OSCAR 2012 - CANDIDATURE, film, attori

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  1. gheagabry
     
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    I REGISTI



    Michel Hazanavicius





    Michel Hazanavicius (Parigi, 29 marzo 1967) è un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico francese. Hazanavicius inizia la sua carriera lavorando per la televisione, nel 1988 lavora per il canale televisivo Canal +, e successivamente approda alla pubblicità, dirigendo spot pubblicitari per aziende come Reebok e Bouygues Telecom. Nel 1993 dirige il suo primo lungometraggio, La Classe américaine, un film per la televisione co-diretto con Dominique Mézerette e composto interamente da riprese tratte da vari film prodotti dalla Warner Bros., ri-montato e doppiato in francese.
    Dopo aver diretto, nel 1997, il cortometraggio, Echec au capitale, dirige Mes amis, interpretato dal fratello, l'attore Serge Hazanavicius.
    Nel 2004 ha collaborato alla sceneggiatura del film Les Dalton, adattamento cinematografico del fumetto Lucky Luke, concentrato principlamente sui personaggi dei quattro fratelli Dalton. Dopo sette anni torna dietro la macchina da presa e nel 2006 scrive e dirige il suo secondo lungometraggio, OSS 117 : Le Caire, nid d'espions, una parodia dei film di spionaggio degli anni sessanta e in particolar modo dell'agente OS 117, un popolare personaggio creato da Jean Bruce nel 1949. Nel 2009 ne dirige un sequel, OSS 117 : Rio ne répond plus.
    Nel 2011 dirige The Artist, un film muto e in bianco e nero che si svolge a Hollywood alla vigilia del "sonoro", presentato in concorso al Festival di Cannes 2011 e vincitore di numerosi premi internazionali, tra cui il Directors Guild of America Award. Nel 2012 il film gli vale il premio come miglior regista ai British Academy Film Awards (BAFTA)

    "Semplicemente un'inchino al cinema classico della Hollywood dei tempi d'oro del muto? The Artist è invece molto di più. Si tratta di un film molto francese ed elegante, forse appena un po' snob nella concezione avanguardistica di mettere in scena un universo visivo-tematico che non c'è più. Ma le soluzioni visive, i tempi comici, l'uso "antico" del b/n funzionano alla grande, soprattutto in chiave metaforico-poetica e nella leggerezza di volti e in una semantica degli sguardi in cui si può rintracciare una certa passione per una bellezza che sembrava ormai perduta. Bresson, nel momento del passaggio tra la il muto e il sonoro, disse che l'invenzione del sonoro aveva "inventato" il silenzio. Nel cinema muto i primi piani degli attori erano avvolti dal silenzio e dall'attesa della performance sibillina: le sopracciglia, gli occhi parlavano e dicevano più di qualsiasi parola. Lo disse anche Kubrick all'uscita di Barry Lyndon che il cinema muto aveva più fascino. In questo The Artist su muove molto furbescamente, quasi con una ruffianeria molto francese, quasi volesse piacere a tutti i costi e al più vasto numero di spettatori possibile" (cinema-orion.blogspot)





    Alexander Payne





    Di nazionalità americana, ma di origini greche (il vero cognome di famiglia è infatti Papadopoulos), Alexander Payne nasce a Omaha, in Nebraska, nel 1961. Laureato in storia e letteratura spagnola all'Università di Stanford, si è anche diplomato nella sezione cinematografica dell'UCLA. Il suo primo lungometraggio risale al 1996, quando dirige Storia di Ruth - La donna americana, film che nel nostro paese esce soltanto in videocassetta. La pellicola racconta le vicende di Ruth Stoops, tossicodipendente alla sua quinta gravidanza, e indaga tra le posizioni degli antiaboristi e dei fautori della libera scelta, con la giusta dose di irriverenza e ironia e senza alcuna caduta nel patetico.
    Nel 1999, Alexander Payne gira Election, ambientandolo in un liceo di Omaha, la sua città natale. Il film è una metafora delle lotte per il potere nel mondo degli adulti, della politica e del lavoro, con un notevole Matthew Broderick nei panni del professore modello. L'ultimo lavoro di Payne, About Schmidt (2002), presentato in concorso al 55esimo Festival di Cannes, è la storia di Warren Schmidt, vedovo e senza più alcun punto di riferimento, che attraversa il Nebraska con un commerciante di lenzuola per partecipare al matrimonio della figlia. Il ruolo del protagonista è affidato a Jack Nicholson, che per questa sua ennesima splendida interpretazione, è stato premiato con un Golden Globe.
    Con Sideways, commedia agrodolce ambientata tra cantine e vigneti californiani, Alexander Payne si è aggiudicato un Oscar come migliore sceneggiatura. Il film racconta la settimana trascorsa da due amici, Miles e Jack, nella valle californiana Santa Ynez Valley in cui tra degustazioni e sbornie i due amici faranno il punto su, come recita la locandina, ''le due cose più importanti della vita''.
    (trovacinema.repubblica.it)

    ...intervista....

