SIMON BOCCANEGRA

Giuseppe Verdi

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  1. gheagabry
     
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    Simon Boccanegra

    simonboccanegra

    Simon Boccanegra è un'opera di Giuseppe Verdi su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dal dramma Simón Bocanegra di Antonio García Gutiérrez. La prima ebbe luogo il 12 marzo 1857 al Teatro La Fenice di Venezia.


    Genesi

    roh-boccanegra-1<div style="All'inizio del 1856 la direzione del teatro La Fenice propose a Verdi di scrivere un'opera nuova, ma il musicista rifiutò, essendo già impegnato in altri progetti (la composizione del mai realizzato Re Lear e i rifacimenti di Stiffelio e della Battaglia di Legnano) e trovandosi già in trattative con il San Carlo di Napoli e La Pergola di Firenze.
    L'anno successivo il librettista Francesco Maria Piave gli rinnovò la proposta e a maggio Verdi, sospese le trattative con gli altri teatri e abbandonato il progetto di musicare Re Lear, firmò il contratto con il teatro veneziano.
    Il soggetto della nuova opera è tratto, come quello del Trovatore, da un dramma di Gutiérrez, mai pubblicato in italiano, nel quale si narra la storia di Simone Boccanegra, il corsaro genovese che nel Trecento riuscì a salire al trono dogale grazie all'appoggio di un amico e che al termine di una vita funestata da tragici eventi – la morte della donna segretamente amata, appartenente a una famiglia patrizia, e la scomparsa della figlia – morì avvelenato da quello stesso amico.
    Quest'oscuro dramma privato sullo sfondo di una guerra civile attirò immediatamente Verdi che, come in altre occasioni, stese personalmente un libretto in prosa affidandone la versificazione a Piave. Inoltre, all'insaputa del suo librettista, Verdi si rivolse per la versificazione di alcuni passi a Giuseppe Montanelli, un poeta e patriota toscano in esilio a Parigi per aver partecipato al governo rivoluzionario del 1849. Il musicista rispedì il testo ultimato a Piave, accompagnandolo con queste asciutte parole:
    « Eccoti il libretto accorciato e ridotto presso a poco come deve essere. Come ti dissi in altra mia, tu devi mettere o no il tuo nome. Se quanto è avvenuto ti spiace, a me spiace pure, e forse più di te, ma non posso dirti altro che "era una necessità". »
    Nonostante gli aggiustamenti il libretto di Simon Boccanegra fu oggetto di forti critiche: un musicologo del tempo, Abramo Basevi, affermò di averlo dovuto leggere sei volte prima di riuscire a venirne a capo.
    Terminata la stesura dell'opera in abbozzo nella sua villa di Sant'Agata, il 18 gennaio 1857 Verdi si trasferì a Venezia per completare la strumentazione, assistere alle prove e curare la messinscena. La première ebbe luogo il 12 marzo: i ruoli principali furono affidati a cantanti di rango – Leone Giraldoni (Simone), Luigia Bendazzi (Amelia), Carlo Negrini (Gabriele) e Giuseppe Echeverria (Fiesco) – ma la serata deluse le aspettative di Verdi:
    « Jeri sera cominciarono i guai: vi fu la prima recita del Boccanegra che ha fatto fiasco quasi altrettanto grande che quello della Traviata. Credeva di aver fatto qualche cosa di passabile ma pare che mi sia sbagliato. Vedremo in seguito chi avrà torto. »
    Ma l'esito non cambiò nel corso delle sei repliche e l'opera non riuscì ad affermarsi stabilmente in repertorio. A contribuire al sostanziale insuccesso della prima versione di Simon Boccanegra furono certamente l'intreccio oltremodo complicato e la tinta eccessivamente uniforme della partitura musicale, povera di squarci lirici e appesantita dall'impiego massiccio del canto declamato.

