REGGE E VILLE d'ITALIA

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. gheagabry
     
    .

    User deleted


    "In questo punto il lago diventa cupo e selvaggio e i monti scendono quasi a picco nelle acque".
    (Stendhal)


    VILLA PLINIANA


    "Di fronte, fra i cipressi, del lago la sovrana e superba di memorie, compare la Pliniana": così il poeta inglese Shelley descriveva villa Pliniana: "essa deve il suo nome a una sorgente, che presenta un flusso e riflusso ogni tre ore e venne descritta da Plinio il Giovane...è costruita su terrazze che sorgono dal fondale del lago e, con il suo giardino, si trova ai piedi di un precipizio semicircolare, ombreggiata da folti castagneti. Dall'alto, come provenisse dalle nuvole, discende una cascata d'immani dimensioni che le rocce boscose frammentano in mille rivoli sfocianti nel lago".

    È una delle ville più famose del lago, appartata e triste dall’aspetto misterioso ed inquietante. Sembra che sull’edificio gravi un’aura sospesa inaccessibilità, quasi che ancora vi aleggino i fantasmi che si dice turbassero il suo primo proprietario, il conte Giovanni Anguissola di Piacenza, rifugiatosi qui dopo aver preso parte alla congiura di palazzo in cui venne trucidato Pier Luigi Farnese.
    La storica Villa Pliniana si trova nella zona occidentale del lago di Como. Il nome Pliniana deriva dalla fonte che per la prima volta fu studiata dallo scrittore e naturalista latino Plinio il Giovane. La fonte scaturisce da una grotta interna al corpo principale della villa e ha la peculiarità di essere intermittente. Il fenomeno della fonte fu studiato tra gli altri da Leonardo da Vinci. La villa è stata visitata da numerosi personaggi tra cui Napoleone, Shelley, Stendhal, Foscolo, Rossini e Churchill; la villa e la fonte sono celebrate in molti dipinti ed opere letterarie. Famosa per la sua storia e la sua architettura, sorge in un'insenatura poco distante da dove la "valle del Colore" si getta nel lago con una cascata di circa 70 metri. L'architettura della villa Pliniana è maestosa e severa in tutti i suoi particolari: facciata con quattro ordini di aperture, loggia dorica a tre arcate retta da colonne binate, finestre del piano nobile sormontate da timpani spezzati, finestre del piano superiore quadrate ed elegantemente incorniciate, saloni e pavimenti a mosaico, soffitti a cassettoni e fasce dipinte con ritratti dei personaggi legati alla storia della Villa.

    ...la storia...


    Il terreno su cui sorge la villa fu acquistato nel 1573 dal conte Giovanni Anguissola, governatore di Como, che in tre anni vi fece erigere l'edificio che deve il suo nome a Plinio che per primo descrisse la fonte intermittente che scaturisce nelle immediate vicinanze le cui acque precipitano nel lago dopo un salto di 80 metri. Alla repentina morte dell'Anguissola, nel 1578, la villa passò in eredità al nipote Giulio che la vendette al conte Pirro Visconti Borromeo (1590). Costui si prodigò nel tentativo di renderla più sfarzosa e accogliente; al contrario i suoi eredi la lasciarono in uno stato di desolante abbandono fino poi a venderla a Francesco Canarisi (1676). Con i Canarisi la villa raggiunse il massimo splendore: quasi un sacrario famigliare, venne arricchita da lapidi e steli commemorative e ritratti degli illustri antenati del casato; al piano nobile, in memoria dei due Plinii, furono allestite due sale, ornate di fregi.
    Fra Sette e Ottocento la Pliniana fu la dimora prediletta di artisti e personaggi di grande spicco: Giuseppe II, Napoleone, Stendhal, Alessandro Volta, Bellini, Rossini, Byron, Foscolo e Fogazzaro che vi si ispirò per la composizione del celebre romanzo "Malombra" che nel 1942 fu soggetto dell'omonimo film di Mario Soldati, girato nella stessa villa con Isa Miranda e Andrea Checchi.
    Ai primi dell'Ottocento, Francesco Canarisi decise di alienare tutti i beni di famiglia: la Pliniana fu acquistata dal Principe Emilio Barbiano di Belgioioso che l'adornò sontuosamente restituendola all'antico splendore. Il Belgioioso aveva sposato nel 1824 la principessa Cristina Trivulzio, animatrice di salotti politici e letterari; l'unione era presto fallita: Cristina, attivamente impegnata nei circoli mazziniani, aveva abbandonato l'Italia alla volta di Parigi, mentre Emilio continuò a frequentare la dimora sul lago. Qui, tra il 1843 e il 1851, egli visse il celeberrimo e travolgente amore per Anna Berthier, principessa di Wagram e moglie del duca di Plaisance.
    La coppia di amanti, la cui fuga da Parigi nell'aprile del 1843 destò grave scandalo, trovò rifugio fra le mura della villa che divenne uno dei luoghi simbolo della cultura romantica dell'epoca. Nella Pliniana cominciò presto a raccogliersi anche un'élite di nobili lombardi (Melzi, Sommariva, Arconti) e di ardenti patrioti, come Carlo Bellerio. Durante il viaggio verso il suo villino di Loveno, qui amava soffermarsi Massimo d'Azeglio del quale Emilio aveva avuto modo di condividere le preoccupazioni per il dilagare del radicalismo carbonaro e mazziniano.
    Passata la tempesta rivoluzionaria del '48, gli eventi mondani della Pliniana si moltiplicarono; poco tempo dopo però l'unione tra Emilio di Belgioioso e Anna Berthier si ruppe. Rimasto solo, il nobile si dedicò con più interesse alla dimora e soprattutto al parco che in breve tempo mutò il suo carattere animandosi di variopinte aiuole.
    Dopo la morte del Belgioioso la villa passò al marchese Lodovico Trotti-Bentivoglio, genero della defunta principessa Cristina Trivulzio, e, nel 1890, ai Valperga di Masino che nel 1983 la rivendettero agli attuali proprietari dopo aver trasferito gli arredi nelle stanze del Castello di Masino, in Piemonte, ora proprietà del F.A.I.

    ...la fonte pliniana...


    A parte le fantasiose interpretazioni di alcuni fenomeni naturali e le “bufale” riportate dalla cronaca riguardo a strane piogge di denaro o animali, la natura spesso ci offre fenomeni a volte davvero inspiegabili. A Torno nel parco della celebre villa pliniana (seconda metà del XVI secolo), si trova una cascata a intermittenza che precipita verso il lago. Nel '600 alcuni studiosi, nel tentativo di dare una spiegazione scientifica al fenomeno, ipotizzarono la presenza di un sifone naturale nascosto in una cavità della roccia carsica: quando l’acqua raggiunge all’interno della grotta una certa altezza si scarica verso l’esterno, diminuendo a poco a poco la portata fino alla successiva tracimazione. Ma la spiegazione non convince del tutto gli studiosi moderni, perché la presenza di una bolla d’aria interna avrebbe una funzione di “tappo” nella fase discendente.
    Come la fonte sia salita agli onori della cronaca resta in un certo senso misterioso, quasi più misterioso del funzionamento della fonte stessa, la quale – come è noto – ha la caratteristica di essere “intermittente”.
    Il primo a citare una tale singolarità è Plinio il Vecchio, il quale, nella sua vasta enciclopedia del sapere antico che va sotto il nome di "Naturalis historia", composta alla metà del I secolo d.C., nel secondo libro, dedicato alla cosmologia, scrive che «Nel territorio di Como vicino al Lario una fonte copiosa regolarmente ad ogni ora si gonfia e ridiscende». Più circostanziata è la descrizione del nipote Plinio il Giovane, contenuta in una lettera scritta a Licinio Sura, spagnolo d'origine e probabilmente del tutto ignaro del territorio comense, importante dignitario assai vicino all'imperatore Traiano.

    "Ti ho portato dalla mia patria come piccolo dono un argomento molto degno per la tua elevata erudizione. Una sorgente nasce nel monte, scorre attraverso i sassi , è raccolta da una stanza fatta a mano; qui trattenuta per poco tempo, sfocia nel lago Lario. Natura mirabile di questo : tre volte al giorno per accrescimenti e diminuzioni stabilite, aumenta e diminuisce. Si vede ciò chiaramente e con grande piacere è guardata (scorta). Siediti vicino e mangia, e anche dalla stessa fonte – infatti è freschissima – bevi; intanto essa, per determinati e calcolati mutamenti, o si ritira o si alza. Un anello o qualche cosa altro deponi in luogo secco, viene bagnato lentamente e infine viene nascosto, viene scoperto di nuovo e gradatamente abbandonato. Se osservi più a lungo, forse vedrai per la seconda volta e per la terza. Qualche aria più nascosta ora libera ora chiude la bocca della sorgente e la parte superiore della gola, in modo che premuta corre incontro e spinta fuori viene assorbita. Ciò che vediamo accadere nelle ampolle e negli altri oggetti dello stesso tipo , dai quali libera non si vede l’uscita.Infatti essa stessa sebbene discendente e degradante, per qualche ritardo dell’aria che si oppone , simili quasi a singhiozzo fanno comparire ciò che versano. Oppure come la natura dell’oceano e anche della fonte, in quella stessa misura viene spinta o riassorbita, così questo piccolo umore per cambi alternati viene soppresso o cacciato fuori ? Oppure come i fiumi che sfociano al mare per venti contrari e per il flutto che incontrano tornano indietro, così c’è qualche cosa che respinge il corso di questa fonte ? Oppure una certa capacità , nelle vene nascoste, che quando raccoglie ciò che aveva vuotato, il ruscello diventa più piccolo e pigro, e quando è colmo più snello e rigonfio ? Oppure non so quale contrappeso misterioso e invisibile che quando è vuoto innalza e fa scaturire la fonte e quanto è colmo la trattiene e la smorza ? Tu infatti puoi scrutare i motivi che fanno un prodigio così grande. A me basta se ti ho esposto a sufficienza ciò che si compie. Stai sano !"
    (Plinio il giovane)


    È evidente in questo passo l'esagerazione letteraria nel descrivere il fenomeno: come non hanno mancato di notare i critici moderni, la fonte non è affatto regolare nella sua intermittenza, né così rapida da poterne cogliere a prima vista i mutamenti. Tutto questo serve a Plinio per catturare l'attenzione dell'interlocutore, per poi proporgli l'enigma, che serve a costruire l'elogio finale: «C'è forse una corrente d'aria nascosta la quale agisce sulla bocca da cui scaturisce e sulle condutture per cui defluisce la sorgente (...) Oppure anche la fonte ha le stesse leggi dell'oceano ed il motivo per cui quello s'avanza o ridiscende è eguale a quello per cui questo sottile rigagnolo con un perenne alternarsi cessa o riprende a scorrere? (...)
    Oppure le vene nascoste hanno una determinata capienza cosicché, mentre ricostituiscono ciò che hanno fornito, il ruscello risulta più esiguo e lento, ed una volta che l'hanno ricostituito, questo si slancia più svelto e più ricco? Oppure c'è un non so qual bacino, remoto ed occulto, il quale, quando si vuota, ridesta ed emette la fonte, quando si riempie, la ritarda e la soffoca? Indaga tu, che ne hai le capacità, le cause che producono un fenomeno così stupefacente: io ho già fatto fin troppo se sono riuscito a descrivere abbastanza chiaramente il fenomeno in se stesso. Stammi bene»
    . La risposta di Licinio Sura, se mai vi fu, non si è conservata. Nonostante l'assenza di una precisa collocazione geografica, l'identificazione della fonte descritta dai due Plini con quella di Torno non è mai stata messa in dubbio; solo qualche commentatore moderno ha annotato che, oltre ad esempi stranieri (Dodona in Spagna, pure citata da Plinio il Vecchio, e Colmar in Francia), anche la fonte del Fiume Latte, sempre sulle sponde del Lario, gode in certi periodi dell'anno della stessa singolare caratteristica di intermittenza. Il più scettico, alla fine, risulta essere lo storico comasco Benedetto Giovio, il quale quasi ironizza sul nome della fonte “pliniana”, dando voce alla fonte stessa: «Perché inconsapevolmente mi chiami la fontana del dotto Plinio? dagli abitanti del luogo son chiamata Pluviana».

    La fonte fu visitata anche da Leonardo da Vinci, che descrisse il fenomeno nel Codice Leicester. "Come imolti lochi sitrova vene dacqua che sej ore cresscano e sei ore chalano eio per me noveduta una in su lago di chomo detta fonte prinjana laqual fa il predetto cressciere edimjnuire in modo che quando versa macina piu mulina e quando mancha chali si cheglie come guardare lacqua nun profondo pozo"
    (Alessandro Dominioni)


    Finchè, i remi allentando, il nocchier sosta
    la navicella, e tace. Allor ti scuoti
    al rovinio che fan precipitando
    l'acque del fiume a piè d'antica villa,
    che fra l'ombre de' suoi freschi mirteti
    un di accolse quel Grande, a cui Natura,
    premio di lungo amor, nuda si offerse;
    ed ei nuda trattolla. E qui sovente
    col sentimento delle glorie sue,
    co' suoi pensier vedea l'avventuroso;
    e com'ei la descrisse, ancor la fonte,
    obbediente ai riti, ora s'inalza,
    ora umile s'abbassa, e fugge, e riede
    con perpetua vicenda. I lidi ancora
    suonano Plinio, e il fortunato ingegno;
    e memoria di lui serba la fonte.
    (Giovanni Berchet)



    Edited by gheagabry - 30/5/2013, 18:35
     
    Top
    .
  2. gheagabry
     
    .

    User deleted


    Si sa cos’è Villa Carlotta: una squisita dimora principesca che sta a dominio d’una delle più splendide delizie del mondo: la Tremezzina
    (Carlo Linati -1878–1949- nelle Passeggiate Lariane)


    VILLA CARLOTTA



    Incastonata tra alte montagne e incantevoli scorci sulla penisola di Bellagio, la villa è una delle più famose del Lario, sorge su una collina morenica sulla sponda occidentale del Lago di Como, ad un’altitudine di 201 metri sul livello del mare, e occupa una superficie di 70.000 metri quadrati.
    Villa Carlotta, voluta dal marchese Giorgio Clerici alla fine del 1600, si trova in un contesto naturalistico fra i più belli del Lago di Como con vista sulla penisola di Bellagio e le dolomitiche Grigne e con i suoi 70.000 mq, fra giardini e strutture museali, è la meta ideale per una visita che unisce arte e natura. Articolata su tre piani, di cui due visitabili, la Villa è circondata da un giardino all'italiana con alte siepi, fontane, statue, giochi d'acqua ed uno straordinario pergolato di agrumi, voluto dal già citato Clerici. A questo si aggiunge il romantico Parco all'inglese con grotte, vialetti e suggestivi scorci panoramici, fatto realizzare da Gian Battista Sommariva, subentrato nella proprietà della dimora agli inizi dell'Ottocento. Egli, collezionista d'arte ed amico di Napoleone, impreziosì la Villa di capolavori, fra i quali opere di Canova e di Thorvaldsen, come Amore e Psiche, Tersicore ed il Fregio con i Trionfi di Alessandro Magno e dipinti, come l'Ultimo bacio di Romeo e Giulietta di Hayez, manifesto dell'arte romantica italiana, esposti nel piano inferiore dell'edificio.
    Al piano superiore, dotato di un'elegante galleria, c'è la Camera di Carlotta, da cui la Villa prende il nome. Figlia della principessa Marianna di Nassau, Carlotta ricevette la dimora come dono per le sue nozze con Giorgio II, duca di Sachsen-Meiningen, alla metà del XIX secolo. Fu quest'ultimo, grande appassionato di botanica, a realizzare il giardino paesaggistico di grande pregio storico-ambientale che oggi comprende oltre 500 specie vegetali.
    Passeggiando fra i viali di inciottolato e ghiaia del Parco si incontrano il Giardino Roccioso, la Valle delle Felci, il Bosco di Rododendri, il Giardino di Bambù, antichi esemplari di camelie, sequoie secolari ed il Museo degli Attrezzi Agricoli, ospitato all'interno della serra. Imperdibili le splendide fioriture primaverili di rododendri ed azalee in oltre 150 varietà.


