CITTA'

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  1. gheagabry
     
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    Vicino alla città..uno stagno..specchio profondo di salice nero. Nel cielo fuochi d'artificio e stelle come piccolissimi chicchi di riso (Davide Ancona)

    La città


    Marek Langowski

    Come dice il poeta preromantico inglese William Cowper (1731-1800):

    " Dio ha creato la campagna, l'uomo ha fatto la città".

    Come tutte le costruzioni affidate alla nostra mente, e alle nostre mani, anche la città, in assoluto, può essere perfetta, ma essa nasconde infinite realtà, luci e ombre, il bene e un po' di male, come è la vita, come è il tempo. Italo Calvino ricorda che

    "la città, come i sogni, sono costruite di desideri e di paure",

    sempre il bilico fra questi 2 impulsi, fra questi 2 aspetti di una sola verità: l'ansia di vivere, la gioia di vivere, il coraggio di vivere. La città è il palcoscenico dove si recitano, a ogni secondo, commedie e drammi in una sequenza senza fine, su cui il sipario non si chiude e non si apre..dove gli applausi e i silenzi hanno lo stesso eco, le lacrime e i sorrisi non differiscono in base alla fama o alla ricchezza dei personaggi, ma soltanto nel riflesso del cuore e dell'anima dei protagonisti. La città è il palcoscenico d'una immensa sala dove si alterna la luce del giorno e l'oscurità della sera e dove le rappresentazioni non prevedono ruoli differenti fra gli attori. ognuno è importante, a suo modo, nella parte che gli è sta assegnata. perché il cielo, quando si copre di stelle, accoglie gli sguardi di tutti e a ognuno regala la stessa suggestione, lo struggente incanto.

    "Dio, dammi la forza di accettare le cose che possono cambiare, di cambiare quelle che posso e di capire, sempre, la differenza fra queste e quelle"
    (preghiera laica di Indro Montanelli)

    ..è li che, al di sopra delle case, il cielo può coprirsi di punti luminosi fatti di mille e mille stelle che sembrano "..piccolissimi chicchi di riso"
    (Gigliola Magrini)


    Jaga Karkoszka

    "Se vuoi essere conosciuto senza conoscere vivi in un villaggio..
    Se vuoi conoscere senza essere conosciuto vivi in una città"
    (Charles C.Colon)


    Pensiamo a una qualsiasi città e la mente, con immediatezza vede una sequenza di case, un intrigo di strade, riflessi di sole sulla prospettiva dei muri, o un rincorrersi di luci nel buio della sera. E' facile dare un volto all'immaginaria città di un pensiero o di un ricordo, magari anche nella cornice di un paesaggio speciale, ma non sempre ci fermiamo a riflettere sul come sia sorta quella città, quale sia stato il primo "segno" della presenza umana in quel determinato luogo. Per capirlo, per rendersi conto di quanto sia antica possa essere quella origine, bisogna ripercorrere a ritroso il sentiero della storia e affacciarsi sull'orlo della preistoria...ogni paesino vanta la medesima origine che ha quasi il sapore di una leggenda, la suggestione del..

    "c'era una volta".


    "Conoscere un nuovo aspetto del luogo in cui viviamo, distratti da vetrine e insegne e da cento altre espressioni di vita, comprendere un linguaggio nuovo e, forse amare un po' di più questa interminabile teoria di muri dove vie, spesso, sembrano seguire la guida di due binari diversi che vanno verso la fine di una strada, ma poi piegano a destra o a sinistra e trovano altre direzioni, vanno verso altre mete...e da li iniziano i segreti e tanto altro.."

    Quando pensiamo a una città, il pensiero ricrea l'immagine di case e palazzi che si inseguono lungo rette parallele o leggermente curve, che si intricano e rincorrono in un gioco senza fine..la strada o la via sono equivalenti al libero arbitrio del percorso spirituale. Nella Bibbia, la strada tortuosa e stretta, difficile, mentre un percorso facile, sgombro, senza ostacoli è il demonio. In tutta la filosofia orientale la strada è la vista come l'agente che unisce o divide, che a ogni passo si rinnova, tanto che

    "Su una strada di 100 leghe, alla 99° lega non si è che alla metà del cammino"
    (proverbio cinese)


    Fra le antiche divinità, Min era il Dio egizio delle strade, mentre in Grecia si affidava i viandanti a Ermes, che i Romani chiamavano Mercurio, raffigurato appunto con piccole ali ai piedi, perché potesse correre veloce e sicuro su ogni strada.