    La trama
    Prologo

    Una piazza di Genova – A destra il Palazzo dei Fieschi – È notte
    È il 1339. Sta per essere eletto il nuovo Doge e in città fervono le lotte fra il partito plebeo, capeggiato dal popolano Paolo Albiani, e quello aristocratico legato al nobile Jacopo Fiesco.
    Paolo confida al popolano Pietro di sostenere l'ascesa al trono dogale di Simone Boccanegra, un corsaro che ha reso grandi servigi alla repubblica genovese, e di attendersi in cambio potere e ricchezza. Giunge Simone, angosciato perché da molto tempo non ha più notizie di Maria, la donna amata che gli ha dato una figlia e che per questo è tenuta prigioniera nel palazzo gentilizio del padre Jacopo Fiesco. Paolo convince il riluttante Simone ad accettare la candidatura prospettandogli che, una volta eletto Doge, nessuno potrà più negargli le nozze con Maria. Pietro chiede al popolo di votare per Simone e avverte che dal palazzo dei Fieschi giungono dei lamenti di donna: forse è Maria, la fanciulla da tempo scomparsa (L'atra magion vedete?). Tutti si allontanano.
    Jacopo Fiesco esce sconvolto dal palazzo: Maria è morta. Voci pietose intonano un Miserere (A te l'estremo addio). Sopraggiunge Simone e, ignaro di quanto è accaduto, supplica Fiesco di perdonarlo e concedergli Maria. Quando il patrizio gli pone come condizione la consegna della nipote, egli confessa che la bambina fu da lui affidata ad un'anziana nutrice in un paese lontano, ma poi la nutrice morì e la bambina scappò via di casa e quindi scomparve. Svanita ogni speranza di riappacificazione, Fiesco finge di allontanarsi ma di nascosto osserva Simone, che entra nel palazzo in cerca della prigioniera. Dall'interno dell'edificio giunge un grido disperato: «Maria!» e proprio in quel momento il popolo acclama Simon Boccanegra nuovo Doge.
    simon-boccanegroTra il Prologo e il primo atto trascorrono venticinque anni e accadono molti fatti: il Doge ha esiliato i capi degli aristocratici, confiscandone le proprietà, e Fiesco, per sfuggirgli, vive in esilio in un palazzo fuori Genova, sotto il nome di Andrea Grimaldi mentre Simone pensa che Fiesco sia morto. Anni prima, però, Fiesco e la famiglia Grimaldi, trovarono una bambina nel convento in cui era appena morta Amelia, la figlia dei Grimaldi, e decisero di adottarla e di darle il nome della figlia morta per evitare che il Doge di Genova confiscasse le ricchezze della famiglia; ma questa orfana, all'insaputa di tutti, altri non è che la vera figlia di Maria e Simone. Trascorsi venticinque anni, Amelia ama riamata un giovane patrizio, Gabriele Adorno, che essendo l'unico a sapere che Jacopo Fiesco e Andrea Grimaldi sono la stessa persona, congiura con lui contro il Doge plebeo.
    Atto primo
    Quadro primo