    ....la storia....



    La villa venne edificata, come casa di campagna, intorno al 1690 per volere del marchese Giorgio II Clerici; la famiglia Clerici, originaria probabilmente della zona, si era straordinariamente arricchita grazie alle attività di Giorgio I e dei figli: Pietro Antonio, che ottiene il titolo di marchese, e Carlo, che lascerà al figlio Giorgio II palazzi, ricchezze e una posizione sociale di rilievo. Senatore dal 1684 e nel 1717 presidente del Senato, Giorgio II concepì la villa di Tremezzo come manifesto del successo famigliare. Per mancanza di parenti prossimi, a Giorgio II successe il pronipote, Antonio Giorgio, che ereditò a ventun anni la grande fortuna del bisnonno e che terminò l'edificazione della villa.
    Antonio Giorgio, marchese di Cavenago, barone di Sozzago, cavaliere del Toson d'oro e patrizio milanese, fu un personaggio affascinante: estroso, generoso, prodigo, dissipatore, erede di una fortuna colossale, proprietario di un reggimento di fanteria mantenuto a proprie spese, fu protagonista di un fasto da leggenda. Committente di artisti famosi, tra cui il Tiepolo, morì nel 1768, avendo ormai dissestato il suo patrimonio. I beni rimasti passarono a un ramo cadetto della famiglia; la villa di Tremezzo invece giunse all'unica figlia, Claudia, sposa del conte Vitaliano Bigli, che la vendette nel 1801 a Gian Battista Sommariva. Gian Battista Sommariva (1760-1826) è uno degli uomini nuovi emersi dopo la rivoluzione francese, in un'epoca di profondi rivolgimenti politici e sociali. Al sopraggiungere degli Austriaci nel '99, riparò in Francia, dove coltivò amicizie importanti, come quella con Napoleone Bonaparte. Ritornò a Milano al rientro dei Francesi ed entrò a far parte della Commissione straordinaria di Governo e della Consulta durante la seconda Repubblica Cisalpina. In questi anni accumulò ingenti ricchezze, venne nominato conte e poi marchese.

    Al nascere della repubblica italiana nel 1802, confidava di diventarne il vicepresidente; gli fu invece preferito Francesco Melzi, suo grande rivale, e la sua carriera politica venne bruscamente interrotta. Come massima forma di rivincita sociale, decise di divenire collezionista d'arte, trasformando la villa di Tremezzo in un vero museo con opere d'arte antiche e moderne, di pittura e di scultura che attiravano visitatori illustri da ogni parte d'Europa. Alla sua morte l'unico figlio sopravvissutogli, Luigi, naturalizzato francese, ereditò i beni paterni. Prematuramente scomparso senza discendenti Luigi lasciò il proprio patrimonio alla moglie Emilia Seilliére, di nobile famiglia francese, ed ai parenti secondari.
    A seguito delle vicissitudini che colpirono la famiglia Sommariva, nel 1844 la villa di Tremezzo venne ceduta, con quel poco che rimaneva della celebre raccolta d'arte ottocentesca, alla principessa Marianna di Nassau, moglie del principe Alberto di Prussia per il prezzo di 780.000 lire.

    L'intera proprietà venne donata dalla coppia alla figlia Carlotta in occasione delle nozze con il principe ereditario di Sassonia Meiningen, il duca Giorgio II. Giorgio, nato a Meiningen nel 1826, era un uomo colto e dai molteplici interessi; profondamente appassionato di belle arti e artista egli stesso, amante della musica, studioso di storia e letteratura, mecenate del teatro; egli aveva conosciuto Carlotta, nata a Berlino nel 1831 - giovane intelligente, molto dotata per la musica, interessata, come lui, al teatro - e se ne era presto innamorato. Quello che le cronache dell'epoca non esitano a definire un matrimonio d'amore - lontano dalle logiche di potere e di palazzo - venne celebrato, dopo un breve fidanzamento, il 18 maggio 1850. Dopo quattro anni felici e allietati dalla nascita di tre figli, nel 1855 Carlotta morì prematuramente.
    Alla morte di Carlotta , la villa passò in eredità al marito Giorgio II, ma dopo la Prima Guerra Mondiale, con la sconfitta della Germania, Villa Carlotta fu incamerata dallo Stato Italiano. Successivamente, fu creato l'Ente Villa Carlotta, che ancora oggi ne cura la gestione, e la villa fu aperta al pubblico.

    ..il giardino..



    Il parco di villa Carlotta (circa 8 ettari visitabili) è luogo di grande fascino, non solo per la posizione panoramica particolarmente felice, ma anche per l'armonica convivenza di stili, la ricchezza di essenze, le suggestioni letterarie che ne fanno una meta imperdibile per chi giunge sul lago di Como.

    La veduta dalla Villa spazia dal Legnone, massima vetta delle Prealpi lombarde (2609 metri) alle dolomitiche Grigne, al San Primo, alla penisola di Balbianello, nonché alle cittadine di Varenna e Bellagio.
    Il parco di villa Carlotta accoglie i visitatori con le sue tre anime: il giardino all’italiana di origine settecentesca, prospiciente la riva del lago; il parco all’inglese, di metà ottocento; l’orto botanico di derivazione tardo ottocentesca. L’intero complesso, famoso per la fioritura primaverile di rododendri e azalee in oltre 150 varietà, annovera tra le piante maggiori esemplari di Pseudotsuga menziesii, Sequoiadendron sempervirens, Cedri del Libano, deodara e atlantica, Calocedrus decurrens, Pinus strobus, Montezumae, silvestris, nigra, cipressi, araucarie, platani immensi, betulle, tulipiferi, faggi purpurei e penduli, lecci, alberi del sughero, della canfora e della mirra, magnolie grandiflora e soulangiana, aceri giapponesi, la rarissima Stewartia pseuocamellia, la prestigiosa Gunnera e l’Aralia papyrifera dalle enormi foglie, il papiro e il banano, la pianta del te e varie camelie, tra le quali grandi esemplari di antiche varietà; Eucalipto, Callistemon e Casuarina per la flora australiana, le felci arboree della Nuova Zelanda, Cycas, Dasylirion e agavi, una prestigiosa raccolta di cactee e di palme, gli hibiscus rosa-sinensis dai vistosi fiori, le bougainvillee, lauri e gelsomini, il mirto, il melograno, l’Olea fragrans, le sorprendenti gallerie di agrumi, numerose piante tropicali tra cui le bromeliacee e le orchidee, e un grande numero di piccoli arbusti. Il patrimonio botanico supera le 500 specie e varietà, oltre alle piante annuali da fiore e da fogliame decorativo e alle bulbose. Il tutto inserito in un contesta naturale pazientemente plasmato da architetti ottocenteschi che hanno saputo sfruttano con abilità l’andamento del terreno, creando cannocchiali e sempre nuove vedute.
    (giardinaggio.it)

    ....nella letteratura....


    Stendhal (1783-1842) che dopo aver decantato in Rome, Naples et Florence proprio le bellezze della Tremezzina, aveva così descritto le dimore che vi si affacciavano:
    "i palazzi si moltiplicano fra il verde delle colline e si riflettono nelle onde. Dire palazzi è troppo, ma chiamarli case di campagna è troppo poco. È un genere di costruzione elegante, pittoresco voluttuoso, tipico dei tre laghi e dei colli della Brianza”.
    Negli stessi anni un anonimo appassionato del Lario, pittore e scrittore, descrisse la dimora:
    "Maestoso n’è il palazzo, e in bellissima situazione innalzato; l’architettura però risentesi alquanto del falso che tiranneggiava la prima metà del secolo scorso. Ameno e delizioso giardino gli sta dinnanzi, con vaghissimi pergolati di cedri, di limoni e d’aranci; le mortelle, i gerani, e cento maniere di odoriferi arbusti qui spargono continua ed assai ricreante fragranza. […] Lateralmente alla salita vi scorrono viali coperti d’agrumi, aranci e cedri, e pomi d’Adamo. Rimarchevoli sono i mirti, che di quella altezza non s’incontrano, uniti ai lauri; deliziosi boschetti scorrono al nord, adorni di piramidali magnolie. […]. Altro viale parte dalla villa, conducente al circolo dei larici, superiore alla Cadenabbia. Un laghetto superiore al palazzo, di copiose acque alimenta le diverse fontane: quella maggiore, che per altezza nessuna supera pel getto, è all’entrata del cancello; occorrono riparazioni."
    Alla magnificenza del giardino faceva eco la raffinatezza dell’edificio e lo splendore delle collezioni che vi erano raccolte per volontà di Gian Battista Sommariva, avvocato e mecenate che la acquistò per farne uno dei musei all’epoca più celebri d’Italia. Stendhal ne era rimasto profondamente colpito.

    "Un’anima folle, sognatrice e profondamente sensibile, è ancora più indispensabile che una buona mente, per osare aprir la bocca a proposito delle statue di Canova che tutta Milano va a vedere in casa del signor Sommariva, alla Cadenabbia, sul Lago di Como."
    ..e neanche il connazionale Gustave Flaubert (1821-1880) fu in grado di resistere al fascino e alla seduzione del gruppo marmoreo di Amore e Psiche.
    "Sono ritornato più volte [a villa Carlotta] e l’ultima ho abbracciato sotto l’ascella quella giovane distesa [Psiche] che tende verso amore le sue lunghe braccia di marmo. E il piede! E la testa! E il profilo! Che mi si perdoni ; questo è stato il mio unico bacio sensuale dopo molto tempo; ma è stato qualcosa di più. Ho abbracciato la Bellezza stessa."
    Mary Shelley (1797-1851), autrice del celebre Frankenstein, colse l’armonica bellezza del luogo.
    "Il terreno non è esteso e, naturalmente, è diviso in terrazze, per la conformazione del territorio; con alberi dai rami cadenti, che offrono ombrosi rifugi o passeggiate riparate. È un angolo fresco e piacevole, ma non solo: la casa è molto bella, ampia e gaia (Rambles in Germany and Italy in 1840, 1842, and 1843)"
    Ceduta nel 1843 alla principessa Marianna di Nassau, moglie di Alberto di Prussia, la villa andò in dono alla figlia Carlotta per le nozze con il granduca Giorgio di Sassonia Meiningen, al cui interesse botanico si deve l’ampliamento del giardino e la stupefacente ricchezza di essenze. Dell’aspetto della dimora sotto questi ultimi proprietari privati rimane preziosa testimonianza nel romanzo Col fuoco non si scherza di Emilio De Marchi.
    "La Villa Carlotta, famosa in tutto il mondo per quel che dicono le Storie del Lago e le Guide dei Viaggiatori, ha intorno a sé un giardino, vasto e profondo, in cui non sai dire fin dove l’arte corregga la natura e fin dove questa colla sua potenza rigogliosa nasconda i limiti dell’arte. Seguendo le sinuosità un po’ erte della montagna, su cui si appoggia, il giardino è tutta una selva di piante di raro valore, antiche e folte, che nella dolcezza lusinghiera del clima, nel lento e non trascurato lavorìo degli anni continuano a mescolare i loro amplessi e i loro verdi diversi, in cui domina il bruno fisso delle conifere colossali. La mano dell’uomo non le disturba, se non in quanto vuole raddoppiarne le ombre, rimuovere gli ostacoli morti, aprire, nelle macchie che sarebbero inaccessibili, qualche ombroso recesso, asilo di ninfe che ci passano, aumentarne gl’incanti con improvvise aperture sopra lo specchio luminoso del lago, con qualche grotta di tufo piangente, con scalinate rozze e muscose che menano ai chioschi isolati e taciturni, in cui dorme anche il silenzio nella frescura della solitudine. La Villa, che fu già dei Sommariva, è oggi nelle mani d’un principe tedesco che fa pagare il piacere di visitarne le gallerie, in cui trionfano Amore e Psiche del divino Canova. […] Così l’Italia continua l’opera sua di liberale educatrice dei popoli, dietro la tenue tassa d’una lira per la villa e d’una lira per il giardino."
    (lombardiabeniculturali.it)


    Il tramonto dardeggiava i suoi ultimi raggi
    e il vento cullava le pallide ninfee;
    le grandi ninfee tra i canneti
    rilucevano tristi sulle acque calme.
    Io me ne andavo solo, portando la mia piaga
    lungo lo stagno, tra i salici
    dove la bruma vaga evocava un fantasma
    grande, lattiginoso, disperato
    e piangente con la voce delle alzàvole
    che si chiamavano battendo le ali
    tra i salici dove solo io erravo
    portando la mia piaga; e la spessa coltre
    di tenebre venne a sommergere gli ultimi
    raggi del sole nelle sue onde smorte
    e le ninfee, tra i canneti,
    le grandi ninfee sulle acque calme.
    (Paul Verlaine)

     
    Top
    .
  3. gheagabry
     
    .

    User deleted


    Villa Olmo



    Sulla riva occidentale del primo bacino del Lago di Como si affaccia Villa Olmo, è la più celebre e sontuosa tra le ville comasche.

