fuoco, quando sbucarono da ogni parte cani e gatti neri, attaccati a catene infuocate; erano tanti ma tanti che egli non sapeva più dove cacciarsi. Gridavano terribilmente, gli calpestavano il fuoco, disperdevano le braci e volevano spegnerlo. Per un po' stette a guardare tranquillamente, ma quando incominciò a sentirsi a mal partito, afferrò il coltello, gridò:

    "Finiamola, canaglia!" e si gettò su di loro. Alcuni balzarono via, gli altri li uccise e li buttò nello stagno. Come fu di ritorno, riattizzò il fuoco soffiando sulla brace e si scaldò. E, mentre se ne stava così seduto, si accorse che non riusciva più a tenere gli occhi aperti e che aveva voglia di dormire. Allora guardò intorno a sé, vide un gran letto in un angolo e ci si coricò. Ma come volle chiudere gli occhi, il letto incominciò a muoversi da solo e andò a spasso per tutto il castello. "Benissimo" disse il giovane "ancora più in fretta!" Allora il letto incominciò a rotolare su e giù per soglie e scale, come se fosse trainato da sei cavalli; d'un tratto, hopp, hopp, si ribaltò a gambe all'aria, e gli restò addosso. Allora egli scagliò in aria coperte e cuscini, saltò fuori e disse:" Adesso vada a spasso chi ne ha voglia! " Si distese accanto al fuoco e dormì sino a giorno. Al mattino venne il re e quando lo vide disteso a terra pensò che fosse morto e che gli spettri lo avessero ucciso. Allora disse: "Peccato! Un così bel ragazzo!" Il giovane lo udì, si rizzò e disse:"Non siamo ancora a questo punto!" Il re si stupì e, tutto contento, gli domandò com'era andata.

    "Benissimo" rispose egli, "la prima notte è passata e passeranno anche le altre due!" Quando tornò dall'oste, questi fece tanto d'occhi e disse: "Non pensavo di rivederti ancora vivo; hai imparato finalmente che cos'è la pelle d'oca?" "No" rispose il giovane, "non lo so; se solo qualcuno me lo dicesse!"

    La seconda notte salì di nuovo al vecchio castello, si sedette accanto al fuoco e disse: "Se mi venisse la pelle d'oca!" Verso mezzanotte sentì un rumore e un tramestio, prima piano, poi sempre più forte; poi un breve silenzio, infine un mezzo uomo cadde dal camino urlando, e gli piombò davanti. "Olà !" esclamò "ce ne vuole ancora metà, così è troppo poco." Allora il rumore ricominciò, si udì strepitare e urlare, e anche la seconda metà cadde giù. "Aspetta" disse "voglio attizzarti un po' il fuoco". Quando ebbe finito e si guardò nuovamente intorno, i due pezzi si erano riuniti e un omaccio orribile sedeva al suo posto. "Non intendevo dir questo" disse il giovane, "il banco è mio." L'uomo voleva respingerlo, ma il giovane non lo lasciò fare, lo spinse via con forza e si risedette di nuovo al suo posto. Allora caddero giù altri uomini che avevano nove stinchi e due teschi, li rizzarono e giocarono a birilli. Anche al giovane venne voglia di giocare e domandò: "Sentite, posso giocare anch'io?""Sì, se hai denaro" "Di denaro ne ho a sufficienza" rispose "ma le vostre palle non sono ben rotonde" . Allora egli prese i teschi, li mise sul tornio e li arrotondò.

    "Adesso rotoleranno meglio!" disse. "Olà, ora ci divertiremo!" Giocò e perse un po' di denaro, ma quando suonò mezzanotte tutto sparì davanti ai suoi occhi.

    Si distese e si addormentò tranquillamente. Il mattino dopo venne il re a informarsi: "Come ti è andata questa volta?" domandò. "Ho giocato a birilli" rispose, "e ho perduto qualche soldo" "Non ti è venuta la pelle d'oca?" "Macché," disse "me la sono spassata; se solo sapessi che cos'è la pelle d'oca!"

    La terza notte sedette di nuovo al suo banco e diceva tutto malinconico: "Se mi venisse la pelle d'oca!"A notte inoltrata, giunsero sei omacci che portavano una cassa da morto. Allora egli disse: "Ah, ah, è sicuramente il mio cuginetto che è morto qualche giorno fa". Fece un cenno con il dito e gridò "Vieni, cuginetto, vieni!" Misero la bara a terra, ma egli si avvicinò e tolse il coperchio: dentro c'era un morto. Gli toccò il viso, ma era freddo come il ghiaccio. "Aspetta" disse, "ti voglio riscaldare un pò". Andò al fuoco, si riscaldò la mano e gliela mise sul viso, ma il morto rimase freddo. Allora lo tirò fuori, si sedette davanti al fuoco, lo prese sulle ginocchia e gli strofinò le braccia per riscaldarlo, ma siccome anche questo non servì a nulla, gli venne un'idea: "Se due sono a letto insieme, si riscaldano". Lo portò a letto, lo coprì e gli si distese accanto. Dopo un po' anche il morto fu caldo e incominciò a muoversi. Allora il giovane disse: "Vedi, cuginetto, se non ti avessi scaldato!" Ma il morto prese a dire: "Adesso ti voglio strozzare" "Cosa?" disse egli, "è questa la mia ricompensa? Torna pure nella tua bara!" Lo sollevò, ce lo buttò dentro e chiuse il coperchio: ritornarono i sei uomini e lo portarono via. "Non mi vuol venire la pelle d'oca" egli disse "qui non l'imparerò mai." Allora entrò un uomo, che era più grosso di tutti gli altri e aveva un aspetto terribile; ma era vecchio e aveva una lunga barba bianca. "Oh tu, nanerottolo, imparerai presto che cos'è la pelle d'oca perché devi morire." "Non così in fretta!" egli rispose, "per morire devo esserci anch'io." L'uomo disse: "Ti prenderò!" "Piano, non darti tante arie; sono forte quanto te, e forse anche di più." "Lo vedremo" disse il vecchio "se sei forte più di me, ti lascerò andare; vieni, proviamo." Attraverso passaggi oscuri, lo condusse a una fucina, prese un'accetta e con un colpo sbatté a terra un'incudine.

    "So fare di meglio" disse il giovane, e andò all'altra incudine; il vecchio gli si mise accanto per vedere, con la barba bianca penzoloni. Il giovane afferrò allora l'accetta, con un colpo spaccò l'incudine e vi serrò dentro la barba del vecchio. "Ora ti ho in pugno!" disse il ragazzo, "adesso tocca a te morire." Afferrò una sbarra di ferro e percosse il vecchio fino a che questi si mise a piagnucolare e lo pregò di smettere: gli avrebbe dato dei grossi tesori. Il giovane estrasse allora l'accetta e lasciò libero il vecchio che lo ricondusse al castello e gli mostrò in una cantina tre casse colme d'oro. "Di quest'oro" disse "una parte è dei poveri, l'altra del re, la terza è tua." In quel momento suonò mezzanotte e lo spirito scomparve, sicché il giovane si trovò al buio. "Me la caverò ugualmente" disse; a tastoni trovò il cammino che lo condusse alla sua stanza, dove si addormentò accanto al fuoco.

    Il mattino dopo venne il re e disse: "Ora avrai imparato che cos'è la pelle d'oca!" "No" rispose "che roba è questa? E' stato qui mio cugino morto ed è venuto un vecchio barbuto che mi ha mostrato molto denaro là sotto, ma che cosa sia la pelle d'oca non me l'ha insegnato nessuno." Il re disse: "Hai sciolto l'incantesimo del castello e sposerai mia figlia." "Tutto questo va benissimo, ma io continuo a non sapere che cos'è la pelle d'oca." L'oro fu portato su e si celebrarono le nozze, ma il giovane re, per quanto amasse la sua sposa e fosse felice con lei, diceva sempre: "Se mi venisse la pelle d'oca! Se mi venisse la pelle d'oca!"

    La sposa finì con l'infastidirsi. Allora la sua cameriera disse: "Ci penserò io: imparerà che cos'è la pelle d'oca!" Uscì e fece riempire un secchio di ghiozzi. Di notte, mentre il giovane re dormiva, sua moglie gli tolse la coperta e gli rovesciò addosso il secchio pieno di acqua gelata con i ghiozzi, cosicché i pesciolini gli guizzarono intorno. Allora egli si svegliò e gridò: "Ah, che pelle d'oca, che pelle d'oca, moglie mia! Sì, ora so cos'è la pelle d'oca.".

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    Fratellino e Sorellina
    Il fratellino prese la sua sorellina per mano e disse: "da quando nostra madre è morta non abbiamo più avuto una sola ora di bene; la matrigna ci picchia ogni giorno e ci prende a calci appena ci avviciniamo. Ai pasti ci lasciano solo croste di pane, persino il cane mangia più di noi, e infatti a lui arriva di tanto in tanto qualche boccone dalla tavola. Se lo sapesse nostra madre! Che Dio abbia pietà di noi. Vieni, andiamocene via per il mondo." Così, vagarono tutto il giorno attraverso campi, praterie e strade sassose, e quando piovve, la sorellina disse: "Dio e i nostri cuori piangono insieme!" Verso sera giunsero a una grande foresta, ed erano così affamati ed esausti dalla gran tristezza e dal tanto camminare, che si fermarono a riposare dentro a un albero cavo, e lì si addormentarono. Quando si svegliarono, il giorno dopo, il sole era già alto nel cielo e i caldi raggi filtravano tra i rami dell'albero; allora il fratellino disse, "Sorellina, ho sete. Se ci fosse un ruscello nei paraggi, andrei subito a bere. Penso proprio di udire il rumore di un ruscello." Così dicendo, il fratello si alzò, prese per mano la sorella e cercò una sorgente. Ma la cattiva matrigna, che era pure una strega, vide i bambini mentre scappavano, e li aveva seguiti di nascosto come fanno le streghe, e aveva stregato tutte le sorgenti del bosco. Trovarono una ruscello che scorreva scintillante tra le rocce, e il fratellino si era già curvato per bere, quando la sorella udì uno strano mormorio che diceva: "Chi berrà la mia acqua diventerà una tigre. Chi berrà la mia acqua diventerà una tigre." Allora fermò il fratello, gridando: "No, fratellino, fermati! Non la bere, o diventerai un animale selvatico e mi spezzerai il cuore." Il fratellino non bevve anche se aveva una gran sete e disse: "Aspetterò la prossima occasione." Quando giunsero alla seconda sorgente, la sorellina udì un fruscio che mormorava: "Chi mi berrà, si trasformerà in un lupo. Chi mi berrà, si trasformerà in un lupo." La sorella esclamò: "Fermati, fratellino, non la bere, o diventerai un lupo e mi divorerai!" Lui allora non bevve, e disse: "Aspetterò la prossima sorgente per bere, ma poi berrò; non importa ciò che dirai, berrò perché ho troppa sete." Quando giunsero al terzo ruscello, di nuovo la sorellina udì uno strano fruscio nell'acqua che diceva: "Chi mi berrà diventerà un capriolo. Ci mi berrà diventerà un capriolo." "Fratellino, non la bere, o diventerai un capriolo e fuggirai via" implorò la sorellina; ma il fratello si era già chinato sulla sorgente per bere, e bastarono poche gocce che subito si trasformò in un capriolo. Quanto pianse la sorellina per il suo povero fratellino stregato! Ed anche lui piangeva, accucciato accanto a lei. Poi la fanciulla disse: "Non preoccuparti, capriolino mio, io non ti lascerò mai." Si sciolse la giarrettiera d'oro e la mise al collo del capriolo, poi raccolse dei giunchi e li intrecciò in un modo da creare un laccio morbido che allacciò intorno al collo del suo capriolo e infine ripresero il cammino, addentrandosi sempre più nel profondo della foresta. Dopo aver camminato per un bel pezzo, finalmente videro una casetta; la sorellina diede un'occhiata dentro, e vedendo che era disabitata, pensò: 'potremmo restare a vivere qui.' Trovò poi del muschio e delle foglie, e con quelli attrezzò un giaciglio soffice per il capriolo; ogni mattina usciva di casa e andava a raccogliere radici, bacche e noci per se stessa, ed erba tenera per il capriolo, il quale mangiava direttamente dalla sua mano, ed era felice e giocoso. La sera, quando la sorella era stanca e recitava le preghiere, appoggiava delicatamente la testa sul fianco del capriolo e si addormentava su quel morbido cuscino. Se soltanto il suo fratellino avesse riacquistato la sua forma umana, sarebbe stata una vita perfetta. Per un certo periodo vissero da soli in quel luogo sperduto, ma un giorno accadde che il re di quella terra organizzò una grande battuta di caccia proprio in quei boschi. Il piccolo capriolo udì l'abbiare dei cani, il suono del corno e le grida allegre dei cacciatori che eccheggiavano tra gli alberi, e subito desiderò di stare in mezzo a loro. "Sorellina," la pregò, "per favore, lasciami andare a caccia con loro, sento che non posso più resistere." E la supplicò tanto a lungo che alla fine lei lo lasciò andare. "Ma promettimi che la sera tornerai a casa" disse, "e siccome dovrò chiudermi a chiave per tenere lontani i cacciatori, per farmi capire che sei tu alla porta, bussa e di': 'sorellina, aprimi.' Se non lo farai, non ti aprirò." Il capriolo promise e corse via. Si sentiva perfettamente a suo agio all'aria aperta, stava bene ed era felice. Il re e gli altri cacciatori quando videro quello splendido animale lo inseguirono, senza mai riuscire ad acchiapparlo; ogni volta che stavano per prenderlo, egli saltellava via rifugiandosi tra i cespugli e spariva. Quando si fece buio il capriolo corse a casa, bussò, e disse: "sorellina, aprimi." Balzò dentro e si accucciò sul suo soffice lettino, e dormì beato tutta la notte. Il giorno dopo, ricominciò la caccia, e di nuovo udì il latrato dei cani, il suono del corno e le grida allegre dei cacciatori e non resistette dal desiderio di uscire, così, pregò ancora la sorella di lasciarlo andare; e lei gli rispose: "va bene, vai, ma ricordati di tornare anche stasera e di dire la parola d'ordine." Quando il re e i cacciatori lo videro di nuovo, e videro lo strano collare d'oro, gli diedero la caccia instancabilmente, ma la bestiola correva sempre più veloce di loro e non si faceva prendere. Gli diedero la caccia per tutto il giorno e finalmente a sera riuscirono ad accerchiarlo, e uno di loro lo ferì leggermente a una zampa, così dovette tornare a casa zoppicando. Ma uno dei cacciatori lo seguì fino alla casetta e lo sentì dire: "sorellina, aprimi", e vide aprirsi la porta che immediatamente si richiuse. Il cacciatore, che aveva osservato tutta la scena, andò a riferire il fatto al re, il quale disse: "Domani riprenderemo la nostra caccia." Nel frattempo, la sorellina si spaventò terribilmente nel vedere il suo giovane capriolo ferito; gli ripulì la ferita, la disinfettò con delle erbe mediche e disse: "ora vai a riposare, mio caro capriolino, così domani starai meglio." La ferita era così superficiale che il mattino dopo non gli doleva più, e quando la bestiola sentì il suono festoso della caccia, si precipitò verso la porta e disse: "non ce la faccio a resistere, devo uscire. Lasciami andare, vedrai che non mi farò beccare." Ma la sorellina, disperata, rispose: "questa volta ti uccideranno, e io resterò sola e abbandonata da tutti in questo bosco. Non ti lascio andare." "In tal caso morirò dal dolore" rispose il capriolo, "quando sento il suono del corno non posso fare a meno di saltare." La sorellina provò allora una gran pietà, e, seppur col cuore pesante, gli aprì la porta, e il capriolo corse fuori allegro e felice; quando il re lo vide, disse ai suoi cacciatori: "inseguitelo tutto il giorno fino a notte, ma che nessuno gli faccia del male." Quando il sole tramontò, il re disse al cacciatore: "portami alla casetta"; arrivarono davanti alla porta, bussò e disse: "cara sorellina, fammi entrare." La portà si aprì; il re entrò, e lì vide la più bella fanciulla che avesse mai visto. Ella si spaventò quando vide che non era il suo caro fratellino, ma uno sconosciuto con una corona d'oro in testa. Il re la guardò con gentilezza, le allungò la mano e disse: "vuoi venire con me al mio castello e diventare mia moglie?" "Sì," rispose la ragazza, "ma il mio capriolino deve venire via con me, perché da solo non lo lascio." E il re rispose: "Potrà restare con te anche tutta la vita, e non gli mancherà mai nulla." In quel mentre il capriolo rientrò trotterellando, e la sorellina gli allacciò di nuovo il collare, poi lo prese per mano e uscì dalla casetta con lui; il re fece montare la bella fanciulla sul suo cavallo e se la portò al suo palazzo, dove celebrarono le nozze con grande fasto. Così, la sorellina diventò regina e tutti insieme vissero felicemente a lungo. Il capriolo fu accudito e nutrito, e da quel giorno scorazzò allegramente nei giardini del castello.

