AFGHANISTAN

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    Afghanistan



    scatto di Kevin Frayer / Ap Images

     
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    L'AFGHANISTAN


    Regione dell' Asia centro meridionale, l' Afghanistan con il suo clima secco, rigidissimo in inverno e torrido in estate, e con la sua natura prevalentemente desertica e montagnosa, è un paese arido. Privo di sbocchi sul mare è attraversato da una delle più alte catene montuose del mondo l' Hindu Kush e solo un quinto del territorio è coltivabile anche grazie ad un buon sistema di canali d'irrigazione. Oggi prevalgono le macerie sulle colture che furono di grano, orzo, riso, mais, semi di cotone, frutta e soprattutto cedri e poco resta anche degli antichi monumenti lasciati dalle civiltà che l'abitarono.
    Il territorio del paese è dominato dai monti, oltre il 49% della superficie totale è situata ad un'altitudine superiore ai 2000 m. Nella parte orientale del paese le vette superano i 7000 m s.l.m., la vetta più elevata è il monte Nowshak (7.485 m), le elevazioni diminuiscono muovendosi verso ovest, nei pressi di Kabul le vette sono comprese fra i 4500 e i 6000, più a ovest fra i 3500 e i 4000, L'altitudine media dell'Hindukush, che si estende per 996 km da est a ovest per una larghezza di circa 240 km, è di 4500 m. Le montagne sono solcate da numerosi passi (kotal) tradizionalmente punti di transito delle carovane. Il passo principale è il Kotal-e Salang (3.878 m sl.m.) che collega Kabul con l'Afghanistan settentrionale, nel 1964 è stato ultimato un tunnel (Salang Tunnel a 3363 m) che ha notevolmente ridotto i tempi di viaggio necessari per raggiungere il nord del paese. Le montagne sono perlopiù spoglie o con rari alberi e arbusti. Le foreste, limitate alle regioni orientali del Nuristan e di Paktiya, coprono circa il 2,9% del territorio del paese. Le foreste del paese hanno subito anni di disastroso sfruttamento, secondo una stima del 1996 della FAO dei 4,7 milioni di acri di foreste esistenti prima del 1979 ne rimangono poco meno di uno.


    Il tempo sembra avere il ritmo delle nostre emozioni. Un’intera giornata sulla via del nord, verso il confine uzbeko. Kholm, crocevia di strade e commerci, è alle spalle. Sale la brezza sul far della sera e sgomento sul volto di Ismail. L’autista kuci. Non è la pista per Mazar-I-Sharif. L’improvvisa notte costringe ad accamparci nel bosco. Il fiume scorre con lo stesso quieto bisbigliare delle fronde dei pioppi. Piatto, fresco e senza inquietudini. Poi, il silenzio assoluto.
    Due, alti come minareti. Sciabole in vita, coperti da tuniche nere e dal chadri che lascia intravede una pelle arsa dal sole e tracce d’avventura. “Predoni afgani”, sussurra Ismail. Poi tace. Non può, non deve più parlare. In certi casi il pericolo tratta con l’emozione e aguzza l’ingegno: “Ma italiai hastam, mirim Mazar-I-Sharif, ma mehmane shoma hasmm” (Siamo italiani e andiamo a Mazar-I-Sharif, siamo vostri ospiti e vorremmo essere protetti). Solenni parole di profeti e deserti anche per uomini dal pensiero senza eco e dalle inutili glorie. Sacro e profano per non ferire il cuore e ingannare l’orgoglio. Una manciata di dollari in cambio di protezione. Magici effetti intorno al falò in un bosco afgano. Una notte di sguardi in compagnia di briganti. Esmeto ci e (qual è il tuo nome), non mi risponde. Un solo gesto della mano dal petto alla fronte in segno di rispetto. Non voleva darmi l’anima, quella non si compra. Lasciamo il bosco, il fiume e quegli uomini usciti da una fiaba. Entriamo nella Battriana, provincia a nord dell’Afghanistan. Un deserto senza orizzonti battuto da un vento caldo e sabbioso, villaggi d’argilla fino a Mazar-I-Sharif.
    La città, a 50 chilometri da Termiz confine uzbeko è un fermento di suoni e colori, mercanti e mestieri che gravitano attorno alla moschea Hazrat dove è sepolto Alì, cognato di Maometto. Mura, cupole e minareti dolcemente irregolari e rotondeggianti. Per secoli, Mazar-I-Sharif ha vissuto all’ombra dell’antica Balkh. Da anonimo villaggio a città frenetica dove convivono etnie fuggite dall’est del paese. Gente indoeuropea mescolata con stirpe mongola. Crogiolo unico e trambusto di vita cittadina. Fuori le mura, un rosario di villaggi. Grezze, imperfette geometrie di mattoni di sabbia. Sulla rotta di grandi conquiste, di condottieri ed eserciti, lungo le linee impalpabili della Via della seta, si snoda la pista di sabbia per Balkh.
    Un accampamento di nomadi. Donne senza il velo, lunghi vestiti e pantaloni colorati. Al collo vistose gol, collane a più fili. Denti bianchissimi nel viso bruciato. Svagate e un po’ indolenti, affascinanti come regine, ci invitano nella tenda. Ospitalità, dono afgano. Nella iurta fumo dal narghilé. Al centro del consunto tappeto, il chiai, una ciotola colma di mast e dugh, yogurt fermentato ricco di spezie e riso pilaf. Mi addormento sulla sabbia col corpo a croce e un piccolo levriero accucciato sulla spalla.
    Al mattino la carovana si muove lenta. Cammelli distratti e svogliati ruminano nella loro lingua grottesca. Resta odore di montone bollito. Il capo, un ventaglio di rughe, saluta con la mano sul petto. Khodafez, arrivederci. Bactres nazdik ast, Balkh è vicina. Ai bordi del deserto affiora un grosso villaggio perso tra rovine e strani scogli argillosi. Testi letterari classici, cinesi, arabi e persiani ne parlano come di “Balac la bella, madre di tutte le città, grande e nobile che gli tartari l’hanno guasta e fatto gran danno”. Balkh-Battra, teatro di antica storia e cultura. Achemenidi, greci, persiani, mongoli. Vivace centro islamico di poeti e sufi. Qui, nel VI° a.C, nacque Zoroastro. Qui, Alessandro Magno sposò Rossane. Templi, palazzi, giardini e moschee. Quando arrivò Marco Polo, nel 1270, trovò ombre e morte. Gengis Khan non lasciava che cenere.
    Quel che vediamo sono tracce di gloria. Nascosta tra le dune, No Gombad, la moschea più antica dell’Afghanistan. Al centro della città il “santuario” Khoja Parsa del 1460. Di lato, la tomba di Rabia Balkhi poetessa medievale, murata viva per i suoi scritti mistici ed erotici.
    Ho portato con me profumo di spezie, gli azzurri smaltati delle moschee, il rosso dei tulipani, il turchese dei laghi e l’oblio dell’ “erba di Balkh”. Villaggi e volti. Senza voltarmi. Ho lasciato una terra di frontiera stretta nella morsa di guerre altrui.
    (Marta Forzan, ilreporter)