    L'impianto, di dimensioni monumentali, presenta un corpo centrale leggermente sopraelevato, scandito da colonne di ordine gigante decorate con tondi raffiguranti Platone, Solone, Talete, Socrate e Pitagora, opera dello scultore ticinese Francesco Carabelli. All'interno, in perfetta corrispondenza con le soluzioni architettoniche della facciata, un immenso atrio quadrato occupa l'intera area dell'antica Villa Odescalchi andando a coprire, in altezza, lo spazio di tre piani. Da qui una grande arcata conduce allo scalone d'onore, ornato con marmi e stucchi di pregiata fattura; fra balaustre lavorate e specchiere neoclassiche si distingue un affresco dell'Appiani, di soggetto mitologico, secondo l'uso dei palazzi e delle ville lombarde. Dall'atrio, proseguendo verso il retro dell'edificio, si entra nella maestosa sala da ballo, coperta da una volta a padiglione su cui spiccano i bellissimi affreschi del pittore ticinese Domenico Pozzi raffiguranti la Contesa fra Poseidone e Minerva per il patronato della città di Atene e Apollo con le nove Muse, eseguiti nel 1789.
    Le grandi figure in stucco sono di Carlo Luca Pozzi e raffigurano le principale divinità dell'Olimpo: Zeus, Era, Poseidone, Ade, Crono, Rea, Apollo e Artemide. Superato il salone da ballo, una fuga di stanze conduce ad una serie di ambienti destinati alla conversazione, al ricevimento, al gioco del biliardo fino al cabinet de toilette. Sulle pareti, riccamente decorate con stucchi e dorature, alcuni grandi affreschi con temi mitologici danno il nome alle stanze che, da questi, vengono anche dette: di Dioniso, di Dioniso e Arianna, di Selene con Endimione, di Artemide¿Al primo piano, le decorazioni a carattere mitologico si concentrano nelle sale dedicate all'Olimpo con il medaglione che raffigura l'Apoteosi di Eracle e l'attigua sala delle arti. Qui, sul lato che dà verso il giardino, si aprono una serie di fastosi salotti noti come: sala di Garibaldi, di Bacco e di Diana. Il teatrino a 92 posti, voluto dai Visconti di Modrone nel 1883, è un piccolo gioiello con un'acustica perfetta; sul soffitto spicca un affresco del Fontana.(lombardiabeniculturali.it)


    ...la storia...


    Edificata lungo una splendida ansa del lago di Como, la villa prende il nome da un antico bosco di olmi dove, secondo la leggenda, sarebbe sorta la villa di Caninio Rufo e più tardi, nel 1136, un monastero di Umiliati chiamato Santa Maria di Vico. Villa Olmo deve il suo nome a un magnifico olmo allora più che centenario, oggi non più esistente, che la leggenda vuole fosse stato piantato da Plinio il giovane. Costruita per volontà del marchese Innocenzo Odescalchi, doveva servire da residenza estiva dei marchesi. I lavori furono commissionati all’architetto ticinese Simone Cantoni, il quale aveva già costruito Palazzo Serbelloni a Milano e ristrutturato il Palazzo Ducale di Genova. I lavori di costruzione iniziarono nell’anno 1782 e furono ultimati nel 1797. L'architetto entrò in sintonia con la personalità del committente, il marchese Innocenzo Odescalchi, che tornò da Roma nel 1780 con un'istruzione aggiornata e cosmopolita, e decise di avviare un programma di rinnovamento culturale di tutta Como, che comprendeva appunto anche una villa suburbana in linea con le riforme dei Lumi.
    Simone Cantoni (Muggio 1739-Gorgonzola 1818) è l'esponente più famoso di una famiglia di capomastri e architetti ticinesi che operarono a partire dal Cinquecento in area ligure, francese e tedesca. Progettista di una rigorosa architettura neoclassica in cui le citazioni dell'antico e i riferimenti alla cultura francese contribuirono a creare un nuovo linguaggio, pur nella formale osservanza dei "principi" delle regole classiche ripresi nel Settecento, ha lasciato opere raffinate che esprimono alti valori estetici e compositivi correlati all'espressione del "buon gusto".
    Di classico impianto neoclassico, fu affrescata da famosi pittori, ed è formata da un corpo centrale che racchiude la struttura della zona mediana in cinque vani d’ingresso sopra i quali si innalzano sei colonne di stile ionico. Furono ospiti illustri Napoleone Bonaparte nel 1797 e Ugo Foscolo nel 1808. Poco dopo il termine dei lavori iniziò la serie di visite storiche. Fra gli ospiti illustri sono da segnalare Napoleone Bonaparte nel 1797, e Ugo Foscolo nel 1808. Nel 1824, con la morte di Innocenzo Odescalchi, la villa passò alla famiglia Raimondi, che si incaricò di sistemare il piazzale antistante il fabbricato.
    La villa fu testimone di altre storiche visite e incontri: nel 1835 la regina delle due Sicilie e la regina di Sardegna, ospiti dei Raimondi, gli imperatori d'Austria Francesco Ferdinando I e Maria Carolina, il principe di Metternich, il maresciallo Radetzsky e Giuseppe Garibaldi. Quest'ultimo fu protagonista di una discussa storia d'amore con Giuseppina Raimondi, vicenda che si concluse in un matrimonio subito interrotto con gravi e reciproche accuse. Il passaggio di Garibaldi da Villa Olmo è segnato da un piccolo medaglione su un caminetto di uno dei salotti del piano terreno. Nel 1824 la villa passa dagli Odescalchi alla famiglia Raimondi che sistemò il piazzale antistante. Nel 1883 la proprietà è ceduta ai Visconti di Modrone i quali apportarono diversi cambiamenti alla disposizione interna dei locali e in particolare affidarono all'architetto Emilio Allemagna l'abbattimento delle scuderie e di un portico, l'apertura di due balconate, i la sistemazione del parco e la costruzione di un piccolo teatro di 90 posti che fu affrescato dal Fontana. Inoltre la facciata fu arricchita dallo stemma visconteo, sostenuto da due putti, sormontato da una corona ducale in sostituzione dell’originaria pietra con la parola “Olmo”. Dall’atrio si accede al grande salone da ballo con statue e affreschi; vi sono molte altre sale, una cappella con magnifici bassorilievi e una sala della musica anch’essa affrescata. Di notevole interesse è anche il parco che la circonda, aperto al pubblico, nel quale si trova un tempietto neoclassico . Nel centro del giardino davanti alla villa si innalza una fontana di marmo, opera dello scultore Odolfredi, formata da un’ampia vasca sporgente al centro di un tappeto erboso, nella quale si vedono due fanciullini che giocano trascinando un mostro marino. Nel 1924 la villa passò al Comune di Como che ne ha fatto sede di conferenze, mostre di pittura, eventi culturali e musicali. Nel 1927 la villa ospitò l’esposizione internazionale nel primo centenario della morte di Volta. Dal 1982 è sede del Centro di Cultura scientifica “Alessandro Volta” e di manifestazioni quali l’Autunno Musicale; in estate i suoi giardini ospitano il Festival del Teatro Sociale di Como. Più recentemente ospita da Marzo a Luglio una prestigiosa mostra di pittura. (meravigliaitaliana.it)






     
    Top
    .
  4. gheagabry
     
    .

    User deleted


    Carlo III di Borbone, re di Napoli, non aveva in sostanza una vera sua reggia e riteneva che la famiglia reale avesse bisogno di quiete e di aria salubre per la propria salute e che Caserta, da lui ben conosciuta nella frequentazione di numerose battute di caccia nella zona, fosse l’unico sito adatto a ciò. Pertanto volle realizzare a Caserta la reggia che gli mancava e, con essa, il vecchio sogno ambizioso dei suoi avi: una costruzione che ricordasse quella di Versailles, ma che si presentasse ancora più sfarzosa, ampia, deliziosa.


    LA REGGIA DI CASERTA


    La Reggia di Caserta, o Palazzo Reale di Caserta, è una dimora storica appartenuta alla casa reale dei Borbone di Napoli, proclamata Patrimonio dell'umanità dall'UNESCO. Situata nel comune di Caserta, è circondata da un vasto parco nel quale si individuano due settori: il giardino all'italiana, in cui sono presenti diverse fontane e la famosa Grande Cascata, e il giardino all'inglese, caratterizzato da fitti boschi. In termini di volume, la reggia di Caserta è la più grande residenza reale del mondo con oltre 2 milioni di m³. I numeri che caratterizzano la costruzione sono: 253 metri di facciata e 242 metri di fianchi; 1217 stanze e 1898 finestre; quattro cortili di rappresentanza ciascuno di 74X52 m, che servono anche da prese d’aria e di luce; il sotterraneo profondo 46 metri; 36 scale di disimpegno, compreso lo scalone d’onore che ha 146 scalini; 83 ettari di parco; fino a 3005 gli addetti ai lavori del complesso fra il 1752 il 1799.
    Dal cancello centrale del Palazzo reale si entra nel vasto atrio da cui inizia la lunga galleria a tre navate che va fino al cancello del parco. Le navate laterali si aprono sui quattro cortili. La navata centrale è detta “il cannocchiale”. A metà del “cannocchiale” c’è il vestibolo inferiore, che è il centro del piano terra; insieme al vestibolo superiore, a cui è collegato con lo Scalone d'onore, rivela subito la genialità e perfezione dell’architettura vanvitelliana.
    Lo scalone d’onore ha 116 gradini, è ornato di due leoni di marmo bianco e, sul fondale del pianerottolo, ha tre statue: al centro la Maestà, a sinistra il Merito, a destra la Verità. La doppia volta ellittica è di grande effetto anche perché all’interno di essa trovavano posto i musici per salutare lietamente il re ed i suoi ospiti in occasione dei ricevimenti. Al termine si entra nel vestibolo superiore, con a sinistra l’ingresso agli appartamenti reali, di fronte l’ingresso alla Cappella Palatina. Gli Appartamenti reali, che sono composti da una parte settecentesca ed una ottocentesca, rispettivamente a sinistra ed a destra della “Sala di Alessandro” a cui si giunge dopo aver attraversato la “Sala degli alabardieri” e la “Sala delle guardie del corpo”. La Sala di Alessandro fu usata da sala del trono da Gioacchino Murat. A destra della “Sala di Alessandro” si apre l’Appartamento nuovo, così detto per essere stato realizzato nella prima metà dell’ottocento. Esso abbonda di ori e stucchi e lo stile Impero domina su tutto, anche se non sempre in maniera armonica. In esso Ferdinando II volle la Sala del Trono. Segue l’appartamento del Re, sistemato già in parte da Murat. Segue, dopo la camera da letto di Ferdinando II con il bellissimo bagno di marmo bianco, l’appartamento murattiano che termina con l’Oratorio, cappella privata. L’Appartamento vecchio è invece alla sinistra della sala di Alessandro e fu curata da Carlo Vanvitelli dal 1779 al 1790 con una schiera di artisti che seppero ben interpretare ed esprimere l’arte dell’arredo meridionale con grazia ed eleganza. Si attraversano le eleganti Sala della Primavera, con le tele di Hackert, la Sala d’estate, quella dell’autunno e quella dell’inverno affrescate da Fischetti, lo studio di Ferdinando IV e il Salottino del Re e così di seguito fino alle sale della Biblioteca con le due sale di lettura. Dalle sale di lettura della biblioteca si passa alla sala ellittica dove è allestito il Presepe reale ricco di pastori e di animali del ‘700 e dell’ ‘800, alcuni eseguiti da noti artisti. Più volte i suoi pezzi sono stati trafugati, a volte ritrovati, in tutto on in parte. Quindi anche quello attualmente allestito è una ricostruzione di quello che fu costruito per Ferdinando II.

    ..la storia..


    Il 20 gennaio 1752, il re Carlo III e la giovane regina Maria Amalia di Sassonia - alla presenza del vescovo di Caserta, la corte, i reggimenti schierati lungo il perimetro della futura reggia, mentre i cannoni sparavano a salve - gettarono medaglie d’oro e d’argento nella fossa simbolica delle fondamenta della Reggia di Caserta e subito dopo gratificarono l’architetto Luigi Vanvitelli con 100 scudi e il martello e la cucchiara d’argento con cui le Loro Maestà avevano coperto di calce la prima pietra della costruzione. L’evento è ricordato dal dipinto di Maldarelli sul soffitto della sala del trono.

    Il Palazzo reale di Caserta fu voluto dal re di Napoli Carlo di Borbone, il quale, colpito dalla bellezza del paesaggio casertano e desideroso di dare una degna sede di rappresentanza al governo della capitale Napoli e al suo reame, volle che venisse costruita una reggia tale da poter reggere il confronto con quella di Versailles. Si diede inizialmente per scontato che sarebbe stata costruita a Napoli, ma Carlo di Borbone, cosciente della considerevole vulnerabilità della capitale a eventuali attacchi (specie da mare), pensò di costruirla verso l'entroterra, nell'area casertana: un luogo più sicuro e tuttavia non troppo distante da Napoli. Dopo il rifiuto di Nicola Salvi, afflitto da gravi problemi di salute, il sovrano si rivolse all'architetto Luigi Vanvitelli, a quel tempo impegnato nei lavori di restauro della basilica di Loreto per conto dello Stato Pontificio. Carlo III ottenne dal Papa di poter incaricare l'artista e nel frattempo acquistò l'area necessaria dal duca Michelangelo Gaetani, pagandola 489.343 ducati, una somma che seppur enorme fu certamente oggetto di un forte sconto: Gaetani, infatti, aveva già subìto la confisca di una parte del patrimonio per i suoi trascorsi antiborbonici.
    Il re chiese che il progetto comprendesse, oltre al palazzo, il parco e la sistemazione dell'area urbana circostante, con l'approvvi-
    gionamento da un nuovo acquedotto (Acquedotto Carolino) che attraversasse l'annesso complesso di San Leucio. La nuova reggia doveva essere simbolo del nuovo stato borbonico e manifestare potenza e grandiosità, ma anche essere efficiente e razionale.Vanvitelli giunse a Caserta nel 1751 e iniziò subito la progettazione del palazzo commissionatogli, con l'obbligo di farne uno dei più belli d'Europa. Il 22 novembre di quell'anno l'architetto sottopose al re di Napoli il progetto definitivo per l'approvazione. Due mesi dopo, il 20 gennaio 1752, genetliaco del re, nel corso di una solenne cerimonia alla presenza della famiglia reale con squadroni di cavalleggeri e di dragoni che segnavano il perimetro dell'edificio, fu posta la prima pietra. Tale momento viene ricordato dall'affresco di Gennaro Maldarelli che campeggia nella volta della Sala del Trono. L'opera faraonica che il re di Napoli gli aveva richiesto spinse Vanvitelli a circondarsi di validi collaboratori: Marcello Fronton lo affiancò nei lavori del palazzo, Francesco Collecini in quelli del parco e dell'acquedotto, mentre Martin Biancour, di Parigi, venne nominato capo-giardiniere. L'anno dopo, quando i lavori della reggia erano già a buon punto, venne iniziata la costruzione del parco. I lavori durarono complessivamente diversi anni e alcuni dettagli rimasero incompiuti. Nel 1759, infatti, Carlo di Borbone di Napoli era salito al trono di Spagna (con il nome di Carlo III) e aveva lasciato Napoli per Madrid.

