LA STORIA DELLA MODA

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  1. gheagabry
     
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    LA MODA nella STORIA



    La parola moda è comparsa per la prima volta in Italia intorno alla metà del Seicento, come traduzione del termine francese mode.

    Il termine fancese deriva a sua volta dal latino modus, che significa modo, maniera,, ma esprime anche il concetto di "giusta maniera", ovvero giusta in una determintao momento e contesto.

    Gli studiosi hanno attribuito all'abbigliamento due funzioni principali: protezione e pudore.

    Per quanto riguarda la prima funzione, la protezione offerta dagli abiti è quella contro il freddo e da questo deriva la convinzione che il bisogno di vestirsi è universale.

    In realtà alcuni antropologi hanno dimostrato come il clima rigido non implichi la necessità di coprire il corpo, un esempio sono gli abiti molto ridotti utilizzati dagli aborigeni delle Terre del Fuoco o australiani. Dunque, da questa analisi è possibile verificare come il bisogno di vestirsi sia legato semplicemente a fattori di natura culturale, infatti ci si veste soprattutto per esprimere una precisa identità nel proprio contesto sociale.

    Per quanto riguarda il pudore, ci si veste per non provare vergogna mostrando le parti intime del nostro corpo, non a caso il senso del pudore è considerato un elemento di differenziazione tra esseri umani e animali.

    E non è neanche un caso che la Bibbia abbia fatto coincidere la nascita dell'esistenza umana con lo svilupparsi del sentimento di pudore al momento della cacciata da Paradiso terrestre.

    Dunque, anche il pudore è strettamente legato a una specifica cultura e alla sua particolare morale religiosa.
    (fonte: "Dalla corte alla strada")



    La moda vera e proprio è comparsa a partire dalla fine del Medioevo, più o meno nel 1340, e ha coinvolto aree delle Fiandre, della Francia, dell'Inghilterra e dell'Italia.
    In questo periodo furono introdotte importanti innovazioni nelle acconciature, nelle calzature e soprattutto nella foggia degli abiti, che portò alla differenziazione dell'abbigliamento maschile da quello femminile, prima invece simili.

    Inoltre si passò dall'abbigliamento drappeggiato a quello aderente, grazie a cambiamenti nel taglio e all'adozione di allacciature fissate con i bottoni.

    Sino alla fine del Medioevo, il modo di vestire era immutato, perchè la società era statica e il passato era un modello di riferimento per tutti i comportamenti.

    Con la fine del Medioevo e lo sviluppo del Rinascimento, il mutamento è diventanto un valore socialmente ambito e la società ha iniziato ad orientarsi verso il futuro. L'individuo diventa consapevole di avere il potere di modificare le strutture sociali e di operare scelte personali nel campo dell'estetica.

    Lo sviluppo della moda è reso possibile, quindi, dallo sviluppo in Occidente della cultura moderna e dei suoi principi democratici. Infatti tale cultura presenta due aspetti importanti per il manifestarsi della moda: l'idalizzazione del nuovo, del futuro e del mito del progresso sociale; la possibilità dell'individuo di svincolarsi dai legami sociali tradizionali e di sentirsi libero di esprimere le proprie scelte.
    (fonti: "Civiltà della moda" di Belfanti e "Dalla corte alla strada" di Vanni e Codeluppi.)



    La moda non è solo sarti,stilisti e sfilate. La moda è arte, la moda è cinema.

    La moda è un settore senza confini. I creatori di moda trovano la loro ispirazione ovunque, nei musei, al cinema, passeggiando per strada, sfogliando un quotidiano.
    Roberto Capucci è considerato da alcuni studiosi un neofuturista, in quanto i suoi abiti-sculture ricordano le scenografie e i costumi di Depero; ancora, Yves Saint-Laurent, tutti ricordiamo il famoso abito ispirato al gioco di linee orizzontali e verticali di Mondrian, stesse linee che hanno ispirato gli artisti neoplastici.
    Molti stilisti hanno collaborato con il cinema, tra questi le Sorelle Fontana. Mi viene in mente il famoso abito "pretino", voluto da Fellini nella "Dolce Vita" per l'attrice Anita Ekberg e da allora tutte le magliette a collo alto verranno definite "Dolce vita".
    Dunque la moda non è fine a se stessa. La moda coinvolge ed è coinvolta da altri settori.
    Come non ricordare la famosa "Hollywood sul Tevere", ovvero quel fenomeno che nel secondo dopoguerra portò a Roma i grandi del cinema americano e consacrò per sempre le nostre sartorie.
    Questo sconfinare in campi diversi tra loro avveniva anche in passato. Nell'800 era noto lo stile impero, una tendenza che influenzò l'arte, l'architettura, l'arredamento e la moda.

    Come dice la parola stessa, ero uno stile serio e imponente, diffusosi in Francia durante il periodo napoleonico e che riprendeva i simboli della Roma imperiale e dunque anche l'abbigliamento della Roma antica.
    Tutto è moda e tutto fa moda, ma la moda senze le sue fonti di ispirazioni e i suoi canali di diffusione non esisterebbe, o, meglio, farebbe fatica ad esistere!
    (Lauren V.)






    La storia di questo particolare fenomeno offre un punto di osservazione privilegiato per studiare la confluenza di molti elementi: l'intreccio continuo tra l'evolversi della storia delle idee e quella del pensiero economico; le relazioni tra i cambiamenti del gusto, analizzati in chiave antropologica, e l'incidenza del progresso scientifico; il meccanismo di influenza reciproca che caratterizza l'attuale rapporto tra mass media e consumatori. Protezione, pudore, ornamento sono le tre motivazioni principali del vestirsi che si inseriscono in un sistema formale di segni organizzato in funzione normativa. Primo tra tutti quello della differenza fra i generi (maschi e femmine), enfatizzato dalla componente erotica, con la sua carica esibizionista e il desiderio di piacere. Il carattere di trasgressione ostentata, fondamentale nella manifestazione dei fenomeni di moda, trascina una carica di invito sessuale che travalica la semplice caratterizzazione di genere tipica dell'abbigliamento.

    DALL'ILLUMINISMO AL ROMANTICISMO. La storia della moda muove i primi passi a partire dalla polemica illuminista sul lusso alla fine del Settecento, che persistette come elemento centrale della critica alla moda, unito alla constatazione del suo carattere effimero e non duraturo (si pensi per esempio a G. Leopardi delle Operette morali, dove la moda e la morte sono le figure emblematiche della caducità). D'altronde proprio alla fine del XVIII secolo si assiste a un aumento di spese generali per il vestiario (confermato dalla nascita delle riviste di moda) e alla crescita della distanza economica e sociale in tema di abbigliamento. Il problema dell'abbigliamento e delle sue trasformazioni assume una nuova rilevanza nella diffusione del processo di civilizzazione: lo sviluppo dell'industria tessile, l'effetto di alcune innovazioni tecniche (la macchina per cucire ela standardizzazione dei prodotti), la nascita dei grandi magazzini, l'allargamento del campo dei consumatori dapprima alla nuova classe borghese e in seguito a sempre maggiori fette di popolazioni, sono alcuni degli elementi che spiegano la rapidità di certi cambiamenti. Rapidità che occorre analizzare a fianco delle persistenze del gusto e dei comportamenti, che pongono il problema dello scarto dei tempi, centrale nelle storie della mentalità. L'ampliamento del campo dei consumatori, la commercializzazione delle mode, l'uso della biancheria accelera il processo di laicizzazione della società, allontanando «l'orizzonte cristiano dell'ascesi» e avvicinando quello «tutto mondano della felicità», come afferma lo studioso francese D. Roche. Alla metà del XIX secolo la moda termina di essere spunto di riflessioni saltuarie e la cultura romantica dominante produce le prime riflessioni articolate sull'abbigliamento, interpretato come una sorta di rivelazione dello spirito generale del tempo. Vede la luce così l'opera di J. Quicherat Histoire du costume en France, uscita sulla rivista "Magazin pictoresque" tra il 1849 e il 1865, che può essere considerata come il testo di fondazione della storia della moda.



    UN NUOVO TIPO DI STORIA. Il vero salto di qualità nella riflessione sulla moda avviene alla fine del secolo e nei primi anni di quello successivo con gli studi di G. Simmel e di W. Benjamin. Simmel pubblica nel 1895 un breve saggio sull'argomento, indagato come manifestazione collettiva di imitazione, nella quale si esprime il bisogno di approvazione sociale, e come spinta incessante alla differenziazione individuale e al cambiamento. In modo chiarissimo il grande pensatore tedesco coglie il rapporto biunivoco tra i comportamenti dei consumatori e le trasformazioni della produzione di moda: Si crea così un vero e proprio circolo: quanto più rapidamente cambia la moda, tanto più gli oggetti devono diventare economici e, quanto più gli oggetti diventano economici, tanto più invitano i consumatori e costringono i produttori a un rapido cambiamento della moda. Benjamin invece si sofferma soprattutto sul carattere di anticipazione della moda. Essa è a pieno titolo una delle componenti fondamentali nella vita delle nascenti metropoli, caratterizzata dall'accelerazione dei ritmi, dal «prestissimo» e dall'«attimo» cantato da Baudelaire. La capacità divinatoria della moda fa parte del suo carattere estremo, che riconduce per Benjamin alla contrapposizione tra «frivolezza e morte». Con il predominio della cultura positivista si sviluppa un approccio sistematico al problema nel campo sociologico. Due teorie interpretative si contrappongono, portando l'attenzione sui comportamenti di differenti strati sociali: quella imitativa e quella distintiva. A. Spencer interpreta il fenomeno della moda all'interno del complesso di norme che concernono i rapporti tra classi superiori e inferiori, il cerimoniale, mettendone in risalto il ca rattere imitativo. Per il sociologo, nell'epoca dell'industrializzazione e della crisi delle leggi suntuarie, le categorie inferiori cercano di accedere ai significati di status di quelle superiori, modificando il carattere dell'imitazione da reverenziale a emulativo. Al contrario T. Veblen sottolinea la reazione delle classi agiate a questi comportamenti imitativi, con la teoria della distinzione, che ripropone la caratterizzazione classista del vestire. Veblen individua tre elementi essenziali nei comportamenti distintivi delle classi agiate: lo sciupio vistoso, la vistosa agiatezza e il cambiamento. Queste teorizzazioni sul fenomeno della moda, centrate sulle distinzioni verticali fra ceti, entrano in crisi nel secondo dopoguerra di fronte al pieno dispiegarsi della società dei consumi di massa, che sembra sostituire alle differenze di ceto quelle orizzontali di età e di genere, catapultando al centro della moda i giovani e le donne, come target privilegiati. Sempre di più la moda si delinea quindi come un fenomeno che non interessa solamente i ceti dominanti: in alcuni settori sociali della società appare come un vero e proprio gioco sul significante, un modo di stabilire una relazione, spesso ambivalente, con l'ordine sociale. A questo proposito le riflessioni di R. Barthes risultano particolarmente importanti. Il sociologo francese propone un parallelo tra l'analisi della moda e la linguistica: riprendendo la differenza postulata da F. de Saussure tra langue e parole, Barthes dà al termine costume l'accezione di realtà istituzionale, indipendente dall'individuo, e al termine abbigliamento quella di realtà individuale. L'insieme di costume e abbigliamento produce il vestiario. Posta questa distinzione terminologica, Barthes si sofferma sulla diffusione dei giornali di moda, focalizzando l'attenzione sulla trasformazione della moda in codice comunicativo produttore di senso. Alle riflessioni di Barthes si riallacciano, a volte in chiave critica, quelle di altri autori (G. Dorfles, J. Baudrillard, G. Lipovetsky, U. Eco, F. Alberoni) che pur nella differenza dei giudizi sulla diffusione dei consumi legati al vestiario, non possono fare a meno di constatare la trasformazione radicale del fenomeno moda: da elemento di caratterizzazione sociale a modulo comunicativo, componente di un'identità variabile.

    • D. Roche, Il linguaggio della moda. Alle origini dell'industria dell'abbigliamento, Einaudi, Torino 1991; G. Simmel, La moda, Editori riuniti, Roma 1985; R. Barthes, Sistema della moda, Einaudi, Torino 1970.