    ...la storia...


    L’Afghanistan, data la sua posizione geografica, è stato, da sempre, uno dei corridoi del mondo.
    Crocevia per le grandi religioni, le grandi civiltà, i grandi imperi, per tutte le razze, tutte le ideologie e le arti. Questo paese è una miniera di storia umana, sepolta nella terra di Mazar-i-Sharif, Kabul, Kunduz, Herat e Balkh. Dall’inizio del secolo scorso nostre missioni scientifiche ed archeologiche hanno fatto numerosi scavi per scoprire bellezze nascoste e, i B52 americani, alla caccia dei talebani, hanno praticato un nuovo genere di archeologia andando a scavare, a suon di bombe, proprio in quei posti preziosi. Questo è il destino dell’Afghanistan: da Alessandro il Macedone, ai mongoli, ai russi, agli inglesi nell’800, l’antico Hindukush è sempre stato la posta di un gran gioco ed è, ancora, così. Basta guardare Kabul e di ciò che ne è rimasto: la Fortezza è una maceria, il fiume un rigagnolo fetido, il baazar una distesa di tende, baracche e container; i mausolei, le cupole, i templi sono sventrati. Molti i monumenti scomparsi.
    L’enigmatico Minar-i-Chakari “Colonna della luce“, costruito fuori Kabul sulla vecchia via di Jalalabad, nel primo secolo d.C., dal 1998, a causa delle cannonate, non è che un cumulo di antichi sassi. Kabul non è più una città, ma un immenso cimitero di polvere, ove, un tempo, vi erano regge, case, fiori, alberi che facevano di questa valle un Paradiso, oggi c’è solo desolazione e sconforto, molta miseria e poca nobiltà. E pensare che il vanto di questa città erano i 70 diversi tipi di uva, i 33 tipi di tulipani, i 6 grandi giardini folti di cedri. Ora non vi è più nulla e non per maledizione divina o catastrofe naturale, ma per la guerra. Invasori, da ogni dove, sono stati contrastati con durezza e ferocia tipica degli afghani. Dal Paese dei cedri e tulipani al paese delle guerre.
    Gli afghani sono stati, sempre, prevaricati già dal lontano 1842. Il grande Baazar dei Quattro Portici, con i suoi famosi disegni murali, venne raso al suolo e saccheggiato dagli inglesi per vendicare l’uccisione di due emissari di Londra. Nel 1881 furono, di nuovo, gli inglesi, dopo aver impiccato 29 capi afghani, a radere al suolo gran parte di Bala Hissar, perché restasse indelebile il ricordo di come “sappiamo vendicare i nostri uomini”. Il primo bombardamento nella storia dell’aviazione inglese, nel 1919, fu su Kabul . Secoli, prima, gli afgani avevano conosciuto la memorabile vendetta di Gengis Khan ed i mongoli uccidevano ogni essere umano e sradicato ogni albero e piante. Per centinaia d’anni i grandi Buddha, scolpiti nella roccia, ma già spogli dell’oro originale che li ricopriva, ebbero la definitiva distruzione dai talebani per vendetta contro la “comunità internazionale” che si rifiutava di riconoscerli come i legittimi governanti dell’Afghanistan. La guerra continua, una forma di violenza si aggiunge ad un’altra. Solo interrompendo questo ciclo si potrà arrivare ad una soluzione.
    (Ercolina Milanesi)
     
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  3. gheagabry
     
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    PAESAGGI AFGANI

    di Roberto Schmidt

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    Faizabad


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    La catena montuosa Hindu Kush che separa Afghanistan e Pakistan


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    Un pastore nella valle Payan Shahr, Badakhshan


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    Valle Payan Shahr, Badakhshan


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    Valle Payan Shahr, Badakhshan


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    Baharak, Badakhshan


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    Baharak, Badakhshan


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    Valle Payan Shahr, Badakhshan



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    Valle Payan Shahr, Badakhshan



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    Valle Payan Shahr, Badakhshan



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    Kabul


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    Faizabad


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    Faizabad


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    La catena montuosa Hindu Kush che separa Afghanistan e Pakistan




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