    La Reggia, sulla scorta dei meticolosi documenti contabili di Corte, costò una cifra enorme per l'epoca: ben 6.133.507 ducati, dodici volte e mezzo il costo di tutto il territorio ceduto dagli eredi degli Acquaviva. Accurata fu la scelta dei materiali: il tufo da San Nicola La Strada, il travertino da Bellona (la famosa "pietra di Bellona"), la calce da San Leucio, la pozzolana da Bacoli, il laterizio da Capua, il ferro da Follonica, il marmo grigio da Mondragone e quello bianco da Carrara. Gli operai addetti alla fabbrica della Reggia arrivarono ad essere anche 3000, comprese le donne, che però avevano un salario nettamente inferiore a quello percepito dagli uomini. Le maestranze erano per lo più locali e napoletane, però non mancavano romani, milanesi e stranieri, tra cui numerosi turchi. C'era anche un folto gruppo di schiavi (maomettani) e di forzati provenienti dalla patrie galere, che alloggiavano nel villaggio di Ercole in un proprio quartiere quasi alle spalle della Castelluccia. Erano sorvegliati da un gruppo di soldati e da uno sbirro. Gli schiavi maomettani che si dichiaravano disposti a ricevere il battesimo, lo ricevevano dopo un anno di catecumenato e con esso la nazionalità napoletana. Dopo cambiavano alloggiamento, non potendo più stare con i maomettani. Se poi sposavano donne locali, diventavano uomini liberi e, al temine della giornata di lavoro, tornavano alle loro case.

    La Reggia di Caserta appartenne alla Casa Borbone per oltre un secolo: dal 1752 al 1860, anno in cui passò ai Savoia. Un decreto ministeriale la attribuì al demanio dello Stato Italiano nel 1919. La vicenda della Reggia di Caserta si sovrappone perfettamente al tracciato storico degli oltre due secoli della sua vita. Fu dimora dei successori di Carlo III, partito a reggere il regno di Spagna nel 1759. Vi dimorarono quindi Ferdinando IV; dal 1806 Giuseppe Bonaparte e poi, dal 1808, Gioacchino Murat ai quali, in successione, fu assegnato da Napoleone il Regno delle Due Sicilie; quindi, con il ritorno dei Borboni, Francesco I, Ferdinando II e Francesco II, che perse il trono nel 1860. La Reggia a fine 1860 ospitò Garibaldi e divenne il Quartiere Generale dell'Esercito dei Volontari del Volturno. Dalla fine del 1943 la Reggia divenne sede del Comando Interalleato del Sud. Il 27 aprile 1945 vi fu firmata la resa delle truppe tedesche in Italia. Durante il secondo conflitto mondiale, la vox populi casertana asseriva che il Palazzo non sarebbe stato bombardato dagli inglesi perché doveva "venirci a dormire" Winston Churchill. Ma alcune bombe caddero sulla Reggia. (casertamusica.com)

    .....il parco.....


    Il Giardino all’italiana si immette poi nel lungo percorso rettilineo che parte dalla fontana Margherita e arriva al colle di briano, alla fine del parco. Questo passaggio è di certo l’immagine più famosa della reggia: un lungo viale con al centro il percorso d’acqua che scende dalla cascata artificiale sul colle e alimenta le varie fontane dell’asse mediano del parco. L’acqua giunge qui partendo dalle falde del monte Taburno e percorrendo i circa 40 km di lunghezza dell’acquedotto Carolino, anch’esso progettato da Luigi Vanvitelli ma completato dal figlio Carlo. Alle fontane si alternano grandi vasche d’acqua, il tutto adornato da una serie di magnifiche statue a tema mitologico. Vi sono episodi tratti dalle Metamorfosi di Ovidio, come il mito di Diana e Atteone, in cui si racconta che la dea trasforma in cervo il cacciatore Atteone per averla vista nuda e lo lascia sbranare dai suoi stessi cani; vi è il mito di Venere e Adone, l’episodio dell’Eneide in cui Eolo tenta di fermare Enea per ordine di Giunone e richiami alla pacifica dea della fertilità Cerere. l’ultima zona del Parco della Reggia, il Giardino all’inglese. Luogo di grandissima importanza per la sperimentazione di carattere estetico che ne caratterizzò la creazione, esso fu soprattutto di enorme rilevanza dal punto di vista scientifico. Su consiglio di sir William Hamilton, la moglie del re Ferdinando IV, la regina Maria Carolina di Borbone, incaricò il grande botanico e giardiniere inglese John Andrew Graefer di creare un giardino che fosse il più possibile fedele ad un paesaggio naturale, nello stile romantico che veniva appunto definito all’inglese. L’opera, i cui lavori di preparazione cominciarono nel 1786 con la collaborazione di Carlo Vanvitelli, si rivelò alla fine molto più che un semplice giardino paesaggistico. Ciò che rese quest’area del Parco interessante sotto più punti di vista fu soprattutto l’influenza del nuovo pensiero estetico, che tendeva sempre più a fondere il piacere visivo delle forme con la conoscenza scientifica e la sperimentazione tecnica in campo agricolo. I 23 ettari del giardino vennero quindi edificati non solo con lo scopo di divertire i reali, ma con l’obiettivo di ottenere risultati che fossero di pubblica utilità. Situato alla fine del lungo viale centrale, sulla destra, ad esso si accede passando per il Criptoportico; questa struttura è la copia di un ninfeo, edificio dedicato ad una ninfa, ornato da statue provenienti dagli scavi di Pompei e dalla collezione Farnese.
    Accanto vi è il Bagno di Venere, piccolo laghetto dal quale emerge la dea scolpita da Tommaso Solari. Altre statue di questo scultore sono collocate nella zona detta Aperia, luogo in cui venivano allevate le api per la produzione del miele. Più avanti l’acqua forma un nuovo laghetto nel mezzo del quale vi sono due isolotti; sul più grande dei due sorge un tempietto in rovina. Un piccolo Labirinto, infine, veniva usato come luogo di divertimento in cui i reali inseguivano per gioco le dame. La parte restante del giardino è la più importante dal punto di vista scientifico: vi si trovavano, infatti, le serre in cui Graefer coltivava specie di piante esotiche per adattarle ai climi ed al terreno campano. Tutte le suddette zone del giardino erano decorate non solo da piante locali, ma anche da esemplari provenienti da luoghi lontani, come la Camelia japonica, pianta del Giappone introdotta in Italia per la prima volta proprio qui. La grande fertilità del terreno permise anche la sperimentazione di nuove tecniche di coltivazione; ciò portava ad una tale produzione che i profitti bilanciavano gran parte dello sfarzo dei giardini. Nel 2002 il Bagno di Venere è stato scelto per l’acclimatazione della Petagnia Saniculifolia, pianta endemica della Sicilia ormai dichiarata in pericolo di estinzione. (Davide Lepore- tempovissuto.it)


    ...curiosità...



    La storia del parco comincia nel 1753, quando furono avviati i lavori sotto la supervisione dell’architetto Luigi Vanvitelli. Adiacente al palazzo vi è la prima parte di questa grandiosa opera, la zona destinata al parterre, nota anche come Giardino all’italiana. In quest’area, sulla sinistra, vi è il “bosco vecchio”, luogo utilizzato dal giovane Ferdinando IV, successore di Carlo III, come zona di esercitazione militare. Qui il rampollo dei Borbone amava inscenare finte battaglie: assalti alla Castelluccia, riproduzione di una fortezza creata appositamente per queste esercitazioni; ma anche finte battaglie navali, per cui veniva utilizzata la cosiddetta Peschiera grande, laghetto artificiale con isolotto, in cui venivano anche allevati i pesci cucinati durante i banchetti reali. Nei pressi della peschiera vi erano le abitazioni dei Liparoti, ex marinai dell’isola di Lipari, che si occupavano della manutenzione delle barche usate nelle finte battaglie.
     
    Top
    .
  5. gheagabry
     
    .

    User deleted


    LE VILLE NOBILIARI SUL LAGO DI COMO
    APPUNTI DI VIAGGIO DELL’OTTOCENTO


    di Leila Tavi





    O del massimo Lario antica Donna,
    O di Grecia e di Roma eletta sede
    Al purissimo sangue: O d’onorati
    Ingegni altrice e libera di eroi
    Armi potente un dì madre e d’impero,
    A te ne vengo. L’ubertosa valle
    E i culti monti che ti fan corona
    Rispondano al mio canto.
    Castone Rezzonico, Opere, T. II


    Sulle sponde del lago di Como si trovano ancora oggi gli splendidi suburbani che le famiglie nobili lombarde fecero costruire tra la fine del Cinquecento e la metà dell’Ottocento.

    Attraverso la lettura del libro Viaggio pel lago di Como di Poliante Lariano del conte Giovio, pubblicato con enorme successo nel 1818, tanto da avere ben cinque edizioni successive, scopriremo le bellezze architettoniche dei suburbani sul lago di Como e alcune particolarità degli illustri personaggi che vi hanno vissuto o ne sono stati ospiti.

    Il mineralogista danese Brunn-Neergaard sosteneva nel suo Voyage pittoresque et historique du Nord de l'Italie del 1807, che le ville di cui le sponde del lago di Como si erano abbellite, situate nei punti più pittoreschi, sembravano costruite più per il piacere dell’occhio che per soggiornarvi, grazie alla cura e la magnificenza con cui erano state decorate.



    Il primo dei suburbani che incontriamo nel nostro viaggio a ritroso nel tempo è, in corrispondenza di Como, quello della marchesa Eleonora Villani, discendente dagli Sforza Visconti di Caravaggio; l’edificio, uno dei più lussuosi a quel tempo, prese in seguito il nome di Villa Saporiti. Fu costruita tra il 1790 e il 1793 su progetto di Leopoldo Pollack e fu proprietà dei Villani fino al 1858, quando fu acquistata all’asta dal marchese Marcello Rocca Saporiti. Divenuta proprietà dei Resta Pallavicino, fu da loro venduta nel 1951 all’Amministrazione provinciale di Como. La villa era conosciuta come “La Rotonda”, per via della facciata a lago, con un imponente corpo centrale tondeggiante dalle semicolonne intervallate a finestre e sormontate da medaglioni con divinità pagane dell’acqua. Per gli interni la marchesa scelse degli arredi che s’ispiravano ai luoghi da lei visitati durante i suoi viaggi all’estero. Ricordiamo lo scalone a forbice di Luigi Cagnola, la biblioteca, le colonne corinzie e le statue del primo Ottocento. Il sala ovale centrale fu descritta dal conte Gian Battista Giovio come “magnifica a stucchi lustri, piena d’aria e di sole”. La Rotonda fu citata in numerose guide pubblicate in Italia e all’estero soprattutto per gli ospiti che vi soggiornarono: nel giugno del 1797 Napoleone con Giuseppina e l’intero Stato maggiore francese; il principe di Beauharnais, la regina di Napoli, la principessa Carolina di Galles (prima di acquistare, anch’ella, villa d’Este sul lago) e lo zar Alessandro II.



    Lasciata la Rotonda arriviamo all’Olmo, villa così chiamata perché situata all’interno di un antico bosco d’olmi dove, secondo la leggenda, sarebbe sorta la villa di Plinio il Giovane e successivamente, nel 1136, un monastero di Umiliati chiamato Santa Maria di Vico. Nel 1664 i terreni furono acquistati da Marco Plinio Odescalchi, ma la villa fu edificata solo agli inizi degli anni Ottanta del XVII secolo dal marchese Innocenzo Odescalchi. I lavori iniziarono nel 1782 e terminarono solo nel 1796, sotto la supervisione dell’architetto Simone Cantoni. Già nel 1797 il sontuoso edificio ospitò il generale Bonaparte; nel 1805 la sua prima moglie Giuseppina visitò di nuovo la villa. Nel 1808 Ugo Foscolo, ospite nella villa dei Giovio, volle visitare l’Olmo. I nipoti del marchese, della famiglia Raimondi, ne ereditarono la proprietà nel 1824. Tra gli ospiti del marchese Giorgio Raimondi ricordiamo nel 1835 la Regina delle Due Sicilie, Maria Cristina, e la Regina di Sardegna, Maria Teresa Cristina; nel 1838 ci furono altri illustri ospiti: l’imperatore d’Austria Ferdinando I, accompagnato dal principe Metternich e dal maresciallo Radetzdy. Schieratosi dalla parte dei patrioti, il marchese Raimondi fu costretto a scappare nel Canton Ticino; tornato in patria nel 1859, ospitò nella villa Giuseppe Garibaldi dopo la sua vittoria a San Fermo. Il condottiero trascorse all’Olmo giorni di passione con la marchesa Giuseppina, figlia illegittima ma riconosciuta di Giorgio Raimondi.



    Il matrimonio tra Garibaldi e Giuseppina fu celebrato nel 1860, ma annullato nel 1880 a causa di presunti tradimenti della donna, che era legata sentimentalmente a un fervente patriota e ammiratore di Garibaldi, Luigi Caroli, già prima di incontrare l’eroe dei due Mondi. Con molta probabilità quando sposò Garibaldi era già incinta di Caroli. Giuseppina abbandonò il marito nel 1863 per seguire il suo amante in Polonia, partito nel tentativo di esportare gli ideali patriottici e indipendentisti, ma la missione fu un fallimento; Caroli fu arrestato dai Russi e confinato in Siberia. Nel 1883 la villa fu acquistata dal duca Guido Visconti di Modrone, che la fece ristrutturare e volle un piccolo teatro di novantadue posti, rinomato nella zona per la sua acustica perfetta. Alla morte del duca nel 1925 gli eredi cedettero la proprietà al Comune di Como, che ne fece una sede di rappresentanza; dal 1982 Villa Olmo è sede del Centro Alessandro Volta. La sala maggiore del palazzo fu paragonata da Giovio a quelle dei palazzi imperiali per la ricchezza di marmi e ori; pregevoli sono l’affresco di Appiani e quelli del pittore ticinese Domenico Pozzi, tutti a tema mitologico, come era tradizione a quei tempi nei palazzi e nelle ville lombarde. Davide Bertolotti, autore di un’altra famosa guida dei dintorni del lago nell’Ottocento, riconosce nell’olmo di villa Odescalchi quello descritto da Plinio nell’antichità.

    Prima di proseguire nel nostro viaggio vogliamo soffermarci su un episodio di cui il conte Giovio fa menzione nel suo libro. Si tratta dell’arresto del diplomatico francese Charles Louis Huguet, marchese di Semonville, che fu sorpreso nel 1793 dalle milizie austriache a Novate, sull’omonimo lago vicino a quello di Como, mentre si stava recando a Torino in missione segreta, su indicazione del generale rivoluzionario Charles François du Périer, detto Dumouriez, per convincere Vittorio Amedeo III di Savoia a rompere l’alleanza con l’Austria. Una volta arrestato, gli effetti personali del marchese furono spediti immediatamente a Vienna; Semonville era partito da Genova, dove era in servizio diplomatico, con quattro carrozze, due grosse casse ripiene di stoffe e merletti pregiati, ottantamila luigi in denaro, un servizio d’oro della corte di Francia, due cassette piene di gemme del valore di circa ottantamila fiorini, tra cui si trovavano le più belle pietre appartenute ai regali di Francia e una grande quantità di diamanti, non ancora incastonati, che il marchese aveva intenzione di far montare a Costantinopoli a seconda della moda dei paesi e del gusto delle persone a cui sarebbero stati destinati.