    M. Grispigni



    Edited by gheagabry - 29/1/2012, 10:40
     
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    La storia della PARRUCCA


    Nella storia della moda la parrucca non aveva le connotazioni ridicole che molti oggi le attribuiscono, ma era un accessorio portato fino dall’antico Egitto da uomini e donne, non necessariamente per compensare la perdita dei capelli, ma principalmente come segno di status. In Europa ebbe il suo massimo splendore nei secoli XVII e XVIII, quando trionfarono Barocco e Rococò: se si pensa alla teatralità e al fasto di questi due stili artistici (avete presente la reggia di Versailles?) la parrucca si trovava perfettamente a suo agio tra gli stucchi, i marmi, le decorazioni, la grandiosità che essi comportavano.
    La moda iniziò durante la Guerra dei Trent’anni, durata dal 1618 al 1648, che determinò un netto cambiamento del vestire maschile. A partire dagli anni Trenta del Seicento infatti, tutti gli uomini predilessero abiti in stile militaresco, portando con pose spavalde cinturoni, lunghe spade, pesanti stivali in cuoio. Trionfò la mascolinità bellicosa, e si voleva a tutti i costi esibire un rude aspetto guerresco, oltre che nel vestito anche nell’abbondante peluria, segno evidente di virilità. Parecchi aneddoti raccontano come la parrucca sia entrata nelle case reali e da qui abbracciata da quasi tutta la popolazione che – dati i costi – se la poteva permettere; le parrucche più care erano infatti fabbricate con capelli veri, mentre la gente più modesta doveva accontentarsi di peli di pecora e capra, crine di cavallo o coda di bue.
    Nel Seicento e nel Settecento la Francia era considerata il centro del buon gusto europeo e sembra che sia stato proprio un monarca francese, Luigi XIII, a favorire l’uso delle parrucche per nascondere la precoce calvizie causata da una malattia. Il suo successore Luigi XIV, il Re Sole (1638 – 1715) portò quest’accessorio alla sua apoteosi. Nel 1655 il sovrano concesse la licenza di aprire bottega a 48 fabbricanti parigini di parrucche. Alla fine del Seicento, in perfetta armonia con la bizzarria del gusto Barocco, la parrucca maschile si trasformò in una monumentale torre di riccioli, con due bande che scendevano sul torace e un’altra dietro la schiena. Il peso eccessivo la rendeva molto scomoda da indossare, per cui la si portava solo a corte, mentre nel privato si preferiva la ben più comoda berretta. La circonferenza della parrucca impediva l’uso del cappello, che si portava semplicemente sotto braccio. Tuttavia oltre agli svantaggi, essa aveva vantaggi fisici e soprattutto psicologici non trascurabili: indossata sul cranio rasato, favoriva una maggior pulizia in un’epoca in cui pullulavano cimici e pidocchi. Inoltre rialzando la statura, dava alla figura maschile un senso di imponenza regale che aumentava il prestigio dell’individuo.
    Durante il Settecento fino alla Rivoluzione francese, la moda della parrucca continuò a contagiare gli uomini e successivamente le donne e i bambini. Particolarità del periodo fu l’uso pressoché universale di imbiancarla cospargendola di cipria solitamente composta di polvere di riso. Un servitore la soffiava sul paziente in un apposito stanzino polverizzandola con un piccolo mantice, mentre il volto e il corpo erano protetti con un accappatoio e un cono che copriva la faccia. Oltre al riso si usavano l’amido mescolato con polvere profumata, e per quelli che non se lo potevano permettere, calcina, gesso, legno tarlato, osso bruciato, il tutto passato con cura al setaccio.
    Più frequente per l’uomo che per la donna, la parrucca serviva a coprire teste pelate vuoi dall’età, vuoi da qualche malattia che causava la caduta dei capelli come il vaiolo, allora piuttosto diffuso. La tipica parrucca maschile settecentesca, di moda soprattutto verso la metà del secolo, aveva un ciuffo alto e arricciato sulla fronte, riccioli sulle orecchie e un codino avvolto in un sacchetto di seta nera. Ma i modelli erano molti di più e avevano bisogno di lavorazioni elaborate. I capelli erano impomatati, arricciati, poi, con una specie di permanente avanti lettera, bolliti e infine cuciti a una reticella e fermati da nastri nascosti.
    Le donne si accostarono a questo accessorio con un certo ritardo. Una sera Leonard, il parrucchiere personale di Maria Antonietta d’Austria (1755 – 1793), moglie di Luigi XVI di Borbone e re di Francia (1754 – 1793), acconciò la regina con capelli rialzati artificiosamente più di mezzo metro sul capo, frammischiandoli con sciarpe di velo. Questa acconciatura, che crebbe in altezza fino a diventare mastodontica, fu di moda dal 1770 per circa 10 anni, ed era anche detta pouf o tuppè. Il tuppè era una vera e propria parrucca, fatta solo in parte coi propri capelli; aveva un’armatura nascosta di filo metallico ed era imbottito da un cuscinetto di crine. Era scomodo e malsano, sia perché portato su capelli non lavati ma tenuti in piega da oli e pomate profumate, sia perché attirava inevitabilmente ogni tipo di parassita. Ma l’aspetto più sconcertante erano le incredibili decorazioni che vi venivano appoggiate sopra. La fantasia non aveva limiti: palme, pappagalli, frutta, ghirlande d’amore, scale a chiocciole di pietre preziose, navi con le vele al vento spiegate (à la belle poule). Nomi e nomignoli francesi distinguevano i diversi modelli: à la monte du ciel, di altezza vertiginosa, il pouf à sentiment, con usignoli imbalsamati, alla cancelliera, alla flora, piena di fiori, al vezzo di perle (ovviamente circondata da giri di perle) ecc. L’acconciatura fu studiata per meravigliare gli altri, sfruttando persino la cronaca del giorno e la manifestazione dei propri sentimenti pur di attrarre teatralmente l’attenzione. Per fare un esempio, quando i fratelli Montgolfier nel 1783 alzarono per la prima volta su Parigi il primo pallone aerostatico, la moda diventò la “parrucca alla mongolfiera”.
    Identificata dal popolo con l’odiata aristocrazia, la parrucca decadde con la Rivoluzione Francese. Nel periodo del Terrore addirittura, anche solo girare con una parrucca incipriata poteva portare alla ghigliottina. In Italia e nelle corti europee che rimasero fedeli alle vecchie idee, essa fu portata ancora per qualche anno. Ma già dopo le conquiste di Napoleone Bonaparte fu abbandonata e rimase a decorare le teste della servitù, o di qualche nostalgico che per scherno era chiamato “codino”.
    (Bianca Maria Rizzoli)

    ..Léonard..



    La chioma di Maria Antonietta era affidata alle cure di un grande artista: il parrucchiere Léonard. Guascone vivace e amabile, d'intelligenza pronta e con temperamento da prima donna, il suo trionfale arrivo come coiffeur a Parigi è descritto mirabilmente da Madame de Genlis: “Léonard arrivò: arrivò e divenne re”. Si recava, con un tiro a sei, da Parigi fino a Versailles per dedicare alla regina con pettine e pomate le sue arti grandi e rinnovate. Come Mansard Léonard elevava sulla fronte di ogni dama che tenesse alla moda torrioni di capelli foggiando quegli erti edifici a simbolici monumenti. Con l'aiuto di forcine giganti e di abbondante rigida pomata i capelli venivano dapprima tirati su verticali dalla radice, alti tre volte un berretto da granatiere prussiano, e poi solo lassù, nel puro spazio, mezzo metro sopra il livello degli occhi, cominciava la vera creazione dell'artista. Su questi «poufs» ovvero «quasacos» di capelli venivano modellati non solo interi paesaggi e panorami, con frutta, giardini, case e velieri con il mare in burrasca (una vera esposizione universale) ma per rendere la moda ancora più varia, questi giochi plastici seguivano simbolicamente gli eventi del giorno.
    Così la storia della pettinatura di quel secolo è anche un po' la storia del regno...quando morì Luigi XV subito nacque la pettinatura “Alle delizie del secolo di Augusto” (Augusto nel 1774 era Luigi XVI) e comparvero le pettinature del “tempo presente o alla circostanza”; quando Beaumarchais pubblicò nel 1775 le sue memorie nelle quali si trova il famoso “ Qu'es - aco, Marin?" subito spuntarono i quasacos; dopo il grande successo dell' Ifigenia di Gluck, Léonard inventò una «coiffure à la Iphigénie », guarnita di nastri neri a lutto e dell'arco lunare di Diana;
    quando il re si fece vaccinare contro il vaiolo, quell'avvenimento ricomparve sulle chiome quale «poufs de l'inoculation »; in seguito all'insurrezione americana subito trionfò la pettinatura della libertà. La mania divenne ancora più stolta e infame: durante la carestia le panetterie di Parigi vennero saccheggiate e questa società ignara non ebbe nulla di meglio da fare che commentare l'avvenimeno con i suoi «bonnets de la révolte». Gli edifici eretti su quelle teste vuote divennero sempre più pazzi.
    A poco a poco le turrite chiome giunsero ad un'altezza tale che le dame non poterono più star sedute nelle loro carrozze ma dovettero entrarvi in ginocchio affinché la costruzione preziosa non toccasse la volta della berlina; i vani delle porte nel castello reale vennero elevati perché le dame in grande acconciatura non fossero sempre costrette a curvarsi passando. Léonard acconciava la regina solo nei giorni di cerimonia: non poteva concedersi di più perché il suo salone parigino era troppo affollato; per tutti i giorni il divin parrucchiere rimaneva nel suo salone e affidava i capelli della regina ai suoi fedeli aiutanti tra cui suo cugino Villenoue detto le “beau Julien”. Le vecchie dame gridarono d'orrore: come poteva la regina di Francia affidare la sua testa ad un uomo, che toccava anche i capelli di mademoiselle Guimard o di qualsiasi altra grue del Palais-Royal? Ma la regina non rinunciò al suo Figaro, del resto le pettinature ideate da Léonard erano veri e propri capolavori architettonici e Maria Antonietta non sarebbe stata regina se non fosse stata la prima in ogni follia.
    (Stefano Torselli e Laura Savani)



    Il CAPPELLO



    Avendo la necessità di proteggere la testa dal freddo, dalla pioggia, dai raggi del sole, fin dall'antichità la gente si é servita di cappucci, veli, cuffie, berretti, turbanti di ogni foggia. Solamente verso la metà dell'Quattrocento fece la sua comparsa il cappello, cioé il copricapo di feltro caratterizzato da una visiera, chiamata anche falda o ala. Pare che il primo ad indossarne uno fu Carlo VIII, che lo sfoggiò in occasione della sua visita a Roma.

    Il Settecento fu il secolo d'oro del cappello. A quel tempo il re Luigi XV lanciò la moda del tricorno, che diventò il copricapo ufficiale delle divise militari di diversi eserciti. Le signore veneziane trovarono così elegante e civettuolo il cappello a tre punte che lo adottarono, portandolo sopra le parrucche incipriate e la maschera o bauta, sotto al quale nascondevano parte del viso. Le nobildonne francesi e inglesi amavano anche i grandi cappelli ornati di piume e, per puro divertimento, giunsero ad indossare cappellini adornati con uccelli imbalsamati, civetteria che oggi sarebbe giudicata di pessimo gusto. Nel 1806 Arrington, un famoso cappellaio di Londra, creò il cilindro che col tempo diventò uno dei simboli della città.
    La moda dell'Ottocento e del Novecento diede grande risalto a questo capo di abbigliamento, creando per le donne modelli eleganti, deliziosi, sofisticati o sportivi, adatti a ogni occasione. Anche oggi, davanti alla grande varietà di modelli, c'é solo l'imbarazzo della scelta e basta indossare un cappello un po' originale per sentirsi nei panni di un personaggio immaginario e aver voglia di giocare al teatro.



    .....miti e leggende.....