    Ora, la cattiva matrigna che aveva fatto scappare i bambini per il vasto mondo, pensò che ormai la fanciulla fosse stata divorata dalle belve della foresta e che il capriolo fosse stato ucciso dai cacciatori, perciò, quando venne a sapere che, al contrario, essi erano sopravvissuti e che vivevano felici, l'invidia e l'odio non le lasciarono più pace. E da quel giorno non fece altro che pensare a un modo per liberarsi definitivamente di loro. Essa aveva una figlia, che era brutta come il peccato e aveva un occhio solo. Un giorno si lamentò con la madre dicendo: "sono io quella che doveva diventare regina." "Sta' tranquilla, figlia mia, e lascia fare a me" rispose la vecchia, consolandola. Passò del tempo, e un giorno che il re era fuori a caccia, la regina partorì uno splendido pupo; allora la vecchia strega si trasformò in una fantesca ed entrò nella sua stanza e le disse: "venite, il bagno è pronto; vi farà bene, vi rinfrescherà e vi restituirà un po' di forze. Presto, che l'acqua si raffredda." La strega aveva portato con sé sua figlia; accompagnarono la regina ancora debole al bagno, la fecero sdraiare nella vasca, poi chiusero la porta e scapparono. Ma nella stanza avevano acceso un gran fuoco, così caldo che la giovane regina finì per morire soffocata. Allora la strega prese sua figlia, le mise una cuffia in testa e le diede l'aspetto della regina, poi, la mise nel letto al suo posto. Soltanto l'occhio singolo non le riuscì di sostituirlo, e così, per fare in modo che il re non si accorgesse dello scambio, la falsa sposa si coricò appoggiando sul cuscino il lato del volto che era senza occhio. Verso sera il re tornò a casa, e fu immensamente felice di sapere che gli era nato il figlioletto, e subito volle andare a vedere come stava sua moglie, ma la vecchia gli disse: "la regina è ancora debole e deve riposare, e lasciate chiuse le tende, perché ella non sopporta la luce del sole." Allora il re si ritirò senza potersi accorgere che nel letto c'era l'usurpatrice. A mezzanotte, quando tutti dormivano, la balia che sedeva accanto alla culla del bambino, ancora sveglia, vide la porta aprirsi ed entrare una donna; ella prese in braccio il bimbo e lo allattò. Terminata la poppata, sprimacciò il cuscinetto e depose il bimbo nella culla e lo coprì con la sua copertina. E pensò anche al capriolino: andò dove stava la sua cuccia e gli accarezzò la schiena. Poi uscì dalla stanza senza dire una parola. Il giorno dopo la balia chiese alla guardia se aveva visto qualcuno entrare nel castello durante la notte, ma quella le rispose che non si era visto nessuno. Le cose andarono avanti così per diverse altre notti; la balia vedeva quella strana figura entrare nella stanza del bambino, ma non osava parlarne con nessuno. Passò altro tempo, e finalmente una notte la regina cominciò a parlare, e nel buio chiedeva: "Dov'è il mio bambino? Dov'è il mio capriolino? Verrò altre due volte, poi non tornerò più." La balia non rispose, ma aspettò che la donna se ne fosse andata, poi andò subito a raccontare tutto al re. E il re disse: "Giusto cielo, chi sarà? Domani notte veglierò io nella stanza del bambino." La sera dopo si fermò nella stanza di suo figlio, e a mezzanotte ecco che ricomparve la regina e disse: "Dov'è il mio bambino? Dov'è il mio capriolino? Verrò ancora una volta, e poi non tornerò più." Allattò il bimbo come al solito, e poi sparì. Il re non aveva osato parlarle, ma la sera dopo fece di nuovo la guardia; e di nuovo ella disse: "Dov'è il mio bambino? Dov'è il mio capriolino? Stasera sono qui, ma domani non ternerò più." Allora il re non poté più resistere, e corse verso di lei, e le disse: "Tu puoi essere soltanto la mia carissima moglie." Ed ella rispose: "Sì, sono io" e in quello stesso istante, con la grazia di Dio, ritornò in vita, sana, salva e vigorosa. Poi raccontò al marito il crimine commesso dalla strega e da sua figlia. Allora il re ordinò che fossero condotte entrambe davanti alla corte, ed esse furono condannate a morte. La figlia della strega fu condotta nei boschi e sbranata dalle belve feroci, mentre la strega fu arsa sul rogo e finì in cenere; e nello stesso istante in cui finì di bruciare, il fratellino fu ritrasformato in uomo. Così, vissero finalmente tutti e quattro felici e contenti fino alla morte.

    (F.lli Grimm)




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    I tre omini nel bosco
    C'era una volta un uomo a cui morì la moglie e una donna a cui morì il marito; l'uomo aveva una figlia e la donna pure. Le due ragazze erano amiche e andando a spasso insieme si recarono un giorno, a casa della donna. Ella disse alla figlia dell'uomo: “Ascolta, di' a tuo padre che vorrei sposarlo; poi ogni mattina ti laverai nel latte e berrai vino; mia figlia invece si laverà nell'acqua e berrà acqua”. La fanciulla andò a casa e raccontò al padre ciò che la donna le aveva detto. L'uomo disse: “Che cosa devo fare? Sposarsi è una gioia e un tormento insieme!”. Infine si tolse lo stivale e disse: “Prendi questo stivale che ha un buco nella suola; vai in solaio, appendilo al chiodo grosso e versaci dentro dell'acqua. Se tiene, prenderò di nuovo moglie; ma se l'acqua cola, non la prenderò”. La fanciulla fece come le era stato ordinato; ma l'acqua restrinse il buco e lo stivale si riempì fino all'orlo. Allora riferì al padre com'era andata; egli stesso salì in solaio e quando vide che era proprio vero andò dalla vedova, la chiese in sposa, e furono celebrate le nozze. La mattina dopo, quando le due fanciulle si alzarono, davanti alla figlia dell'uomo c'era latte per lavarsi e vino da bere mentre davanti alla figlia della donna c'era acqua per lavarsi e acqua da bere. La seconda mattina c'era acqua per lavarsi e acqua da bere sia davanti all'una sia davanti all'altra. E la terza mattina c'era acqua per lavarsi e acqua da bere davanti alla figlia dell'uomo, e latte per lavarsi e vino da bere davanti alla figlia della donna; e così fu sempre. La donna si accanì contro la figliastra e non sapeva cosa inventare per farla stare ogni giorno peggio. Era anche invidiosa, perché‚ la figliastra era bella e amabile, mentre la figlia vera era brutta e antipatica.

    Una volta, d'inverno, che c'era un gelo da spaccare le pietre e il monte e la valle erano coperti di neve, la donna fece un vestito di carta, chiamò la figliastra e disse: “Su, mettiti questo vestito và nel bosco e raccoglimi un cestino di fragole: ne ho voglia” “Buon Dio” disse la fanciulla “d'inverno non crescono le fragole, la terra è gelata e la neve ha coperto tutto. E come posso andare con l'abito di carta? Fuori fa così freddo che gela il fiato, il vento lo attraverserà e le spine me lo strapperanno di dosso.” “Vuoi anche contraddirmi?” disse la matrigna. “Vattene e non farti vedere se non hai riempito il cestino di fragole.” Poi le diede anche un pezzetto di pane duro e disse: “Così hai da mangiare per tutto il giorno”. E pensava: "Fuori gelerà e morirà di fame: non mi comparirà mai più davanti agli occhi". La fanciulla obbedì, indossò il vestito di carta e uscì col cestino. Da ogni parte non c'era che neve e neanche un filo di verde. Quando giunse nel bosco, vide una piccola casetta dalla quale sbirciavano tre nani. La fanciulla diede loro il buongiorno e bussò alla porta. Essi gridarono: “Avanti!” ed ella entrò nella stanza e si sedette sulla panca accanto alla stufa; voleva scaldarsi e mangiare la sua colazione. I nani dissero: “Danne un pò anche a noi” “Volentieri” ella disse; divise in due il suo pezzetto di pane e ne diede loro metà. Essi domandarono: “Che cosa cerchi nel bosco d'inverno, con quel vestitino leggero?” “Ah” rispose ella “devo riempire un cestino di fragole, e non posso tornare a casa se non le trovo.” Quando ebbe mangiato il suo pane, essi le diedero una scopa e dissero: “Spazza via la neve davanti alla porta, dietro casa”. Ma come fu uscita, i tre omini dissero fra loro: “Che cosa dobbiamo regalarle, poiché‚ è così gentile e buona e ha diviso il suo pane con noi?”. Allora disse il primo: “Che diventi più bella ogni giorno”. Disse il secondo: “Che le cadano di bocca monete d'oro a ogni parola che dice”. Il terzo disse: “Che venga un re e la sposi”. La fanciulla, con la scopa dei nani, spazzò via la neve dietro alla piccola casetta, e là sotto era tutto rosso di belle fragole mature. Allora, con gran gioia, si affrettò a riempire il cestino, ringraziò gli omini, prese congedo da loro e corse a casa a portare le fragole alla matrigna. Quando entrò e disse: “Buona sera!” subito le cadde di bocca una moneta d'oro. Poi raccontò quel che le era accaduto nel bosco, e a ogni parola che diceva le uscivano di bocca le monete d'oro, cosicché‚ ben presto l'intera casa ne fu piena. Ma la sorellastra divenne invidiosa e insistette a lungo con la madre perché‚ la mandasse nel bosco. Questa però non voleva e disse: “No, mia cara piccina, è troppo freddo, potresti gelare”. Ma dato che la figlia continuava ad insistere e non la lasciava in pace, finì col cedere, ma prima le cucì un magnifico giubbetto di pelliccia, glielo fece indossare e le diede pane, burro e focaccia da mangiare per la strada.

    La fanciulla giunse nel bosco proprio dove si trovava la casetta. Anche questa volta i tre nanetti sbirciavano fuori, ma lei non li salutò ed entrò nella stanza senza indugio, sedette vicino alla stufa e incominciò a mangiare il suo pane imburrato e la sua focaccia. “Daccene un po'” esclamarono i nani, ma ella rispose: “Non basta neanche a me, come potrei darne ad altri?”. Quando ebbe finito di mangiare, essi dissero: “Eccoti una scopa, spazza davanti alla porta dietro casa”. “Sì, spazzate voi” rispose “non sono mica la vostra serva!” Quando vide che non volevano regalarle nulla, prese la porta. Allora gli omini dissero fra loro: “Che cosa dobbiamo regalarle, poiché‚ è così scortese e ha un cuore cattivo e invidioso, senza carità?”. Il primo disse: “Che diventi ogni giorno più brutta”. Il secondo disse: “Che le esca di bocca un rospo a ogni parola che dice”. Il terzo disse: “Che muoia di mala morte”.

    La ragazza fuori cercò le fragole ma, non avendone trovata neanche una, andò a casa stizzita. E quando aprì la bocca per raccontare a sua madre quel che le era successo nel bosco, a ogni parola le saltava fuori un rospo, cosicché‚ tutti avevano ribrezzo di lei. Allora la matrigna si adirò ancora di più e pensava soltanto a tormentare la figlia del marito, che tuttavia ogni giorno diventava più bella. Infine prese un paiolo, lo mise sul fuoco e vi fece bollire del filo. Quando fu bollito lo diede alla povera ragazza insieme a una scure, perché‚ andasse sul fiume gelato, aprisse un buco nel ghiaccio e vi immergesse il filo. Ella obbedì, andò e fece un buco nel ghiaccio; e, mentre adoperava la scure, arrivò una splendida carrozza in cui sedeva il re. Questi si fermò e chiese: “Bimba mia, cosa fai qui?”. “Sono una povera fanciulla e bagno il filo.” Allora il re si impietosì e vedendo che era così bella disse: “Vuoi venire con me?” “Ah sì, di tutto cuore” ella rispose, poiché‚ era felice di lasciare la madre e la sorella. Salì dunque in carrozza e partì con il re, e quando giunsero al castello si celebrarono le nozze con gran pompa, come gli omini avevano augurato alla fanciulla.

    Dopo un anno la giovane regina partorì un bambino e, quando la matrigna venne a sapere la fortuna che le era toccata, venne con sua figlia con il pretesto di farle visita. Ma una volta che il re non era in casa, e non c'era nessun altro, la perfida donna afferrò la regina per la testa e sua figlia l'afferrò per i piedi, la sollevarono dal letto e la gettarono dalla finestra nel fiume che scorreva là sotto. Poi la matrigna fece distendere la brutta figlia nel letto e la coprì fin sopra la testa. Quando il re fu di ritorno e volle parlare con sua moglie, la vecchia gridò: “Zitto, zitto, adesso no: è tutta in sudore, dovete lasciarla riposare per oggi”. Il re non pensò a nulla di malvagio e tornò soltanto la mattina dopo, e quando parlò con sua moglie ed ella dovette rispondergli, a ogni parola saltava fuori un rospo, mentre di solito cadeva una moneta d'oro. Allora egli chiese di che cosa si trattasse, ma la vecchia disse che era l'effetto di quella gran sudata e che poi tutto sarebbe scomparso. Ma quella notte lo sguattero vide un'anatra che veniva nuotando lungo la canaletta di scolo dell'acqua e che disse: “Che fa a quest'ora il mio Sire? Veglia o è già andato a dormire?” E, siccome egli non diede risposta, aggiunse: “Le mie ospiti che stan facendo?” Lo sguattero rispose: “A quest'ora stanno dormendo.” “E il mio bimbo che cosa fa?” Egli rispose: “Nel suo lettino dorme di già!” Allora ella prese le sembianze della regina, allattò il bambino, gli sprimacciò il lettino, lo coprì e nuotò via lungo lo scolo dell'acqua con l'aspetto di anatra. Allo stesso modo venne per due notti; la terza disse allo sguattero: “Vai e di' al re che prenda la spada e, sulla soglia, la brandisca per tre volte sul mio capo”. Lo sguattero corse a dirlo al re; questi venne con la sua spada e la brandì tre volte sullo spettro, e alla terza volta gli apparve la sua sposa, viva e sana come prima. Il re era felice ma tenne la regina nascosta in una camera fino alla domenica, giorno in cui il bambino doveva essere battezzato. Dopo il battesimo, disse: “Che cosa merita una persona che ne toglie un'altra dal letto e la getta in acqua?” “Ah” rispose la vecchia “che sia messa in una botte foderata di chiodi e fatta rotolare giù per il monte nell'acqua.” Allora il re mandò a prendere una botte siffatta e vi fece mettere dentro la vecchia e sua figlia; poi ne inchiodarono il fondo e la fecero ruzzolare giù per il pendio, fin che rotolò nel fiume.