    Dopo questa breve digressione arriviamo al “Grumello” o Grumella, che dal 1775 fu proprietà del conte Gian Battista Giovio. Costruita già alla fine del Quattrocento, la villa fu modificata secondo il volere di Tommaso d’Adda nel 1578. Nel volume delle Ordinazioni decurionali dal 1577 al 1581 si trova, alla data del 5 agosto 1573, la concessione per poter raccogliere l’acqua del lago dalla parte del monte Olimpino che serviva ad alimentare la fontana della villa: “Villa Grumelli magnifice edificatæ ad hilaritatem fere publicam maximam sint allaturæ hilaritatem”. Fu prima luogo di delizie del Vescovo di Modena Sisto Vicedomini, poi passò a un certo cavalier Porta e poi ai fratelli Carlo e Benedetto Odescalchi, avi di Innocenzo, proprietario dell’Olmo.

    Il cardinale Benedetto, pontefice dal 1676 al 1689 con il nome di Innocenzo XI, la fece riedificare secondo il progetto iniziale del Pellegrini per la famiglia d’Adda. Divenne di proprietà della Chiesa con monsignor Neuroni, per passare poi a Carlo Galli di Piacenza e successivamente al conte Giovio, che nel suo Viaggio pel lago di Como scrive del Grumello: “ed in vero angol non v’ha di monte, non sen di lago che sfugga allo sguardo lusingato e pago”. Ospite del conte fu in varie occasioni Ugo Foscolo, come testimonia il busto dedicato al poeta che si trova ancora oggi nel parco della villa. La villa poi fu di proprietà della famiglia Celesia, fino al 1954, quando fu donata all’Ospedale S. Anna di Como dalla contessa Giulia Cays, nata Celesia; successivamente la villa fu affittata alle Seterie Ratti.



    Davanti a noi appare la “lunata” di Como, mentre a sinistra troviamo Villa d’Este e Villa Pizzo. Saliamo per l’ampia strada che la principessa Carolina di Galles fece aprire nel 1815 per arrivare fino a Villa D’Este in Cernobio. Tra i casini che abbellivano il lido dove si trova Villa D’Este c’era quello di Pietro Configliachi, discepolo di Volta. Arriviamo davanti a un arco di trionfo che si sgretola e sta per cadere in macerie, accanto troviamo un pilastro con la seguente iscrizione:

    Karolina De Brunswick princeps Walliae in Anglia ad pubblicum bonum a pago Crumelio ad Atestinam villam sibi deliciarum et quietis sedem rebus omnibus comparatam repressis lacus undis effluentibus aggerum murorum arcuum molitione complanato solo clivis subactis ponte lapideo Blesiae exundanti imposito ex angusta praerupta difficili novam hanc amplam percomodam suo aere viam fecit anno 1815.

    Attraversato l’arco appare alla nostra vista una torricola che svela l’aspetto in cui troviamo la villa nel 1820 e che ricalca la caducità delle cose umane; in un luogo dove un tempo tutte le arti si raccoglievano intorno a una principessa di sangue guelfo, Carolina di Brunswick, ora troviamo solo rovine e abbandono. Bertolotti così descrive lo stato di abbandono della villa:

    Ora qui tutto è solitudine, ed il silenzio regna all’intorno. Eppure non è guari che la festa e il tripudio occupavano cotesto recinto e cotesti giardini; d’ogni lato ferveva l’opera, strideva lo scalpello, ed il pennello operava; scalpitavano lungo la strada i generosi cavalli, e solcavano l’onda del lago le gondolette dipinte a mille colori. Così l’umana vita trascorre; al corteggio della giovinezza succede l’abbandono de’ giorni senili…



    Nel 1442 il vescovo di Como Gerardo Landriani fondò, alla foce del torrente Garovo, un convento di suore, che dopo più di un secolo il cardinale Tolomeo Gallio fece demolire tra il 1565 e il 1570 per farvi erigere una sfarzosa villa su progetto di Pellegrino Tibaldi e che fu denominata “Garovo” come l’omonimo torrente. Con il passare del tempo la villa fu luogo d’incontro per letterati, politici e dignitari ecclesiastici, ma dopo la morte del cardinale attraversò un periodo di decadenza. Nel 1749 l’edificio fu affittato ai Gesuiti che lo utilizzarono come ritiro spirituale fino al 1769; poi fu ceduta al conte Mario Odescalchi e successivamente, nel 1778, al conte Marliani, un colonnello dell’esercito austriaco e ancora alla famiglia Calderara di Milano, che la ristrutturò sostituendo al vecchio parco uno all’italiana, con uno splendido ninfeo, detto “Il Mosaico” e un tempietto con un gruppo neoclassico di Ercole e Lica. La marchesa Calderara, alla morte del marito, si risposò con il conte Domenico Pino, generale napoleonico. In memoria delle gesta del generale in Spagna fu eretta nel parco una fortezza dove, in alcune occasioni, si riunivano i cadetti della Scuola militare di Milano. Nel 1814 Carolina di Brunswick, moglie di Giorgio Augusto Federico, principe di Galles e futuro re d’Inghilterra, s’innamorò della villa durante un soggiorno sul lago.

    La principessa volle dare alla villa il nome “d’Este” in memoria delle presunte origini estensi. All’interno vi erano il teatrino con recite e operette che allietavano gli ospiti della principessa; la sala Napoleonica, allestita per l’imperatore francese, ma che non visitò mai la villa; un piccolo appartamento con quattro sale, alla greca, alla romana, all’etrusca e all’egiziana, da cui si accedeva alla sala dell’Oracolo. La principessa Carolina fu ripudiata dal marito e non divenne mai regina d’Inghilterra perché accusa di aver condotto in Italia una vita di facili costumi. Nel 1820 ne divennero proprietari i principi Torlonia e poi gli Orsini, che non ne curarono a dovere la manutenzione, pur ospitando nel 1825 l’imperatore austriaco Francesco I. Divenne covo di patrioti una volta passata nelle mani del barone Ippolito Ciani; nel 1860 il barone organizzò una festa in maschera a cui parteciparono molti patrioti rientrati in Italia da varie parti del mondo. Nel 1868 la villa ritornò in auge con la zarina Maria Feodorovna, moglie di Alessandro III, che fece parlare di sé in Italia per le sue feste notturne, illuminate da fiaccole e fuochi d’artificio. Nel 1888 la zarina dovette lasciare la residenza, che tornò in un desolante stato di abbandono. Nel 1873 l’edificio fu trasformato in un albergo di lusso, su iniziativa dell’allora sindaco di Milano Giulio Bellinzaghi e di alcuni Senatori del Regno. Ancora oggi all’interno della villa si trovano interessanti pezzi d’arte, come il gurppo Eros e Psiche realizzato dall’atelier di Antonio Canova, nella sala Flora, e le statue di marmo di Carrara di Antonio Prestinati raffiguranti Adamo e Eva, nell’attuale Bar Canova. Nel parco si trova ancora oggi uno dei platani più longevi della Lombardia, di oltre cinquecento anni.




    Volgiamo ora lo sguardo verso Villa Pizzo dei conti Mugiasca, edificio settecentesco sorto nel luogo in cui già nel Quattrocento si trovava una casa padronale. Soprannominata in passato “Pizzo” o “Apiciano” (dal latino apex) perché situata sulle pendici montuose tra Cenobio e Moltrasio, si può vedere per intero solo dal lago, grazie a un’architettura in armonia con la natura che la circonda. Il 9 luglio 1435 Giovanni Muggiasca, un mercante di Como, acquistò i terreni per costruire un edificio rurale. Nel 1630, a causa della peste, i Muggiasca lasciarono Como per risiedere al Pizzo, dando ospitalità a tanti comaschi, che per sdebitarsi lo aiutarono nella bonifica dei terreni e nell’ampliamento della tenuta. Sorsero in quegli anni una casa da massaro, locali per la servitù, una serie di rustici, una stalla, una cantina e una piccola fattoria. Alla fine del Settecento l’abate Giovanni Francesco Muggiasca fece edificare un piccolo oratorio. L’ultimo erede Muggiasca, Giovanni Battista, in seguito vescovo di Como, donò nel 1842 la villa all’Ospedale S. Anna di Como, che lo mise all’asta. L’edificio divenne proprietà dell’arciduca Ranieri d’Austria, viceré del Lombardo-Veneto dal 1818 al 1848, e di sua moglie Maria Elisabetta, sorella di Carlo Alberto di Savoia. Con i moti del ’48 l’arciduca fu costretto ad abbandonare la residenza per rifugiarsi a Verona. Nel parco del Pizzo si rifugiavano coloro che dalla Svizzera scendevano per la val d’Intelvi o dal monte Bisbino per distribuire le pubblicazioni patriottiche clandestine pubblicate a Capolago, nel Canton Ticino. Due cannoncini che si trovavo in esposizione all’ingresso della villa furono sottratti dai patrioti e utilizzati in occasione delle cariche contro la caserma S. Francesco a Como.



    Dal 1857 al 1859 fu residenza fuori Milano del successivo viceré del Lombardo-Veneto, Massimiliano d’Asburgo, e della sua consorte Carlotta. Nel 1865 la villa divenne di proprietà di Madame Musard, la favorita del re Guglielmo d’Olanda. La Musard diede ordine di ricoprire gli affreschi quattrocenteschi della villa con pitture in stile pompeiano, come voleva la moda dell’epoca. Dal 1871 la villa è passata nelle mani della famiglia milanese Volpi Bassani. Il conte Giovio la ricorda nel suo libro per gli splendidi giardini soleggiati pieni di agrumi. I viali e i sentieri s’intrecciano in un bellissimo arabesco che si dispiega tra ponticelli, pozze d’acqua e piccoli ruscelli; nel mezzo del parco è ancora oggi conservata una fontana in onore di Alessandro Volta, voluta da Giovanni Battista, con attorno le false rovine d’un tempietto classico. Dal parco si accede al “Ceppio”, un po’ più avanti rispetto alla dépendance di Villa d’Este, a un piccolo viale soprannominato “in Genova” per il clima mite di quella parte del lago, con una moltitudine di piante esotiche, agavi, orchidee. La vecchia darsena sul versante occidentale dà sul bacino di Villa d’Este, quella nuova, costruita per volere dei Volpi Bassani, si staglia sul bacino di Moltrasio fino alla punta di Torno.

    A Moltrasio troviamo Villa Passalacqua, che merita una particolare attenzione. Si erge a cavallo dei due assi che dividono il promontorio di Torno e da Borgovico arriva quasi fino a Nesso. Costruita sulle pendici del monte, presenta degli splendidi giardini terrazzati collegati tra loro mediante scaloni in pietra arricchiti da statue e grandi vasi. La biblioteca conteneva all’inizio dell’Ottocento più di tremila volumi, tra cui pregiati codici in pergamena e una ricca raccolta di Storie d’Italia. Le sale sono disposte su tre piani, tra loro collegate da uno scalone monumentale decorato da un bronzo di Auguste Rodin. Ai primi dell’Ottocento nella villa era esposto l’unico originale di una testa di cavallo in marmo dello sculture milanese Monti, di cui furono fatti moltissimi gessi dall’autore. La volta ribassata del salone da pranzo è sorretta da sedici colonne marmoree in stile neoclassico; il salone è decorato da pitture monocrome di Giocondo Albertolli, che affrescò anche la sala della musica, dove Vincenzo Bellini si esibiva per amici e conoscenti.



    Sul soffitto del salone sono ancora visibili alcuni affreschi di Andrea Appiani, che per questa villa realizzò anche nel 1790 una Madonna con bambino che Bertolotti ritiene essere “degna degli antichi maestri”. Il nucleo originale della villa fu costruito alla fine del XVIII secolo sulle rovine di un antico monastero degli Umiliati per volere della famiglia Odescalchi. Nel 1787 lo acquistò il conte Andrea Passalacqua, che utilizzando anche i contributi del Soave e dell’Albertolli, trasformò l’edificio in una sfarzosa villa. Quando il conte morì la villa fu ereditata da Giambattista Lucini Passalacqua, che in età matura volle ritirarsi in solitudine a Moltrasio costituendo un ricchissimo fondo bibliotecario e intrattenendosi con artisti, letterati e musicisti, tra cui il poeta milanese dialettale Carlo Porta e il compositore Vincenzo Bellini. Tra il 1829 e il 1833 Bellini frequentò Villa Passalacqua e s’ispirò a essa per la composizione di opere quali Norma, La straniera e La sonnambula; l’ultima opera citata è legata alla figura della famosa cantante lirica Giuditta Pasta, che possedeva anch’ella una villa sul lago a Blevio in stile neoclassico, edificata dall’architetto Filippo Ferranti. Ultimi eredi dei Passalacqua furono i marchesi Negretto Cambiaso, in qualità di nipoti, che vendettero la proprietà nel 1885. Per alcuni decenni fu proprietà della baronessa Ruby von Sederhoelm. Dopo anni di declino la residenza dei Passalacqua è stata ristrutturata solo negli anni Settanta del XX secolo da Oscar Kiss Maerth ed è attualmente un centro residenziale.

    Bertolotti fa notare che il monte di Moltrasio è ricco d’ardesia con impronte di fossili marini. A quel tempo l’estrazione delle ardesie regolari costituita circa un terzo delle entrate del comune di Moltrasio. Lo scrittore ricorda inoltre la caverna sopra alla villa che conteneva alabastro venato, ampiamente utilizzato per i lavori a Villa Passalacqua.

    A Tremezzo si trova Villa Carlotta, edificata per volere del marchese Giorgio II Clerici intorno al 1690. I Clerici erano una ricca e potente famiglia lombarda con proprietà e terre a Milano e dintorni. L’ultima dei Clerici a ereditare la tenuta fu Claudia, figlia di Antonio Giorgio, il quale morì dopo aver dilapidato il patrimonio di famiglia. La marchesa, maritata al conte Vitaliano Bigli, vendette nel 1801 la villa a Gian Battista Sommariva, che allora ricopriva la carica di presidente del Comitato di Governo della Repubblica Cisalpina ed era uno dei più importanti collezionisti d’arte, in contatto con Canova, David, Girodet, Prud’hon e Thorvaldsen. Nella villa di Tremezzo Sommariva collocò parte delle sue preziose collezioni, rendendola una delle ville più famose d’Europa. Furono molte le celebrità che visitarono la villa, tra cui ricordiamo Stendhal, Lady Morgan e Flaubert. In bellezza e ricchezza d’opere d’arte la villa faceva concorrenza a quella dell’eterno nemico di Sommariva, Francesco Melzi d’Eril, che a sua volta aveva fatto costruire una residenza proprio di fronte a quella del conte Sommariva, sulla penisola di Bellagio. I due erano acerrimi nemici da quando Napoleone aveva preferito Melzi d’Eril a Sommariva, nel 1802, per l’incarico di vicepresidente della Repubblica Italiana; così Sommariva, nel tentativo di riacquisire prestigio e notorietà, iniziò a collezionare opere d’arte divenendo in breve tempo uno dei più grandi collezionisti dell’epoca.