    La leggenda attribuisce l’invenzione del feltro all’apostolo Giacomo, fratello di Giovanni evangelista. Si racconta infatti che, andando per il mondo a testimoniare la dottrina del Cristo, egli abbia escogitato un sistema per alleviare le sofferenze provocate ai suoi piedi dalle lunghe marce alle quali lui che era pescatore mal si adattava.
    Raccolse dunque i ciuffi di lana che i montoni la sciavano attaccati ai cespugli e ne fece un morbido strato fra il piede e i sandali. Dopo qualche tempo si accorse che la lana si induriva grazie alla pressione, all’umidità e al sudore. Quel compatto sottopiede segnò la nascita del feltro. Si era infatti naturalmente prodotto il processo di agglutinamento che è tuttora l’operazione fondamentale nella fabbricazione del feltro. È vero che gli antichi avevano l’abitudine di cercare un inventore per ogni cosa, ma ciò che va oltre la leggenda è il fatto che già le prime corporazioni dei cappellai tributavano a san Giacomo una particolare venerazione e lo consideravano il protettore della loro “arte”.
    Certo la leggenda rientra anche nel gusto medievale dell’aneddoto agiografico ma non si può ignorare il ruolo che il culto di questo santo ebbe nella diffusione e nello sviluppo del feltro. La località nella quale, secondo la tradizione, fu scoperta la tomba dell’apostolo fu chiamata Santiago de Compostela, nome che deriva da campus stellae il campo indicato miracolosamente da una stella, che divenne meta di uno dei pellegrinaggi più popolari del Medioevo.
    E furono proprio i viaggi devozionali verso Compostela che divennero anche occasione di scambi e commerci lungo gli itinerari costellati di luoghi di sosta e monasteri. La pregiata lana spagnola merinos utilizzata dai cappellai per i feltri più fini trovò anche in queste strade della fede la via per trasformarsi in merce di scambio.
    San Giacomo si festeggia il 25 luglio. L’iconografia lo presenta come un viandante: sulle spalle un povero mantello, appoggiato al lungo bastone di legno col manico ricurvo, porta in testa il cappello di feltro a larghe tese su cui è applicata una conchiglia.
    (dal web)




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    Il Cappello d'oro di Berlino (in tedesco: Berliner Goldhut) è un manufatto risalente alla tarda Età del bronzo realizzato in una sottile lamina d'oro. Fu utilizzato come copertura esterna di un lungo copricapo conico, probabilmente realizzato in materiale organico.



    Quello di coprirsi la testa è un uso antico, anzi antichissimo se già nel periodo neolitico l’uomo usava larghi cappelli di paglia per ripararsi dal sole.
    Certo non sono molti i reperti giunti fino a noi poiché si trattava di manufatti in materiali deperibili, ma ne troviamo ampia testimonianza nei dipinti, nella scultura, nei mosaici nonché in monete e documenti scritti.
    Il materiale più antico furono le pelli di animali selvatici dapprima usate al naturale e poi rozzamente conciate, tagliate e legate insieme con lacci fatti passare dai fori praticati con punteruoli d’osso.
    In anni recenti la scoperta dell’uomo del Similaun ci ha fornito un esempio concreto di cappello “archeologico”.
    Lana, cotone, seta, cuoio sono stati da sempre elementi offerti dalla natura per proteggere le parti del corpo più delicate conservandole ad una temperatura il più possibile costante e va da sé che la testa è stata sempre considerata una parte quanto mai sensibile.
    Inizialmente il copricapo aveva certo una funzione pratica: doveva preservare la testa negli scontri e difendere dal freddo e dalle intemperie, ma i confini tra funzione utilitaria e simbolica del cappello non sono sempre facilmente delineabili.




    “Il cappello esiste perché esiste la necessità di preservare, anche solo simbolicamente,
    la parte più nobile dell’uomo, la testa e quindi il pensiero”


    La testa come sede dell’anima e della vita assume fin dalla preistoria potenti qualità magiche. Per questo il gesto di coprire il capo esprime innanzi tutto il bisogno di proteggere questa parte del corpo da forze ostili o anche di evidenziarla dandole rilievo e visibilità quasi a richiamare l’attenzione del divino.
    Nella tradizione romana più antica qualunque sacrificio o rituale religioso doveva essere compiuto velato capite, ossia con la testa coperta e la copertura avveniva con il lembo della toga. Secondo gli Indiani d’America il cappello della grande medicina, se portato in battaglia aveva il potere di deviare frecce, lance e proiettili.
    Fatto di pelle di bisonte con le corna attaccate era al centro di un importante cerimoniale presso gli Cheyennes. I sacerdoti greci e poi quelli romani durante i sacrifici si cingevano il capo con l’infula, la benda di lana bianca o rossa che ritroviamo nelle strisce pendenti della mitra dei vescovi, l’originario copricapo di re e dignitari persiani penetrato in Occidente attraverso i culti misterici.

    I Galli che celebravano la dea Cibele indossavano una mitra con bende ricadenti sulle spalle. Le Vestali portavano il tutulo, un copricapo di forma conica, a pan di zucchero che ritroviamo in monumenti etruschi come quello al dio Vertumno raffigurato in una statuetta conservata al Museo archeologico di Firenze. L’apex, un berretto fatto con la pelle dell’animale sacrificato era indossato a Roma dal flamen dialis, ministro del culto di Giove.
    Già Erodoto conosce le tiare indossate dai sacerdoti iranici durante i sacrifici mentre molti monumenti ci hanno lasciato rappresentazioni degli alti cappelli conici portati in Mesopotamia.
    Gli Ebrei di epoca biblica indossavano probabilmente dei copricapo rituali a forma di turbante o di mitra simili a quelli dei re assiri.



    L’uso recente di coprirsi con la chippa rimanda all’idea della presenza di Dio sul capo dell’uomo. Il turbante di origine persiana è stato per secoli copricapo caratteristico delle popolazioni islamiche e lo stesso Maometto prima della sua conversione commerciava turbanti in Siria. Mitra, tiara, zucchetto, berretta, camauro sono tutte forme di copertura della testa di papi e alti prelati della chiesa cattolica.
    Nel Concilio di Lione del 1245 Innocenzo IV prescrive il galero come simbolo di dignità cardinalizia: di color rosso scarlatto è di panno, a bordi larghi, con due cordoni laterali con sopra cuciti trenta fiocchetti di seta, rossi anch’essi. Possiamo certamente affermare che in tutte le culture il copricapo fa parte di quel “codice corporeo” che, come altre forme di linguaggio, serve a lanciare messaggi, a comunicare.
    È una rappresentazione simbolica che assume significati molteplici: potere, seduzione, minaccia come nel caso degli elmi creati per incutere paura, ma anche appartenenza ad una cultura, ad un ambito sociale, ad una categoria professionale.
    Spesso la storia non ha dato ai prodotti della civiltà e della cultura materiale lo stesso valore attribuito ad un’opera d’arte o ad una scoperta scientifica eppure ogni oggetto realizzato dall’uomo ci permette di scoprire e di leggere il mondo, e certo l’oggetto-cappello ha un ruolo di assoluto protagonista in questo viaggio di scoperta e di conoscenza.




    “Il cappello come tanti altri oggetti che ci passano accanto tutti i giorni, silenziosi e non presuntuosi sul piano della loro presenza nell’enciclopedia del sapere, è un luogo simbolico complesso che è necessario far uscire dal suo anonimato”

    Non si esagera affermando che si può scrivere una storia dell’uomo attraverso la storia dei suoi cappelli.

    Nel Rinascimento:

    Il trionfo del cappello di feltro che certo possiamo considerare copricapo per eccellenza avviene nel secolo XV.
    Il gusto estetico che contraddistingue la civiltà rinascimentale prevale in ogni ambito e anche l’abbigliamento diviene elegante e raffinato. I morbidi velluti talora trapuntati di fili d’oro vengono usati per i mantelli bordati di pelliccia ma anche per i grandi berretti imbottiti, anche se i feltri di lana, solitamente di colore nero cominciano ad essere preferiti dai benestanti che amano l’eleganza che viene dalla Francia dove il cappello di feltro si diffonde più rapidamente che in Italia.

    Carlo VII è uno dei primi ad indossare un feltro di fine pelo di castoro, segno distintivo della nobiltà che lo preferisce a quello di lana. Così lo ritrae Jean Fouquet in un famoso dipinto conservato al Louvre.

    Lo sfarzoso abbigliamento rinascimentale che domina in Italia fino alla prima metà del Cinquecento è testimoniato dalla ritrattistica che il mecenatismo delle Corti ci ha donato in gran copia e che offre splendidi esempi di modelli di copricapo.

    Sotto il regno di Francesco I, e siamo nella prima metà del Cinquecento, il sovrano e il suo seguito iniziano ad influenzare fortemente la moda: la Francia indossa feltri a larga tesa ornati con fibbie e piume mentre una piuma adorna anche i berretti di velluto nero a forma piatta.
    In Germania i feltri di lana hanno una stretta tesa rialzata mentre l’Inghilterra, poco amante delle novità provenienti da altri paesi, resta fedele a berrettoni e classici feltri con testa alta e media. La Spagna preferisce le forme a cono con cupola alta e sarà proprio lei ad imporre i propri gusti in fatto di moda tanto che anche in Italia si prenderà ad usare la cappa, il corto mantello gettato all’indietro sulla spalla per mostrare la manica a sbuffo. Sulla testa il cappello di feltro a larghe tese ornato di piume.

    Mentre i principi del Rinascimento impreziosiscono i loro cappelli con nastri e trine i musulmani diffondono nel sud dell’Europa il loro copricapo in feltro conosciuto col nome di Fez. Il cappello usato dalla nobiltà in segno di rango comincia a diffondersi anche tra i ceti meno abbienti dapprima in forma rotonda, con l’orlo girato verso il basso, il cosiddetto cappello a ruota e poi in altre forme1.

    La fine del Cinquecento è segnata da guerre, carestie, devastazioni. Le corporazioni artigiane attraversano momenti difficili, le vie commerciali si fanno pericolose e ardue. La moda, ancora spagnoleggiante, sembra risentire, anche se assai marginalmente, di questa fase di crisi. Il cappello si rimpicciolisce e sulla testa a calottina si poggia un’ala a foggia rialzata. Restano le piume e i ricevimenti di Corte dove il cappello è d’obbligo come testimoniano i quadri dell’epoca.




    Col cappello sottobraccio:

    Il mutamento della moda maschile del XVII secolo vede l’abbandono delle imbottiture nei corpetti e nei calzoni ed anche le ingombranti e scomode gorgiere vengono sostituite da grandi colletti di lino o di merletto. I cappelli di feltro a cupola alta sono rigidi, a tronco di cono o più morbidi e tondeggianti. Alle piume i borghesi sostituiscono nastri di pelle di gros-grain con una fibbia al centro, ma i signori con il mantello a ruota che seguono la nuova moda di baffi e pizzetto amano il sontuoso cappello “alla moschettiera” ornato di piume e pennacchi.

    In questo secolo la storia del cappello si intreccia ed è fortemente determinata da un oggetto estetico di grande rilievo che, venuto dalla Francia, dilaga ben presto in tutti i paesi europei dove peraltro la cultura e la lingua francese la facevano da padrone: intendiamo parlare della parrucca che ancora fino al Settecento coprirà le teste maschili e femminili costringendo ogni copricapo a fare i conti con la sua ingombrante presenza.

    Come spesso accade nei grandi mutamenti, e non solo in quelli della moda, fu un piccolo anche se… regale evento a mettere in moto una vera e propria rivoluzione dell’immagine. Quando nel 1620 il re di Francia Luigi XIII non ancora ventenne rimase calvo si mise in testa una parrucca per non far perdere la dignità al suo capo coronato.

    La funzione protettiva del cappello era fortemente insidiata da questa nuova “copertura” ma non il suo ruolo estetico. Portato sotto il braccio e usato pressoché unicamente per inchinarsi a rendere elegante omaggio alle dame il cappello a tesa larga, troppo voluminoso, viene sostituito prima da un bicorno con ala aderente ai lati della testa e poi dal chapeau bas, il tricorno che, per gli aristocratici, è in feltro di castoro o in velluto profilato d’oro. Sotto il re Sole, Luigi XIV, la Francia è ai vertici nella cappelleria.

    Non solo i nobili, ma anche le altre fasce sociali fanno uso di un tricorno meno raffinato, in feltro di lana e senza ornamenti. In mano o sottobraccio si porta in ogni occasione questo azzimato oggetto di eleganza che ben si accorda alle leziose note del minuetto.