    (F.lli Grimm)
     
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  8. gheagabry
     
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    L'indovinello
    C'era una volta un principe a cui venne l'improvviso desiderio di viaggiare per il mondo; non volle nessuno con sé, eccetto un servo fedele. Un giorno si trovarono in una grande foresta, e arrivarono a sera senza avere un posto dove dormire; non sapevano dove passare la notte, ma poi, il principe vide una ragazza che camminava verso una casetta, e quando le fu vicino, vide che era giovane e bella. Le rivolse la parola, dicendole: "Cara signorina, potremmo, io e il mio servo, trovare riparo per la notte in questa casetta?" "Si, potreste," rispose con voce cupa la fanciulla, "ma non ve lo consiglio; datemi retta, non entrate." "E perché no?" chiese il principe; la ragazza sospirò e disse: "Perché la mia matrigna pratica le arti proibite, e non gradisce la presenza di estranei." Con ciò, il giovane comprese di essere capitato a casa di una strega, ma, poiché era buio e non potevano proseguire il viaggio, decise di entrare, senza aver paura. C'era una vecchia che stava seduta su una poltroncina presso il fuoco; fissò lo sconosciuto con i suoi occhi rossi e gracchiò, fingendosi gentile: "Buonasera. Sedetevi pure e riposate." Poi attizzò il carbone sul quale cuoceva qualcosa da mangiare. La ragazza raccomandò ai due viandanti di fare attenzione, e di non mangiare né bere, perché la vecchia stava mescolando una pozione magica. Andarono a dormire e ronfarono fino a mattina; quando furono pronti per ripartire e il principe era già rimontato sul suo cavallo, la vecchia disse: "Aspettate un momento; vogliate gradire un drink d'addio." Ma il principe si era già incamminato, mentre il domestico era rimasto lì da solo ad allacciarsi la sella, e in quel mentre, giunse la strega con il liquido; "Ecco, portatelo al vostro padrone" disse. Ma in quell'istante la coppa si ruppe e la mistura colò sul cavallo: era un veleno così potente che la povera bestia crollò a terra morta stecchita. Il servo rincorse il padrone e gli raccontò la disgrazia; poi però non volle lasciare lì la sella e tornò indietro per riprenderla, e quando giunse sul posto vide che il cadavere del cavallo era diventato preda di un corvo, e pensò: 'Chissà se oggi troveremo qualcosa di meglio da mangiare?' Così, ammazzò l'uccello e lo portò via con sé. Tutto il giorno vagarono per la foresta, senza ritrovare la via; alla fine pernottarono in una locanda. Il domestico consegnò il corvo all'oste perché lo cucinasse. Ma non sapevano di essere capitati in un covo di briganti, e quando fu notte fonda, dodici di loro rientrarono, intenzionati a rapinare e a uccidere i forestieri; prima, però, si sedettero a tavola, in compagnia dell'oste e di una strega, e mangiarono tutti insieme una zuppa in cui era stata cotta la carne del corvo. Appena ebbero ingerito il primo boccone, ci restarono tutti morti stecchiti, poiché la carne del corvo era stata infettata dallo stesso veleno che era risultato fatale al cavallo. Sopravvisse soltanto la figlia dell'oste, la quale era una brava ragazza che si era sempre mantenuta estranea a malefici e scorribande; condusse gli ospiti per tutte le stanze della locanda, e mostrò ai viandanti i tesori accumulati dai banditi. Ma il principe non era interessato a impossessarsene, e rispose alla fanciulla che poteva tenere tutto lei, e insieme al suo servo riprese il viaggio.

    Dopo aver cavalcato a lungo, giunsero nei pressi di una cittadina capeggiata da una principessa bella ma altezzosa, la quale aveva proclamato che avrebbe preso per marito colui che le avesse posto un quesito a cui non fosse in grado di rispondere; in caso contrario, al pretendente avrebbe fatto tagliare la testa. La principessa si riservava tre giorni di tempo per indovinare, e siccome aveva una mente arguta e brillante, riusciva sempre a risolverli entro il termine. Quando il principe fece capolino in città, già nove uomini erano stati giustiziati in quel modo; ma quando la vide, rimase stregato dalla sua avvenenza e decise di rischiare la vita per conquistarla. Si presentò a lei con l'indovinello; disse: "Non ne ha ucciso alcuno, ma ne ha fatti fuori dodici: che cos'è?" Lì per lì non seppe rispondere; pensò e ripensò, ma non riusciva a scoprirlo. Consultò i suoi libri sugli indovinelli, ma non trovò la risposta neanche lì, e, in breve, capì di essere nei guai; non sapendo cosa fare, ordinò alla sua ancella di infiltrarsi nella stanza del principe, nella speranza ch'egli pronunciasse nel sonno qualche parola utile a svelare il mistero. Invece, l'astuto servo si infilò nel letto del suo padrone e quando arrivò la cameriera della principessa, le strappò l'soprabito che l'avvolgeva e la scacciò a pedate. La seconda notte la principessa mandò di nuovo in avanscoperta l'ancella, sperando di riuscire nell'impresa, ma ancora una volta il domestico la spogliò, cacciandola in malo modo. La terza notte, il principe pensò di essere al sicuro e si coricò lui stesso nel suo letto, ma stavolta, fu la principessa in persona ad insinuarsi in camera sua; aveva indosso un soprabito grigio fumo e sedette accanto a lui; quando fu convinta che stesse dormendo e sognando, gli parlò, sperando che lui le rispondesse nel sonno, come spesso accade, ma lui era ancora sveglio e sentì tutto. Lei cominciò a chiedergli: "Non ne ha ucciso alcuno, ma ne ha fatti fuori dodici: che cos'è?" E lui rispose: "Un corvo che mangiò la carne avvelenata di un cavallo morto, morendone a sua volta." E lei chiese ancora: "Ma ne ha uccisi dodici, cos'è, dunque?" E lui rispose: "I dodici briganti che mangiarono il corvo avvelenato, perendone." Ora che aveva scoperto la soluzione, la principessa voleva sgattaiolare via, ma il principe le strappò i vestiti di dosso, ed ella, colta in trappola, dovette rinunciare. Tuttavia, il mattino dopo, annunciò di aver risolto l'enigma: mandò a chiamare i dodici giudici e svelò la soluzione davanti a loro. Ma il principe chiese udienza, e disse: "Si è introdotta in camera mia nella notte e mi ha interrogato; se così non fosse, avrebbe perso la scommessa." Allora i giudici gli ordinarono di mostrare le prove, e il fedele servo esibì gli abiti. I giudici riconobbero la veste grigio fumo che la principessa indossava abitualmente, e dichiararono: "Che questa veste sia guarnita d'oro e d'argento, e che sia trasformata nel vostro soprabito nuziale.".

    (F.lli Grimm)



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    I sette corvi
    C'era una volta un uomo che aveva sette figli maschi, e desiderava molto avere una bambina; poi, un giorno, sua moglie rimase di nuovo incinta, e finalmente nacque loro una femminuccia. Essi provarono immensa gioia, ma la neonata era minuta e gracile, e, temendo per la sua vita, decisero di battezzarla in tutta fretta; il padre mandò uno dei ragazzi al pozzo a prendere l'acqua per il battesimo, ed anche gli altri andarono con lui, ma poi fecero a gara fra di loro per attingere per primi, così, ecco che la brocca cadde nell'acqua. Lì per lì stettero immobili senza sapere cosa fare; nessuno di loro osava tornare a casa senza l'acqua, ma quando il padre vide che non tornavano, diventò impaziente e disse: "Ragazzi perdigiorno! Sicuramente si saranno dimenticati di fare il loro dovere e si saranno messi a giocare chissà dove." E temendo che la bambina morisse senza prima aver ricevuto il battesimo, cominciò a strillare dalla rabbia ed esclamò: "Che possano trasformarsi tutti in corvi." E appena ebbe pronunciate quelle parole, udì il rumore di un frullo d'ali e, alzando il capo, vide sette corvi neri come il carbone alzarsi in volo e volare via. I genitori non poterono far nulla per annullare la maledizione, ma la presenza della figlioletta mitigò in parte il dolore per la perdita dei ragazzi. Il tempo passò, ed ella cresceva senza sapere dell'esistenza dei suoi fratelli, poiché i genitori facevano attenzione a non nominarli mai di fronte a lei. Ma un giorno la fanciulla ascoltò senza volere degli estranei parlare di lei, i quali dissero che era molto bella, ma anche che era la responsabile della fine dei suoi fratelli; la fanciulla ne rimase sconvolta, e andò subito a chiedere ai suoi genitori se era vero che aveva dei fratelli, e che cosa gli era accaduto. I genitori non poterono più mantenere il silenzio, ma le spiegarono che quella disgrazia fu un volere del destino, e che lei non aveva alcuna colpa; ma da quel momento la fanciulla si sentì sempre più responsabile dell'accaduto, e pensò di dover fare qualcosa per liberarli. Non ebbe più pace, fino a quando un giorno partì di nascosto e si avventurò nel mondo alla ricerca dei fratelli, decisa a liberarli a qualsiasi costo; portò con sé soltanto un anellino in ricordo dei suoi genitori, una pagnotta per sfamarsi, una piccola brocca d'acqua per dissetarsi, e una sediolina per riposarsi quando sarebbe stata stanca. Vagò in lungo e in largo, e andò fino alla fine del mondo; arrivò fino al sole, ma quello scottava terribilmente e odiava i bambini, così, scappò subito via, e corse verso la luna, ma quella era troppo fredda e anche lei era cattiva e spaventosa con le creature, e infatti le disse: "Ucci, ucci, sento odor di cristianucci." Allora corse lontano, e arrivò fino alle stelle, e per fortuna esse furono buone e gentili con lei, sedute ciascuna sulla propria seggiolina. Quando s'alzò la stella del mattino, diede alla bambina un osso di pollo e disse: "Tieni, ti servirà per aprire la porta della montagna di vetro, dove vivono i sette corvi." La fanciulla prese l'osso e lo avvolse in un fazzoletto, e proseguì il cammino fino a quando giunse alla montagna di vetro; la porta era chiusa a chiave, così, ella aprì il fazzoletto per prendere l'osso datole dalle buone stelle, ma l'osso non c'era più. L'aveva perduto. E ora, come avrebbe fatto ad aprire la porta senza la chiave? Voleva salvare i fratelli a tutti i costi, così, da buona sorellina che era, prese un coltello, si tagliò un ditino, lo infilò nella toppa e finalmente la porta si aprì. Entrò, e un nano le andò incontro e le disse: "Mia cara bambina, cosa stai cercando?" "Cerco i miei fratelli, i sette corvi" rispose; il nano disse: "I signori corvi non sono in casa, ma puoi aspettare che ritornino." Poi il nano servì la cena dei sette corvi sui loro sette piatti, e versò da bere nei sette bicchieri. La sorellina assaggiò un boccone da ogni piatto e bevve un sorso da ogni bicchiere, e nell'ultimo lasciò cadere l'anello che si era portata dietro. Improvvisamente sentì un rombo e un frullo d'ali, e il nano disse: "Sono i signori corvi che giungono a casa." I sette entrarono in casa, e si sedettero a tavola per mangiare, ma quando guardarono i piatti, notarono qualcosa di strano, e dissero, uno dopo l'altro: "chi ha mangiato dal mio piatto? Chi ha bevuto dal mio bicchiere? Vedo traccia di bocca umana." Quando il settimo bevve tutto il liquido, l'anello rotolò fuori; lo guardò e lo riconobbe e disse: "Volesse il buon Dio che nostra sorella fosse qui! Se così fosse, noi saremmo liberi." La fanciulla aveva ascoltato tutto da dietro la porta, e corse davanti a loro: in quel mentre i sette corvi furono trasformati di nuovo in esseri umani, e gli otto fratelli si baciarono e si abbracciarono stretti stretti. Poi, tutti insieme, tornarono allegramente a casa.

    (F.lli Grimm)
     
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  9. gheagabry
     
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    Lo sposo brigante
    C'era una volta un mugnaio che aveva una bella figlia; e quando fu in età da marito, avrebbe voluto sistemarla con un buon matrimonio, e pensava: ' Se si presenta un pretendente come si deve e me la chiede in moglie, gliela darò '.

    Presto avvenne che arrivò un giorno un pretendente che sembrava molto ricco; e il mugnaio, non trovando nulla da ridire, gli promise sua figlia. Ma la fanciulla non lo amava come si deve amare un fidanzato, e provava un profondo ribrezzo nei suoi confronti. Un giorno lui le disse: "Sei la mia fidanzata e non vieni mai a trovarmi". La fanciulla rispose: "Non so dov'è la vostra casa". Il fidanzato rispose: "La mia casa è la fuori, nel folto della foresta". Allorché cercando qualche pretesto, sostenne che non avrebbe saputo trovare la strada. Ma lui insistette: "Devi assolutamente venire da me domenica prossima, ho già fatto degli inviti e perché‚ tu possa trovare la strada nel fitto del bosco, la cospargerò di cenere".

    La domenica, quando la fanciulla stava per mettersi in cammino, le venne una gran paura, non sapeva neppure lei il motivo. Per sicurezza, si riempì le tasche di ceci e lenticchie: come promessole dallo sposo, all'ingresso del bosco vide la cenere sparsa sul sentiero, e la seguì, ma a ogni passo gettava qualche cece in terra a destra e a sinistra. Camminò quasi tutto il giorno fino a quando giunse a una casa isolata nel più folto del bosco, a una sinistra casa solitaria, poco attraente, e che non le piacque, poiché sembrava tanto tetra e inquietante. Dentro non c'era nessuno; regnava il più profondo silenzio. D'un tratto una voce gridò:

    "Fuggi, fuggi, bella sposina
    che sei dei briganti nella casina!"

    La fanciulla alzò gli occhi e vide che a gridare era stato un uccello rinchiuso in una gabbia appesa alla parete. Poco dopo quello gridò:

    "Fuggi, fuggi, bella sposina
    che sei dei briganti nella casina!"

    La bella sposa andò da una stanza all'altra e girò per la casa, ma era tutta vuota e non trovò anima viva. Finalmente giunse in cantina; là sedeva una vecchia decrepita, con la testa tutta tremante.