    Nel 1843 la villa fu venduta alla principessa Marianna di Nassau, moglie del principe Alberto di Prussia; nel 1847 la villa fu donata a loro figlia Carlotta, in occasione delle sue nozze con il granduca Giorgio di Sassonia-Meiningen e d’allora l’edificio porta il suo nome. La coppia Sassonia-Meiningen vendette ciò che rimaneva delle raccolte d’arte del conte Sommariva lasciando nella villa solo alcune sculture e i grandi dipinti. I figli Bernardo e Giorgio II, appassionati di botanica, impreziosirono il giardino con rododendri, azalee, camelie, felci e palme. Durante la prima guerra mondiale ai beni di Villa Carlotta non fu applicata eccezionalmente la normativa che prevedeva il sequestro e, in seguito, con il regio decreto del 12 maggio 1927 fu costituito l’Ente morale Villa Carlotta con il vincolo di devolvere tutti gli introiti ricavati dalla vendita dei biglietti ai visitatori della villa al miglioramento del complesso. Tra le opere d’arte della collezione Sommariva che si trovano ancora nella villa ricordiamo: l’altorilievo con L’ingresso di Alessandro Magno in Babilonia di Thorvaldsen, i quattro modelli originali per le figure allegoriche dell’Arco della Pace di Milano e la Terpsychore di Canova, la cui scultura in marmo è esposta nella dimora parigina del conte. Inizialmente doveva trattarsi del ritratto di Alexandrina Bleschamps, moglie di Lucien Bonaparte, fratello di Napoleone, ma quando Sommariva ne rilevò la commissione assunse l’attuale fisionomia idealizzata per volere del conte. In questo gesso è possibile riscontrare le repère (chiodini metallici usati come veri e propri punti di riferimento) ancora intatte, caratteristica di un processo creativo tipico del Canova. Un altro capolavoro dello scultore veneto esposto nella villa è il Palamede, che l’artista fu costretto a restaurare dopo che la statua cadde nel suo studio romano a causa del cedimento del bilico su cui poggiava. L’incidente ispirò il poeta Melchior Missirini:

    Mouver veggio, e spirar l’aura primiera
    Chi di Cadmo emulò le illustri imprese,
    E ordir falangi in bellicosa schiera
    Sagacemente dagli Augelli apprese.
    Ecco la fronte nobilmente altera,
    Che dal treicio Iddio le forme prese,
    Ecco le forze della man guerriera,
    Indomita agli assalti, alle difese.
    Ma ahimè che fia? Già cade il Campion forte:
    Forse Ulisse rinnova un altro inganno?
    Tanto ancor Gelosia l’ange e divora?
    Ah no, Tu sei, crudele invida Morte,
    Che al suol lo traggi dell’eburneo scanno,
    Che redivivo lo credesti ancora!




    Conservata in villa è una replica della scultura Amore e psiche, commissionata al Canova dal principe russo Yussupoff e attualmente conservata all’Ermitage; la copia di Villa Carlotta deriva invece dal modello originale che Canova aveva donato al suo allievo prediletto, Adamo Tadolini, e che quest’ultimo eseguì tra il 1818 e il 1820 utilizzando un unico blocco di marmo di Carrara. La scultura di Tadolini fu portata a Tramezzo nel 1834, dove a lungo fu scambiata per l’originale di Canova. La villa custodisce infine L’ultimo addio di Romeo e Giulietta, realizzato da Francesco Hayez nel 1823. Riguardo a Thorvaldsen Davide Bertolotti narra che lo sculture danese fu chiamato da Sommariva quando ancora era intento a lavorare su alcuni bassorilievi al Quirinale, che Napoleone gli aveva commissionato e che rimasero incompiuti dopo la definitiva sconfitta dell’imperatore francese. Una volta Bertolotti fu ospite di Sommariva a pranzo e il giorno seguente lo scrittore volle ammirare la preziosa raccolta di miniature, smalti e gemme intagliate appartenute al Sommariva: “Il giorno seguente io passai molte ore in veder le gemme figurate ed altri preziosi lavorii, raccolti negli scrigni che il cavaliere Sommariva trasporta mai sempre con sé”. Una particolarità di Sommaria era di portare nei suoi viaggi cammei che riproducevano in miniatura opere scultoree di sua proprietà. Grosso clamore ebbe a Milano la Maddalena del Canova, che Sommaria custodiva gelosamente nella sua cappella boudoir tra tende di seta nera e luci soffuse, come riportato nel saggio di Gabriella Tassinari Incisori in pietre dure e collezionisti a Milano nel primo Ottocento.

    Accanto a Villa Sommariva si trovava, su una spiaggia sabbiosa, la Majolica o London-Hôtel, con un doppio nome per le seguenti ragioni: la prima è che fu in precedenza sede di una scuola di esperti vasai; la seconda è che nell’Ottocento i visitatori più assidui del lago di Como erano gl’Inglesi e perciò l’albergo fu intitolato in loro onore.

    Al nome della famiglia Giovio è legata anche Villa Balbiano, che Ottavio Giovio vendette nel 1596 al cardinale Tolomeo Galli conte delle Tre Pievi, poi duca d’Alvito. La costruzione originale era della fine del Quattrocento e il cardinale la fece modificare utilizzando i disegni di Pellegrino Tibaldi, detto il Pellegrino, commissionati dalla famiglia Giovio prima che il cardinale ottenesse nel 1586 la contea delle “Tre Pievi”: Gravedona, Sorico e Dongo. Nel 1778 la proprietà tornò al conte Gianbattista Giovio, che la cedette nel 1787 al cardinale Angelo Maria Durini, nunzio pontificio, cultore delle arti e delle lettere, mecenate e collezionista. Il nuovo proprietario ne ampliò i giardini, fece predisporre un viale carrozzabile ed eresse fontane e statue. Divenne la villa di delizie del cardinale e sede del suo noto cenacolo letterario; il cardinale vi trasferì la sua ricca biblioteca e le sue collezioni d’arte. Nel 1872 la villa passò a una famiglia d’industriali tedeschi, i Gessner, che trasformarono la sala da ballo in filanda, andata distrutta nel 1930. Dal secondo dopo guerra in poi la villa appartenne al barone Hermann Hartlaub di Monaco, che commissionò i lavori di restauro allo svizzero Vuillomenet. Attualmente la villa è di proprietà della famiglia Canepa. Giovio così la descrive: “Vi s’inoltri il viaggiatore e verragli incontro l’amenità, in fine poi d’esso l’orror sagro della valle e lo spruzzo quasi della Perlana saluterallo”.

    Il cardinale Durini acquistò nel 1787 un’altra residenza sull’adiacente dosso di Lavedo, da lui chiamata Villa del Balbianello, con un chiaro riferimento all’altra sua villa sul lago. Il cardinale trasformò il preesistente monastero francescano in una residenza privata; alla sua morte nel 1796 la villa fu acquistata da Giuseppe Sepolina, che volle intitolare la residenza alla sua famiglia con il nome di “Villa Sepolina”. Nell’Ottocento la villa fu residenza del conte Luigi Porro-Lambertenghi, un patriota milanese, che vi ospitò Silvio Pellico nel 1819 come precettore dei suoi figli. Successivamente la residenza passò al marchese Giuseppe Arconati Visconti; sua moglie Costanza Anna Luisa Trotti, letterata, accolse nella sua dimora Giovanni Berchet, Alessandro Manzoni e Giuseppe Giusti. Furono ospiti della villa anche il primo ministro francese Gambetta e il pittore Arnold Böcklin. All’inizio del XX secolo proprietario della villa fu il barone Hartlaub; seguì un lungo periodo di abbandono fino a che la tenuta non fu acquistata dall’ufficiale statunitense Butler Ames e nel 1976 dall’esploratore Guido Monzino, che l’arredò con pezzi d’arte e d’artigianato raccolti durante le sue tante spedizioni in giro per il mondo. Alla sua morte nel 1988 la villa fu donata al Fondo per l’Ambiente Italiano. Nella villa furono girati scene dei film Star Wars – L’attacco dei cloni e Agente 007 - Casinò Royale.

    Attraverso la lettura del libro del conte Giovio arriviamo a Villa Serbelloni, citata anche da Stendhal. L’edificio, situato sulla collina di Bellagio, è una delle ville più suggestive del lago. Il conte Giovio sostiene la teoria che, proprio in quel luogo, nell’antichità sorgesse una delle due dimore di Plinio il Giovane: la Tragedia. Giovio cita nel suo libro la lettera di Plinio a Voconio Romano (VII del IX libro), in cui si parla della villa che “coll’alta schiera del monte divideva due laghi”. Il conte fa inoltre riferimento all’iscrizione “M. PLIN…./OVF. SA…./IIII. VIR I./T. V.” che già Benedetto Giovio, umanista e antiquario del Cinquecento, aveva indicato nella sua collettanea trovarsi in quel luogo; l’altra residenza di Plinio sul lago, la Commedia, sarebbe sorta a Lenno secondo altre fonti. Nel Medioevo lì fu edificato un castello, che fu però presto abbandonato e divenne covo di briganti per la favorevole posizione a cavallo tra i due rami del lago. Nel 1375 Gian Galeazzo Visconti, padre di Filippo, fece diroccare il castello di cui rimase in piedi solo un torrione quadrato, successivamente ristrutturato da Ercole Sfondrati. Nel Quattrocento, sulle rovine del castello, fu costruita la residenza estiva di un noto umanista milanese, Daniele Birago, vescoco di Mitilene, commendatario dell’abbazia di Piona.

    Nel 1489 la residenza e gli annessi terreni divennero proprietà del marchese Stanga, tesoriere e ambasciatore di Ludovico il Moro; il marchese volle costruirvi un palazzo sfarzoso, distrutto alcuni anni dopo da un incendio, forse di natura dolosa. Giovio attribuisce l’incendio ai Cavargnoni. Le rovine di palazzo Stanga furono riedificate prima da Francesco e poi da Ercole Sfondrati, che elesse la residenza sul lago a sua dimora negli ultimi anni della sua vita, caratterizzati da grande fede religiosa; così nel 1614 sorsero anche la chiesa e il convento dei Cappuccini, mentre la collina si trasformò col tempo in un meraviglioso giardino di aranci, limoni, bossi, allori, rose, gelsomini, peri e melograni. Nel 1788 acquisì la proprietà della tenuta Alessandro Serbelloni, che ne arricchì gli interni con preziose opere d’arte del Seicento e del Settecento e gli esterni con piante ancora più pregiate come oleandri, rododendri e cedri. La villa fu ammirata da regali quali l’imperatore d’Austria Francesco I e Maria Luigia di Parma; furono ospiti dei Serbelloni Tommaso Grossi, Alessandro Manzoni e Giuseppe Parini; Gustave Flaubert la cita inoltre nel suo diario di viaggio del 1845. Nel 1903 fu venduta e trasformata in albergo; nel 1930 fu acquistata dall’americana Ella Walkner, sposa del principe Thurn und Taxi. Alla morte della principessa la villa fu donata alla Fondazione Rockfeller di New York.

    Alcune parole vanno spese poi per Villa Giulia, che congiunge i due bracci del Lario tra Lecco e Bellagio. Il suburbano è caratterizzato dalla splendida doppia facciata e dallo scenografico ingresso che parte dalla scalinata del borgo di Loppia. Dedicata dal conte Pietro Venini alla moglie, fu inizialmente la casa di villeggiatura della famiglia Camozzi (o Camuzj). I lavori di edificazione, terminati nel 1806, furono lunghi e dispendiosi; il conte Giovio ne apprezza particolarmente la sala dipinta dagli ultimi Bibiena: “Se fosse dato di verderla a quel gentile spirito del Conte Francesco Algarotti, non diria egli già, che in quelle prospettive ed architetture vi si passi il limite del vero e del verosimile”. Dopo il conte Venini il successivo proprietario fu Leopoldo I, re del Belgio, che amava la quiete del lago. Alla morte del sovrano, nel 1865, la villa divenne per un breve periodo un albergo di lusso; uno dei visitatori, il barone Gay, banchiere polacco, l’acquistò per permettere alla moglie malata di tisi di soggiornare in un luogo dal clima mite. Alla morte della baronessa la villa fu venduta al nobile romeno Enrico Kirakirschen. Davide Bertolotti nel suo libro apprevva particolarmente gli splendidi giardini pensili.

    Insieme al conte Giovio arriviamo a Villa Melzi d’Eril, impreziosita da pitture e affreschi di Appiani. Davide Bertolotti narra nel suo libro che davanti alla villa è necessario chiarirsi le idee sul suo proprietario, prima di entrarvi: “che taluno mi avea dipinto con il più illustre de’ moderni Italiani, e tal altro come ligio all’ambizione, servo del potere e sovente zimbello di astuti raggiratori”. Si tratta di Francesco Melzi d’Eril, nominato duca di Lodi da Napoleone, per il quale ricoprì la carica di vicepresidente della Repubblica Italiana dal 1802; dal 1805, con la proclamazione del Regno d’Italia, divenne cancelliere dell’Impero. I lavori d’edificazione della villa costarono un milione di lire, una cifra esorbitante per l’epoca. Lo scultore a cui il duca commissionò molte opere fu Giovanni Battista Comolli, autore anche del monumento funebre del Melzi, mentre i dipinti della villa furono per la maggior parte realizzati da Giuseppe Bossi, che trascorse in questa villa il suo ultimo anno di vita dipingendo. A testimonianza della presenza del pittore nella villa una lettera datata 10 gennaio 1815 scritta dall’Albertolli e indirizzata a Bossi sullo stato dei lavori di decorazione.

    Nel giardino, pieno a quel tempo di rare piante esotiche, si trova una statua con Beatrice che conduce Dante in paradiso e un busto di Vittorio Alfieri, entrambi realizzati da Comolli. È proprio il giardino all’inglese sulle rive del lago a introdurre la villa; arricchito da monumenti e cimeli, tra cui un’originale gondola veneziana, voluta da Napoleone, e due statue egizie; rare piante esotiche, alberi secolari, camelie, azalee e rododendri giganti, il giardino di Villa Melzi è un unicum nel suo genere, progettato dall’agronomo Luigi Villoresi e da Luigi Canonica. Il viale alberato che conduce alla villa è costeggiato da platani tagliati a ombrello per dare refrigerio dal caldo, un tipo di potatura in uso a quei tempi sul lago di Como. L’edificio fu costruito tra il 1815 e il 1820 su progetto di Giovanni Albertolli, in stile direttorio; appoggiata alla parete esterna a nord si trova la porta dell’antica casa Melzi di Milano, attribuita al Bramante, insieme a una lapide di famiglia. Davanti al portale si può notare un fregio in pietra del 1200 con i simboli dei quattro evangelisti. Gli ospiti illustri furono molti; qui citiamo l’amico e viceré Eugenio de Beauharnais con la moglie Agusta, l’imperatore e l’imperatrice d’Austria Ferdinando I e Marianna nel 1838, scortati dal principe Metternich, nonché la zarina di Russia Maria Feodorovna, che visse come abbiamo visto a lungo a Villa d’Este. Era solito passeggiare a lungo nel parco della villa anche Franz Litz, ospite nella villa presso un tempietto in stile arabo. Si crede che proprio lì molte delle sue composizioni abbiamo visto la luce, come la Sonata a Dante.