    Giardino dei Grimaldi fuori Genova.
    Amelia attende Gabriele in riva al mare, immersa nei confusi ricordi della sua fanciullezza (Come in quest'ora bruna), e quando il giovane la raggiunge lo supplica di non partecipare alla cospirazione contro Simone (Vieni a mirar la cerula).
    Pietro annuncia l'arrivo del Doge e Amelia, temendo che egli venga a chiederla in sposa per il suo favorito, Paolo Albiani, supplica Gabriele di prevenirlo affrettando le nozze. Rimasto solo con Gabriele, Andrea Grimaldi (ossia Jacopo Fiesco) gli rivela che Amelia è in realtà un'orfanella a cui, lui e i Grimaldi, hanno dato il nome della vera figlia dei Grimaldi e essendo degno di lei lo benedice.
    Squilli di trombe annunciano l'entrata del Doge, che porge ad Amelia un foglio: è la concessione della grazia ai Grimaldi. La fanciulla, commossa, gli apre il suo cuore confessandogli di amare un giovane aristocratico e di essere insidiata dal perfido Paolo, che aspira alle sue ricchezze. Infine gli rivela di essere orfana (Orfanella il tetto umile). Simone, sentendo la parola orfana, la incalza con le sue domande e confronta un suo medaglione con quello che la fanciulla porta al collo: entrambi recano l'immagine di Maria! Padre e figlia si abbracciano felici.
    Al ritorno di Paolo, Simone gli ordina di rinunciare ad Amelia e il perfido uomo, per vendicarsi, organizza per la prossima notte il rapimento di Amelia.
    Quadro secondo
    Sala del Consiglio nel Palazzo degli Abati.
    Il Senato si è riunito e il Doge chiede il parere dei suoi consiglieri: egli desidera la pace con Venezia ma Paolo e i suoi chiedono la guerra. Dalla piazza giungono i clamori di un tumulto e, affacciandosi al balcone, Simone scorge Gabriele Adorno inseguito dai plebei. Pietro, temendo che il rapimento di Amelia sia stato scoperto, incita Paolo a fuggire, ma il Doge lo precede ordinando che tutte le porte siano chiuse: chiunque fuggirà sarà dichiarato traditore. Poi, incurante delle grida di «Morte al Doge!», fa entrare il popolo. La folla irrompe trascinando Fiesco e Gabriele, che confessa di aver ucciso l'usuraio Lorenzino, l'uomo che ha rapito Amelia per ordine di un «uom possente» del quale non ha fatto in tempo a svelare il nome; poi, ritenendolo responsabile del rapimento, si slancia su Simone per colpirlo. Sopraggiunge Amelia, si pone fra i due e supplica il padre di salvare Adorno, raccontando di essere stata rapita da tre sgherri, di essere svenuta e di essersi ritrovata nella casa di Lorenzino. Poi, «fissando Paolo», dice di poter riconoscere il vile mandante del rapimento. Scoppia un tumulto, patrizi e plebei si accusano a vicenda, Simone rivolge all'Assemblea e al popolo un accorato discorso, invocando pace e amore per tutti (Plebe! Patrizi! Popolo...). Gabriele gli consegna la spada ma il Doge la rifiuta e lo invita a rimanere agli arresti a palazzo finché l'intrigo non sia svelato. Si rivolge quindi a Paolo, di cui ha intuito la colpevolezza, e lo invita a maledire pubblicamente il traditore infame che si nasconde nella sala. Paolo, inorridito, è in tal modo costretto a maledire sé stesso.
    Atto secondo
    Stanza del Doge nel Palazzo Ducale di Genova.
    Paolo, bandito da Genova, chiede a Pietro di condurre da lui i due prigionieri, Gabriele e Fiesco, e versa una fiala di veleno nella tazza di Simone. Non contento, egli chiede a Fiesco, l'organizzatore confesso della rivolta, di assassinare il Doge nel sonno e, davanti al suo sdegnato rifiuto, lo fa riportare in cella e insinua in Gabriele il sospetto che Amelia si trovi in balia delle turpi attenzioni di Simone (Sento avvampar nell'anima). Quando giunge Amelia, il giovane l'accusa di tradimento con il Doge, di cui uno squillo di tromba annuncia l'arrivo. Gabriele si nasconde, Amelia in lacrime confessa al padre di amare l'Adorno e lo supplica di salvarlo. Simone, combattuto fra i doveri della sua carica e il sentimento paterno, la congeda. Beve quindi un sorso dalla tazza, notando che l'acqua ha un sapore amaro, e si assopisce. Gabriele esce dal suo nascondiglio e si slancia contro di lui per colpirlo, ma ancora una volta Amelia glielo impedisce. È il momento della rivelazione: il Doge si risveglia, ha un violento scontro verbale con Gabriele, che l'accusa di avergli ucciso il padre, e infine gli svela che Amelia è sua figlia.
    Il giovane implora Amelia di perdonarlo e offre al Doge la sua vita (Perdon, perdono Amelia). Di fuori giungono rumori di tumulti e voci concitate: i cospiratori stanno assalendo il Palazzo. In segno di riconciliazione il Doge incarica Gabriele di comunicare loro le sue proposte di pace e gli concede la mano di Amelia.
    Atto terzo
    Interno del Palazzo Ducale.
    La rivolta è fallita, il Doge ha concesso la libertà ai capi ribelli, solo Paolo è stato condannanto a morte. Mentre si reca al patibolo, egli rivela a Fiesco di aver fatto bere a Simone un veleno che lo sta lentamente uccidendo e ascolta con orrore le voci che inneggiano alle future nozze di Amelia e Gabriele.
    Giunge il Boccanegra, che sta cercando refrigerio al malessere che già lo pervade respirando sul balcone l'aria del mare. All'improvviso gli si avvicina Fiesco (nei panni di Andrea Grimaldi) che gli annuncia che la sua morte è vicina (Delle faci festanti al barlume). Da quella voce inesorabile, dopo averlo osservato bene in volto, Simone riconosce con stupore l'antico nemico, ch'egli credeva morto, e con un gesto magnanimo decide di rivelargli che Amelia è sua nipote. La commozione invade l'anima del vecchio patrizio, che troppo tardi comprende l'inutilità del suo odio. Un abbraccio pone fine alla lunga guerra.
    Quando il corteo degli sposi torna dalla chiesa, Simone invita la figlia a riconoscere in Fiesco il nonno materno, benedice la giovane coppia (Gran Dio li benedici) e muore dopo aver proclamato Gabriele nuovo Doge di Genova.

     
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