    Le commedie di Molière e di Goldoni ce lo presentano come complemento maschile che accomuna, almeno nella forma, nobili e servi. Sotto il regno di Luigi XV la nobiltà si veste di velluto mentre le bianche parrucche meno voluminose e illuminate da un soffio di cipria celeste si accompagnano al trionfo di candidi jabots intorno a colli per ora ancora ben saldi.

    L’aristocrazia francese che sta per avviarsi verso il suo tragico declino ha ancora il tricorno sotto il braccio. Occhialini, tabacchiere, fazzoletti di trine completano l’immagine rococò.




    In testa alla Rivoluzione:

    Quando la parrucca si ridurrà a pochi riccioli il tricorno tornerà sulla testa e i nostalgici continueranno ad usarlo anche quando la moda proporrà la redingote, il corto soprabito detto anche “finanziera” indossato sui calzoni a culotte.
    Siamo nel 1780.
    I popolani preferiscono il bicorno con le tese fissate da spilloni. Si avvicina il 1789 che segnerà la grande bufera sociale, politica e culturale che, partita dalla Francia, investirà l’intera Europa e quindi anche gli stati italiani.
    Gettate via le parrucche e gli abiti di seta i capi rivoluzionari indossano austere redingote senza trine e ricami; in testa il berretto frigio che diverrà l’emblema dei giacobini.Ci si veste da “sanculotto”: pantaloni lunghi, corto gilet a doppio petto, giubbino detto “alla Carmagnola” dato che era arrivato a Marsiglia attraverso impiegati piemontesi. Il bicorno di feltro con l’ala più voluminosa e profilato in spighetta dorata tornerà a far parte dell’abbigliamento sobrio e decoroso che caratterizza la reazione borghese seguita al Terrore e rappresentata dal Direttorio.

    Viene indossato con le due punte opposte sulla fronte e sulla nuca fino a che Napoleone lo girerà per iniziare l’uso delle due punte ai lati. La rivoluzione francese è finita ma per il cappello si preparano grandi trasformazioni che lo vedranno protagonista nell’arte e nella cultura dell’Ottocento nonché nel passaggio da una economia artigiana alla produzione su vasta scala del primo Novecento.

    Il cappello di feltro detto “a staio” con l’ala arricciata ai lati, di forma tronco conica molto arcuata che compare sulle teste sopravvissute dei nuovi ricchi sembra anticipare la forma del cilindro che presto invaderà il mondo.




    L’Ottocento:

    All’inizio del XIX secolo la borghesia che accresce il suo prestigio in Europa e in America impone una moda più pratica e sobria. La finanziera si trasforma nel frac che per tutta la prima metà dell’Ottocento è di rigore accompagnato da panciotti fantasia e cravatte variopinte.

    Ma il vero, nuovo segno dell’eleganza maschile è rappresentato dal cappello a cilindro destinato ad un ruolo di assoluto protagonista nella storia del cappello. Originario della Cina dove pare venisse confezionato in seta da un cappellaio cantonese arriva nel 1795 in Francia dove lo indosseranno i giovani fondatori del movimento degli Incroyables sostenitori di un modo di vestire più adatto alle idee realiste.

    Alto, di forma cilindrica detto anche bomba, canna, tuba, a torre, a staio avrà la sua definitiva consacrazione in Inghilterra. Fu infatti il signor Herrington forse il più famoso cappellaio di Londra che attorno al 1805 confezionò il primo cilindro ispirandosi proprio al cappello di feltro “a staio” di marca francese. Sulle prime la novità fu giudicata eccessiva tanto che il Lord Mayor gli proibì di andare in giro con in testa quell’ arnese.

    Ma il mercato decise altrimenti: il gusto dell’epoca si incontrò a tal punto con quel cappello che il cilindro si diffuse rapidamente in tutto il mondo. Se la cupola subisce nel tempo diverse variazioni resta pressoché immutata la tesa arricciata ai lati la cui modellatura richiede grande abilità poiché è rigida e non facile da curvare e bordare.

    Con la Restaurazione i cappelli diventano più voluminosi come nel caso del BOLIVAR con l’alta cupola svasata e i bordi larghi derivato anch’esso dal cilindro.



    Bombetta di meta’ secolo:

    Alla metà dell’Ottocento il cappello ha acquistato un ruolo primario. Uomini e donne non si mostrano in società senza cappello.

    Accanto al cappello a cilindro che assume un tono un po’ retrò ed è relegato alle occasioni ufficiali, mondane e galanti comincia a farsi strada la bombetta sempre proveniente dall’Inghilterra.

    È un cappello duro che può in certo modo considerarsi una riduzione del cilindro.

    Ideata dal cappellaio londinese Bowler tanto che essa viene chiamata anche con questo nome fu inaugurata da William Coke nel 1850 con una passeggiata a cavallo nel parco.

    Con la calotta tonda e l’ala arricciata è inizialmente di colore nero ma successivamente prenderà le sfu mature del grigio e del tortora.



    (bettylafeaecomoda)

     
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  3. gheagabry
     
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    La storia del

    COSTUME DA BAGNO



    Ora come ora le spiagge sono affollate di costumi, interi, bikini, e anche topless, di mille colori e forme, che mettono in mostra il corpo di una donna, rendendolo più bello e permettendole di prendere il sole e di fare il bagno in tutta libertà. Ma fino a due secoli fa non era così. La sua storia inizia nell’agosto del 1812, in Normandia, quando la regina d’Olanda, Ortensia del Beauharnais sfida le onde, vestita da testa ai piedi con un abito lungo e pesante, tunica e pantaloni sotto, e ovviamente il corsetto che non facilita certo la respirazione. Per nessuna ragione al mondo in spiaggia o magari da bordo di una barca di pescatori, alcuno avrebbe dovuto vedere centimetri di pelle bianchissima della dama. Finalmente nel 1824, Carolina di Berry, figlia di Francesco I, moglie di Carlo Ferdinando di Borbone è la prima ad indossare un abito per entrare in acqua: cappello, ombrello, guanti, abito di panno pesante, calze di lana e scarpe di vernice.
    La pelle abbronzata non era ben vista tra le dame, che continuavano ad avere pelle bianchissima. L’abbronzatura era, infatti, tipica di chi non poteva ripararsi dal sole, quindi la povera gente. Pian piano l’abbigliamento da mare si accorcia, e arriva fino al ginocchio. Nel 1904 il celebre sarto parigino Poiret decreta la fine del corsetto e del busto. Ed ecco nelle spiagge abiti che si adagiano direttamente sulla pelle, perfetti per la spiaggia. Nel 1906 la nuotatrice australiana Annette Kellerman, durante una gara negli Stati Uniti, presenta sì un costume intero, ma che lasciava addirittura scoperte le cosce, perfetto per nuotare libera. E nel 1920 Coco Chanel fa nascere la moda della “tintarella”. La pelle doveva essere abbronzata.
    La donna di Chanel porta pantaloncini corti e ha le braccia nude. E si lancia l’allarme: su una rivista compare “I costumi da bagno tendono a zero. Trionfo della nudità. Cosa sarà nel 1933?”. La vera rivoluzione avviene nel 1946, quando, a Parigi, l’ingegnere Loius Reard inventa (è proprio il caso di dirlo) il bikini.
    Costume a due pezzi che permette di lasciare la pancia scoperta. La prima donna ad indossarlo fu Micheline Bernardini, una ragazza che ora chiameremmo “lap dancer”. Furono due le dive che portarono il bikini in giro per il mondo: Brigitte Bardot, a metà degli anni Cinquanta, dalle spiagge di Saint-Tropez, e Marilyn Monroe, nel film Niagara del 1953. Fu solo però grazie a Margaret d’Inghilterra, figlia della regina Elisabetta che il bikini divenne davvero il costume occidentale, quando si fece immortalare dai fotografi in due pezzi mentre sbarcava dallo yacht dell’Aga Khan a Porto Cervo. Da lì in poi il bikini è indossato praticamente da ogni donna.



    ....tutto cominciò con una bomba.....


    All'inizio fu una bomba. Anzi, due bombe: quelle all'idrogeno sganciate nel luglio del 1946 dagli americani su un atollo della Micronesia. Bikini, per l'appunto. Pochi giorni dopo, un geniale quanto sconosciuto sarto francese, Louis Réard, sgancia dai bordi della piscina Molitor di Parigi una nuova moda per l'estate: invece del costume intero, faticosa conquista di decenni di «lotte femminili», un due pezzi destinato ad avere l'effetto di una bomba sulle usanze dell'epoca. E che dunque decise di chiamare «bikini»....La storia del due pezzi comincia nel Dopoguerra. Ed è indissolubilmente legata ad alcuni dei nomi più seduttivi della storia italiana e internazionale: le dive del cinema. Fu Lucia Bosè (foto sotto a sinistra), nel 1947, a far conoscere agli italiani il brivido da bikini, dalla passerella di Miss Italia che la premiò con il titolo. Ma si trattava di un costume che oggi (certo non allora!) potremmo definire «da educanda»: lo slip, per esempio, copriva con attenzione l'ombelico. Mai tabù sono fatti per essere sfidati. Era stata «La scandalosa Gilda», ovvero Rita Hayworth, l'anno precedente, a far cadere per prima il tabù ombelicale.
    Una nuova usanza che ben si sarebbe sposata con il nascente due pezzi. E forse non è un caso che su una delle bombe sganciate sull'atollo, qualche soldato sedotto da Rita Hayworth attaccò proprio una foto di Gilda danzante. Scoppiò così la moda del bikini tra le donne dello spettacolo, «perfido» strumento di seduzione che però stentava a decollare tra le donne «normali»: tramontata l'epoca delle monarchie, la spiaggia era ormai un luogo aperto a tutti. Ma l'atteggiamento verso la nudità, cioè il comune senso del pudore, per quanto in evoluzione, viveva continui arretramenti. Presi di petto, è il caso di dirlo, dalle ragazze più libere che non temevano la riprovazione popolare (o delle autorità) indossando il bikini. Ma non tutte erano così......Anche qualche diva stentava a osare. Come l'ex campionessa di nuoto Esther Williams che, negli anni '50, si rifiutava di indossarlo nei suoi film. Almeno, fin quando non furono i produttori hollywoodiani a imporglielo per contratto. In Italia, il seducente costume fu sdoganato da Sofia Loren , che con un due pezzi di raso sbaragliò la concorrenza vincendo il titolo di Miss Eleganza nel 1950... Furono quindi altre due vere bombe di fascino a portare il bikini in giro per il mondo: Brigitte Bardot (foto a destra), a metà degli anni Cinquanta, dalle spiagge mai così calde di Saint-Tropez, e Marilyn Monroe, che nel film «Niagara» (1953) riuscì nell'ardua impresa di togliere il fiato al mondo.
    (dal web)