    Il suo Oscar ideale? “Una separazione”, il film iraniano candidato come Miglior Film Straniero e che a suo parere “avrebbe meritato anche la candidatura come miglior film”. Fresco di ben quattro nomination Alexander Payne racconta il suo“Paradiso amaro” uno dei grandi favoriti ai prossimi Oscar, non senza aver prima ricordato Theo Angelopoulos, il regista greco appena scomparso dopo un incidente in moto: "Aveva visto Sideways e fu molto gentile con me, conservo di quell'incontro un bellissimo ricordo. Mi disse una cosa molto tenera: continua a fare film, un giorno magari il tuo nome sarà insieme a quelli di Cassavetes e Kazan".

    Ha ricevuto quattro nomination agli Oscar… Come ci si sente?
    Non ci si aspetta mai di ricevere degli Oscar, lo si può sospettare o intuire… Sicuramente immaginavo di ricevere tre o quattro candidature soprattutto dopo i Golden Globes; naturalmente essere candidato accanto a registi come Martin Scorsese, Woody Allen e Michel Hazanavicious mi rende tanto felice. Sono molto ansioso di incontrare questi registi, che rispetto profondamente, ai due simposi organizzati dall’Academy prima della cerimonia, sospetto che Allen e Malick non parteciperanno, ma sicuramente Scorsese, Hazanavicious e io ci andremo e ci divertiremo molto.

    Lei ama far confrontare i suoi protagonisti con eventi difficili o luttuosi che non ci si aspetterebbe mai di affrontare. Perché?
    Credo che questa sia la condizione dell’essere umano e le opere più valide sia in ambito cinematografico che letterario o teatrale tendono a mettere sempre una persona comune in una situazione difficile; io non faccio eccezione. Rifletto la mia generazione e il fatto di essere americano, mi piace misurare i miei protagonisti con delle situazioni drammatiche ma anche comiche, perché credo di essere comunque un regista di commedie. La mia fortuna è stata quella poi di poter avere degli attori come Clooney, Giamatti o Nicholson capaci di interpretare i miei personaggi.

    La storia è ambientata alle Hawaii. Come è stato girare in questo posto?
    Il motivo principale per cui ho accettato questo progetto era l’ambientazione alle Hawaii. Aldilà dell’aspetto ovvio a tutti, e cioè che sarebbe stato molto bello viverci per otto mesi con il mare, il sole, la natura, quello che mi ha colpito più di tutto è stato il tessuto sociale e culturale assolutamente unico. L’unicità di questa tradizione sociale e culturale deriva dalla consapevolezza che ogni hawaiano ha della sue radici, della sua appartenenza e discendenza. Questo vale non solo per la alta borghesia bianca a cui appartiene il protagonista del film, ma anche per i nativi che sono molto coscienti delle proprie radici e di quelle dei propri antenati. Le Hawaii sono un piccolo stato a sé, sui generis, fisicamente distante dalla terraferma, in mezzo all’Oceano Pacifico e tutto ciò lo rende un territorio davvero unico. Grazie a questa lontananza e a questa collocazione geografica singolare gli hawaiani sono estremamente provinciali da un lato, ma nello stesso tempo cosmopoliti per i turisti che il paese ospita ogni anno da tutto il mondo.

    Nei suoi film riesce sempre a tirare fuori il meglio dei grandi attori da lei scelti. Come lavora con loro e che tipo di scambio c’è?
    Parliamo di grandi star del cinema con tutto ciò che ne consegue, ma non dimentichiamo che sono innanzitutto attori. Nel caso di Jack Nicholson o George Clooney c’è anche l’aspetto del gossip, ci sono i paparazzi, le fidanzate...
    Ma io gli chiedo solo di vestire i panni di uomini normali, e il fatto che siano soprattutto dei grandi attori fa sì che quando accettano di partecipare ad un mio film sappiano già cosa cerco da loro, ovvero il realismo; ciò fa parte del tipo di film che faccio io. Sanno che lavoreranno in film che riflettono più la realtà che non il glamour di certe situazioni quotidiane. Io dimentico del loro lato di star e me ne rendo conto solo durante le interviste o leggendo le recensioni

    A proposito di realismo, la qualità migliore del suo cinema è l’essere classico e lineare. La sua cifra stilistica è la classicità. Che legame ha con il cinema europeo che per alcuni decenni ha dato questo tipo di impronta?
    Credo che a tutti possa piacere il cinema classico e un tipo di narrazione classica, ma secondo me non conta tanto il tipo stile che un regista adotta, quanto la sincerità che ha un regista nell’adottare uno stile o un altro. Ciò che importa è far emergere il proprio stile con efficacia e sincerità. Sono nato negli Stati Uniti, sono un regista americano che lavora con un determinato budget e naturalmente ci si aspetta da me l’adozione di un certo tipo di linguaggio cinematografico, ovviamente se fossi nato e cresciuto in Cecoslovacchia avrei avuto un altro tipo di stile. Quello che io ho è uno stile personale, che mi riflette. Amo il cinema classico hollywoodiano dagli anni ’20 in poi anche se dal 1980 mi piace un po’ meno, mi piace il cinema classico europeo per l’aspetto umano che c’è nelle sceneggiature e nella recitazione degli attori.
    (Elisabetta Bartucca)

     
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31 replies since 11/2/2012, 20:35   2990 views
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