    "Potete dirmi se il mio fidanzato abita qui?" domandò la fanciulla. "Ah, povera bimba" rispose la vecchia "sei finita in un covo di briganti; tu sei convinta di essere una giovane e felice sposa alla vigilia delle nozze, ma le tue nozze saranno anche la tua morte. Vedi, ho dovuto mettere sul fuoco un gran paiolo pieno d'acqua. Se cadi nelle loro mani, ti faranno a pezzi senza pietà, poi ti faranno bollire e ti mangeranno, perché sono cannibali. Se non ti salvo, sei perduta!" E la vecchia la nascose così dietro una grossa botte e disse: "Stà cheta come un topolino e non muoverti o sei spacciata! Fuggiremo stanotte quando i briganti dormiranno: da un pezzo ne un' occasione propizia!" Aveva appena finito di parlare che i malviventi giunsero a casa trascinando con loro un'altra disgraziata; erano ubriachi e non badavano al suo pianto e alle sue grida. Le fecero bere tre bicchieri di vino, uno bianco, uno rosso e uno giallo; e il cuore le si schiantò. Poi le strapparono di dosso le belle vesti, la misero su di una tavola, fecero a pezzi il bel corpo e lo cosparsero di sale. La povera ragazza dietro la botte era tutta terrorizzata e tremante come una foglia, indovinando di dover subire la stessa sorte. Uno dei briganti notò che l'uccisa portava un anello d'oro al dito e, non riuscendo subito a sfilarlo, prese una scure e glielo mozzò di netto. Ma questo schizzò in aria e cadde dietro alla botte, proprio in grembo alla sposa. Il brigante prese un lume e si mise a cercarlo, ma non lo poté trovare. Allora un altro disse: "Hai guardato anche dietro la grossa botte?" Ma la vecchia gridò: "Venite a mangiare, cercherete domani; il dito mica non vi scappa!" "La vecchia ha ragione" dissero i briganti, quindi, smisero di cercare e si apprestarono a mangiare e a bere; ma la vecchia aveva versato loro un sonnifero nel vino, cosicché‚ si coricarono in cantina, si addormentarono e si misero a russare. Udendoli, la sposa uscì da dietro la botte, ma dovette scavalcare tutti i dormienti che giacevano in fila per terra e aveva una gran paura di svegliarne qualcuno. Ma con l'aiuto di Dio riuscì a passare, salì con la vecchia, e insieme fuggirono il più in fretta possibile dal covo degli assassini. Il vento aveva soffiato via la cenere, ma fortunatamente ceci e lenticchie erano germogliati e al chiaro di luna indicavano loro la via. Camminarono tutta la notte e giunsero al mulino la mattina dopo. La fanciulla raccontò al padre tutto quel che era accaduto.

    Quando venne il giorno delle nozze, comparve lo sposo; ma il mugnaio per prepararsi ad accoglierlo, aveva invitato tutti i suoi parenti e amici. A tavola ognuno dovette raccontare una storia. Allora lo sposo le disse: "Cuor mio,on hai niente da raccontare? Narraci qualcosa" Ella rispose: "Racconterò un sogno. Me ne andavo sola per un bosco e giunsi a una casa. Non c'era anima viva, ma soltanto un uccello, in una gabbia, che gridò per due volte:

    ' Fuggi, fuggi, bella sposina
    che sei dei briganti nella casina! ' "

    "Amor mio, non è che un sogno.." "Attraversai tutte le stanze ma erano vuote. Finalmente giunsi in cantina dove trovai una vecchia decrepita e le chiesi se sapeva dove abitasse il mio sposo, ma lei rispose: ' Ah, povera bimba, sei finita in un covo di briganti; tu credi in buona fede di essere una giovane e felice sposa alla vigilia delle nozze, ma le tue nozze saranno anche la tua morte. Vedi, ho dovuto mettere sul fuoco un gran paiolo pieno d'acqua. Se cadi nelle loro mani, ti faranno a pezzi senza pietà, poi ti faranno bollire e ti mangeranno, perché sono cannibali. ' "Amor mio, non è che un sogno.." "Ma la vecchia mi nascose dietro una grossa botte, e non appena fui nascosta tornarono i briganti trascinando con loro una povera fanciulla. Le fecero bere tre qualità di vino: bianco, rosso e giallo; in modo da farle schiantare il cuore." "Amor mio, non è che un sogno.." "Poi le strapparono di dosso le belle vesti e, sulla tavola, fecero a pezzi il suo bel corpo e lo cosparsero di sale." "Amor mio, non è che un sogno.." "Poi uno dei briganti s'accorse che la poverina indossava anello d'oro e, siccome non gli riusciva di sfilarlo, prese una scure e le tranciò il dito. Ma questo schizzò in aria e cadde dietro la grossa botte, dritto in grembo a me. Ed eccolo qui." Così dicendo, lo tirò fuori e lo mostrò ai presenti. Il brigante, che all'udire il racconto era impallidito come gesso dallo spavento, vedendo il dito volle fuggire, ma glielo impedirono e lo fermarono; poi lo consegnarono al tribunale, dove fu giustiziato con tutta la banda per tutte le infamie commesse.

    (F.lli Grimm)
     
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  10. gheagabry
     
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    Il falso uccello e lo sposo stregone
    C'era una volta un vecchio mago che, preso l’aspetto di un mendicante, andava di casa in casa chiedendo l’elemosina e si portava via le belle ragazze. Nessuno aveva idea di dove le portasse, né di che fine facessero, perché non tornavano mai più. Un giorno arrivò davanti alla porta di un uomo che aveva tre belle figliole, lo stregone aveva l’aspetto di un poverello e portava sulla schiena una gerla come se volesse raccogliere lì i doni che riceveva. Chiese per carità un pezzo di pane e quando la figlia più grande glielo offrì, la toccò appena e quella dovette balzargli nella gerla. Poi lo stregone se n’andò a grandi passi e se la portò nella sua casa che stava nella boscaglia più fitta. In casa tutto era splendente, egli le diede tutto quello che bramava e le disse: "Tesoruccio, ti piacerà sicuramente qui da me, avrai tutto ciò che il tuo cuore desidera. "

    Andò avanti così un paio di giorni e poi disse: "Debbo partire e lasciarti sola per un po’, eccoti le chiavi di casa, puoi andare da qualsiasi parte e guardare tutto, ma non nella stanza che si apre con questa chiave piccina, lì ti vieto d’entrare, pena la vita." Poi le consegnò un uovo e le disse: "Conservamelo bene e portalo sempre con te, perché se andrà smarrito, ne verrà una grande sventura." Lei prese le chiavi e l’uovo e diede parola di far tutto per bene. Quando quello se n’andò, girò la casa da cima a fondo, le stanze lampeggiavano d’argento e d’oro e lei considerò che mai aveva visto una simile ricchezza. Alla fine giunse alla porta proibita, voleva passare più avanti, ma il desiderio di sapere non le dava pace. Guardò attentamente la chiave, pareva una chiave come tutte le altre, l’infilò nella serratura, girò un pochino e la porta si aprì del tutto. Ma cosa vide quando entrò? In mezzo alla stanza c’era una vasca insanguinata e lì nell'interno c’erano dei morti fatti a pezzi e di fianco c’era un ceppo e sul ceppo un’ascia. S’impaurì a tal punto che l’uovo che aveva in mano vi cadde dentro. Lei lo ripescò e lo lavò dal sangue, ma inutilmente, subito il sangue ricompariva. Lavava e strofinava, ma non riusciva ad asportarlo. Poco dopo ritornò l’uomo dal suo viaggio e subito richieste la chiave e l’uovo. Lei glieli porse, ma rabbrividiva tutta e, dalle macchie rosse, lui osservò subito che era entrata nella camera insanguinata. "Sei entrata contro il mio volere, ora vi entrerai contro il tuo." La buttò dentro, l’afferrò per i capelli, le fece appoggiare la testa sul ceppo e gliela tagliò e il suo sangue scolò sul pavimento. Poi la buttò con le altre nella vasca. "Ora andrò a prendere la seconda" disse lo stregone.

    E sotto le sembianze di un mendicante, si recò nella casa del pover’uomo a domandare l’elemosina. La seconda figlia gli portò un pezzo di pane, e anche di questa s’impadronì con un solo tocco e poi se la portò via. Non andò meglio neppure alla sorella, si lasciò prendere dalla curiosità, aprì la stanza insanguinata, guardò dentro e al ritorno dello stregone dovette pagare con la vita. Egli andò a prendere la terza che era prudente e scaltra. Quando l’uomo le diede la chiave e partì, per prima cosa mise l’uovo bene al sicuro, poi esaminò la casa, alla fine andò nella stanza proibita. Dio mio, cosa vide! Le sue care sorelle giacevano nella vasca, pietosamente uccise e fatte a pezzi. Ma lei cercò e raccolse le parti del corpo sparse le riunì, testa, corpo, braccia, gambe. E quando non mancava più niente, le membra iniziarono a far dei movimenti e si saldarono bene l’un l’altra e tutte e due le ragazze spalancarono gli occhi e furono di nuove vive. Allora si fecero festa e si baciarono e abbracciarono. L’uomo, al suo ritorno, chiese subito la chiave e l’uovo e poiché non c’erano impronte di sangue, l’uomo disse: "Hai superato la prova, sarai mia moglie." Lui in questo modo non possedeva più poteri su di lei e doveva fare quello che lei desiderava. "Benissimo" rispose la ragazza, "ma prima porta un cesto d’oro a mio padre e a mia madre e portalo tu stesso sulla schiena. Io nel frattempo farò i preparativi per le nozze." Poi corse dalle sorelle che aveva nascoste in uno stanzino e disse loro: "È sopraggiunto il momento per strapparvi al pericolo, quel miserabile vi porterà lui stesso a casa, ma appena sarete a casa mandatemi aiuto." Mise ambedue nel canestro e le rivestì d’oro così che non potessero vedere. Poi chiamò lo stregone e gli disse: "Porta il cesto, ma io ti guarderò dalla finestra, guai a te se ti fermi o riposi." Lo stregone innalzò il canestro, se lo mise sulle spalle e corse via, ma era talmente pesante che gli scolava il sudore sul viso. Allora si sedette e voleva riposare un po’, ma dal cesto una gridò: "Guardo dalla finestra e vedo che riposi, vai subito avanti." Egli ponderò che fosse la sposa e si alzò e si rimise per via. Ancora una volta voleva sedersi, ma subito sentì gridare: "Guardo dalla finestra e vedo che riposi, vai subito avanti. " E ogni volta che si fermava, una strillava e lui dovette correre, fino a che senza fiato e spossato morto portò l’oro e le fanciulle alla casa dei genitori. Nel frattempo in casa la sposa faceva preparativi le nozze e invitò gli amici dello stregone. Poi prese un teschio con i denti sghignazzanti, lo agghindò con i gioielli e una corona di fiori, lo portò su in soffitta e lo sistemò come se stesse guardando fuori. Quando tutto fu pronto, s’immerse in un barile di miele, aprì il piumino e ci si rotolò dentro, tanto che sembrava uno strano uccello e nessuno l’avrebbe potuta individuare. Uscì da casa e, per via, incontrò una parte degli ospiti e loro le domandavano:

    "Da dove vieni uccelletto felice?"
    "Vengo dalla casa di piuma di gallina."
    "E cosa fa la giovane sposina?"
    "Ha spazzato tutta la casina e guarda dalla finestra."

    Infine incontrò proprio lo sposo che se ne ritornava con lentezza verso casa. Anche lui, come gli altri chiese:

    "Da dove vieni uccelletto felice?"
    "Vengo dalla casa di piuma di gallina."
    "E cosa fa la mia sposina?"
    "Ha spazzato tutta la casina e guarda giù dalla finestra."

    Lo sposo guardò su e scorse il teschio tutto abbigliato. Allora pensò che fosse la sua sposa e le fece un bel gesto di saluto. Quando fu in casa con tutti i suoi ospiti, ecco arrivare i parenti e i fratelli della sposa che erano venuti a portarle aiuto. Allora tutti insieme chiusero le porte e barricarono le finestre in modo che nessuno potesse uscire e appiccarono il fuoco così lo stregone e tutta la sua discendenza dovettero bruciare.

    (F.lli Grimm)
     
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  11. gheagabry
     
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    Rosaspina
    Tanto tempo fa c’erano un re e una regina e ogni giorno dicevano: “Ah se avessimo un bimbo”, ma bambini non ne arrivavano.

    Allora accadde che, mentre la regina faceva il bagno, dall’acqua saltò fuori un ranocchio, si avvicinò a riva e così parlò alla regina: “Il tuo desiderio sta per essere esaudito: in capo ad un anno partorirai una bambina”. Quello che il ranocchietto aveva detto si avverò e la regina partorì una bimba talmente bella che il re non sapeva più contenere la sua gioia e ordinò che venisse allestita una grandissima festa. E non invitò solo i parenti, gli amici e i conoscenti, ma anche le fate, perché fossero propizie e benevole con la piccola nata.

    A quel tempo di fate nel regno del re ce n’erano tredici, ma poiché il re aveva solo dodici piatti d’oro per servir loro il pranzo, dovette rinunciare a invitarne una.

    La festa fu allestita con ogni sfarzo e quando finì, le fate donarono alla bimba i loro meravigliosi doni: l’una la virtù, l’altra la bellezza, la terza la ricchezza e via dicendo, insomma tutto quello che al mondo si può desiderare. Quando l’undicesima fata fece il suo dono, improvvisamente entrò la tredicesima che voleva vendicarsi per non essere stata invitata e, senza guardar in faccia o salutare nessuno, gridò con voce stentorea:

    “La figlia del re a quindici anni si pungerà con un fuso e cadrà a terra morta”. E senza più pronunciar parola, si girò e abbandonò la sala. Allora si fece avanti la dodicesima fata che non aveva ancora formulato il suo dono, ma poiché non poteva annullare il malvagio augurio, ma solo alleviarlo, così disse: “Non ci sarà morte, ma un sonno che durerà cent’anni.”

    Il re, che voleva salvare sua figlia da quella disgrazia, bandì i fusi da tutto il suo regno. Sulla fanciulla si adempirono i voti delle fate, infatti era bella, virtuosa, gentile e intelligente tanto che chiunque la vedeva non poteva non amarla.

    Allora accadde che proprio il giorno in cui compiva i quindici anni, il re e la regina non c’erano e la fanciulla rimase sola nel castello. Allora se ne andò in giro in ogni luogo, visitò stanze e dispense fino a che giunse in una vecchia torre. Salì una stretta scala a chiocciola che la condusse a una porticina. Nella toppa c’era una chiave arrugginita e, quando la girò, la porticina si spalancò. Lì in una piccola stanzetta se ne stava una vecchia donna con un fuso in mano e filava attenta il suo lino.

    “Buon giorno, nonnina,” disse la figlia del re, “cosa stai facendo?” “Filo”, disse la vecchia rispondendo con un cenno del capo. “Che cos’hai in mano che gira così allegramente?”, chiese la fanciulla e prese il fuso perché anche lei voleva filare. Non appena ebbe sfiorato il fuso l’incantesimo si compì e lei si punse un dito. Come sentì la puntura cadde su un letto che si trovava in quella stanza e sprofondò in un sonno profondo. Quello stesso sonno si diffuse in tutto il castello, il re e la regina che erano appena rientrati quando raggiunsero la sala del trono caddero a terra addormentati, e con loro tutta la corte. E s’addormentarono i cavalli nella stalla, i cani nel cortile, le colombe sul tetto, le mosche sulle pareti, persino il fuoco che crepitava nel focolare si zittì e s’addormentò e l’arrosto smise di sfrigolare e il cuoco, che aveva afferrato lo sguattero e gli voleva dare una sberla perché ne aveva combinata una delle sue, lo lasciò andare e si addormentò. Il vento si addormentò e sugli alberi accanto al castello fu solo silenzio. Attorno al castello crebbe un roveto che diventava ogni giorno più fitto e alto e che alla fine circondò il castello e lo ricoprì tutto, tanto da farlo sparire alla vista di tutti. Non si vedeva più nemmeno la bandiera sulla torre più alta. Nel paese si sparse la leggenda di Rosaspina, come veniva chiamata la bella principessa addormentata, e di tanto in tanto veniva qualche figlio di re che voleva penetrare nel roveto. Ma nessuno di loro riusciva a penetrarvi perché le spine li trattenevano come fossero mani adunche ed essi si impigliavano in quelle spine e lì morivano miseramente.