     
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  4. gheagabry
     
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    La storia della BORSA



    Alla regina Elisabetta d'Inghilterra rimproverano di comparire troppo spesso, anche in cerimonie ufficiali, con la borsetta fra le mani. È un accessorio borghese, dicono, che banalizza il look della sovrana. La quale d'altronde non potrebbe farne senza, oggi, obbligata com'è a star di continuo in mezzo a generali, ambasciatori, politici, funzionari e gorilla. Una volta invece la regina aveva sempre attorno le sue dame di compagnia, con tutto ciò che le poteva occorrere, senza che lei dovesse portarselo dietro in borsetta. Borsetta, accessorio borghese finché si vuole, ma indispensabile per chi, come la donna non ha tasche e taschini. Difatti, anche il re d'Inghilterra, quando indossa il kilt, sopra il gonnellino si mette lo sporran, il tradizionale borsello dei montanari scozzesi.
    Benché venga considerato un'invenzione dei nostri tempi unisex, il borsello è antico. Molto antico: come la borsetta del resto. Tutte e due derivano dalla borsa; che risale addirittura alla preistoria: quando l'uomo non sapeva né filare né tessere, e doveva adoperare le pelli degli animali per confezionarsi gli abiti e i relativi accessori. La parola borsa nel suo significato originario voleva dire appunto pelle di animale scuoiato.
    In breve la storia è questa. L'uomo preistorico notò che, accartocciando una "pelle" se ne otteneva una "borsa". Comodissima per trasportare le pietre scheggiate, cioè le armi e gli utensili. Un'idea ottima questa della borsa, che durò poi sempre, anche quando fu inventato il denaro che dispensò dall'obbligo di trasportare pietre. Tuttavia la borsa-borsellino non conobbe subito il meritato successo: perché ad evitare rischi, la gente il suo denaro preferiva portarselo dietro nascosto in bocca. Un'abitudine che venne poi riutilizzata; e per secoli si continuò a mettere in bocca ai defunti l'obolo, la moneta con cui pagare le spese di viaggio nell'aldilà.
    Quando la circolazione monetaria si generalizzò, cominciarono a diffondersi le borse. E con le borse - figuriamoci se no - i borseggiatori. Fu proprio per combatterli che, già nell'antichità, si adottarono vari modelli di borsa. Ne citeremo i tre principali, dal nome latino, sostanzialmente uguali a quelli che si continuano ad usare adesso.
    La cosiddetta zona, che era una borsa da portare in cintura; la crumena da portare a tracolla; la manticula da portare in mano. E siccome quest'ultima può sembrare una borsa abbastanza inefficace contro gli scippi, bisogna spiegarla. A fronte dei vari tipi di borsa antifurto, erano ovviamente spuntati vari tipi di borseggiatori, ognuno col suo specifico nome. Il sector zonarius e il crumeniseca erano dei tagliaborse, col coltello pronte per tagliare la cintura delle zone o la tracolla delle crumene: individui tremendi e all'occorrenza sanguinari. Chi teneva più alla vita che alla borsa preferiva la manticula che era meno pericoloso strappare di mano dal manticularius o - come diremmo oggi - dallo scippatore.
    Furono le donne a trasformare la borsa in un simbolo di eleganza. E così nacque la borsetta, tipico accessorio dell'abbigliamento femminile. Già in epoca molto antica c'erano borsette preziose; che gli uomini regalavano alle loro belle. È ad una di queste borsette che il poeta Marziale faceva dire: «Quando sarò passata di moda non buttarmi via, te ne prego, che non mi prenda qualche barbone per metterci gli avanzi e magari mi faccia dormire col suo cagnaccio».
    Purtroppo, anche se non si buttano via, le borsette si autodistruggono, fatte come sono con materiali deperibili. Delle borsette più antiche non è rimasto nulla; e quasi nulla anche come documentazione iconografica. Per avere un'idea delle borsette d'età classica, c'è forse solo il bassorilievo romano del museo di Avezzano (l'Aquila) che raffigura un modello incredibilmente attuale. Abbiamo centinaia di raffigurazioni muliebri d'ogni secolo, eppure fino al tardo Settecento, non si vede una borsetta in mano a quelle matrone o nobildonne o pulzelle. La borsetta che si vede alla cintura di qualche dama rinascimentale non era in realtà che una elemosiniera: un portaspiccioli per le elemosine.
    Il fatto può sorprendere per due motivi. Primo, perché in tutte le città antiche c'era la via o il quartiere dei borsai, che testimonia la fiorente attività di questi artigiani. Ce n'erano di famosi a Venezia, Pistoia, Siena, Pisa, che già tenevano testa alla produzione della moda parigina. Secondo, perché dall'antichità in poi, vennero emanate un'infinità di suntuarie, contro il lusso, dove le borsette sono spesso elencate fra le cose proibite: borsette costosissime, con ori, argenti, gemme e smalti, ovviamente riservate a signore d'alto rango. Perché allora queste signore non le sfoggiavano anche nei loro ritratti? Un perché è probabilmente questo.
    Nell'educazione antica - delle donne soprattutto - contava molto il saper gestire con eleganza. Un modo per riuscirvi era di occupare le mani a far qualcosa di elegante. Nella statua giacente di Paolina Bonaparte a Villa Borghese, il Canova ha messo in mano alla principessa un pomo di Venere, ottenendone un gesto pieno di maestà e di grazia. Pomi del genere (scaramantici, oltretutto) erano usati nel gestire delle matrone romane. Che vediamo anche ritratte con in mano una sfera d'ambra profumate o di cristallo rinfrescante; oppure ghirlande o gioielli; il parasole orientale o il cagnolino da grembo. Per non dire del ventaglio o del fazzoletto: usatissimi poi sempre, dato che servivano ben più che a farsi vento o a soffiarsi il naso.
    Oltre a ciò una matrona romana aveva da gestire il suo abito: lungo, ampio, solenne, tutto svolazzi e panneggi. Quante mani avrebbe dovuto avere per potersi occupare anche della sua borsetta? È per questo che a portargliela veniva incaricata una cameriera particolare, chiamata pedissequa perché doveva sempre star dietro alla padrona. Ci si domanderà che senso avesse possedere borsette magnifiche, per poi darle da portare alla serva. Lo stesso senso che, nel primo Novecento obbligava i proprietari di Rolls-Royce o di Isotta-Fraschini a non guidarle di persona, ma a farle guidare dallo chauffeur. La situazione rimase più o meno questa fino al Settecento. Un secolo che conobbe una frenetica vita di società - corti, salotti, teatri - iconograficamente documentatissima. Eppure anche qui non si riesce a vedere una signora o una signorina con in mano la borsetta, come se giudicassero sconveniente portarla. E infatti pare proprio che fosse così. La pedissequa era ormai scomparsa, ma l'aveva sostituita il cicisbeo o cavalier servente. Questo per noi incredibile personaggio a metà fra lo spasimante complessato e lo sciupafemmine, come a Napoli chiamano il dongiovanni. Scriveva il Goldoni: «Le xe cosse che fa morir de rider dove ghe xe done coi cavalier serventi. Chi ghe sospira, chi se inzenocia, chi ghe basa la man».
    Ogni dama "di rispetto" non poteva non avere un cicisbeo. Il quale, fra le sue incombenze, aveva quella appunto di portarle la borsetta. Una dama che si facesse vedere con la borsetta in mano era come se dimostrasse di essere un cavalier servente: ne avrebbe sofferto il buon nome anche del suo signor marito. Più che portare la borsetta, certe volte il cicisbeo la sostituiva. Si, perché nel Settecento i sarti avevano già imparato a fornire gli abiti maschili di tasche o saccocce, che rendevano inutile il borsello adoperato fino allora dagli uomini; specie durante il Medioevo.
    Le tasche di un cicisbeo dovevano sempre contenere non soltanto quegli ammennicoli che una donna ama avere in borsetta, ma anche moltissimi altri come ad esempio: stuzzicadenti, tabaccheria, posate, finti nei (anzi una gerarchia di nei, secondo le ore e le occasioni), ago o perlomeno spilli (contro gli strappi allo strascico causati dai pestoni), carnet de bal, due orologi (cavallerescamente con ora diversa, così da poter scegliere quella più gradita alla dama), pasticche varie, sali odorosi e, per i deliqui di pragmatica, una boccetta di fetentissima assafetida. A cavallo fra il Sette e l'Ottocento, com'è noto le classi sociali vengono rivoluzionate e comincia ad affermarsi la borghesia. Scompare il cicisbeo, ovviamente. La donna finalmente esce da sola, in strada e in pubblico. È da questo momento che la borsetta diventa per lei un accessorio indispensabile; che lei stessa ama portare e mostrare; come un simbolo di questa sua emancipazione.
    Certo non sono le lussuose e magari un po' tronfie borsette delle dame del tempo che fu. Ma sono romantiche, eleganti e belle; e non di rado bellissime.
    (Alessandra Doratti, artericerca)
     
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    Finalmente anche le francesi potranno indossare i pantaloni


    05 maggio 2010. Portare i pantaloni per le donne francesi potrebbe finalmente, nel 2010, diventare legale in Francia: sembra che Parigi si appresti infatti a votare una legge per sopprimere una vecchia norma - tutt'ora in vigore - che vieta alle donne di "vestirsi da uomo".
    I deputati del partito radicale di sinistra hanno presentato lo scorso 29 aprile una proposta di legge per cancellare dai testi francesi la vecchia norma di fine Ottocento per la quale "ogni donna che desidera vestirsi da uomo deve presentarsi alla prefettura di polizia per ottenere l'autorizzazione".I tentativi di attenuare la norma si sono certo moltiplicati nel corso degli anni. Una circolare del 1892 autorizza le donne a portare i pantaloni quando vanno a cavallo.
    Con un'altra del 1909 la concessione fu estesa alle cicliste. Nel 1969, in piena rivoluzione sessuale, il Comune di Parigi invitò la polizia ad annullare la norma antipantaloni. Una richiesta rinviata al mittente dal capo delle forze dell'ordine che ritenne "assurdo" modificare una norma solo per adeguarsi a una "moda del momento".

     
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    I SALDI



    La loro nascita in Italia è una storia interessante, che è stata raccontata qualche mese fa in una pubblicazione firmata da Silvio Boccalatte dell’Istituto Bruno Leoni, un centro studi con sede a Torino che promuove idee molto liberali nella politica italiana.
    I saldi sono le vendite a prezzi scontati nel settore commerciale dell’abbigliamento, che avvengono di solito in due periodi dell’anno: dopo le feste natalizie e ai primi di luglio. La parola viene dal lessico commerciale: la differenza tra le entrate e le uscite sono un “saldo”, positivo o negativo, e i “saldi” sono quindi quello che non è stato venduto in un negozio alla fine della stagione e la vendita stessa di quei capi invenduti.

    saldi_vintage

    L’Italia fascista
    Le prime leggi che interessano le vendite straordinarie risalgono al periodo fascista. Una legge approvata il 2 giugno 1939 introduceva infatti per la prima volta le due categorie delle “vendite straordinarie” e delle “vendite di liquidazione”, ambedue definite “forme di vendita al pubblico con le quali un commerciante cerca di esitare in breve tempo tutte le proprie merci o gran parte di esse, presentando al pubblico la vendita come occasione particolarmente favorevole”.
    Le merci che potevano essere vendute nelle “vendite straordinarie” erano soprattutto i capi di abbigliamento, dato che erano considerati “prodotti di carattere stagionale [...] suscettibili di notevole deprezzamento se non vengono esitati durante una certa stagione o entro un breve periodo di tempo”. Come avviene oggi, i prezzi dovevano essere indicati chiaramente sulla merce e non potevano essere modificati durante il periodo della vendita straordinaria. A differenza di quanto avverrà in seguito, però, i commercianti potevano scegliere liberamente il periodo dell’anno in cui fare le vendite straordinarie.
    Ma queste vendite a prezzi ribassati erano di fatto scoraggiate, dato che imponevano al commerciante una trafila burocratica che includeva la presentazione di una domanda e l’approvazione da parte della corporazione locale (le associazioni sotto il controllo ultimo del governo intorno a cui ruotava il progetto economico del fascismo).



    Dopo il fascismo
    Nel 1944, dopo la caduta del regime fascista, nelle parti dell’Italia liberata le corporazioni vennero abolite e i loro poteri vennero interamente trasferiti alle Camere di commercio, industria e agricoltura (una per ogni capoluogo) e agli Uffici provinciali del commercio e dell’industria, ma venne rimandato un altro decreto legislativo che rimettesse ordine nella materia. Boccalatte scrive:
    Confermando l’adagio secondo cui in Italia non v’è nulla di più definitivo del provvisorio, stiamo tuttora attendendo tale decreto legislativo: nei decenni successivi all’abrogazione dell’ordinamento corporativo, quindi, la disciplina dei saldi si fece alquanto confusa e fu oggetto di normazione specifica solo da parte della Provincia Autonoma di Bolzano, tramite la legge provinciale 18 marzo 1978, n. 13.
    Il primo disegno di legge nazionale che si occupò di nuovo della questione fu il n. 405 A.C. (= Atto Camera), presentato nel luglio del 1979 da alcuni deputati democristiani, con primo firmatario il milanese Aristide Tesini. Nel discorso di presentazione, Tesini diceva che spesso le “vendite straordinarie o di liquidazione” contenevano pubblicità e proclami illusori e che alla fine non si faceva nessuno sconto. Per questo motivo, e per il fatto che la legge del 1939, con la sua burocrazia, non veniva ormai più applicata da tempo, c’era bisogno di intervenire. Tesini concludeva:

    Con la presente proposta di legge si tende, moralizzando il mercato, ad eliminare quelle abnormi forme di vendita che, facendo leva sulla credulità, impediscono un corretto sviluppo di una sana e leale concorrenza, base del nostro sistema economico.