    ...le piccole storie delle vie a Milano...


    VIA MONTENAPOLEONE...Questa via prende nome dalla fusione di due banche. la Banca del Monte Camerale e quella di Santa Teresa che a sua volta nel 1796 si unì al Banco di S.Ambrogio. Nel 1804 in onore al giovane generale Napoleone le tre banche unite cambiarono denominazione, ribattezzandosì appunto in Monte Napoleone. In tempi precedenti la via si chiamava Marliani, in onore ai patrizi Marliani che vi abitavano.

    VIA DELLA SPIGA....Il nome deriva da quello di un’ omonima famigliao da una vecchissima lapide applicata sulla porta di una casa al nr. 40. Tradotta significa infatti : "chiunque chiede pace in questo luogo ove cresce la spiga, il nome ha di pace"

    VIA CROCE ROSSA..La via Croce Rossa non è a ricordo della famosa istituzione che porta soccorso ed aiuto umanitario in tutto il mondo, soprattutto nei campi di battaglia e ai feriti. E’ invece ispirata a un gonfalone con Croce Rossa in sfondo bianco, regalato da papa Gelasio II° ai milanesi, che fu inaugurato nell’anno 1119 proprio a partira da questa via. In questa via allora c’erano le mura romane e la porta si chiamava Porta Aurea

    VIA DELL’ANNUNCIATA..Annunciata da una omonima chiesa con vasto monastero di Canonichesse Lateranensis . Tale chiesa, fondata nel 1485 venne soppressa e demolita nel 1799 per ordina dell’ imperatore Giuseppe II° d’ Austria , grande avversario del Clero, figlio dell’ imperatrice Maria Teresa. Non sopportava l’ idea che nella sola Milano ci fossero circa 50 tra monasteri e conventi, per lui ritenuti luoghi inutili.

    Via Fatebenefratelli...prende il nome dall’ omonimo ospedale costruito sull’area di una demolita casa di umiliati, eretta per desiderio di Gaspare Visconti nel 1430. L’ospedale, studiato da San Carlo Borromeo vescovo di Milano, veniva posto sotto la direzione dei frati di San gIovanni di Dio e dal popolo milanese. Chiamati Fatebenefratelli per il modo di dire "fate bene o fratelli a voi stessi", diedero successivamente quel nome alla via.

    Via Pontaccio...prende il nome da un rozzo ponte del vicino naviglio che attraverso Ponte Vetero (dal latino "vetus", vecchio) portava a Porta Comasina (ora Porta Garibaldi) dove sorgeva il Palazzo della famiglia patrizia Crivelli, che diede i natali a Papa Urbano III (1185), nemico acerrimo del Barbarossa e secondo Papa milanese.

    Vicolo Pusterla....Prende il nome da una nobile e potente famiglia di origine lomgobarda, lì abitante con il proprio palazzo. Fu distrutta dal signore di Milano Lucchino Visconti che, innamoratosi di Madonna Margherita Pusterla (ma dei lei respinto) , accecato di rabbia la fece arrestare assieme all’intera famiglia, rinchiudendo la donna nella torre sul ponte di Porta Romana, con l’accusa di aver cospirato contro lo Stato VIsconteo. Il Visconti ordinava la decapitazione di Madonna Margherita e tutti i suoi famigliari. Il fatto avvenne nell’ anno 1345 in piazza Mercanti, spesso considerato luogo di morte per i nobili.

    Via Osti...deve il nome a osterie presenti nella via. Pensate che in quel periodo (anno 1613) in via osti c’erano ben tre osterie. E’ curioso sapere, sempre in quell’anno , il numero delle osterie in tutta Milano:
    Erano diciannove in Porta Ticinese, diciotto in Porta Romana, quindici in Porta Orientale (oggi Porta Venezia), tredici in Porta Comasina (oggi Porta Garibaldi), otto in Porta Magenta e sette in Porta Nuova. Il governatore dell’epoca era lo spagnolo Don Juan Mendoza.