    Dopo molti e molti anni giunse nel paese un principe al quale capitò di udire un vecchio raccontare del roveto. Lì dietro doveva esserci un castello e nel castello una principessa meravigliosa, il cui nome era Rosaspina, dormiva un sonno di cento anni e con lei giacevano addormentati il re e la regina e tutta la corte. Già suo nonno gli aveva narrato che molti figli di re erano venuti e avevano tentato di spingersi attraverso il roveto, ma che lì erano rimasti impigliati ed erano morti d’una ben triste morte. Allora il giovane re disse: “Non ho paura, attraverserò i rovi e vedrò la bella Rosaspina”. Il vecchio cercò in ogni modo di dissuaderlo, ma il principe non volle ascoltarlo.

    Ora erano proprio passati i cent’anni ed era arrivato il giorno in cui Rosaspina doveva svegliarsi. Non appena il principe s’avvicinò al roveto, non gli apparvero che fiori meravigliosi che si scostavano spontaneamente al suo passaggio e lo lasciavano penetrare senza ferirlo. Giunto nel cortile del castello vide cavalli e cani da caccia che giacevano addormentati, e sul tetto c’erano le colombe con i capini sotto l’ala. E quando entrò in casa, le mosche dormivano sulle pareti e il cuoco, in cucina, aveva ancora la mano alzata, come volesse afferrare lo sguattero, e la serva se ne stava davanti ad un pollo nero che stava spennando. Andò oltre e nella sala del trono vide tutta la corte addormentata e sul trono dormivano re e regina. Proseguì e tutto era così silenzioso che poteva udire il proprio respiro. Finalmente arrivò nella torre, aprì la porticina della piccola stanza dove dormiva la bella Rosaspina. Lei era lì sdraiata ed era così bella che il giovane principe non sapeva distogliere gli occhi da lei. Poi si chinò e la baciò.

    Non appena l’ebbe sfiorata col suo bacio, Rosaspina aprì gli occhi, si svegliò e gli sorrise. Allora entrambi scesero dalla torre e si svegliarono il re e la regina, e tutta la corte si svegliò e tutti si guardavano con sguardo pieno di stupore. E i cavalli nel cortile balzarono in piedi e si scrollarono, e i cani da caccia saltavano e scodinzolavano e le colombe sul tetto levarono la testina di sotto l’ala, si guardarono attorno e volarono via, e le mosche ripresero a muoversi sulla parete, e il fuoco in cucina si ravviò, si rimise ad ardere e ricominciò a cuocere il pranzo, l’arrosto riprese a sfrigolare, il cuoco diede allo sguattero quel famoso schiaffo e lo fece gridare e la serva finì di spennare il pollo. Poi furono celebrate le nozze con grande sfarzo tra il principe e Rosaspina e tutti vissero felici fino alla morte.

    (F.lli Grimm)
     
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  12. gheagabry
     
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    I due fratelli (parte I)


    C'erano una volta due fratelli, uno ricco e uno povero. Il ricco era orefice e di cuore malvagio; il povero campava facendo scope ed era buono e onesto: aveva due figli gemelli, che si assomigliavano come due gocce d’acqua. I due ragazzi frequentavano la casa del ricco, e ogni tanto toccava loro qualche avanzo.

    Ora avvenne che il pover’uomo, andando nel bosco in cerca di saggina, vedesse un uccello tutto d’oro, bello come non ne aveva mai visti. Prese un sassolino, glielo scagliò contro e riuscì a colpirlo; ma cadde soltanto una penna e l’uccello volò via. L’uomo prese la penna e la portò al fratello che la guardò e disse: “E’ oro puro”, e gliela pagò lautamente.

    Il giorno dopo l’uomo salì su una betulla per tagliar qualche ramo; ed ecco volar fuori quel medesimo uccello; cercando bene, egli trovò un nido con dentro un uovo d’oro. Prese l’uovo e lo portò al fratello che disse: “E’ oro puro” e lo pagò del dovuto prezzo. Infine l’orefice disse: “Vorrei proprio avere anche l’uccello”. Il povero andò nel bosco per la terza volta e di nuovo vide l’uccello posato sull’albero; prese una pietra, l’abbatté e lo portò al fratello, che gli diede un bel mucchio di monete d’oro. “Ora posso tirare avanti”, pensò, e tornò a casa contento. L’orefice era furbo e astuto e sapeva bene che razza d’uccello fosse. Chiamò la moglie e disse: “Arrostiscimi l’uccello, e bada che non ne manchi: ho voglia di mangiarmelo tutto io”. L’uccello non era dei soliti: era di una specie così singolare, che, a mangiare il cuore e il fegato, ogni mattina si trovava una moneta d’oro sotto il guanciale. La donna preparò l’uccello, l’infilò su uno spiedo e lo fece arrostire. E, mentre l’uccello era al fuoco, ella dovette uscir dalla cucina per altre faccende; ed ecco entrar di corsa i due bambini del povero fabbricante di scope che si misero davanti allo spiedo e lo girarono un paio di volte. E, poiché proprio in quel momento caddero nella padella due briciole, uno disse: “Quei due bocconcini possiamo ben mangiarli! Io ho tanta fame!” “Già, nessuno ci baderà”. E li mangiarono. Ma sopravvenne la donna, vide che mangiavano qualcosa e disse: “Cosa avete mangiato?” “Due briciole cadute dall’uccello” risposero. “Erano il cuore e il fegato” disse la donna, tutta spaventata, e perché il marito non se ne accorgesse, e non andasse in collera, s’affrettò a uccidere un galletto, gli tolse il cuore e il fegato e li mise nell’uccello d’oro. Quando fu ben cotto, lo servì al marito, che se lo mangiò tutto senza lasciar nulla. Ma il mattino dopo, quando tastò sotto il guanciale, pensando di tirar fuori la moneta d’oro, non trovò un bel niente. I due bambini non sapevano che fortuna fosse toccata loro: il mattino dopo, quando si alzarono, qualcosa cadde in terra tintinnando; lo raccolsero, ed ecco, erano due monete d’oro. Le portarono al padre, che disse stupito: “Come mai?” Ma quando il mattino dopo ne trovarono altre due, e così ogni giorno, egli andò dal fratello e gli raccontò l’accaduto.

    L’orefice capì subito come era andata e che i due bambini avevano mangiato il cuore e il fegato dell’uccello d’oro; e per vendicarsi, invidioso e crudele com’era, disse al padre: “I tuoi bambini se l’intendono col diavolo; non prendere l’oro, non lasciarli stare in casa tua, perché il diavolo li ha in suo potere e può mandare in perdizione anche te.” Il padre temeva il Maligno, e, per quanto gli pesasse, condusse i due gemelli nel bosco e, col cuore grosso, li abbandonò.

    I due bambini errarono per il bosco, cercando il sentiero verso casa, ma non lo trovarono e si persero sempre di più. Alla fine incontrarono un cacciatore, che domandò: “Chi siete, bambini?” “Siamo i figli del povero fabbricante di scope”, risposero, e gli raccontarono che il padre non aveva più voluto tenerli in casa, perché tutte le mattine c’era una moneta d’oro sotto il loro cuscino. “Bè”, disse il cacciatore “non c’è niente di male in ciò, purché siate onesti e non diventiate dei fannulloni.” Siccome i bambini gli piacevano ed egli non ne aveva, il buon uomo se li portò a casa dicendo: “Vi farò da padre e vi alleverò”. Impararono così da lui l’arte della caccia e la moneta d’oro, che trovavano al risveglio, fu messa in serbo, caso mai ne avessero avuto bisogno in futuro.

    Quando furono adulti, il padre adottivo li condusse un giorno nel bosco e disse loro: “Oggi dovete fare il tiro di prova, perché possa promuovervi cacciatori”. Si appostarono con lui e attesero un pezzo, ma selvaggina non ne veniva. Il cacciatore alzò gli occhi e vide un gruppo di oche selvatiche che volavano disposte a triangolo; allora disse a uno dei gemelli: “Abbattine una per angolo”. Quegli lo fece, e fu il suo tiro di prova. Poco dopo, ecco un’altra fila di oche selvatiche, che figurava il numero due: il cacciatore ordinò anche all’altro gemello di abbatterne una per angolo e anche questi superò la prova.

    Allora il padre adottivo disse: “Ormai siete cacciatori provetti”. Poi i due fratelli andarono insieme nel bosco e si misero d’accordo; la sera, a cena, dissero al padre adottivo: “Non tocchiamo cibo, non prendiamo neanche un boccone, se non acconsentite a una nostra preghiera”. “Che preghiera?” disse egli. “Abbiamo finito il tirocinio” risposero “ma bisogna anche provarsi nel mondo, e vorremmo che ci lasciaste partire.” Disse il vecchio con gioia: “Parlate da bravi cacciatori; il vostro desiderio è stato anche il mio, andate, avrete fortuna.” E mangiarono e bevvero allegramente insieme.

    Nel giorno stabilito, il padre adottivo regalò a ciascuno un bello schioppo e un cane; e dall’oro risparmiato, lasciò che ognuno ne prendesse quanto voleva. Poi li accompagnò per un tratto di strada; accomiatandosi, diede loro un coltello tutto lustro e disse: “Se mai vi dovrete separare, piantate questo coltello in un albero, ad un crocicchio così ognuno di voi, tornando, potrà vedere com’è andata al fratello: perché da una parte, verso la strada percorsa dall’assente, il coltello arrugginisce se egli muore, ma finché vive, rimane lucido”.I due fratelli proseguirono e, cammina cammina, giunsero in un bosco così grande che un giorno non bastò per attraversarlo. Quindi, vi pernottarono e mangiarono quel che avevano nel carniere. Ma per quanto camminassero, non uscirono dal bosco neppure il giorno dopo. Siccome non avevano da mangiare, l’uno disse: “Bisognerà ammazzare qualcosa, per non patire la fame”. Caricò lo schioppo e si guardò intorno. E quando vide venir di corsa una vecchia lepre, prese la mira; ma la lepre gridò:

    O cacciatore, non mi ammazzare
    Due dei miei piccoli ti voglio dare.

    Saltò subito nella macchia e portò due piccoli; ma i leprottini giocavano così allegramente ed erano così graziosi che i cacciatori non ebbero cuore di ucciderli. Li tennero con sé, e i leprotti li seguirono dappresso. Poco dopo, accanto a loro venne una volpe; volevano spararle, ma la volpe gridò:

    O cacciatore, non mi ammazzare
    Due dei miei piccoli ti voglio dare.

    E portò due volpacchiotti; e anche questi i cacciatori non vollero ucciderli, li diedero per compagni ai leprotti, e proseguirono con tutt’e quattro. Dalla macchia non tardò ad uscire un lupo; i cacciatori presero la mira, ma il lupo gridò:

    O cacciatore, non mi ammazzare
    Due dei miei piccoli ti voglio dare.

    I cacciatori misero i due lupacchiotti con le altre bestie, e tutti li seguirono. Poi venne un orso, che aveva ancora voglia di trotterellare per il mondo, e gridò:

    O cacciatore, non mi ammazzare
    Due dei miei piccoli ti voglio dare.

    E i due orsacchiotti furono messi con gli altri, ed erano già otto. Chi arrivò alla fine? Un leone, scuotendo la criniera. Ma i cacciatori non si lasciarono intimorire e presero la mira, e anche il leone gridò:

    O cacciatore, non mi ammazzare
    Due dei miei piccoli ti voglio dare.

    Portò anch’egli i suoi due piccoli e così i cacciatori avevano due leoni, due orsi, due lupi, due volpi e due lepri che li seguivano, pronti a servirli. Ma intanto la fame non se l’erano tolta, allora dissero alle volpi: “Sentite, furbacchione, procurateci qualcosa da mangiare, voi che siete scaltre e maliziose”. “Non lontano di qui” risposero quelle “c’è un villaggio, dove abbiamo già preso diversi polli: vi mostreremo la strada.” Andarono nel villaggio, si comprarono qualcosa e fecero dar da mangiare anche alle loro bestie; poi proseguirono. Le volpi, molto pratiche del luogo, che era ricco di pollai, mettevano sempre i cacciatori sulla buona strada. Così vagabondarono per un po’, ma in nessun posto poterono prestar servizio insieme. Allora dissero: “Non c’è scampo, dobbiamo separarci”.

    Si spartirono le bestie, così che ognuno ebbe un leone, un orso, un lupo, una volpe e una lepre; poi si dissero addio, si promisero amore fraterno fino alla morte e conficcarono in un albero il coltello donato dal padre adottivo; poi l’uno andò verso oriente, l’altro verso occidente.

    Il più giovane giunse coi suoi animali in una città, tutta parata a lutto. Entrò in una locanda e chiese al padrone se poteva alloggiare le sue bestie. L’albergatore diede loro una stalla, che aveva un buco nella parete: e la lepre sgusciò fuori e andò a prendersi un cavolfiore; la volpe si prese una gallina e, mangiata che l’ebbe, prese anche il gallo; ma il lupo, l’orso e il leone erano troppo grossi per uscire. Allora l’oste li fece condurre in un gran prato, dove era una mucca, così che mangiarono a sazietà. Soltanto dopo aver provveduto alle sue bestie, il cacciatore domandò all’oste perché la città fosse parata a lutto. Disse l’oste: “Perché domani morirà l’unica figlia del nostro re.” “E’ tanto malata?” domandò il cacciatore. “No” rispose l’oste “è fresca e sana, ma deve morire.” “Come mai?” domandò il cacciatore. “Davanti alla città c’è un monte, su cui dimora un drago, che ogni anno deve avere una vergine, o devasta tutto il paese. Ormai le vergini sono state tutte sacrificate e non resta che la principessa. Perciò non c’è scampo, dev’essergli consegnata proprio domani.” Disse il cacciatore: “Perché non uccidono il drago?” “Ah,” rispose l’oste “già molti cavalieri l’hanno tentato, ma ci hanno rimesso la vita tutti quanti. Il re promette al vincitore del drago di sposare la principessa e di essere erede del regno”. Il cacciatore tacque, ma il mattino dopo prese con sé le sue bestie e salirono sul monte del drago. In cima al monte c’era una chiesetta, e sull’altare tre calici pieni e accanto la scritta: “Chi vuota questi calici diventa l’uomo più forte del mondo e maneggerà la spada che è sepolta davanti alla soglia”. Il cacciatore non bevve, e cercò di estrarre la spada, ma non poté smuoverla. Allora bevve dai calici e li vuotò, e divenne tanto forte da sollevare la spada e maneggiarla con facilità.

    Venuta l’ora di consegnare la vergine al drago, il re, il maresciallo e tutti i cortigiani la accompagnarono. Ella vide da lontano il cacciatore sulla cima del monte e pensò che il drago fosse là ad aspettarla; non voleva salire ma alla fine, poiché l’intera città sarebbe stata perduta, dovette fare il gran passo. Il re e i cortigiani tornarono a casa in grande afflizione; invece il maresciallo dovette rimanere a osservare da lontano che il drago portasse via la fanciulla. Quando la principessa arrivò sulla cima del monte, non trovò il drago, ma il giovane cacciatore. Egli la confortò e le promise di salvarla, la condusse nella chiesetta e ve la rinchiuse. Poco dopo, ecco arrivare con grande strepito il drago dalle sette teste. Scorgendo il cacciatore, disse, stupito: “Cosa fai qui sul monte?”. Il cacciatore rispose: “Voglio combattere con te”. Disse il drago: “Più di un cavaliere ha già perso la vita, la spunterò anche con te”, e mandò fuoco dalle sette gole. Il fuoco doveva incendiare l’erba secca, e soffocare il cacciatore nella vampa e nel fumo, ma le bestie accorsero e lo spensero con le zampe. Allora il drago s’avventò contro il cacciatore, ma questi vibrò la spada risonante e gli tagliò tre teste.