    Questo principio è stato ripetuto molto spesso dai legislatori, che hanno presentato le regolamentazioni in materia di saldi come un modo di tutelare il consumatore dalla pubblicità ingannevole e dai commercianti disonesti, che presentano falsi ribassi di prezzo. Il progetto di legge e la sua impostazione piacquero da subito a tutte le forze politiche e diventarono legge molto rapidamente (legge 19 marzo 1980, n. 80).
    In realtà la legge ripeteva, nella sostanza, la normativa in vigore durante il fascismo, con la distinzione tra vendite fallimentari da limitare ai casi di cessazione dell’attività da una parte e “vendite straordinarie per fine stagione, dette anche ‘saldi stagionali’” dall’altra.
    Con la legge del 1980, le Camere di commercio stabilivano i periodi dell’anno, al massimo due, in cui si potevano tenere i saldi, che non potevano durare più di quattro settimane. Le merci in saldo dovevano essere indicate chiaramente e separate dalle altre. La pubblicità non poteva essere “ingannevole” e il venditore aveva l’obbligo di dimostrare, in caso di controlli, che aveva effettivamente fatto gli sconti promessi rispetto ai prezzi precedenti. Non ci potevano essere limiti ai capi in sconto che si potevano comprare né abbinamenti obbligatori con altri oggetti da comprare per avere lo sconto. Gran parte di queste limitazioni e precisazioni sono in vigore ancora oggi.

    saldi-estate-2010-torino

    Qualche altra modifica arrivò dieci anni dopo, con la legge 12 aprile 1991, n. 130. I periodi dell’anno vennero unificati in tutta Italia e non più lasciati alla decisione delle Camere di commercio: dal 7 gennaio al 7 marzo e dal 10 luglio al 10 settembre. Fuori da questo periodo di tempo erano possibili solo “vendite promozionali”, vietate per l’abbigliamento nel periodo dei saldi e nei 40 giorni precedenti.
    Nel 1998 si intervenne ancora sulle date, stabilendo che fossero le singole regioni a decidere quando poter iniziare i saldi. La celebre e molto discussa riforma del titolo V della Costituzione italiana, quella che nel 2001 ha dato diversi poteri alle regioni, ha anche consegnato loro quasi interamente anche la materia della legislazione in fatto di commercio.
    Da allora, come illustra il documento dell’Istituto Leoni ci sono stati “un florilegio di vincoli e di divieti diffusi in modo del tutto casuale sul territorio nazionale”, con grandi differenze nei dettagli tra regione e regione: in Piemonte si arriva a richiedere ai commercianti di indicare ai comuni “i testi delle asserzioni pubblicitarie”, mentre in Campania la data è decisa teoricamente da ogni singolo comune. Proprio sulla data d’inizio ci sono spesso motivi per piccole polemiche o scontri tra le autorità locali, dato che in passato, quando una regione ha deciso una partenza anticipata, le zone vicine si sono lamentate per la “concorrenza sleale”. Per questo, quest’anno la data di inizio dei saldi è stata concordata tra le diverse regioni italiane.
    Ad ogni modo, i saldi non esistono solo in Italia: molti paesi europei stabiliscono legislazioni particolari per le vendite promozionali. Un articolo dell’Economist segnalava alcuni anni fa la legislazione tedesca come particolarmente restrittiva, con norme – anche in quel caso – che risalivano agli anni Trenta e il divieto di sconti maggiori del 3 per cento nei periodi dell’anno al di fuori dei saldi. All’opposto, negli Stati Uniti ogni commerciante è libero di fare ciò che vuole in materia di promozioni e ribassi di prezzo.
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    100 anni di reggiseno, da corsetto a push up



    Dal corsetto al push up, il reggiseno, indumento intimo femminile per eccellenza, compie 100 anni. Una data che ufficialmente ricorre nel 2012, ma in realtà ha origini molto più lontane. .... Ma la storia del reggiseno, la cui evoluzione ha portato al 'push up', può arrivare molto più indietro di un secolo. Perfino il poeta Marziale citava lo 'strophium', antenato dell'attuale reggiseno usato dalle cortigiane dell'antica Roma, come "trappola a cui nessun uomo può sfuggire, esca che riaccende di continuo l'amorosa fiamma". Simbolo di femminilità e seduzione, a livello di costruzione il reggiseno è complesso come un'opera d' ingegneria. Può arrivare ad essere composto anche da 50 pezzi assemblati. Nell'ambito del suo centenario La Perla interviene a circa metà percorso, visto che il primo laboratorio della griffe venne fondato nel 1954 da Ada Masotti, abile bustaia allevata nel miglior atelier di Bologna, in un momento in cui la vestibilità del capi non poteva affidarsi alle fibre elastiche ma solo alla modellazione.(Patrizia Vacalebri, ansa)



    Per trovare precise origini del reggiseno bisogna partire dalla alla Belle Epoque quando le signore della "buona societa'", secondo la moda francese, non mancano di adottare lunghe vesti aderenti, a collo alto, che valorizzano il petto prominente.
    A questa rivoluzionaria liberazione del busto, seppure votata all'insuccesso, segue nel 1912 l'invenzione del reggiseno. La ditta Diana-Slip fa ricorso ai vecchi maestri bustai: la guaina, tessuta a telaio senza filo di gomma, contiene il reggipetto in cotone ripreso ad uncinetto. La Francia, col modello "Pregermain" mette invece sul mercato reggiseni elasticizzati senza spalline. I colori in voga sono il salmone, il corallo chiaro e il rosa pastello. Il nero, che fino alla guerra veniva tranquillamente portato dalle "signore perbene", diviene ora il colore del vizio. Comunque, il reggiseno, cosi' come lo conosciamo oggi, cioe' con le spalline e le coppe, fu l'ereditiera americana Mary Phelps Jacob, nipote di Robert Fulton, a inventarlo, proprio per rispondere a una semplice e banale esigenza: poter indossare un abito molto scollato e trasparente senza mostrare il corsetto sottostante.



    La giovane dichiarò: "non posso dire che il reggiseno cambierà il mondo come il battello a vapore del mio antenato, ma quasi". Questa curiosa affermazione, rilasciata nel 1912, ha in sè un po' di verità: in fin dei conti la prima forma "ergonomica", che modellava il corpo femminile senza costringerlo, fu proprio quella ideata dalla ragazza americana.Proprio mentre le donne stavano per ottenere il voto e lottavano per i diritti come persone. Forse quella ragazza di New York, senza neanche accorgersene, aiuto' le donne ad emanciparsi e il suo reggiseno ha conquistato il mondo.

    Con l'arrivo delle fibre sintetiche, cominciano a scatenarsi anche gli stilisti. Christian Dior, Balmain e Paquin, tentano di rilanciare la guaina senza risultato. Esplode invece il carioca: tre semplici listarelle di nylon o pizzo, che provvedono a valorizzare e rendere i seni simili a vere e proprie coppe.
    De Sica del resto, in quegli anni, nel divertente film "Altri tempi" di Blasetti, scopre le "bocce maestose" della Lollo. Bocce, probabilmente valorizzate da sapienti reggiseni-bustino o da impunturati pagliaccetti, che suggeriscono ai francesi l'idea di chiamare "Lollo" ogni mammella. Termine tuttora esistente nel vocabolario e nel costume. Alle soglie degli anni Sessanta, Brigitte Bardot, che incarna l'erotismo tra l'ingenuo e il sofisticato, osa farsi fotografare con sensualissimi reggipetti a balconcino, fortemente imitata dalle giovanissime con grande scandalo delle madri.




    Ha compiuto cent’anni. Negli anni ’70 le femministe lo hanno bruciato in piazza. Negli anni ’80, epoca delle donne rampanti, sembrava aver perso il suo ruolo nella seduzione. Finchè l’ingegneria aeronautica ha fatto nascere il reggiseno push-up ha fatto esplodere una vera ma pacifica guerra. A colpi di reggiseno, tra modelli che esaltano il seno e quelli che lo appiattiscono.

    .. nel corso del tempo il reggiseno ha assunto significati sempre diversi..

    Eppure, una ventina d'anni fa, nel periodo della grande esplosione femminista, donne di ogni ceto ed eta', persino Jane Fonda, facevano dei pubblici falo' coi reggiseni quasi a parodiare i famigerati roghi subiti dalle streghe.
    Se Rita Hayworth viene ricordata come "il seno" o Lana Turner come "il pullover", probabilmente Carmen Russo, Francesca Dellera, Serena Grandi o Sabrina Salerno verranno ricordate come "il reggiseno".




    Cosi', anche il reggipetto di qualche diva nostrana finira' accanto a quello di Madonna nel Museo Frederick's of Hollywood a Los Angeles, sorto lo scorso anno nella citta' dei sogni di celluloide, per mano del titolare dell'omonima azienda che da oltre quarant'anni confeziona e vende reggipetti di ogni tipo e qualita'.

    Oltretutto sembra che il reggiseno sia un articolo molto richieste acquistato dlle donne come antidoto alla depressione. "Quando c'e' stato il crollo di Wall Street", afferma orgogliosa Russ Frolov, la direttrice del noto magazzino, "la nostra compagnia ha notevolmente incrementato il fatturato.

    Ma il reggiseno fu per le donne anche un indumento di potere... Nel 1946, a Silvana Pampanini, allora ventunenne, anche se non divenne Miss Italia, la giuria fu costretta a consegnare un curioso attestato: "Non ha vinto ma e' bella quanto la vincitrice" (Rossana Martini). A colpire soprattuno il pubblico e la giuria furono i suoi prosperosi seni inguainati dalle neonate fibre artificiali. Era iniziata l'era delle maggiorate. Si usciva del resto da una guerra tremenda, e il seno abbondante era indice di prosperita'. E i reggiseni, per il perfezionamento dei materiali che li compongono, lo valorizzavano ancora di piu'. Al punto di arrivare a veri e propri eccessi come nel caso di Silvana Di Stefano, gia' Miss Claviers 1949 che, per ottenere il titolo di Miss Italia, mise della bambagia nel reggipetto. Scoperto il trucco, venne eliminata all'istante. "Non volevo vincere per ambizione", si giustifico' la mancata miss, "ma soltanto per essere presentata al mio idolo Ernest Hemingway che soggiorna in vacanza proprio qui, a Cortina D'Ampezzo, dove si tiene la finale".
    (rossoscarlatto)






    Se andiamo in ordine cronologico, il corsetto è il suo ultimo predecessore: era una sorta di busto con stecche di balena che aiutava a modellare la reale silhouette femminile a seconda delle mode dell'epoca.
    La più celebre silhouette "modificata" fu quella proposta dal primo stilista della storia della moda, Charles Worth, che nell'Inghilterra dell'800 propose con i suoi modelli una donna dalla vita da "vespa", stretta (o costretta) all'interno del busto.

     
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    Trovato reggiseno del '400, assomiglia a modelli oggi
    Durante la ristrutturazione del castello Lengberg, nel Tirolo dell'est. La scoperta e' che le donne, nel Medioevo, lo usavano già. E il reggiseno, nel '400, era assolutamente simile a quello dei nostri giorni. Con tanto di 'coppé. La rivelazione sensazionale arriva da un castello del Tirolo, dove sono stati ritrovati quattro reggiseni usati fra il 1440 e il 1485. I più antichi della storia della moda, che a questo punto "andrà riscritta", dice all'ANSA l'archeologa Beatrix Nutz, responsabile della ricerca sui tessuti. E i reggiseni medievali saltano fuori proprio mentre i marchi storici in Italia festeggiano i 100 anni del capo intimo. Il ritrovamento in realtà risale al 2008: quando un team archeologico dell'università di Innsbruck, durante i lavori di ristrutturazione del castello Lengberg - vicino Nikolsdorf, nel Tirolo dell'est - ha individuato una specie di piccola discarica medioevale in una cavità del palazzo.