    Via Bagnera...è la via più stretta di Milano ed è l’antichissima "stretta Bagnaria" per alcuni bagni pubblici ai tempi dei romani.

    San Vittore Al Teatro...Già antica contrada dei falegnami, San Vittore al Teatro è dovuta a un circo romano lì esistente. Il San Vittore ne faceva suo rifugio per sfuggire ai pagani che gli davano la caccia, ma venne scoperto e poi ucciso. I cristiani lo seppellirono nella chiesa della Porziana che fu così chiamata "chiesa di San Vittore al corpo", che si trovava in via San Vittore, dove attualmente risiede il museo della Scienza e della Tecnica di Leonardo Da Vinci. Ritornando al circo romano, venne poi trasformato in "teatro", poi su parte della zona venne in seguito costruito il colossale palazzo della Borsa detto anche "Palazzo Mezzanotte" (1931, dal nome del suo architetto

    Via Brisa... Già in epoca romana chiamata "la brixia", forse perchè abitata in gran parte da bresciani. Al numero 1 della via si trova il Palazzo Arconati, abitato per lungo tempo dal maresciallo Radetzky, tiranno governatore del Regno Lombardo Veneto, galoppino dell’ imparatore d’austria Francesco Giuseppe (Cecco Peppe per i milanesi).

    Via Case rotte....Denominazione data dal popolo milanese a causa dei fatti accaduti il 20 gennaio 1277. Padrone di Milano e vicario imperiale del re Rodolfo d’ Asburgo era Napo Torriani. In quel 20 gennaio, a Desio, si scontrarono Napo Torriani e l’arcivescovo Ottone Visconti, che mirava ad impadronirsi del ducato lombardo: raggiunse il suo scopo sconfiggendo il Torriani, facendolo prigioniero e traferendolo nel castello di Baradello (Como), dove poco tempo dopo, morì in circostanze misteriose. I milanesi, dopo aver appreso la notizia della sconfitta del Torriani, corsero a devastare e saccheggiare le sue case e quindi, proprio per questo motivo, da allora vennero chiamate "case rotte".

    Via Marina...prende il nome dalla dimora dell’ omonima famiglia che decise di abbellire la via a proprie spese. Questo gesto, diede il motivo al popolo di chiamarla "Stramarina", anche per la vicinanza del Naviglio (scorreva in via Senato).
    Ai tempi del governo napoleonico, vi si organizzavano feste e divertimenti, ad esempio una caccia al tesoro tenutasi nel recinto dei vicini boschetti (in prossimità della attuale Via Boschetti) e fu anche il luogo dove i milanesi videro per la prima volta l’ascensione di una mongolfiera.

    Via Catena...prese il nome dal prevosto della chiesa di san Fedele: il Catena (1822-1902), dotto teologo milanese che ebbe la ventura di poter assistere Alessandro Manzoni e Giuseppe Verdi, dei quali era molto amico, nei loro ultimi giorni di vita.

    Via Amedei....Strada intitolata ai patrizi Amedei di origine fiorentina e ghibellini, i quali abitarono qui dopo esser stati costretti all’esilio a causa di una sanguinosa lotta sostenuta nel 1215 contro i guelfi Buondelmonti e Donati, innescata dalla rottura di una promessa di matrimonio. A metà del 1700, la contrada degli Amedei, come si chiamava allora, si trasformò in contrada de’ Carcani (una famiglia di nobiltà antichissima), riprendendo però l’antico appellativo già verso la fine del secolo. Gli Amedei nel Seicento furono sicuramente marchesi e per qualche tempo ebbero diritto di sepoltura nella chiesa di S. Maria della Vittoria. La via mantiene pressoché intatti i caratteri seicenteschi, anche se nel XVIII secolo furono compiute diverse aggiunte, ed è da godere anche semplicemente fermandosi a guardarla nel suo andamento così particolare. La residenza aristocratica al n° 8, che risale, nel suo nucleo originario, al primo Cinquecento, è Palazzo Recalcati. Al n° 4-6, si trovala casa che nel 1800 appartenne ai nobili Majnoni d’Intignano, rinnovata su un nucleo più antico con le forme del barocchetto. Nel Settecento, al numero 4176 in contrada degli Amedei (l’attuale n° 4), corrispondeva una "casa da nobile", mentre al numero 4177 (l’attuale numero 6), una "casa d’affitto". Nella zona, da tempo immemorabile, vivevano a stretto contatto importanti famiglie aristocratiche e artigiani e gestori di svariati commerci: questo ultimi erano gli affittuari, e in genere si fermavano un anno, due, tre… Verso la fine del 1700, la casa "nobile" viene indicata come Proprietà Aliprandi.(taxistory.it)



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  2. gheagabry
     
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    Visitiamo...