    Il drago si alzò nell’aria, vomitando fiamme e tentando di scagliarsi sul cacciatore; ma questi tornò a brandir la spada e gli mozzò ancora tre teste. Il mostro ricadde sfinito, eppure volle di nuovo lanciarsi contro il nemico che, con le sue ultime forze, gli mozzò la coda e, ormai incapace di lottare, chiamo le sue bestie a sbranarlo. Finito il combattimento, il cacciatore aprì la chiesa e trovò la principessa che giaceva a terra, era svenuta durante la lotta per lo spavento e l’angoscia. La portò fuori, e quando ella rinvenne e aprì gli occhi, le mostrò il drago fatto a pezzi e le disse che era libera. Ella esclamò, piena di gioia: “Tu sarai il mio diletto sposo, perché mio padre mi ha promessa all’uccisore del drago”. Poi si tolse la collana di corallo e la divise fra gli animali, per ricompensarli; e al leone toccò il fermaglietto d’oro. Ma il fazzoletto con il suo nome lo regalò al cacciatore, che andò a tagliar le lingue delle sette teste del drago, le avvolse e le serbò con cura. Fatto questo, poiché il fuoco e la lotta l’avevano spossato, disse alla fanciulla: “Siamo così stanchi tutti e due! Dormiamo un po’!” Lei acconsentì, si sdraiarono per terra e il cacciatore disse al leone: “Veglia, che nessuno ci sorprenda nel sonno!”, e si addormentarono entrambi. Il leone si sdraiò accanto a loro, ma il combattimento aveva stancato anche lui; chiamò l’orso e disse: “Mettiti vicino a me, devo dormire un po’; se succede qualcosa, svegliami”. L’orso gli si sdraiò accanto, ma era stanco anche lui, chiamò il lupo e disse: “Mettiti vicino a me, devo dormire un po’; se succede qualcosa, svegliami”. Il lupo gli si sdraiò accanto, ma era stanco anche lui, chiamò la volpe e disse: “Mettiti vicino a me, devo dormire un po’, se succede qualcosa, svegliami”. La volpe gli si sdraiò accanto, ma era stanca anche lei, chiamò la lepre e disse: “Mettiti vicino a me, devo dormire un po’, se succede qualcosa, svegliami”. La lepre si sdraiò accanto, ma anche lei era stanca, poverina, e non aveva nessuno da chiamare a far la guardia, e si addormentò. E così, insieme al cacciatore e alla principessa, dormivano tutti quanti gli animali di un sonno profondo.

    Il maresciallo, che aveva dovuto guardare da lontano, poiché non vide il drago volar via con la fanciulla, e sul monte era tutto tranquillo, si fece coraggio e salì. E lì vide il drago che giaceva morto e sbranato, e non lontano c’era la principessa con il suo salvatore e con tutte le bestie, tutti immersi nel sonno. Egli, che era cattivo e malvagio, afferrò la spada, tagliò la testa al cacciatore, prese in braccio la fanciulla e la portò giù dal monte. Ella si svegliò e inorridì, ma il maresciallo disse: “Sei nelle mie mani; devi dire che sono stato io a uccidere il drago” “Non posso” rispose “è stato un cacciatore con i suoi animali”. Allora egli sguainò la spada e la minacciò di morte se non obbediva, e così la obbligò alla promessa. Poi la condusse dal re, che andò in visibilio rivedendo la sua cara bambina, che immaginava sbranata dal mostro. Il maresciallo gli disse: “Ho ucciso il drago e ho liberato la fanciulla e tutto il regno; esigo dunque che ella sia mia moglie, secondo la promessa”. Il re chiese alla fanciulla la conferma di ciò che il maresciallo affermava, e la figlia rispose; “Ah, dev’esser vero, ma sia ben fermo che le nozze saranno soltanto fra un anno e un giorno.” Sperava infatti di sapere qualcosa del suo caro cacciatore in quel lasso di tempo. Ma sul monte del drago gli animali dormivano ancora accanto al loro signore morto, quando arrivò un grosso calabrone e si posò sul naso della lepre, ma quella lo scacciò con la zampa e continuò a dormire.

    Il calabrone tornò una seconda volta, ma la lepre lo scacciò di nuovo e continuò a dormire, allora tornò una terza volta, e le punse il naso, svegliandola. Appena desta, la lepre svegliò la volpe, la volpe il lupo, il lupo l’orso, e l’orso il leone. E quando il leone si svegliò e vide che la fanciulla era scomparsa e il suo padrone era morto, si mise a ruggire terribilmente e gridò: “Chi ha fatto questo? Orso, perché non mi hai svegliato?” L’orso domandò al lupo: “Perché non mi hai svegliato?” e via via così fino alla povera lepre, che non sapeva cosa rispondere, e tutta la colpa ricadde su di lei. Volevano saltarle tutti addosso, ma ella supplicò: “Non uccidetemi, risusciterò il nostro padrone. Conosco un monte, dove cresce una radice che, a metterla in bocca, guarisce ogni malattia e ogni ferita. Ma il monte è a duecento ore da qui”. Disse il leone: “In ventiquattr’ore devi andare e tornare e portare la radice”. La lepre corse via, e in ventiquattr’ore era di ritorno con la radice. Il leone pose la testa del cacciatore sul tronco e la lepre gli mise in bocca la radice; subito, tutto si ricongiunse, il cuore prese a battere e tornò la vita. Il cacciatore si svegliò e, non vedendo più la fanciulla, pensò sbigottito “se n’è andata mentre dormivo, per liberarsi di me”. Nella fretta, il leone gli aveva riattaccato la testa al contrario, ma egli, assorto nei suoi tristi pensieri, non se ne accorse; soltanto a mezzogiorno, quando volle mangiare qualcosa, vide che aveva la faccia di dietro, non riusciva a capire il perché e domandò alle bestie cosa gli fosse successo mentre dormiva. Allora il leone gli raccontò i fatti, spiegandogli che nella fretta gli aveva rimesso la testa al contrario, ma avrebbe rimediato all’errore: gliela strappò di nuovo, la girò, e la lepre gliela fissò con la radice. Ma il cacciatore era triste, non volle più tornare in città, e girò il mondo facendo ballare le sue bestie in pubblico.

    Era appunto trascorso un anno, che gli avvenne di tornare nella città dove aveva liberato la principessa dal drago, e stavolta la città era tutta parata di scarlatto. Chiese all’oste il motivo, e quegli rispose: “L’anno scorso la figlia del nostro re doveva essere consegnata al drago, ma il maresciallo l’ha vinto ed ucciso, e perciò domani saranno celebrate le nozze, e allora la città era parata di nero, in segno di lutto; oggi è parata di rosso, in segno di gioia”. L’indomani, giorno delle nozze, quando fu ora di pranzo, il cacciatore disse all’oste: “Ci crede, signor oste, che oggi qui da lei mangerò pane della tavola del re?” “Sì”, disse l’oste “ma ci scommetterei anche cento monete d’oro che non è vero.” Il cacciatore accettò la scommessa e giocò una borsa con altrettante monete. Poi chiamò la lepre e disse: “Và, caro saltarello, portami un po’ del pane che mangia il re”. Il leprottino, che era il più piccolo, e non poteva passar l’incarico ad altri, dovette mettersi per la via. “ah,” pensava, “a correr così solo per le strade, i cani mi verranno tutti dietro”. E fu proprio così: i cani l’inseguirono per dare una pettinata alla sua bella pelliccia: ma egli, in men che non si dica, si rifugiò in una garitta, senza che il soldato se n’accorgesse. Arrivarono i cani a scovarlo, ma il soldato non voleva scherzi e menò botte col calcio del fucile, così che i cani scapparono urlando.
     
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  13. gheagabry
     
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    Favole Classiche

    I due fratelli (parte II)
    Quando fiutò l’aria migliore, il leprotto corse nel castello, si cacciò proprio sotto la sedia della principessa e le grattò il piede. “Via!” disse ella, credendo fosse il cane, ma la lepre non si lasciò confondere e continuò a grattare finché lei abbassò gli occhi e riconobbe la lepre. La prese in grembo, se la portò in camera e disse: “Cara lepre, cosa vuoi?” E il leprotto rispose: “Il mio signore, quello che ha ucciso il drago, è qui, e mi manda a chiedere un pane, di quello che mangia il re.” Piena di gioia, ella mandò a chiamare il fornaio e gli ordinò di portare lo stesso pane che mangiava il re. Disse il leprotto: “Ma il fornaio deve anche portarmelo, perché i cani non mi facciano niente”. Il fornaio glielo portò fino all’osteria; la lepre si rizzò sulle zampe di dietro, con quelle davanti prese subito il pane e lo portò al suo signore, che disse: “Vede, signor oste? Le cento monete d’oro sono mie”. L’oste fece le meraviglie, ma il cacciatore proseguì: “Sì, signor oste, il pane ce l’avrei, ma adesso vorrei mangiare anche l’arrosto del re”. “Vorrei un po’ vedere” disse l’oste, ma scommettere non volle più. Il cacciatore chiamò la volpe e disse: “Volpicina, và a prendermi un po’ di arrosto, di quello che mangia il re”. Pelo Rosso la sapeva più lunga, scantonò di qua e di là senza essere vista da un cane, si cacciò sotto la sedia della principessa e le grattò il piede. Lei abbassò lo sguardo e dal monile riconobbe la volpe; se la portò in camera e disse: “Cara volpe, che vuoi?” Rispose la volpe: “Il mio signore, quello che ha ucciso il drago, è qui, e mi manda a chiedere un po’ d’arrosto, come lo mangia il re”. Lei mandò a chiamare il cuoco, che dovette preparare un arrosto, come lo mangiava il re, e portarlo fino all’osteria. Allora la volpe gli prese il piatto, con la coda scacciò le mosche che si erano posate sull’arrosto, poi lo portò al suo signore, che disse: “Vede, signor oste, pane e carne ci sono; ora voglio anche la verdura, come la mangia il re”. Chiamò il lupo e disse: “Caro lupo, và a prendermi un po’ di verdura, di quella che mangia il re”. Il lupo, che non aveva paura di nessuno, andò al castello, e quando arrivò nella stanza dov’era la principessa, la tirò per un lembo della veste, perché si volgesse. Dal monile ella lo riconobbe, se lo portò in camera e disse: “Caro lupo, cosa vuoi?” Rispose il lupo: “Il mio signore, quello che ha ucciso il drago, è qui, e mi manda a chiedere un po’ di verdura, di quella che mangia il re”. Lei mandò a chiamare il cuoco, che dovette preparare una porzione di verdura, come la mangiava il re, e portarla fino alla porta; allora il lupo prese il piatto, e lo presentò al suo signore, che disse: “Vede, signor oste, ora ho pane, carne e verdura, ma voglio anche il dolce, come lo mangia il re”. Chiamò l’orso e disse: “Caro orso, tu lecchi volentieri qualcosa di dolce, và a prendermene uno di quelli che mangia il re”. L’orso trottò al castello, e tutti lo scansavano; ma quando arrivò al corpo di guardia, spianarono il fucile, per non lasciarlo entrare nella reggia. L’orso si rizzò, e con le zampe distribuì qualche zampata a destra e a sinistra, così tutto il corpo di guardia cadde per terra; poi andò difilato dalla principessa, si fermò dietro di lei e barrì un po’. Lei si volse, riconobbe l’orso, lo invitò a seguirla nella sua camera e gli domandò: “Caro orso, che vuoi?”. Rispose l’orso: “Il mio signore, quello che ha ucciso il drago, è qui, e mi manda a chiedere un dolce, di quelli che mangia il re”. Lei mandò a chiamare il pasticcere che dovette fare un dolce, come lo mangiava il re, e portarlo fino all’osteria; l’orso prima leccò via i confetti che erano caduti, poi si rizzò, prese il piatto e lo portò al suo signore, che disse: “Vede, signor oste, ora ho pane, carne, verdura, e dolce, ma voglio anche bere il vino che beve il re.” Chiamò il leone e gli disse: “Caro leone, un sorso te lo bevi volentieri, và a prendermi un po’ di vino, di quello che beve il re”.

    Il leone attraversò maestosamente la strada e la gente scappava davanti a lui; e quando arrivò al corpo di guardia, volevano sbarrargli il passo; ma bastò un ruggito, e se la diedero a gambe. Il leone andò nella sala del trono e bussò con la coda. Uscì la principessa, e al vederlo per poco non si spaventò, ma lo riconobbe dal fermaglio d’oro della sua collana, l’invitò a seguirla nella sua camera e gli domandò che cosa volesse, e il leone spiegò. Lei mandò a chiamare il coppiere, perché desse al leone un po’ di vino, di quello che beveva il re. Disse il leone: “Andrò anch’io, per vedere se mi dà quello buono”. Scese con il coppiere e, quando furono in cantina, questi voleva spillargli un po’ di vino comune, di quello che bevevano i servitori, ma il leone disse: “Alt! Prima voglio assaggiarlo” e se ne spillò mezzo boccale e lo tracannò. “No”, disse, “non è quello buono”. Il coppiere lo guardò di traverso, ma andò a prenderne da un’altra botte, che era quella del maresciallo. Disse il leone: ““Alt! Prima voglio assaggiarlo”, se ne spillò mezzo boccale e lo bevve. “Questo è migliore, ma non è ancora quello buono”. Allora il coppiere si arrabbiò e disse: “Cosa vuol saperne di vino questa stupida bestia!” Ma il leone gli diede uno scappellotto, così che egli cadde malamente per terra e quando si rialzò lo condusse in silenzio in una piccola cantina separata, dov’era il vino del re, che nessun altro beveva.

    Il leone si spillò mezzo boccale e assaggiò il vino, poi disse:: “Può andare”, e ordinò al coppiere di riempirgliene sei bottiglie. Poi salirono; ma quando il leone passò dalla cantina all’aperto, barcollava, un po’ ubriaco, e il coppiere dovette portargli il vino fino all’osteria; il leone prese in bocca il manico del cesto e lo portò al suo signore, che disse: “Vede, signor oste, qui ho pane, carne, verdura, dolce e vino, come il re; e adesso pranzerò con tutte le mie bestie”. Si mise a tavola, mangiò e bevve e diede da mangiare e da bere anche alla lepre, alla volpe, al lupo, all’orso e al leone; ed era tutto allegro, perché capiva che la principessa lo amava ancora.

    Dopo pranzo disse: “Signor oste, ho mangiato e bevuto come mangia e beve il re; ora andrò a corte e sposerò la principessa”. L’oste chiese: “Com’è possibile, se ha già un fidanzato e si sposano oggi?” Il cacciatore tirò fuori il fazzoletto che gli aveva dato la principessa sul monte del drago e in cui erano avvolte le sette lingue del mostro e disse: “Mi aiuterà quel che ho in mano”. L’oste guardò il fazzoletto e disse: “Potrei credere tutto, ma non questo, e ci scommetto tutto il mio avere”. Ma il cacciatore prese una borsa con mille monete d’oro, le mise sulla tavola e disse: “E io scommetto questa”.

