SINTETIZZATORE

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  1. gheagabry
     
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    STRUMENTI MUSICALI

    Sintetizzatore

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    Il sintetizzatore (abbreviato anche a synth dal termine in inglese) è uno strumento musicale che appartiene alla famiglia degli elettrofoni. È un apparato in grado di generare autonomamente segnali audio, sotto il controllo di un musicista o di un sequencer. Si tratta infatti di uno strumento che può generare imitazioni di strumenti musicali reali o creare suoni ed effetti non esistenti in natura. Attualmente troviamo anche sintetizzatori virtuali (VST), che assolvono a questo compito interamente a livello software e che si appoggiano su schede sonore interne o esterne collegate ad un Personal Computer.
    Il sintetizzatore è generalmente comandato per mezzo di una tastiera simile a quella del pianoforte, ma non mancano realizzazioni destinate ad essere gestite mediante il fiato, la pressione, le corde di una chitarra o altri tipi di controller come sensori a raggi infrarossi.

    Breve storia
    462px-Mixtur_TrautoniumAgli inizi del novecento il piano sonoro era stato molto sfruttato: si era arrivati ad un punto in cui i suoni e le combinazioni di questi erano state totalmente utilizzate. Infatti il sistema temperato, che divide la scala in 12 semitoni, era giunto in saturazione.
    Si continuò per molto tempo ancora ad usare il sistema su cui si basa Il clavicembalo ben temperato di Bach, ma in quel periodo grazie anche alla letteratura (Proust) e soprattutto all'allora nascente psicoanalisi (Freud) si sentì l'esigenza di scoprire nuove forme. Queste nuove forme dovevano rappresentare l'inconscio cercando l'inaudito (mai sentito), i primi esponenti furono: Ferruccio Busoni ed Edgar Varèse. Il limite, se si pensa che siamo agli inizi del novecento, era l'utopia di questa nuova forma che non poteva essere concretizzata. Furono due i musicisti che si accostarono a loro volta a questo argomento, in modi diversi, ma sicuramente con ottimi risultati Claude Debussy e Bela Bartok, tali da far interessare anche la musica cosiddetta colta. Il primo basando la sua ricerca sull'intuizione, il secondo facendo perno sulla ricerca.
    Il futurismo approdò anche nella musica tramite Luigi Russolo, utilizzando il rumore della quotidianità tramite degli strumenti chiamati intonarumori che erano delle grandi scatole generatrici di rumori di cui si variava l'altezza muovendo una particolare leva. Successivamente si ebbero strumenti quali le onde Martenot e il thelarmonium. Nascono così i primi sistemi elettromeccanici per la produzione di nuovi suoni (nuovi intervalli). Erano essenzialmente dei grandi oscillatori che intonavano il suono a varie altezze, riproducendo tutte le altezze intermedie.
    Il primo vero sintetizzatore polifonico fu il Novachord della Hammond degli anni quaranta, che non ebbe però particolare fortuna a causa degli alti costi.
    Il cinema ebbe un'influenza sullo sviluppo della musica elettronica, ma il primo strumento elettronico efficiente si ha solo nei primi anni cinquanta con il sintetizzatore di Belar-Olson realizzato negli studi della RCA frutto di una collaborazione fra scienziati e musicisti. Tale strumento raggruppava degli oscillatori analogici di grandi dimensioni per generare il suono, un modulatore ad anello con l'uscita che è la somma e la differenza delle frequenze d'ingresso e diversi filtri d'elaborazione. Ne resta qualche traccia in una collezione di album dimostrativi prodotti dalla stessa RCA al fine di diffondere le capacità timbriche dell'apparecchio. L'apparecchio era enorme, complesso da manovrare e delicato nella sua manutenzione; la programmazione delle note, del ritmo e delle (relative) variazioni timbriche avveniva attraverso un lungo nastro di carta perforata che, fatto transitare sotto ad una contattiera a pettine, permetteva di prevedere l'apertura o chiusura dei diversi circuiti. Contrariamente a quanto alcuni credono, il Synthesizer RCA non venne utilizzato nella colonna sonora del film Il pianeta proibito, di Fred McLeod Wilcox del 1956; per questo lavoro, i coniugi Louis e Bebe Barron realizzarono circuitazione valvolare originale, in grado di produrre timbriche (per l'epoca) inusitate; probabilmente, il lavoro dei Barron per Forbidden Planet rappresenta il primo esempio "nobile" di circuit bending applicato alla produzione sonora.