    TRONDHEIN


    La città di Trondheim venne costruita verso l'anno 1000 sulla sponda del Trondheimsfjorden (fiordo di Trondheim) ed è attraversata dal fiume Nidelva che compie alcune anse prima di gettarsi nel mar di Norvegia. Trondheim è la terza città dell a Norvegia ed è considerata sacra perché vi si incoronano i re, ma vanta anche un triste primato: negli ultimi secoli è stata distrutta ben 15 volte dalle fiamme. Fondata nel 997 dal re Olev il Santo, con il nome Nidaros, è disposta pittorescamente su una cerchia di colline attorno al porto. L'incoronazione dei re avveniva in una antichissima cattedrale dove si trovano le tombe di alcuni sovrani, a cominciare dal re Olav . Trondheim, ricostruita dopo ogni incendio, appare come una città moderna in stile nordico.

    La città ha assunto diversi nomi prima dell'attuale. Il primo nome della città fu Kaupangen («Il mercato»), datole dal suo fondatore, Olaf I di Norvegia. Olaf, al suo arrivo nella zona, aveva tagliato la testa di alcuni suoi rivali: Håkon conte di Lade, suo figlio Erlend e il servo di Håkon Kark, che aveva tradito Håkon e cercato di ingraziarsi Olav allo stesso modo di re Tolomeo XIII con Cesare, cioè portandogli la testa di Håkon; Olaf reagì come Cesare, facendo tagliare la testa a Kark. Le tre teste furono quindi impalate sull'isoletta di fronte all'odierna Trondheim, e tutti coloro che entravano nel fiordo per nave dovevano, per rispetto al nuovo re Olav, fermarsi a insultare e maledire ad alta voce le teste dei suoi nemici: da qui il primo nome dell'isolotto, Nidarholm, cioè «isoletta delle maledizioni». Da Nidarholm il nome passò al fiume, la Nidelva («il fiume delle maledizioni») e alla città, Nidaros («foce delle maledizioni»), che lo mantenne per lungo tempo.....nel 1928, con un referendum la popolazione rifiutò la proposta di riutilizzare il nome medievale. Nonostante ciò, nel gennaio 1930 la città prese il nome di Nidaros. Ci furono grandi proteste, addirittura con sommosse di strada, e dopo qualche mese il parlamento norvegese decise di stabilire finalmente il nome Trondheim, con una grafia un po' «norvegesizzata» in grado di accontentare radicali e conservatori linguistici.

    KALBERG


    Si chiama Kalberg ed è una cittadina della Galizia, regione storica dell'Europa orientale, nei Carpazi. E' u luogo singolare, interamente scavato in una miniera i sale, conta 10000 abitanti e le sue case, le strade, sono fatte proprio di sale. E' candida, con i muri luccicanti, non conosce la polvere; l'umidità atmosferica e il vapore acqueo si raccolgono sui cristalli delle pareti e si trasformano in acqua salata e corrosiva. In compenso, grazie all'azione disinfettante del cloruro di sodio, non si sviluppano tra gli abitanti di Kalberg le normali malattie infettive. Per la stessa ragione la vita è impossibile per i microrganismi, tanto è vero che il quel di Kalburg il latte non diventa acido, il vino non si trasforma in aceto.