    Alla tavola regale, il re disse a sua figlia: “Cosa volevano da te tutte quelle bestie, che sono entrate e uscite dal mio castello?” Lei rispose: “Non posso dirlo, ma mandate a prendere il loro padrone: sarà cosa ben fatta”. Il re mandò un servo all’osteria a invitare il forestiero, e il servo arrivò proprio al momento della scommessa. “Vede, signor oste,” disse il cacciatore “il re manda un servo ad invitarmi, ma non ci vado ancora”. E al servo disse: “Prego il re di mandarmi vesti regali, un cocchio a sei cavalli e servi ai miei comandi”. All’udire la richiesta, il re disse alla figlia: “Che devo fare?” Lei rispose: “Mandatelo a prendere com’egli desidera: sarà cosa ben fatta”. E il re gli mandò i vestiti regali, un cocchio a sei cavalli e servi ai suoi comandi. Vedendoli arrivare il cacciatore disse: “Vede, signor oste, mi vengono a prendere come ho voluto” e indossò le vesti regali, prese il fazzoletto con le lingue del drago e andò dal re. Vedendolo venire, il re disse a sua figlia: “Come devo accoglierlo?” “Andategli incontro: sarà cosa ben fatta”. Allora il re gli andò incontro e lo fece salire, con tutte le sue bestie. Gli indicò un posto accanto a sé e a sua figlia. Il maresciallo, nella sua qualità di sposo, sedeva dall’altro lato, ma non lo riconobbe.

    Proprio in quel momento, furono esposte le sette teste del drago e il re disse: “Le ha mozzate il maresciallo: per questo oggi gli do mia figlia in sposa”. Il cacciatore si alzò, di ognuna mostrò le fauci e disse: “Dove sono le sette lingue del drago?” Il maresciallo sbalordì, si fece pallido e non sapeva cosa rispondere. Atterrito finì col dire: “I draghi non hanno lingua”. Disse il cacciatore: “I bugiardi non dovrebbero averla, ma le lingue del drago sono il segno del vincitore”. E sciolse il fazzoletto, dov’erano tutte e sette, e in ogni gola mise la sua brava lingua, che combaciava esattamente. Poi prese il fazzoletto, dov’era ricamato il nome della principessa, lo mostrò alla fanciulla e le domandò a chi l’avesse dato, e lei rispose: “A colui che ha ucciso il drago”. Poi egli chiamò le sue bestie, ad ognuna tolse il monile e al leone il fermaglio d’oro, li mostrò alla principessa, e domandò di chi fossero. Lei rispose: “Sono i miei: ho diviso la collana fra le bestie che hanno aiutato a vincere il drago”. Allora disse il cacciatore: “Mentre dormivo, sfinito dal combattimento, è venuto il maresciallo e mi ha tagliato la testa. Poi ha portato via la principessa e ha finto di essere stato lui a uccidere il drago; e che abbia mentito, lo dimostro con le lingue, il fazzoletto e la collana.” Poi narrò che le sue bestie l’avevano risanato con una radice miracolosa, e con loro, per un anno, egli aveva girato qua e là; infine era tornato, e dal racconto dell’oste aveva appreso l’inganno del maresciallo. Allora il re chiese a sua figlia: “E’ vero che costui ha ucciso il drago?” E lei rispose: “Sì, è vero, ora posso svelare l’infamia del maresciallo, ora che è venuta alla luce per opera mia, perché egli mi aveva fatto promettere di tacere. Ma per questo ho voluto che soltanto dopo un anno e un giorno fossero celebrate le nozze.”

    Il re fece allora chiamare dodici consiglieri che giudicassero il maresciallo, e sentenziarono che fosse squarciato da quattro buoi. Così il maresciallo fu giustiziato, e il re diede sua figlia al cacciatore e lo nominò suo luogotenente in tutto il regno. Le nozze furono celebrate con grandi feste e il giovane re mandò a prendere suo padre e il padre adottivo e li colmò di tesori. Non dimenticò neanche l’amico oste; lo fece chiamare e gli disse: “Vede, signor oste, ho sposato la principessa! Tutto il suo avere è mio.” “Sì” disse l’oste, “questo sarebbe giustizia”. Ma il giovane re disse: “E invece le farò grazia: terrà il Suo avere e per di più le regalo mille monete d’oro”.

    Il giovane re e la giovane regina vivevano insieme, felici e contenti. Lui andava spesso a caccia, il suo divertimento preferito, e le bestie fedeli dovevano accompagnarlo. Nelle vicinanze c’era un bosco, che si diceva incantato: se qualcuno ci entrava, non ne usciva tanto facilmente. Ma il giovane aveva una gran voglia di andare a caccia in quel bosco e non lasciò in pace il suocero, finché non glielo permise. Uscì a cavallo con un gran seguito, e quando vi giunse vide una cerva bianca come la neve e disse ai suoi: “Fermatevi qui, finché torno: voglio cacciare quel bell’animale” e lo rincorse nel bosco, accompagnato soltanto dalle sue bestie. Il seguito si fermò ed aspettò fino a sera, ma lui non tornò; allora ripresero la via verso casa e raccontarono alla giovane regina: “Il giovane re ha inseguito una cerva bianca nel bosco incantato e non ha fatto ritorno”. Lei era in grande apprensione. Ma lui aveva continuato a galoppare dietro alla bella cerva, senza poterla raggiungere; quando credeva di averla a tiro, subito la vedeva correre a gran distanza, finché sparì del tutto. S’accorse allora di essersi spinto nel più folto del bosco e suonò il corno, ma non ebbe risposta, perché i suoi non potevano udirlo. Calarono le tenebre ed egli vide che per quel giorno non poteva tornare a casa; smontò da cavallo e si accese un fuoco sotto un albero, per passarvi la notte. Mentre se ne stava presso al fuoco, con le bestie sdraiate accanto a sé, gli parve di sentire una voce umana; si guardò intorno, ma non riuscì a scorgere nulla. Poco dopo tornò a sentire un gemito, dall’alto: alzò gli occhi e vide una vecchia seduta sull’albero che continuava a frignare: “Uh, uh, uh, che freddo!” “Scendi” disse lui “e scaldati, se hai freddo.” Ma lei replicò: “No, le tue bestie mi mordono” “No, non ti faranno niente, nonnina, scendi pure”. Ma quella era una strega e disse: “Ti getterò dall’albero una bacchetta, se con questa le tocchi sul dorso, non mi faranno più niente”. Gli gettò una bacchetta, e con quella egli toccò le bestie, che subito giacquero immobili, impietrite. Quando la strega non ne ebbe più paura, saltò giù, toccò anche lui con una bacchetta e lo trasformò in pietra. Poi si mise a ridere e lo trascinò con le bestie in una fossa, dove di quelle pietre ce n’erano già molte.

    Il giovane re non tornava mai e la paura e l’apprensione della regina crebbero sempre di più.

    Ora avvenne che proprio in quel tempo giunse nel regno l’altro fratello che, al momento della separazione, era andato verso oriente. Aveva cercato lavoro e non ne aveva trovato, poi aveva girato qua e là facendo ballare le sue bestie. Ed ecco, gli venne in mente, per sapere come stesse il minore, di guardare il coltello, che al momento di separarsi avevano conficcato in un albero. Quando giunse al bivio, dalla parte del fratello la lama era mezzo arrugginita e mezzo lustra. Allora pensò, spaventato, che al fratello dovesse essergli successo qualcosa, ma che forse c’erano ancora possibilità di salvarlo, poiché per metà la lama era ancora lustra. Andò con le sue bestie verso occidente, e quando giunse alle porte della città, gli venne incontro una sentinella domandandogli se doveva annunciare alla moglie il suo arrivo: già da un paio di giorni la giovane regina era in grave apprensione per la sua scomparsa e temeva fosse morto nel bosco incantato. La sentinella credeva infatti che egli fosse il giovane re in persona, tanto gli somigliava, anch’egli seguito dalle bestie selvagge che gli correvano dietro. Lui s’accorse che si trattava di suo fratello e pensò: “Il meglio è che mi faccia passare per lui, forse potrò salvarlo più facilmente”. Perciò si fece accompagnare dalla sentinella alla reggia, dove fu accolto con gran gioia.

    La giovane regina lo credette il suo sposo e gli domandò perché avesse tardato tanto. Lui rispose: “Mi sono smarrito in un bosco e non sapevo come uscirne”. La sera fu condotto al letto regale, ma fra sé e la giovane regina pose una spada a due tagli; lei non capiva perché, ma non osò far domande. Egli rimase là un paio di giorni, indagando sul bosco incantato; alla fine annunciò che sarebbe nuovamente andato a caccia là, ma la regina e il re suo padre volevano dissuaderlo, ma egli insistette e uscì con un gran seguito. Quando giunse nel bosco, gli accadde lo stesso che al fratello: vide una cerva bianca e disse ai suoi: “Restate qui ad aspettarmi, voglio cacciare quel bell’animale.” Entrò nel bosco e le sue bestie gli corsero dietro. Ma non poté raggiungere la cerva e tanto si addentrò, che dovette passare la notte nella selva. E quando ebbe acceso un fuoco, udì gemere dall’alto: “Uh, uh, uh, che freddo!” Alzando gli occhi vide la strega sull’albero, e allora si ripeté anche con lui la stessa scena avvenuta con il fratello, ma il cacciatore diffidò delle sue parole e disse: “Le mie bestie non le tocco, scendi o ti vengo a prendere”. Lei gridò: “Cosa credi? Non mi puoi far nulla”. Ma lui rispose: “Se non scendi, sparo”. Lei disse: “E tu spara, non temo le tue pallottole”. Lui prese la mira e sparò, ma contro il piombo la strega era invulnerabile; diede una risata stridula e gridò: “Non mi colpirai!”

    Ma il cacciatore la sapeva lunga: si staccò dalla giubba tre bottoni d’argento e li mise nello schioppo, perché contro l’argento l’arte della strega era vana; e quando sparò, lei precipitò di colpo, urlando. Allora lui disse, tenendola sotto il piede: “Vecchia strega, se non confessi subito dov’è mio fratello, ti prendo con queste mie mani e ti butto nel fuoco”. Atterrita, lei chiese grazia e disse: “E’ in una fossa con le sue bestie, trasformato in pietra”. Lui la costrinse ad accompagnarlo e le disse minacciosamente: “Vecchio gattomammone, adesso risuscita mio fratello e tutti quelli che hai trasformato in pietra, o finisci nel fuoco”. Lei prese allora una bacchetta e toccò le pietre: il fratello risuscitò con le sue bestie, e tanta altra gente, mercanti, artigiani, pastori, si alzarono, ringraziarono il liberatore e tornarono alle loro case. Ma i gemelli si baciarono, felici di ritrovarsi. Poi afferrarono la strega, la legarono e la buttarono nel fuoco e quando fu bruciata, ecco che il bosco si fece chiaro e luminoso, così che si poteva vedere il castello reale a tre ore di cammino.

    I due fratelli tornarono a casa insieme e per la via si narrarono le loro avventure. E quando il più giovane disse che egli era luogotenente del re in tutto il paese, “Me ne sono accorto”, disse l’altro, “quando sono arrivato in città mi hanno preso per te, e mi hanno tributato tutti gli onori regali; la giovane regina ha creduto fossi suo marito e ho dovuto mangiare al suo fianco e dormire nel suo letto”.

    All’udir ciò, il fratello, geloso e furibondo, sguainò la spada e gli tagliò la testa. Ma quando lo vide morto e ne vide il sangue scorrere vermiglio, si pentì amaramente. “Mio fratello mi ha liberato” gridava “e io l’ho ucciso!” e si lamentava a gran voce, disperandosi. Allora venne la sua fida lepre e si offrì di andare a prendere la radice miracolosa; corse via e la portò ancora in tempo: il morto fu risuscitato e non s’accorse affatto della ferita.

    Proseguirono, e il più giovane disse: “Tu hai il mio aspetto, indossi vesti regali come le mie, e come me sei seguito dalle bestie: entriamo da porte opposte e arriveremo insieme al castello.” Si separarono e al vecchio re si presentarono contemporaneamente, con le sentinelle dell’una e dell’altra porta ad annunciargli che il giovane genero era tornato dalla caccia con le sue bestie. Disse allora il re: “Non è possibile, le porte distano un’ora l’una dall’altra”. Ma intanto, da parti opposte, i due fratelli entrarono nel cortile del castello e salirono insieme. Allora il re disse alla figlia: “Dimmi, qual è tuo marito? Si somigliano tanto che io non posso saperlo”. Lei, in grande angoscia, non avrebbe saputo dirlo; infine le venne in mente la collana che aveva donato alle bestie. Cercò e trovò su uno dei leoni il suo fermaglietto d’oro, allora gridò tutta contenta: “Colui che è seguito da questo leone è il mio vero sposo”. Il giovane fratello salvatore si mise a ridere e disse: “Sì, è lui quello vero”. Sedettero a tavola insieme e mangiarono e bevvero allegramente. La sera, quando il giovane re andò a letto, sua moglie chiese: “Perché le notti scorse hai sempre messo nel nostro letto una spada a due tagli? Credevo mi volessi uccidere”. Allora lui capì come il fratello gli fosse stato veramente fedele.

    (F.lli Grimm)
     
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  14. gheagabry
     
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    Favole Classiche

    L'allodola che canta e saltella
    C'era una volta un uomo che si preparava a partire per un lungo viaggio e, nel prender commiato dalle sue tre figlie, chiese loro che cosa avrebbero voluto ricevere in dono. La prima voleva delle perle, la seconda diamanti, mentre la terza disse: "Caro babbo, desidero un'allodola che canta e saltella". Il padre disse: "Sì, se riesco a prenderla l'avrai". Le baciò tutt'e tre e partì.

    Quando fu tempo di ritornare a casa, aveva comprato perle e diamanti per le due maggiori, per la minore invece non era riuscito a trovare l'allodola che canta e saltella, benché‚ l'avesse cercata ovunque; e ciò gli dispiaceva perché‚ la figlia più piccola era la sua prediletta. La strada lo condusse attraverso un bosco in mezzo al quale si trovava uno splendido castello e, vicino al castello, un albero, sulla cima del quale egli vide un'allodola che cantava e saltellava.

    "Ehi, capiti proprio a proposito!" disse tutto contento, e gridò al servo di arrampicarsi sull'albero e di catturare l'uccellino. Ma come questi si avvicinò all'albero, saltò fuori un leone che scosse la criniera e ruggì da far tremare le foglie degli alberi. "Se qualcuno vuole rubarmi l'allodola che canta e saltella, io lo divoro!" Allora l'uomo disse: "Non sapevo che l'uccello ti appartenesse. Posso riscattarmi in qualche maniera?". "No" rispose il leone "non vi è nulla che possa salvarti se non prometti di accordarmi la prima cosa che ti verrà incontro facendo ritorno a casa; se prometti ti risparmio la vita e ti regalo pure l'uccello per tua figlia." Ma l'uomo rifiutò e disse: "Potrebbe trattarsi della mia figlia minore: mi vuole bene più di ogni altro e mi corre sempre incontro quando ritorno a casa". Il servo ebbe paura e disse: "Ma potrebbe anche trattarsi di un gatto o di un cane!" L'uomo si lasciò persuadere e, con il cuore grosso, prese l'allodola che canta e saltella, facendo al leone la promessa di accordargli ciò che, a casa, gli fosse venuto incontro per primo.

    Quando arrivò a casa, la prima ad andargli incontro fu proprio la sua amata figlia minore; venne di corsa, lo baciò e lo abbracciò e quando vide che aveva portato un'allodola che canta e saltella fu ancora più felice. Ma il padre non poteva rallegrarsi; si mise a piangere e disse: "Ah, mia diletta bambina, ho pagato caro quest'uccellino! In cambio ho dovuto prometterti a un feroce leone, e quando ti avrà in suo potere ti sbranerà e ti divorerà". Le raccontò come erano andate le cose e la supplicò di non andarci, qualunque cosa accadesse. Ma ella lo consolò e disse: "Carissimo babbo, dovete mantenere ciò che avete promesso: andrò dal leone, lo placherò e farò ritorno da voi sana e salva".