    Il giardino incantò perfino Stendhal, che in Rome, Florence et Neaples ne descrive la sua bellezza e i suoi monumenti. Vent’anni dopo lo scrittore francese citerà tali luoghi nella Certosa di Parma. Fino all’arrivo dell’ultima erede che abitò nella residenza, Joséphine Melzi d’Eril Barbò, che modificò le sale della villa secondo la moda dannunziana, lo stile della villa fu quello voluto dal duca Francesco. I Gallarati Scotti successero ai Melzi; Ludovico Melzi sposò Joséphine Barbò, da cui ebbe due figlie; una di loro si unì in matrimonio con Giancarlo Gallarati Scotti, principe di Molfetta, ricongiungendo così le proprietà dei Melzi al patrimonio della famiglia del marito.

    Legata al nome dei Melzi è anche la settecentesca villa dei Barbò marchesi di Soresina, i quali, quando la proprietà passò a Pompeo Musa ai primi del Novecento, portarono via il cancello d’entrata con in alto lo stemma del casato. Il nuovo proprietario fece fare una fedele copia del cancello con una vistosa “M” posto dello stemma dei Barbò.

    Passiamo rapidamente poi a Villa Ciceri, che il conte Ignazio Caimo utilizzò per molti anni come residenza di villeggiatura, suo figlio Carlo Ciceri fu vescovo sotto Innocenzo XI e poi cardinale. Seguita da Villa Taverna, elegantissima, situata al livello del lago, tanto che le onde delle acque agitate vi s’infrangevano sopra.

    Villa Trotti, in prossimità di Villa Ciceri, aveva la particolarità di far specchiare i suoi giardini nel lago; a proposito di questi giardini dice il conte Giovio:

    Nè duolmi punto, che tal giardino sia della foggia antica, perciocchè quando lo spazio non sia vastissimo, l’anglomania d’imitar coll’arte la natura ci riduce sempre a sforzi meschini, e un gobbo quindi nel giardino s’appella collina, e foresta un piccolo intralcia mento di rami, fra quale si lascia germinare l’ortica e il cardo.

    Davide Bertolotti invece si sofferma nel suo libro sul nome della villa, indissolubilmente legato a quello di Paola Trotti, decantata dal Minozzi in Delizie del Lario:

    TROTTA, ben voi di Trotta il nome aveste
    Che in voi di Trotta ogni gran pregio è nato;
    Quella il bel sen di candidezza veste
    E ‘l petto Voi d’uno splendor beato;
    Quella è pesce sovrano, e Voi celeste;
    Gran nuoto ha quella, a Voi gran senno è dato;
    Quella d’acque dolcissime si pasce,
    In Voi d’Amore ogni dolcezza nasce.
    Quella di belle macchie ornato ha ‘l dorso,
    Ornata voi di mille fregi siete;
    Quella ferisce con pungente morso,
    Voi con dardi d’amor l’alme pungete,
    Quella mentre il cielo arde, ha freddo il corso,
    E Voi nel foco altrui fredda vivete;
    In ambe un sol divario avvien ch’io veda;
    Predatrice Voi siete, e quella preda.


    Scopriamo ora la Pliniana a Torno: “il rumor della spumante acqua ne invita, e il nobile edifizio, e più il miracol del fonte venerabile per la memoria, che ne fecero i nostri due Plinj”. La villa, citata da Shelley e Stendhal, porta questo nome perché sembra che qui sorgesse nell’antichità la dimora di Plinio il Vecchio e Plinio il Giovane e perché in questo luogo si sarebbe trovata la fonte da loro descritta. Il 27 giugno 1813 A. L. Castellan sostenne l’incontrovertibilità di questa tesi con un articolo sul Monitore francese. L’edificio originario fu costruito nel 1573 dal conte Giovanni Anguisciola o Anguisola, governatore di Como per Filippo II di Spagna nel 1570, come descritto nel Compendio delle Croniche di Como del Ballarini, scritto nel 1619. In quegli anni correva voce che fosse uno dei quattro piacentini che gettarono dalla finestra il duca Pier Luigi Farnese, figlio del pontefice Paolo III, nel 1547. Così egli si ritirò a vita privata nella sua villa sul lago. Quando il conte fu ucciso da un sicario nel 1579, il palazzo passò al nipote Giulio, marchese Pallavicini, che lo vendette al conte Fabio Pirro Visconti Borromeo nel 1590. Il conte cercò di rinnovare il suburbano, ma i suoi eredi non seguirono il virtuoso esempio e la tenuta entrò in disuso. L’acquistò il marchese Francesco Canarisi nel 1676, che portò la villa al suo massimo splendore. Tra il XVIII e il XIX secolo fu tappa di politici e artisti: Giuseppe II, Napoleone, Stendhal, Alessandro Volta, Bellini, Rossigni, Byron, Foscolo e Fogazzaro, che ivi trasse l’ispirazione per il suo romanzo Malombra, da cui poi fu tratto il film di Mario Soldati del 1942 girato nella villa stessa. Ai primi dell’Ottocento acquistò la villa il principe Emiliano Barbiano di Belgioioso, che la riportò agli antichi splendori. Il principe convolò a nozze nel 1824 con la principessa Cristina Trivulzio, animatrice di salotti politici e letterari. Dopo il fallimento del loro matrimonio, Cristina, politicamente impegnata nei circoli mazziniani, si trasferì a Parigi per la causa politica. Il principe Belgioioso tra il 1843 e il 1851 ebbe una relazione clandestina con Anna Berthier, principessa di Wagram e moglie del duca di Plaisance.

    Nel 1843 i due amanti fuggirono a Parigi con grande scandalo nelle corti e nei salotti europei. La villa, dove i due consumarono la loro passione, può essere considerata il simbolo della cultura romantica dell’epoca. La Pliniana richiamava a sé l’elite di nobili lobardi del tempo: Melzi, Sommariva, Arconti e alcuni ferventi patrioti come Carlo Bellerio. Massimo d’Azeglio faceva tappa alla Pliniana sulla via per la sua residenza di Loveno; a lui il principe Belgioioso aveva espresso forti preoccupazioni per il radicalismo dei carbonari e dei mazziniani. Dopo i moti del ’48 la Pliniana tornò a essere luogo di eventi mondani, ma terminata anche la relazione con Anna Berthier il principe si ritirò a vita privata trascorrendo le giornata a curare il suo giardino. Dopo la morte del principe la villa divenne proprietà del marchese Lodovico Trotti-Bentivoglio, genero della defunta Cristina Trivulzio, e nel 1890 ai Valperga di Masino, che prima di rivenderla trasferirono gli arredi nelle stanze del castello di Masino, in Piemonte, ora proprietà dal F.A.I. Il conte Giovio ne esalta la bellezza dei viali ricchi di faggi, pioppi e castagni e si rammarica che nel giardino non si possa più ammirare la statua di Milone Crotoniate descritta dal Boldoni. Nel mezzo del giardino sta ancora la famosa fonte descritta da Plinio il Giovane a Licinio, che è riportata in latino e in italiano sotto il portico dorico. Lo scienziato spagnolo Gimbernat soggiornò nel 1817 alla Pliniana per quaranta giorni al solo scopo di osservare il particolare flusso e riflusso della fonte, che Plinio attribuiva a venti sotterranei; i suoi studi furono poi pubblicato negli atti dell’Accademia di Monaco. Dietro alla fonte si trova la loggia, le cui porte d’accesso sono sormontate da quattro timpani spezzati, che in origine contenevano i busti di Carlo V, di Filippo II, dell’Anguissola e di sua terza moglie, Delia Spinola. Non v’è più traccia neanche dell’antico marmo di scuola canoviana raffigurante Giotto pastorello nell’atto di ritrarre una pecora, che originariamente era esposto nel salone, dove erano conservati anche il piccolo stipo che Napoleone nel 1797 aveva donato ai padroni di casa come ringraziamento per la loro accoglienza e il pianoforte su cui Rossini compose in soli tre giorni l’opera Tancredi.

    A Torno si trovano appunto i giardini del canonico Canarisi colmi di limoni, sopra cui si trovavano quelli dei Tridi e del Ruspino, che aveva potuto acquistare quei terreni e altri ancora grazie alla fortuna fatta in Russia.

    Arriviamo poi alla Perlasca, o Villa Tanzi, in cui Leopoldo II si fermò a pranzo nel 1791 e dove all’inizio dell’Ottocento tutti i viaggiatori desideravano mettere piede. La peculiarità di questa tenuta era un’enorme pianta di gelsomino e una rigogliosa magnolia. Ancora una volta il conte Giovio spende qualche parola per gli splendidi giardini: “L’allegria e il gusto dei giardini v’attirano i curiosi. Avvi senza stento una idea delle vaghezze Inglesi e Cinesi. Spuntan dagli scogli gli aloè, i varj arbusti americani. I mirti e gli oleandri non vi temono il freddo”. Il conte Giovio rimane colpito poi dal casino detto La Roda, all’interno della tenuta dei Tanzi, che all’inizio dell’Ottocento apparteneva a madame Ribier con un bel frutteto, un viale di tigli e di platani e un comodo porto. L’ammirazione di Bertolotti va invece alla grotta di sculture “ove una perlata luce entra a traverso di sottili lastre d’alabastro: e di là uscendo, per ameni sentieri, ombreggiati di allori e di altre piante ognor verdi, ci conducemmo per l’erto sino al simulacro di fortezza ch’è in alto”. La vista che si può godere dalla loggia del fortino è mozzafiato. Scendendo sulla via del ritorno troviamo colonne, iscrizioni e piramidi inframmezzati da gigantesche aloe. Sul luogo dove ora sorge la Perlasca si trovava un antico castello, distrutto da un incendio, e simbolo delle lotte intestine tra i signorotti della zona. Nel 1545 gli Odescalchi possedevano su quel terreno una residenza, acquistata dai Canarisi. Nel 1787 Antonio Tanzi fece costruire l’attuale villa, dove l’abate-poeta Giuseppe Parini soggiornò spesso. La villa fu poi venduta ai conti Taverna, che la ristrutturarono nell’attuale forma a ferro di cavallo. Tra gli ospiti dei Taverna ricordiamo: il granduca di Toscana Leopoldo II, il principe von Bülow, Cristina di Belgioioso, il figlio del cancelliere Bismarck e Laura Acton, moglie del presidente del Consiglio Marco Minghetti.

    A Blevio si trova Villa Sannazzaro, così chiamata dal nome della contessa che vi soggiornava ai tempi di Giovio. La villa fu fatta costruire dove una volta sorgeva il casino Versaglia di Pasqual Ricci, maestro di cappella a Como. Il conte Giovio apprezza anche in questa villa il delizioso giardino all’inglese con un folto boschetto che ripara dal sole anche nelle ore più calde, con cedri e un viale sulla spiaggia. La villa fu dei nobili Avogadro, che nel 1770 la cedettero ai Ricci, che a loro volta la rivendettero a Carlo Vertemate, che la vendette ancora a donna Maddalena Imbronati, vedova del conte Sannazaro, nel 1804. Manzoni e Porta furono ospiti della villa, che la colta e intelligente proprietaria teneva con raffinato gusto.

    A Blevio abitava ai tempi di Giovio il sig. Altaria, un famoso editore specializzato in musica e stampe in rame che visse a lungo a Vienna.

    Da Blevio ci spostiamo a Geno, dove il conte Giovio fa soffermare il lettore su un edificio di recente costruzione, Villa Menafoglio Ghilini, acquistato dalla marchesa Cristina Menafoglio Ghilini, che l’acquistò i terreni nel 1790 dall’Ospedale di Como, che aveva utilizzato quel luogo nel 1630, durante la peste, come lazzaretto. Sulla proprietà si trovava anche un chiostro di Umiliate, che la marchesa fece buttare giù durante i lavori scoprendo una lapide con triplice iscrizione, che fece credere che nel luogo fosse sorta nell’antichità una villa romana. In seguito la lapide fu attribuita al periodo del consolato di Flavio Cecina Basilio nel 436.

    A Geno invece Bertolotti è colpito da Villa Cornagia, “ove una ridente cedraja di lunata forma e colorata in rosso si attrae piacevolmente lo sguardo”. La villa si trovava accanto al cimitero, tristemente noto durante la peste. Ecco la descrizione di Boldoni del lazzaretto:

    Patrum nostrorum memoria, cum peste laboraretur, ne contagiose urbs tota vitiaretur, Comenses huc œgrotos a frequentiori cœtu ablegatos ad curandum mittebant, pendentque adhuc ruinœ ingentes earum œdium, in quibus et affecti ac tacente et ipsi etiam suspecti servabantur.


    Il nostro viaggio per le sponde del lago di Como sta per giungere a termine; vogliamo ora citare due residenze che hanno legami con la Russia: il casin del Sasso, che fu abitato dai fratelli Arnaboldi, di cui ricordiamo Cristoforo, noto sopranista che cantò a Venezia dal 1775 al 1779, a Vienna per poi trasferisci a San Pietroburgo fino al 1786; durante il suo soggiorno russo si arricchì con la compravendita di pezzi d’arte e sfruttando la sua conoscenza di gemme e cammei, che acquistava in Italia per poi rivenderli nella capitale zarista.

    Successiva alla pubblicazione del Viaggio di Giovio è Villa Troubetzkoy a Blevio, costruita verso il 1850 dall’omonimo principe russo, sposato con una delle figlie della nota ballerina Marta Taglioni; il principe era emigrato in Italia dopo sei anni di lavori forzati in Siberia, a cui era stato condannato da Nicola I per tentata insurrezione. Per eliminare rapidamente le rocce che si trovavano sulla riva che il principe aveva scelto per edificare la villa-chalet, fece esplodere diverse mine, da qui il soprannome di principe “Turbascogli”. Gli attuali proprietari della villa sono i signori Pozzi di Milano.