    Tra i primi compositori di musica elettronica ci fu Milton Babbitt che imitò i suoni dell'orchestra usando strumenti elettronici. Particolare importanza ebbe la città tedesca di Darmstadt sede di riunioni di musicisti dal 1956 al 1961 in cui si tennero dei corsi di fondamentale importanza per il futuro, tra i partecipanti ricordiamo: Luigi Nono, Bruno Maderna, Luciano Berio, Pierre Boulez, Karlheinz Stockhausen, John Cage, Edgar Varèse.
    Nascono le prime composizioni che non imitano più il suono di strumenti esistenti, bensì fanno del timbro il parametro principale della musica: "noi possiamo comporre il suono"; si utilizzano così le componenti microscopiche delle onde sonore a differenza di prima che si componeva su timbri preesistenti. Anche in America si verifica lo stesso con John Cage che sceglie la casualità nella composizione mentre gli altri coetanei sviluppano la costruzione timbro dopo timbro. In Francia alla fine degli anni cinquanta negli studi della televisione francese ORTF nasce la Musique concrète (Pierre Henry, Pierre Schaeffer), si usano giradischi rallentati ed ogni tipo di nuove sonorità; si sviluppano studi in tutta Europa, in Italia nasce il Centro di Fonologia SYNTHIMGMusicale della RAI nel 1954.
    Un passo avanti si è verificato negli anni sessanta, con l'introduzione di versioni ridotte di sintetizzatori, destinati alla creazione di timbriche inusuali, in alcuni gruppi di musica progressive; ad esempio i Van der Graaf Generator ed i Pink Floyd.
    Verso la fine degli anni sessanta, comparvero i primi esemplari di sintetizzatori portatili, fabbricati in piccole serie per impiego nella musica dal vivo; precursori di questa generazione furono Robert Albert Moog e Alan R. Pearlman, rispettivamente fondatori delle più note Case produttrici di questi strumenti: Moog Inc. e ARP Instruments.
    Il periodo fino alla fine degli anni settanta vide lo sviluppo di strumenti monofonici (possibilità di suonare un tasto solo alla volta) con tecnologia esclusivamente a sintesi sottrattiva, sviluppati su scelte progettuali diverse: ad esempio, i sintetizzatori Moog erano largamente apprezzati per il suono sempre leggermente stonato e pertanto molto ricco, mentre i prodotti ARP avevano fama di estrema intonazione e stabilità.
    Un'eccezione riguardava il Mellotron, strumento destinato alla riproduzione di suoni naturali preregistrati; di fatto, lo strumento disponeva di uno spezzone di nastro magnetico per ogni tasto non chiuso ad anello, bensì lasciato libero entro apposite guide contenute nel mobile sotto la tastiera vera e propria: premendo i tasti, si poteva suonare lo strumento originale. Naturalmente una tecnica di questo tipo poteva funzionare soltanto con suoni privi di sostegno, di durata limitata ai pochi secondi trasferibili sui segmenti di nastro magnetico. Lo strumento era polifonico (possibilità di suonare più tasti contemporaneamente) e la sua introduzione sul mercato discografico causò un notevole interesse.
    I primi esemplari di sintetizzatore analogico polifonico risalgono all'inizio anni ottanta, e presentavano generalmente grossi problemi di intonazione e stabilità nel tempo, oltre all'ovvia complessità nel gestire contemporaneamente sia oscillatori che filtri.
    Uno sviluppo nel senso dell'intonazione, giunse dall'industria dei semiconduttori, con la produzione di circuiti integrati per la realizzazione di organi elettronici e strumenti analoghi; nei sintetizzatori polifonici del periodo, si otteneva la generazione digitale della forma d'onda, e relativa elaborazione analogica sottrattiva; il risultato era una perfetta intonazione dello strumento, ma contemporaneamente una perdita di corposità del suono, dovuta alla perfetta messa in fase fra i generatori, situazione che non si verifica in natura, come nel caso di una sezione d'archi o di ottoni.
    Infatti, in un'orchestra, ogni singolo strumento crea il proprio timbro caratteristico indipendentemente dagli altri; l'insieme di questa ricca struttura armonica genera il suono polifonico al quale siamo abituati.
    Una soluzione giunse dalla giapponese Roland, con due serie di strumenti (Juno (vedi Juno 106) e Jupiter) che implementavano una filosofia molto interessante: utilizzo di generatori analogici, mantenuti intonati da un generatore digitale. In questo modo l'intonazione restava propria del sistema digitale, mentre ogni singolo oscillatore poteva produrre la propria forma d'onda in modo asincrono rispetto agli altri, a tutto vantaggio del realismo polifonico.