    Il mattino seguente si fece indicare il cammino, prese congedo e si addentrò fiduciosa nel bosco. Ma il leone era un principe stregato: di giorno era un leone, e con lui diventavano leoni tutti i suoi cortigiani, ma di notte riprendevano il loro aspetto umano. Al suo arrivo, ella fu accolta gentilmente e fu celebrato il suo matrimonio con la bestia. Quando venne la notte, il leone divenne un bell'uomo ed essi vissero insieme felici per un lungo periodo, vegliando la notte e dormendo durante il giorno.

    Un giorno egli andò a dirle: "Domani c'è una festa in casa di tuo padre, perché‚ si sposa la tua sorella maggiore. Se desideri andarci i miei leoni ti accompagneranno". Ella rispose di sì poiché‚ desiderava rivedere il padre; e andò scortata dai leoni. Al suo arrivo la gioia fu grande, poiché‚ tutti avevano creduto che fosse morta da un pezzo, sbranata dal leone. Ella invece raccontò che stava molto bene, e rimase insieme a loro per tutto il tempo delle nozze, poi fece ritorno nel bosco.

    Quando si sposò anche la seconda figlia, e l'invitarono nuovamente a nozze, ella disse al leone: "Questa volta non voglio andare sola, devi venire anche tu!". Ma il leone non voleva e disse che era troppo pericoloso per lui, perché‚ se fosse stato sfiorato dalla luce di una candela si sarebbe trasformato in una colomba e avrebbe dovuto volare con le colombe per sette anni. Ma ella non gli diede pace dicendo che lo avrebbe protetto e preservato da ogni luce. Così partirono insieme, portando anche il loro piccino. Ella fece costruire una stanza dai muri così spessi e massicci che nessuna luce poteva penetrarvi; là doveva stare il principe quando avrebbero acceso le fiaccole nuziali. Ma la porta era fatta di legno giovane; si spaccò producendo una piccola fessura che tuttavia nessuno notò. Le nozze furono celebrate con gran pompa, ma quando il corteo fece ritorno dalla chiesa e passò davanti alla stanza con tutte le fiaccole e le candele, un tenue raggio di luce cadde sul principe e, non appena l'ebbe sfiorato, egli si trasformò. Quand'ella venne a cercarlo non trovò più il principe, ma una bianca colomba che le disse: "Per sette anni devo volare per il mondo: ma ogni sette passi lascerò cadere una rossa goccia di sangue e una piuma bianca: ti indicheranno il cammino, e se mi segui puoi liberarmi".

    Poi la colomba volò fuori dalla porta ed ella la seguì; ogni sette passi cadevano una rossa gocciolina di sangue e una piuma bianca, a indicarle il cammino. Ed ella vagò in giro per il vasto mondo, senza guardarsi attorno e senza riposarsi mai, e i sette anni erano quasi trascorsi: allora ella se ne rallegrò, pensando che la liberazione fosse vicina; e invece era ancora così lontana!

    Una volta, mentre camminava, le piume e le goccioline di sangue cessarono di cadere, e quand'ella alzò gli occhi, la colomba era sparita. E poiché‚ pensò che nessun essere umano avrebbe potuto aiutarla, salì fino al sole e gli disse: "Tu che splendi nei crepacci e sulle cime, non hai visto volare una colomba bianca?". "No" rispose il sole "non l'ho vista. Ma voglio regalarti una scatolina: aprila quando ti troverai in difficoltà." Ella ringraziò il sole e proseguì il suo cammino finché‚ si fece sera e apparve la luna; allora ella chiese: "Tu splendi tutta la notte per campi e per boschi; non hai visto volare una colomba bianca?". "No" rispose la luna "non l'ho vista. Ma voglio regalarti un uovo: rompilo quando ti troverai in difficoltà." Ella ringraziò la luna e proseguì il suo cammino finché‚ soffiò il vento di tramontana; allora ella gli disse: "Tu soffi fra gli alberi e sotto le foglie, non hai visto volare una colomba bianca?". "No" rispose il vento di tramontana "non l'ho vista, ma chiederò agli altri tre venti, forse loro l'hanno vista." Vennero il vento di levante e il vento di ponente, ma dissero che non avevano visto nulla; invece il vento di mezzogiorno così parlò: "Ho visto io la colomba bianca: è volata fino al mar Rosso dov'è ridiventata un leone, essendo trascorsi i sette anni. Il leone sta combattendo con un drago, ma il drago è una principessa stregata". Allora il vento di tramontana le disse: "Voglio darti un consiglio: va' fino al mar Rosso, sulla riva destra ci sono delle grosse canne, contale, taglia l'undicesima e con quella colpisci il drago; allora il leone potrà vincerlo e tutti e due riacquisteranno la loro figura umana. Poi guardati attorno e vedrai un grifone in riva al mar Rosso; saltagli sul dorso con il tuo sposo: l'uccello vi porterà a casa sorvolando il mare. Eccoti anche una noce: quando sei in mezzo al mare, lasciala cadere; subito germoglierà e dall'acqua crescerà un grande albero di noci sul quale il grifone si riposerà; se non potesse riposarsi, non sarebbe abbastanza forte per portarvi fino all'altra riva. E se ti dimentichi di lasciar cadere la noce, vi lascerà cadere in mare".

    Ella andò e trovò tutto come aveva detto il vento di tramontana. Tagliò l'undicesima canna e con quella colpì il drago, così il leone lo vinse ed entrambi riacquistarono il loro aspetto umano. Ma non appena la principessa, che prima era un drago, fu liberata dall'incanto, prese il braccio del giovane, salì con lui sul grifone e se lo portò via. E la povera pellegrina restò là, di nuovo sola. "Andrò fin dove soffia il vento" disse "e camminerò finché‚ canta il gallo, e lo troverò."

    Se ne andò e, cammina cammina, giunse finalmente al castello dove i due vivevano insieme, e udì che stavano per festeggiare le loro nozze. Ma ella disse: "Dio mio, aiutami tu!". Prese la scatoletta che le aveva dato il sole, e dentro c'era un abito che risplendeva proprio come il sole. Lo tirò fuori, lo indossò e salì al castello e tutta la gente la guardò meravigliata, compresa la fidanzata. A costei l'abito piacque tanto che pensò di farne il proprio abito da sposa, e le domandò se per caso fosse in vendita. "Non con beni o con monete" ella rispose "ma con carne e sangue l'avrete." La fidanzata le chiese che cosa intendesse dire, ed ella rispose: "Lasciatemi dormire per una notte nella stanza in cui dorme lo sposo". La fidanzata non voleva, e tuttavia avrebbe voluto avere il vestito e infine acconsentì, però il cameriere dovette dare al principe un sonnifero. Quando fu notte, e il principe si fu addormentato, la condussero nella stanza. Ella si sedette accanto al suo letto e disse: "Ti ho seguito per sette anni, sono andata dal sole, dalla luna e dai quattro venti a chiedere di te; ti ho aiutato contro il drago: ora vuoi proprio dimenticarmi del tutto?". Ma il principe dormiva così profondamente che gli parve soltanto di sentire là fuori il vento sussurrare fra gli abeti. Allo spuntar del giorno, ella fu ricondotta fuori e dovette consegnare l'abito d'oro. E poiché‚ anche questo non era servito a nulla, si fece triste, andò su di un prato, si mise a sedere e pianse. E mentre se ne stava là seduta, le venne in mente l'uovo che le aveva dato la luna: lo ruppe e ne uscì una chioccia con dodici pulcini tutti d'oro che correvano qua e là pigolando e poi tornavano a rifugiarsi sotto le ali della madre, sicché‚ al mondo non vi era niente di più bello da vedere. Allora la fanciulla si alzò li spinse innanzi sul prato, finché‚ la fidanzata non li vide dalla finestra; e i pulcini le piacquero tanto che subito scese e le domandò se per caso fossero in vendita. Ed ella rispose: "Non con beni o con monete, ma con carne e sangue l'avrete! Lasciatemi dormire ancora una notte nella stanza dove dorme lo sposo". La sposa acconsentì e voleva ingannarla come la sera precedente. Ma quando il principe andò a letto, chiese al suo cameriere che cosa era stato quel mormorare e quel sussurrare nella notte. Allora il cameriere gli raccontò tutto: aveva dovuto dargli un sonnifero, poiché‚ una povera fanciulla aveva dormito di nascosto nella stanza; e quella notte doveva dargliene un altro. Il principe allora disse: "Versa il sonnifero accanto al letto". Durante la notte ella fu nuovamente introdotta nella stanza e quando incominciò a raccontare le sue tristi avventure egli riconobbe subito la sua cara sposa dalla voce; balzò in piedi e disse: "Finalmente sono libero; mi pareva di vivere in un sogno: la principessa straniera mi ha stregato perché‚ ti dimenticassi; ma Dio mi ha soccorso in tempo!". Durante la notte uscirono insieme di nascosto dal castello, poiché‚ temevano il padre della principessa che era un mago; salirono sul grifone che li portò al di là del mar Rosso; e quando furono in mezzo al mare ella lasciò cadere la noce. Subito crebbe un grande albero di noci sul quale l'uccello poté riposarsi, poi li condusse a casa dove trovarono il loro figlio che era diventato grande e bello; e da allora in poi vissero felici fino alla morte.

    (F.lli Grimm)
     
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  15. gheagabry
     
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    Le tre piume
    C'era una volta un re che aveva tre figlioli. Due erano svegli e arditi, ma il terzo, ingenuo e sempre trasognato, veniva giudicato un buono a nulla ed era soprannominato Sempliciotto. Il re li amava tutti allo stesso modo, e quando si sentì vecchio e debole temendo di essere vicino a morire, fu molto perplesso perché non sapeva a quale dei suoi tre figli lasciare la corona e il regno. Allora li chiamò e disse: "Figli miei, uno di voi dovrà diventare re dopo di me, ma non so chi designare. Ho deciso perciò, di mettervi alla prova: partite, e andate in giro per il mondo a cercare un tappeto. A colui che riuscirà a portarmi il più bello, darò il trono." "Ho sentito dire che i tappeti più belli si trovano in oriente" disse con baldanza il figlio maggiore, "quindi, come primogenito, è mio diritto partire subito per l'oriente." "Niente affatto!" rimbeccò il secondogenito, "per l'oriente invece, partirò io." Il re, affinché non si accendesse tra loro alcuna disputa e non si creassero dei malcontenti, disse: "Calma, calma! Sarà la sorte a decidere per voi: ecco qui tre piume. Scenderemo in giardino e le getterò al vento; ciascuno di voi ne seguirà una."

    Scesero in giardino e il re gettò all'aria le tre piume. Il vento trasportò la prima verso oriente, la seconda verso l'occidente, e la terza, dopo essersi vibrata un po' per l'aria, si posò a terra. Era la piuma di Sempliciotto e i due fratelli risero vedendo il minore condannato a rimanere lì dov'era. Quando il re fu rientrato a casa, il povero Sempliciotto sedette malinconicamente sull'erba e raccolse la piuma. Allora vide che, proprio nel posto dov'essa si era posata, c'era un anello di una botola. La sollevò e scoprì una scaletta che sprofondava sotto terra. Subito incominciò a discendere. Giunse così a una porta, bussò e udì una voce che cantava:

    "Verde, verde ranocchia gamba secca piccolina,
    presto va a guardare chi qui dentro vuole entrare".

    La porta si aprì; Sempliciotto entrò e vide una grande sala dove sedeva una ranocchia vestita da regina, che portava una corona d'oro. Intorno a lei stavano molte ranocchiette giovani.

    "Benvenuto" disse cortesemente la ranocchia. "Che cosa vuoi?" Stupito ed imbarazzato, Sempliciotto raccontò le sue vicende e la rana, quando seppe che il giovane cercava il tappeto più bello del mondo, incominciò a cantare:

    "Verde verde ranocchina gamba secca piccolina,
    porta presto qui da me la gran scatola da re"

    Subito una ranocchietta uscì dalla sala e ritornò poco dopo con una scatola d'oro tempestata di gemme. La regina l'aperse e ne tolse un tappeto meraviglioso, intessuto di fili di tutti i colori. Sempliciotto lo prese, ringraziò calorosamente e risalì; rimessa la botola al suo posto, entrò nella reggia. Anche i due fratelli erano di ritorno. Essi avevano pensato: "Abbiamo già vinto la prova, perché Sempliciotto non troverà tappeti in mezzo all'erba! Basterà che noi prendiamo uno straccio qualsiasi e il regno sarà nostro". Perciò si accontentarono di rubare due scialli che videro stesi al sole davanti alla capanna di un pecoraio e tornarono indietro subito. Ma quando Sempliciotto si inginocchiò davanti al padre e gli presentò lo stupendo tappeto, diventarono verdi per la rabbia.

    "Come avrà potuto fare?" si domandavano l'un l'altro increduli e invidiosi. "Ma dove sarà mai andato a trovare una meraviglia simile?" Appena lo vide, il re rimase stupefatto e sentenziò: "Il regno tocca di diritto al più giovane di voi." Allora i due fratelli maggiori incominciarono a protestare: "La prova non vale perché noi non l'avevamo presa sul serio. Vogliamo ritentarla." Il padre acconsentì; scesero ancora una volta in giardino e il re getto al vento le tre piume dicendo: "Seguitele. Io lascerò la corona a quello di voi tre che mi porterà l'anello più bello." Le piume dei due fratelli maggiori volarono, una verso oriente, l'altra verso occidente e quella di Sempliciotto si posò sull'erba, come la prima volta. "Non troverà gioielli in terra!" risero i due giovani. "Nessuna paura, dunque. Basterà un anello di ottone per vincere la gara." Si allontanarono appena, acquistarono per pochi soldi un anello di similoro e tornarono indietro. Sempliciotto sollevò la botola e scese la scaletta. Giunto davanti alla regina delle rane, la salutò rispettosamente e raccontò i casi suoi, come la prima volta. La rana cantò la solita canzoncina e la ranocchia sparì per ritornare poco dopo con una scatola d'oro. Da quella la regina tolse un anello di brillanti che sfavillava come una stella. Felice, il giovane risali, e presentato l'anello a suo padre, vinse facilmente la prova, mentre i due fratelli stringevano i pugni per la collera.

    "La corona spetta a Sempliciotto" proclamò ancora il re. E ancora i fratelli protestarono: "Ripetiamo la prova." "Va bene" disse il re. "Salirà al trono colui che mi porterà la sposa più bella." Furono lanciate le piume, e per la terza volta quella di Sempliciotto si posò sull'erba. I due fratelli si allontanarono ridendo, chiesero in moglie le prime contadinotte che incontrarono e tornarono indietro. Sempliciotto scese la scaletta sotterranea, ma era molto scoraggiato. Pensava che questa volta la regina delle rane quasi certamente non avrebbe potuto aiutarlo. Ma la regina non si sgomentò udendo la domanda: dalla scatola d'oro tolse una carota fatta come una carrozzina e strascinata da sei topini; prese la ranocchietta damigella e la mise nella carrozza. Poi agitò lo scettro: subito la carrozza divenne un cocchio d'oro, i topini si trasformarono in sei magnifici cavalli bianchi e la ranocchietta diventò la più bella fanciulla che si potesse immaginare. Quando arrivarono a palazzo e il re vide la fanciulla esclamò: "Il trono spetta a Sempliciotto." I due fratelli allora tentarono un ultimo espediente. Appesero al soffitto un cerchio e dissero: "Sarà regina la fanciulla che riuscirà a saltarlo."

    Ma la sposa di Sempliciotto, che era stata una ranocchia, balzò attraverso il cerchio come se volasse, mentre le altre due spose caddero a terra come sacchi di patate. Sempliciotto divenne re e regnò saggiamente per tutta la vita.

    (F.lli Grimm)
     
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