    La descrizione del conte Giovio degli splendori architettonici del lago di Como si conclude con il suburbano della Gallietta del cavalier Flaminio della Torre di Rezzonico, così chiamato in onore del primo proprietario che lo fece erigere nel 1615, l’ecclesiastico Marco Gallio. La leggenda vuole che anche qui sorgesse la residenza di Plinio il Giovane nell’antichità e di Paolo Giovio nel Cinquecento. Dai Gallio passo ai Rezzonico, originari di Como, la famiglia da cui proveniva Clemente XIII, papa dal 1758 al 1769. L’ameno suburbano fu acquistato dalla famiglia Giovio all’inizio dell’Ottocento. La villa passò poi ai Fossano nel 1772 e in seguito al nobile milanese Gaetano Bellotti, che aveva sposato Teresa Crivelli Visconti. Mossi da sentimenti anti-austriaci i due organizzavano nella villa incontri segreti tra patrioti. La proprietà passò ancora in mano ai baroni Leonino e nel 1901 ai signori Crespi di Milano. Nel 1957 l’Amministrazione Provinciale di Como l’ha acquistata. Originariamente fu un chiostro di eremiti con un affresco che rappresentava l’apparizione del Redentore a S. Agostino vestito da pellegrino. il conte Giovio scoprì che l’affresco era una copia della nona tavola del libro pubblicato nel 1624 su Sant’Agostino con le incisioni di Scheldt Bolswert. Le sale della villa furono affrescate dal Morazzone.

    Chiediamo al lettore di perdonarci se, per seguire le pagine del conte Giovi, siamo stati costretti a tralasciare ville quali Villa Val Scura, edificio di fine Settecento, residenza del feld-maresciallo austriaco, conte Radetzky. Il 27 ottobre 1845 lo zar Nicola I fece visita all’ufficiale austriaco, come testimoniato dalla targa bronzea sul viale del parco della villa. Successivamente fu di proprietà della famiglia milanese Borletti, mentre attualmente è un condominio.

    L’altra villa dimenticata da Giovio è Villa Da Riva, edificata dove, pare, sorgesse la casa di Pantero Pantera, capitano delle galee pontificie di Clemente VIII, che la volle costruire nel 1617. Fu poi dei Cattaneo e nell’Ottocento divenne proprietà degli editori musicali Tito e Giulio Ricordi. Si succedettero ancora i De Bayet e i Da Riva, noti cotonieri. La signora Bianca Ramponi Da Riva donò la villa all’Istituto Angelicum di Milano, ma nel 1890 fu di nuovo acquistata da un’immobiliare. Oggi l’edificio è gestito da un ente religioso ed è centro di accoglienza per ragazze madri.




    Riferimenti bibliografici:

    Amoretti, C. (1801). Viaggio da Milano ai tre laghi Maggiore, di Lugano, e di Como. Milano, presso Giuseppe Galeazzi.
    Bertolotti, D. (1821). Viaggio al lago di Como. Como, presso Carlantonio Ostinelli.
    Cantù, C. (1847). Guida al lago di Como ed alle strade di Stelvio e Spluga. Como, pei figli di C. A. Ostinelli.
    Giovio, G. B. (1817). Viaggio pel lago di Como di Poliante Lariano. Como, presso Carlantonio Ostinelli.
    Porta Musa, C. (2008). “Una magica giovinezza in un piccolo borgo antico.” La provincia di Como. 20/08/2008.
    www.laprovinciadicomo.it/stories/Cu...ettacoli/26858/.
    Perpegna, A. (1828). I paesi del lago di Como in nuova foggia descritti [...]. Milano, co' tipi di Francesco Sonzogno q.m G.B.
    Alcune delle informazioni sono tratte dal sito dei Beni Culturali della Lombardia – Percorso tematico “Ville storiche sul lago di Como”.

    www.instoria.it/

    Edited by gheagabry - 19/7/2013, 20:46
     
    Top
    .
  6. gheagabry
     
    .

    User deleted


    VILLA DE' VECCHI




    Le leggende raccontano che fuori dai cancelli della villa, alcune sere, si possa udire il suono di un pianoforte. Ma la casa, come in un horror movie che si rispetti, è completamente disabitata. C’è chi è entrato, a suo rischio e pericolo, e mentre scattava alcune fotografie giura di aver visto nell’obiettivo figure inquietanti. Villa de Vecchi, un’imponente casa abbandonata a Bindo di Cortenova, nel Lecchese, è un mistero. Chiunque transiti per la strada provinciale della Valsassina, nelle vicinanze della galleria costruita per attraversare la montagna franata undici anni fa sul paese montano, può osservarla in mezzo a un grande parco, ma solo trattenendo un brivido lungo la schiena. Se di giorno la grande casa diroccata non fa alcun effetto, di notte solo i più coraggiosi entrano nel parco e i più incoscienti fanno un giro all’interno delle mura che non cadono per miracolo.
    Costruita nel 1858 dall’architetto Alessandro Sidoli per conto di Felice de Vecchi, conte a capo della Guardia nazionale che prese parte alle Cinque giornate di Milano, da decenni è in stato di abbandono, tanto che sono fiorite leggende su fantasmi e presenze inquietanti che sono uscite dalla Valsassina e persino dai territori nazionali. E così, dieci giorni fa, le foto della villa sono state pubblicate dal seguitissimo sito internet statunitense Buzzfeed, un colosso digitale da 40 milioni di click al mese, accanto ad altre sei case stregate selezionate in tutto il mondo. «Situata sui monti ad est del lago di Como, in Italia, la barocca “Villa de Vecchi” è conosciuta localmente come la Villa dei Fantasmi – si legge su Buzzfeed – L’edificio è abbandonato da anni ed è stato presumibilmente la scena di un omicidio o suicidio». Di storie per gli amanti del brivido ne circolano molte sulla casa, circondata da anni da un alone di mistero.
    Ma se il passato è glorioso, il futuro risulta più che mai incerto.
    (Fabio Landrini, il giorno.it)



    ..la storia..

    Nella storia del Risorgimento spicca più volte il nome di Felice De Vecchi patriota milanese che si fregiò del vanto di essere nominato Capo della Guardia Nazionale - titolo che fece crescere in lui l’amore per la sua nazione, per il suo territorio e per le bellezze naturali tanto che dopo parecchio viaggiare decise di fermarsi a Bindo in località Campiano e, con la collaborazione dell’architetto Alessandro Sidoli, disegnò quella che poi sarebbe diventata la Villa de Vecchi, un capolavoro sotto tutti gli aspetti.

    I lavori di costruzione iniziarono indicativamente nell’anno 1854, parte della villa fu costruita in arenaria rossa reperibile sul luogo, pietra che ha dato il nome al vicino torrente “Rossiga”: affreschi, pavimenti alla veneziana anch’essi in pietra rossa, inferriate, balaustre e tutto ciò che rifiniva la splendida villa venne posato nell’estate del 1856, anno in cui sono terminati i lavori di costruzione primari. Le opere di rifinitura si conclusero nella primavera del 1857 ma il proprietario si trasferì nella villa già nell’estate prima infatti, in uno dei tondi sopra le porte d’entrata si legge come anno di costruzione 1856; negli anni successivi venne realizzato attorno alla villa un bellissimo parco con essenze provenienti da varie parti del mondo ma anche noccioli selvatici , castagni, gelsi e piante locali tutte posizionate con molta cura tentando di riprodurre il più possibile la natura. Nel parco sono presenti anche vari esemplari di Abete Rosso alcuni inclusi oggi nell’elenco degli alberi monumentali d’Italia (il più grande ha una circonferenza al tronco di oltre tre metri ed un’altezza di ben 50 metri).



    La villa conobbe il massimo del suo splendore nei primi anni dopo la sua costruzione; nel settembre del 1860 dopo la battaglia di Magenta che sancì la definitiva sconfitta degli Austriaci, per festeggiare la vittoria venne organizzata nel parco d’ingresso una cerimonia particolare. Si trattava del dono da parte di De Vecchi, come raccontano le cronache del tempo, di “una ricca bandiera nazionale di seta, ornata di due fasce trapunte d’oro e di quattro nappe filettate pure in oro”. Questa bandiera venne benedetta solennemente il 23 settembre al cospetto delle Guardie Nazionali e di moltissima gente giunta nello spazio antistante al parco; grande sfarzo, lusso e patriottismo giravano intorno alla fantastica villa.
    L’architetto Sidoli morì prima di veder completato il suo capolavoro e anche Felice De Vecchi morì pochi anni dopo, esattamente nel 1862 ad appena 46 anni, potendosi così godere davvero poco la sua nuova dimora in Campiano. Tra i primi eredi appare il nome del fratello Biagio che dimorò per pochi anni nella villa di Felice, poi negli annali appare il nome di Giuseppe De Vecchi. Per dare un’idea del valore della villa e di tutto ciò che la circondava secondo una stima fatta a fini fiscali nel 1865 la sua valutazione era di 44.063 lire.



    Gli eredi De Vecchi trascorsero le estati nella villa fino agli inizi degli anni '40 del novecento per poi lasciarla all’abbandono per quasi vent’anni quando fu venduta alla famiglia Medici di Marignano. Nel frattempo il parco e la villa entrarono a far parte di una legge del 29 giugno 1949 che tutela le bellezze artistiche italiane, vincolo che protegge sicuramente l’integrità di alcune opere architettoniche ma che, rendendo difficilissimo e burocraticamente quasi impossibile il restauro, ne determina la fine e scoraggia qualsiasi tentativo di recupero. La villa negli anni passò più volte di mano fino ad essere venduta a metà degli anni ottanta a tre famiglie di Cortenova.
    Purtroppo il tempo, le condizioni atmosferiche e, ancor peggio, i vandali hanno rovinato per sempre il capolavoro dell’architetto Sidoli; dalla fine degli anni ottanta a oggi le condizioni della Villa peggiorano giorno dopo giorno, parti del tetto sono crollate così come alcune ringhiere interne, tutti i dipinti sono scomparsi, e alcuni notevoli cedimenti strutturali non lasciano ben sperare sul futuro della De Vecchi.



    La villa De Vecchi a Campiano era un capolavoro, il frutto delle menti estrose dello stesso De Vecchi e dell’architetto Alessandro Sidoli, eclettico architetto milanese, nato nel 1812 e morto nel 1855, non potè infatti veder finito il suo miglior lavoro a Cortenova, partecipò e creò molte altre opere e prese parte al concorso per la realizzazione dl cimitero monumentale di Milano - purtroppo senza successo ma è nella Villa De Vecchi che Sidoli mette tutto il suo estro riuscendo ad esprimersi al meglio.
    A partire dal disegno originale alla realizzazione la sinergia tra DeVecchi e Sidoli è quasi palese, soprattutto ammirando la villa negli anni di maggiore splendore; una sinergia che obbligatoriamente prende spunto dall’ambiente circostante, dalla natura, dalle mani esperte dei costruttori locali e dal genio dei due progettisti.



    Genio indiscusso anche se davvero poco noto quello di Sidoli che a metà del 1800 fornì la villa di un sistema di riscaldamento a caldaia molto simile agli attuali caloriferi che sfruttando dei tubi all'interno dei muri scaldava buona parte della casa. Logicamente il passare degli anni e la mancata manutenzione fecero sì che i tubi rompendosi rilasciassero acqua all'interno dei muri, cosa che contribuì al degrado strutturale della villa. Tra le varie brillanti idee un passavivande portava cibi e quant’altro dalle cucine ai piani superiori con lo stesso meccanismo dei moderni ascensori, la fontana all’esterno sparava acqua a pressione altissima semplicemente utilizzando il pendio della montagna: soluzioni all’avanguardia che sono andate distrutte con gli anni.

    La villa ha un pianta irregolare con parecchie stanze per piano, divisa su tre livelli al quale doveva aggiungersene un quarto a forma di torre mai realizzato; tutta affrescata e ricca di ornamenti che raccontano scene di guerra ma anche viaggi e immagini più locali e montane, ornamenti che negli anni sono stati tutti rubati da vandali o mangiati dal tempo che inesorabilmente sta cancellando questa fantastica traccia di genialità in Valsassina.
    Una villa senza eguali, atipica, in grado di disarmare i turisti ed i nobili che ci passarono molte estati e che disarma ancor oggi chi vede un esempio così unico di architettura risorgimentale e geniale distrutto dal tempo ma soprattutto dall’indifferenza delle persone.
    (Diego Invernizzi - 31/03/2010)

    LA CASA DEL CUSTODE




    Guardando in faccia la Villa De Vecchi a Cortenova non si può non notare sulla sinistra verso Bindo la casa del custode, ciò che rimane di una bella costruzione in stile montano molto segnata dagli anni, forse molto più malmessa della villa stessa nonostante sia stata abitata per molto più tempo, dalla famiglia Negri, fino dopo la metà del secolo scorso.


    la casa del custode in una foto nel suo aspetto originale e oggi (immagine tratta dal libro "Villa De Vecchi, riscoperta di un capolavoro)

    Il cascinale fu costruito indicativamente durante l’anno 1860 seguendo le indicazione del conte tratte dai suoi viaggi in medio oriente; la famiglia del custode ci si trasferì appena furono conclusi i lavori, prima era ospitata in un'ala al pian terreno della villa. a costruzione non nascondeva uno spiccato stile arabo: negli archi del porticato, nel disegno delle finestre, nell’intonaco esterno a righe ma soprattutto nella cupola tipica delle costruzioni orientali religiose. Basta poco per immaginare lo stupore di chi transitando sulla mulattiera tra Bindo e Cortenova, immerso nel verde e nelle montagne, si trovasse davanti ad una costruzione in tutto e per tutto araba. Alla fine del 1800 sia per ragioni strutturali che per ragioni estetiche gli eredi ristrutturarono il cascinale cancellando ogni traccia di arabismo: furono costruiti annessi alla casa del custode una scuderia per i cavalli, un fienile, una legnaia con laboratorio e, a testimonianza del rinnovato amore per la patria della famiglia De Vecchi, veniva collocata davanti alla cascina un’asta portabandiera alta oltre venti metri. Durante il restauro inoltre venne demolita definitivamente la cupola e vennero "occidentalizzate" sia le finestre che l’esterno del cascinale nonché reintonacato tutto l’edificio con decorazioni in finto legno. Il tetto venne rifatto in pietre, uno stile montano sicuramente consono al luogo anche se la trasformazione ha cancellato per sempre lo stile, il genio e l’ecletticità dei suoi realizzatori originali.



    Il cascinale fu abitato fino ad oltre la metà del secolo scorso dalla famiglia Negri - custodi della villa da generazioni. Appena anch’essi lasciarono Campiano pure la casa del custode finì a poco a poco in rovina: in parte per crolli che già poco dopo la sua costruzione crearono non pochi problemi ai De Vecchi, sia per l’opera dei vandali che, senza rispetto né compassione, hanno imbrattato e semidistrutto anche la Villa.
    (Diego Invernizzi - 30/03/2010)





    www.valsassinanews.com/

    Edited by gheagabry - 24/1/2014, 20:21
     
    Top
    .
  7. fasanotto
     
    .

    User deleted


    stupenmde
     
    Top
    .
6 replies since 29/4/2012, 11:53   2970 views
  Share  
.