    E' venuto fuori di tutto: monete, carte da gioco, documenti, bicchieri, pezzi di ceramica e soprattutto ben 2.700 frammenti di stoffa. Oggi arriva però la conferma che quei reperti risalgano proprio al XV secolo. "Quando ho visto quel capo intimo ho capito subito che si trattava di qualcosa di molto speciale", ha detto Beatrix Nutz parlando della scoperta. L'archeologa spiega che i reperti più preziosi del castello, che nel '400 apparteneva all'arcivescovo di Salisburgo, sono quattro reggiseni ed un paio di mutande da uomo. "Mi ha stupito subito soprattutto la forma della coppa", ha spiegato. Prima di questa rivelazione, infatti, la data di nascita del reggiseno è sempre stata datata nell'Ottocento. Per avere cetezza del periodo a cui risalivano i tessuti, sono stati mandati al politecnico federale di Zurigo, dove è stato confermato che questi capi intimi sono stati indossati tra il 1440 al 1485.

    "I reggiseni di lino sono ancora in buono stato e si riconosce anche a uno sguardo, in modo evidente, la forma delle coppe", ha raccontati la Nutz. La storia della moda diceva finora che le donne prima dell'Ottocento indossassero solo una sottoveste di lino, mentre, nell'antichità, le donne greche avrebbero utilizzato delle fasce di stoffa. Le coppe, insomma, sono sempre state ritenute un'invenzione moderna.

    "Ora si deve riscrivere la storia", sentenzia divertita la studiosa. Difficile dire chi indossasse questi reggiseni: perché in un castello come quello a Lengberg hanno vissuto tante donne. Gli archeologici suppongono però che i capi appartenessero a una nobile. Il reggiseno sembra avere un taglio moderno e potrebbe appartenere anche ad una collezione attuale: "Già mi sono arrivate mail dagli Stati Uniti, e dalla Germania, di persone interessate ad una copia dell'esemplare". Da non sottovalutare, però, è pure la scoperta delle mutande: a prima vista un modello femminile piuttosto "sexy", erano invece un capo maschile.

    "Le donne a quell'epoca non indossavano mutande o pantaloni - chiarisce la Nutz - perché era un segno e un simbolo di potere". La ricerca ancora non è conclusa, ma per l'anno prossimo l'archeologa vuole pubblicare un libro su questa scoperta. Si pensa già anche a una mostra dei reperti. E per non danneggiare il tessuto, nel frattempo, la stoffa è stata depositata in un luogo "secco e buio" all'università di Innsbruck. (Ansa)
     
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    Vestiti da cantanti


    © Medness, Iconic Musician Outfits

    Le icone della musica come Michael Jackson, David Bowie, Bob Marley e Freddie Mercury vengono ricordate, oltre che per le loro canzoni e il loro talento, anche per il loro stile e il loro abbigliamento.


    © Medness, Iconic Musician Outfits

    Il designer di Singapore Medness, che si occupa di grafica, infografiche e branding, con il progetto Iconic Musician Outfits prova a ricostruire, in modo minimalista, una sorta di guida allo stile dei cantanti, dove riassume la scelta di ciascun artista e indica con una breve didascalia a chi appartengono questi stili, di cosa sono composti e in che occasione o per quale canzone l’accostamento è stato creato.


    © Medness, Iconic Musician Outfits



    Edited by gheagabry - 8/2/2014, 15:47
     
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    LE SCARPE NELL'IMPERO ROMANO

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    Già ai tempi degli Antichi Romani, non era solo l'abbigliamento a tradire l'appartenenza a un dato gruppo sociale. Anche le scarpe costituivano una spia importante della condizione sociale di chi le indossava. La maggior parte delle calzature romane era un adattamento di quelle già realizzate da Greci ed Etruschio e si caratterizzava per essere fissate alla caviglie. In linea generale, i principali tipi di scarpe portate dagli antichi Romani possono ridursi a tre: i sandali, i calcei e le caligae.

    I sandali solo in casa. I primi, detti in latino soleae o sandalia, derivavano direttamente dal mondo graco e consistevano in una semplice suola di cuoio fissata al piede da striscioline di cuoio che si facevano passare tra le dita. Lo spessore del sandalo variava anche il funzione delle condizioni climatiche e si ricorreva spesso a sandali rinforzati e imbottiti durante le stagioni più rigide. Altri sandali della tradizione greca, del tutto simili alle soleae, erano le crepidaeo, nelle varianti femminili, crepidulae. Lasciando scoperta la maggior parte del piede, i sandali erano, senza dubbio, calzature comode, ideali per stare in casa.


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    Non erano adatte alla vita sociale: il atto di indossarle in pubblico era ritenuto un esempio dell'influenza greca corruttrice e un simbolo di sconveniente informalità o la perdita di status, in quanto portare il collo del piede scoperto era una caratteristica degli schiavi. Le critiche non risparmiavano neppure personaggi famosi come il Generale Publio Cornelio Scipione (Scipione l'africano, 235-183 a.C.), o, il triunviro Marco Antonio (83-30 a.C.), che furono oggetto di biasimo, perché indossavano una tunica di stile greco (pallium) e calzavano crepidae.

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    Durante l'impero la moda dei sandali greci si diffuse ampiamente, l'imperatore Tiberio (42°.C. - 37 d.C.), suo nipote Germanico (15 a.C. - 19 d.C.) , che fu un valoroso generale , e l'imperatore Caligola (12-41 d.C), figlio di Germanico, si presentavano in pubblico con i sandali e così sono stati ritratti nelle sculture a loro dedicate.

    Vi era però una circostanza sociale in cui era richiesto l'uso del sandali: i banchetti privati. Prima di accedere alla sala da pranzo (triclinio), infatti, gli ospiti, aiutati dai servi, indossavano le loro soleae.

    Perciò l'espressione soleas poscere " chiedere i sandali assunse il significato di "prepararsi a partire".

    Un tipo particolare di sandalo era il solo alto, o coturno, provvisto di una zeppa e utilizzato dagli attori tragici.

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    La calzatura per eccellenza dei cittadini romani era il calceus. Simile ad un mocassino alto e chiuso, era realizzato in cuoio, privo di tacco e corredato di tomaio in morbida pelle che ricoprivano tutto il piede e anche la pianta. Bisogna infatti tenere presente che i Romani non usavano calza né calzamaglie, anche se i cittadini di rango più umile sicuramente si proteggevano dal freddo con indumenti di lana. I calcei si allacciavano per mezzo di stringhe di cuoio alle caviglie o alla gamba. Si trattava di calzature pesanti, piuttosto scomode ed anche costose, ma tutti i cittadini romani erano tenuti ad indossarle, insieme alla toga, ogni volta che uscivano da casa. Agli schiavi era assolutamente proibito calzare i calcei.

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    Esistevano più tipi di calceus, adatti alle varie categorie sociali. Il calceus patricius, proprio dei patrizi, era di pelle colorata originariamente in rosso, poi anche in marrone. Aveva la suola spessa ed era legato con quattro strisce di cuoio (corrigiae), che partivano dalla suola, arrivavano al polpaccio e si allacciavano sul collo del piede. I calcei praticii erano chiusi da una lingua di pelle, talvolta arricchita da una fibbia d'avorio o d'argento o mezzaluna (lunula. Questo ornamento indicava in origine l'appartenenza a famiglie di antico lignaggio, ma in età imperiale perse significato e fu usato per impreziosire i calcei più eleganti. Secondo una testimonianza del''epoca bizantina, i consoli portavano calcei di colore bianco. Il poeta Marziale (circa 40-104 d.C.), in uno dei suo epigrammi, schernisce un console, che si preoccupava più della pulizia delle scarpe che di quella della toga. "La tua toga è più lurida del fango i tuoi calzari più immacolati della neve, Cinna: perché dunque, sciocco, nascondi i piedi lasciandoli cadere su il mantello?".

    calzature

    Oltre al cacei patricidi esistevano i calcei senatorii, calzati dal senatori. A patte il colore nero (nigris pellibus) non si differenziavano molto da quelli patrizi.

    Un editto di Diocleziano del 301, con calmiere dei prezzi, fissò il costo dei vari calcei: 150 denari ai patricidi e 100 ai senatorii. Vi erano poi anche dei calcei mullei, riservati alle personalità più in vista dello Stato, i particolar modo all'imperatore. Erano di color porpora e dovevano il nome e la tonalità rossa, che ricordava quella della triglie (mullus). I calcei ripandii, invece, eramo scarpe di tradizione etrusca con la punta rialzata e leggermente arrotolata.

    calzature

    CALZATURE PLEBEE

    Anche i romani meno abbienti indossavano i calcei , ma di tipo rozzo ed economico. Una delle versioni più semplici e robuste utilizzata dalla plebe era il cosiddetto "pero", una scarpa senza tacco, di pelle non conciata, che avvolgeva il piede e copriva la caviglia lasciando libera la gamba, a differenza dei calcei di lusso dei cittadini benestanti. In genere , i più poveri e gli schiavi indossavano vecchie scarpe rammendate. Il poeta Giovanale , per esempio, in una delle sue satire descrive un pover'uomo che porta " un mantello sudicio e strappato, una toga consumata, scarpe rotte, con un filo che si scopre in più di un rammendo".

    Marziale dedica invece un epigramma a un militare equestre, che da una posizione di agio e ricchezza era sprofondato in povertà: " Dopo che accadde la tua toga è molto più sporca, il tuo mantello è più brutto, le tue scarpe di cuoio rammendate tre o quattro volte" I contadini e gli schiavi indossavano anche zoccoli con suole di sughero o legno, chiamati "sculponeae, dal verbo sculpere, "intagliare il legno:


    CALIGAE PER LEGIONARI

    Le caligae erano scarpe usate dai soldati, che per questo venivano chiamati anche calegati. Si trattava di calzatire di cuoio, dotate di lacci robusti che arrivavano alle caviglie. Per renderle più resistenti, si inserivano nella suola un centinaio di chiodini di ferro o di rame: esperimenti moderni hanno dimostrato che il questo modo le caligae potevano sopportare fino a 1000 km di marcia. Non di rado poi le caligae chiodate potevano servireanche per colpire a morte i nemici. Per la stessa ragione, portare questo tipo di calzature in città poteva causare spiacevoli incidenti. Giovenale, nelle satire, scrive a proposito di una strada romana: "gli stinchi in un mare di fango, da ogni parte, da ogni parte mi calpestano suole enormie il chiodo di un soldato mi si conficca nell'alluce" Non con tutti si poteva correre questo rischio: lo scrittore Sventolio informa infatti che le guardie del corpo dell'imperatore, i pretoriani, portavano "caligae speculatores", prive di chidi, molto più leggere e silenziose.
    (Miguel Angel Novello Lopez - Università di Trieste)





    LE SCARPE FEMMINILI: MORBIDE, DECORATE E SEDUCENTI

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    A casa, le donne di solito indossavano il "soccus", un tipo di scarpa molto decorata che assomigliava ad una pantofola. Rispetto a quella maschile, le scarpe femminili, quasi sempre senza tacco, si distinguevano per l'utilizzo di un cuoio più morbido e per scelta dei colori:il bianco o tinte vivaci come il giallo (ottenuto dallo zafferano), il blu e il verde.

    Le donne aristocratiche indossavano scarpe decorate con perle e fili d'oro e d'argento. Nel caso di viaggi fuori città utilizzavano invece calzature che coprivano la gamba fin sopra la caviglia, più adatte ai terreni accidentati delle strade di campagna. Nell'"arte di amare", il poeta Ovidio afferma che le donne dell'aristocrazia romane attribuivano grande sensualità alle scarpe strette e fascianti. Esisteva anche la versione femminile delle caligae, le caligae muliebres, più eleganti e senza chidini nella suola. Da un editto dell'imperatore Diocleziano del 301, aprrendiamo che il prezzo di queste era fissato a 60 denari.

    (Da "Storica" dicembre 2012)



    Edited by gheagabry1 - 6/12/2019, 16:55
     
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    I COLORI del periodo REGENCY

    Una testimonianza della diversità di denominazione dei colori di allora rispetto ad oggi possiamo averla nei romanzi di ambientazione Regency scritti con maggior accuratezza e dietro ai quali ci sono state serie ricerche.