    Ancora, altri produttori svilupparono soluzioni in questa direzione: la ARP Instruments produsse l'ARP Omni, che impiegava un generatore digitale unico, secondo un classico schema da organo elettronico, mentre la tastiera agiva su una serie di formatori d'onda indipendenti. Lo strumento aveva una sezione destinata alla riproduzione di orchestra d'archi e questa tecnica permise allo strumento il raggiungimento di standard di realismo fino ad allora impensabili. Grande cura fu inoltre dedicata al modulo di effetto chorus (simulazione del suono prodotto da un coro), che utilizzava tre linee di ritardo in parallelo, rigorosamente tarate su tempi primi fra loro, per evitare qualunque effetto di periodicità e di artificiosità nell'ascolto.
    L'ARP Omni, disponendo inoltre di tre sezioni indipendenti (archi, ottoni, bassi), sia per timbro che per tecnologia utilizzata, rappresenta il primo esperimento in scala industriale di strumento multitimbrico: si noti però che la multitimbricità di ARP Omni non permetteva la vera distinzione con timbri diversi su note diverse, ma semplicemente ogni nota produceva tre timbriche diverse contemporaneamente, instradate su tre uscite indipendenti (tipicamente archi, brass e basso).
    Andando avanti in questa direzione, la ARP Instruments, ora in gravi difficoltà finanziarie, cedette il suo ultimo progetto, Chroma, all'americana Fender, che lo mise in commercio nel 1982 ad un prezzo sbalorditivo anche oggi: sedici milioni e mezzo di Lire di allora (circa 8.000 Euro odierni). Il Chroma disponeva di sedici oscillatori analogici, perfettamente intonati come nello stile ARP (impiegando la tecnologia charge-pump), di sedici filtri e sedici amplificatori, tutti controllati mediante un microprocessore, con possibilità di interfacciarsi ad un computer Apple per ottenere una vera polifonia multitimbrica; il risultato era (ed è) del tutto eccezionale sia sotto il profilo tecnico che della performance dal vivo.
    Una delle caratteristiche dell'utilizzo del microprocessore, oltre al supporto di memorie per i vari timbri a disposizione del musicista, riguarda la generazione delle modulazioni. In un sintetizzatore analogico, un modulo a controllo di tensione (v.) può essere oggetto di modulazione da parte di più moduli contemporaneamente: Keyboard Follow, oscillatore a bassa frequenza (LFO), ADSR, controlli estemporanei come pedali di espressione e/o Pitch Wheel e così via. Viene da sé che, trovandosi in un sistema di tipo analogico, la somma di tutte queste variabili porta facilmente ad errori e imprecisioni, che si traducono in inopportune stonature ed effetti non desiderati dal musicista. Il Chroma simulava tutte queste tensioni sotto forma di numeri, eseguendo la somma algebrica dei valori di tutte queste sorgenti modulanti direttamente nei registri del microprocessore, senza errore alcuno. Solo il dato finale veniva convertito in valore analogico (con un DAC a 12 bit) ed inoltrato al modulo da controllare; il risultato era ancora una volta di una precisione straordinaria.
    Sempre nel 1982, la giapponese Yamaha segnò un passo importantissimo in questo sviluppo, mettendo in commercio il Moog_Modular_55_img2sintetizzatore DX-7, a modulazione di frequenza a 6 operatori; lo strumento suonava splendidamente e forniva suoni di ricchezza e complessità fino ad allora impensabili (campane, molle d'acciaio, violini con l'attacco dell'archetto e così via). La sua comparsa segnò il declino dei numerosi strumenti a sintesi sottrattiva esistenti all'epoca, e aprì la strada in modo sempre più standardizzato alla tecnologia digitale.
    Pochi anni più tardi, fecero la loro comparsa altri tipi di sintesi digitale; in effetti, una volta poste le basi per fabbricare in larga scala strumenti gestiti da microprocessori sempre più potenti, risultò assai semplice adottare tecniche innovative per adattarsi alle crescenti esigenze dei musicisti.
    Da menzionare la tecnologia RS-PCM di Roland (1988), che per evitare l'effetto di suono riprodotto (opaco, poco incisivo), tipico dei numerosi campionatori dell'epoca, utilizza un generatore a sintesi additiva, controllato da un profilo descrittivo del suono originale, che poteva risiedere su economiche schedine inseribili. Il risultato è di rara brillantezza e presenza, dovuta alla vera e propria rigenerazione del suono mediante armoniche prodotte all'istante, quindi non riprodotte. Un ulteriore beneficio viene dalla quantità di memoria necessaria per archiviare i suoni o adottarne di nuovi: laddove un campionatore necessita di archiviare le forme d'onda per intero, con grande dispiego di memoria, la tecnica RS-PCM richiede soltanto di memorizzare il modo (il profilo) con cui la sintesi additiva deve essere articolata. Questa tecnica è tuttora utilizzata nei pianoforti digitali della stessa Casa.


     
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