    Abiti irlandesi con dettagli color coquelicot - 1795


    COQUELICOT

    Esso è il nome francese del papavero. Perché non chiamarlo semplicemente "Poppy Red" ? Dobbiamo ricordare che il periodo Regency coincide con il dominio Napoleonico in Francia - ed in buona parte d'Europa - quindi la moda ed il gusto inglesi furono investiti dal neoclassicismo imperiale promosso dal grande condottiero del momento. La Francia assunse così nuovamente il ruolo di centro propulsore delle tendenze ed arbitrae elegantiarum.
    Parigi era la capitale della moda e di tutto ciò che fosse considerato chic, dunque per rendere qualcosa di tendenza non si doveva far altro che darle un nome francese, o di suono francesizzante. Questa particolare sfumatura di rosso fu particolarmente in voga durante le Season 1797-1799, sebbene continuò ad essere usato largamente anche in seguito. Naturalmente era un colore troppo forte per l'abbigliamento delle giovani. Alle ragazze era permesso utilizzarlo solo per accessori e piccoli ornamenti.


    Illustrazione tratta da un numero del "Lady's Magazine" del 1801

    Anche in questo caso ci rifacciamo al mondo floreale. Il "jonquil" (Narcissus jonquilla) è infatti il narciso, praticamente introvabile in Inghilterra come fiore spontaneo, ma una particolare varietà vecchia di centinaia di anni con la quale è stata creata, artificiosamente, la qualità di narciso che conosciamo oggi. Divenne il colore predominante nella Stagione 1801. Colore meno corposo, vi si tingeva praticamente qualsiasi elemento dell'abbigliamento femminile. Era un must have di ogni donna alla moda.




    PRIMROSE

    E' difficile comprendere di preciso il colore che si intendesse al tempo per "primrose", ovvero primula, a causa delle tante varietà e tinte che assume questo fiore. Nell'epoca Regency esistevano due distinti colori ispirati al medesimo fiore, la primula. Il primo è il giallo pallido della primula comune (Primula Vulgaris). Si trattava di un piacevole, leggero giallo utilizzato per gli abiti da giorno. La primula era anche utilizzata come motivo a rilievo per la trama delle stoffe degli abiti.



    EVENING PRIMROSE
    Una terza sfumatura di giallo, che oggi identificheremo come "ocra", ispirata alla Oenothera Biennis, pianta alta oltre un metro con vistosi fiori gialli allora chiamata "Biennal Evening Primrose". Si trattava di un giallo più profondo e brillante, dorato, che caraterizzava il "primerose" di guanti e stivali. Entrambi i colori ispirati alla primula videro il loro apice di tendenza tra il 1807 ed il 1817.


    Abito di Mme Meynards "pomona green"

    POMONA GREEN
    Il Neoclassicismo che, abbiamo detto prima, caratterizzò la moda Regency non poteva non richiamare l'Antica Grecia con allusioni classiche in vari campi, dall'architettura alla moda. Pomona era la dea greca di orti e frutteti, ed il suo frutto favorito era proprio la mela. Il "pomona green" è quindi il bel verde mela di oggi. Questo colore era utilizzato in epoca Regency sia nella moda che nell'arredamento, dal 1812 in poi.



    Abito del 1805 con dettagli puce


    PUCE

    Uno dei colori più scuri usati durante il periodo Regency era questo profondo vinaccia, il cui nome deriva dalla parola francese per "pulce". In società era guardato con disdegno, associato al colore del sangue coagulato. Nonostante questo era uno dei più popolari nell'Inghilterra del 1805.





    EMERALD GREEN

    Un verde smeraldo molto più opaco e spento rispetto a quello che intendiamo noi, ed era chiamato indistintamente "Paris green, Sheele's green, Schweinfurth green, Imperial green, Vienna green o emerald green". Dal 1817 fu molto usato nella decorazione degli interni, nella carta da parati ed in stucchi e affreschi. Purtroppo però è anche la famosa tinta di verde ottenuta con l'estratto di arsenico, creando una pesante intossicazione di massa.





    CERULEAN BLUE


    Durante l'epoca Regency questo pigmento era creato da un mix di rame e cobalto, tendeva al verde ed era un colore instabile, con la tendenza a stingere facilmente. Divenne il blu ceruleo che conosciamo oggi durante l'epoca vittoriana, divenendo tra l'altro molto popolare.



    cipriaemerletti.blogspot.it/
     
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    Il Royal Ascot e i suoi bizzarri cappelli

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    foto ANSA
     
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    I FANTASTICI CAPPELLI DI ASCOT .......2010


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    LO SAPETE CHE .......


    Si chiamano «fascinator» questi cappelli coreografici sui quali si può applicare qualunque cosa, come si vede poi nelle foto pubblicate in tutto il mondo: da un enorme cono gelato di stoffa a un uccello impagliato. Se realizzati da uno stilista costano da 500 sterline in su. Stravaganza ed eleganza sono d’obbligo al Royal Ascot, ma l’etichetta può far sudare freddo ai non iniziati. Il «dress code» viene tradizionalmente dettato dalla Regina. Le donne devono avere ombelico e spalle coperti, niente scolli o spacchi superiori a un pollice (due centimetri e mezzo), minigonne proibite, mutandine obbligate sotto i vestiti trasparenti. Gli uomini, vestiti di nero o di grigio, devono togliersi il cappello nelle sale interne e quando sono in presenza dei reali. Ed esultare con moderazione per non offendere chi ha perso. Chi sgarra viene allontanato dalla sicurezza. La severità scatena la creatività: gli stilisti si sfidano in ambitissime passerelle negli intervalli fra un galoppo e l’altro


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    Un foulard come un pensiero
    un foulard e il vento tra i capelli di mattina
    la musica addosso, lo sguardo alle nuvole
    cantavamo di certo quando il cielo ci ha visti
    e di doni ha riempito i paesaggi
    di tinte e fragili suoni.
    Un foulard
    se annodarsi non è proibito
    il sorriso, il sorriso!
    ha tenuto la virgola quest’oggi.
    (© ventodimusica - Mar, 02/03/2010)


    LA STORIA DEL FOULARD



    Ancora una volta si tratta di un capo indossato inizialmente in ambito militare e successivamente contadino, sempre sfruttandone le sue doti pratiche, per proteggere la gola dal vento o la testa dal sole. Ma è nel 1900 che nasce il foulard come lo intendiamo noi, come accessorio pratico ma di classe, perché lo si indossava non solo per nacondere una scollatura non adatta alle funzioni religiose o per coprire i capelli ma anche per rendere un look più elegante e raffinato.
    E’ il 1937. Il geniale e rivoluzionario Emile Maurice Hermès, traendo ispirazione dal fazzoletto da collo portato dai soldati napoleonici, realizza il suo primo esemplare in seta di foulard da donna con dimensioni 90x90. Lo chiama “carré”. il vero segno di svolta si ha con l’incontro tra il patron della maison e Marcel Gandit, tessitore di Lione, che mette a punto un sistema di stampe con cui è possibile riprodurre su seta stampe elaborate anche nei minimi dettagli. Messo a punto, il sistema è talmente perfetto che non viene mai cambiato fino ai giorni nostri.
    Conferisce a questo “quadrato di seta” una connotazione innovativa, concependolo come fosse una tela di pittore sulla quale esprimere creatività e immaginazione. Il semplice accessorio è così tramutato in prezioso e insolito gioiello tessile.
    Dopo il 1948, anno in cui il carré entra definitivamente nel mondo Hermès, altre prestigiose case di moda introdurranno il foulard nelle loro collezioni. In Italia: Gucci, Pucci, Ferragamo, Roberta di Camerino. In Francia: Chanel, Dior, Saint-Laurent, Givenchy, Vuitton.
    Gli anni sessanta lo vedranno diventare un vero e proprio oggetto di culto. Saranno Audrey Hepburn, Brigitte Bardot, Sofia Loren, Jacqueline Kennedy Onassis, Grace Kelly, icone di stile e raffinatezza, a renderlo famoso e desiderato. Lo slancio del mondo dell’arte nei confronti di questo pregevole emblema della moda si è fatto sempre più evidente. Nel tempo, strumento di interessanti sperimentazioni artistiche, si è rivelato uno straordinario veicolo espressivo. Grandi artisti del passato hanno dipinto foulard che rappresentano autentici capolavori. Sono: Matisse, Dalì, Buffet. In tempi più recenti, dal 1960 al 1981, Vittorio Accornero de Testa, straordinario illustratore italiano del Novecento, ne ha disegnati circa ottanta, esclusivamente per Gucci. Una delle sue più note creazioni, il modello “Flora”, ispirato alla Primavera del Botticelli, è stato creato per Grace Kelly nel 1966.

    Il foulard è realizzato in vari materiali, seta, cotone o lana. L'attenzione ai particolari è necessaria. Per disegnare un foulard i laboratori ci si mette molte ore, lo stesso per la scelta di colori e per la preparazione della stampa. Gli artigiani foto incisori ne impiegano altrettanti per realizzare un disegno. Per foulard di grande pregio sono necessari molte ore di lavoro, nella fase creativa, nello studio dei temi e dei oggetti, nelle varianti dei colori e nella stampa. Le misure di un foulard possono essere diverse: si va dallo scialle 140 x 140 cm al carrè classico Hermès 90 x 90 cm ai tagli più diffusi 100 x 100 cm e 70 x 70 cm, fino alla taglia gavroche 45 x 45 cm. In Italia sono realizzati per la maggior parte a Como da laboratori che producono anche in proprio su stilismo interno, esemplari ammirati per le loro stampe ricchissime ottenute con lungo procedimento in stadi successivi, tanti quanti sono i colori prescelti.

    ..nella storia antica..


    Accessorio antichissimo, appare in Oriente, già nelle sculture cinesi della dinastia Chu mille anni prima di Cristo mentre sono le statue di terracotta dell'esercito dell'imperatore Qin Shihuang a ricordarci come già nel III secolo a.C. la loro divisa comprendesse una specie di sciarpa morbida e spessa, di cui talvolta si indovinavano i vivaci colori. A Occidente è la Colonna Traiana del II secolo d.C. a raccontarci di come i soldati romani si proteggessero la gola dalle intemperie mediante il "focale" una striscia di tessuto fermata da passanti; indumento che però, soldati a parte, era considerato femminile. I romani portavano anche il sudarium infilato alla cintura per detergersi il viso e il collo e l'orarium legato al polso sinistro per manifestare tripudio al Circo Massimo, per applaudire i campioni o per sottolineare i passaggi migliori dellÕarte oratoria. I più bei foulards che oggi diremmo di lusso, venivano importati dalla Spagna, secondo quanto ci tramanda Catullo. Forse da questo momento le strade di quelli che diventeranno uno foulard e l'altro cravatta si dividono, e da semplice protezione passeranno ad essere indicatori di un determinato status sociale e addirittura elementi indispensabili nelle funzioni religiose. Già nel Quattrocento le donne sposate erano solite ricoprirsi il capo con un semplice telo quadrato, soprattutto nei riti religiosi. Il velo ha sempre avuto grande importanza, fino a pochi anni fa era impensabile che le donne partecipassero ad una messa senza velo, e anche se oggi nel mondo occidentale non esiste pi quest' obbligo, è ancora diffuso l'uso. Il velo più significativo è quello da sposa. Nel rinascimento, i fazzoletti erano molto in voga. Alle donne piacquero molto i fazzoletti da testa: alle popolane dell'Europa meridionale, della Russia della Cina, dell'India. Li sfoggiavano nei campi per raccogliere la capigliatura, per vezzo (il foulard trionfa nei costumi tradizionali) e certo, per ripararsi. Ben presto se ne produssero di raffinati decorati con filo d'oro e la bellezza delle donne che lo indossavano veniva esaltata anzichè occultata. Con lo stesso scopo il fazzoletto da testa si mise anche al collo, si chiamò "fisci" e servì alle signore per velare una scollatura troppo sfacciata. Furono i mercenari croati nel 1660, con i loro servigi a Luigi XIV a portare in Francia il loro segno di distinzione intorno al collo, una striscia di stoffa pi o meno preziosa a seconda del grado nell'esercito, cravatta sarà il suo nome definitivo. Secondo alcuni studiosi del costume, il foulard per eccellenza trae d ispirazione dal foulard indossato dai soldati di Napoleone.

    Il poeta con il foulard
    attraversa i ponti
    si sposta nella gauche
    si ferma sul marciapiede.
    Il poeta con il foulard
    comincia a leggere
    le sue poesie d’amore
    i suoi versi appassionati.
    Il poeta con il foulard
    rincorre l’amore di un giorno
    cerca l’amore eterno
    nella città dell’amore.
    (Giuseppe Monteleone)

     
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