    OYMYAKON


    Oymyakon (o Ojmjakon) è un villaggio di circa 900 abitanti situato nella repubblica autonoma russa di Sakha (Jakutia), Siberia orientale, sulle rive del fiume Indigirka a 740 m sul livello del mare (63°14'59" N; 143°08'59" E).
    In origine abitato solo nel breve periodo estivo da cacciatori nomadi di renne, a partire dagli anni '20, a seguito delle pressioni del governo Sovietico per rendere sedentarie le popolazioni nomadi asiatiche, il villaggio fu reso permanentemente abitato anche nella stagione invernale.
    Il 26 gennaio 1926 fu registrata una temperatura di −71.2 °C (−96.2 °F), in assoluto la temperatura più bassa mai misurata in una zona abitata del pianeta.
    Il terreno in cui si trova Oymyakon è ghiacciato per la maggior parte dell’anno con temperature medie di -45°C durante il lungo inverno e che possono andare oltre i +25°C nel breve periodo estivo. Le acque del fiume Indigirka invece curiosamente non sono ghiacciate per la presenza di sorgenti calde.
    Nei mesi di gennaio e febbraio 2006, durante uno degli inverni più freddi degli ultimi 30 anni, la temperatura di Oymyakon non è mai salita sopra i -50°C.
    La popolazione locale vive in case riscaldate a carbone a temperature elevate, anche 30 °C, in modo da poter assorbire tanto calore e poter resistere più a lungo una volta all’esterno. Non esistono terre coltivate, si osserva solamente una minima vegetazione autoctona tipica della tundra. Gli alimenti naturali sono costituiti da carne e latte di renna e di cavallo.
    La vita a temperature così basse è estremamente difficile e molto diversa da quella alle temperature abituali: molti oggetti usati abitualmente nella vita quotidiana a temperature così basse sono inutilizzabili, in quanto gli elementi costituenti possono cambiare la loro struttura atomica. A titolo di esempio alcuni dispositivi elettronici come i normali telefoni cellulari vengono danneggiati in maniera irreversibile se esposti anche per breve tempo a temperature di -40°C.
    Oymyakon detiene il primato di polo Nord del freddo, come viene testimoniato da un monumento che si incontra attraversando l’abitato, in quanto è il centro abitato dove è stata misurata la temperatura più bassa del pianeta. La temperatura più bassa in assoluto (in un luogo non permanentemente abitato) è invece stata misurata in Antartide, nei pressi della stazione scientifica russa di Vostok, dove il 24 agosto 1960 è stata registrata la temperatura di -88,3 °C (-129 °F).



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  3. gheagabry
     
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    SEGESTA


    Sorgeva sul monte Barbaro nella Sicilia nord-occidentale, centro degli Elimi e fortemente ellenizzata, in greco era chiamata Egesta. Di leggendaria origine troiana, la si faceva risalire ad Aceste o Aegesto figlio di una donna troiana, questo era nato in Sicilia, ma da adulto si recò a Troia, dove dopo la distruzione della città da parte dei greci, fece ritorno in Sicilia accompagnato da Elimo e da una colonia di fuggiaschi. Inizialmente Aegisto abitò a Erice e dopo spostatosi sul monte Barbaro fondò Segesta (1100 a.C. ca.). Un'altra tradizione vuole che il nome della città derivi dalla Ninfa Egesta che aveva dato ospitalità ad Enea durante il suo girovagare. Alimentata dal fiume Crimiso, i Troiani chiamarono Scamandro il tratto di fiume più vicino alla città e Simoenta quello più lontano. Spesso in conflitto con la vicina e dorica città di Selinunte (nel 580 e nel 454 a.C.), la sua richiesta d'aiuto ad Atene offrì il pretesto per l'attacco ateniese contro Siracusa (415 a.C.), schierata con Selinunte. Si ritiene che i primi scontri tra Segesta e Selinunte risalgano al 580 - 576 a.C. Altro episodio noto è quello del 454 a.C.. Poi nel 415 a. C. a seguito della richiesta di aiuto ad Atene, quest'ultima interviene, ma tale intervento si risolve in un disastro. Quindi si allea con i Cartaginesi, e ne scaturisce la guerra che porta alla distruzione di Gela, Imera, Agrigento e Selinunte. Subisce quindi il dominio di Cartagine ingombrante alleata. Poi nel 397 a.C. paga il prezzo di tale alleanza subendo l'assedio di Dionisi di Siracusa.

    Segesta, prima alleata di Agatocle, fu quindi dallo stesso Agatocle distrutta e circa diecimila dei suoi abitanti furono passati per le armi. Rinasce e si allea di nuovo con i Cartaginesi, ma all'inizio della prima guerra punica fu lesta a passare dalla parte dei romani ed ancora una volta fu assediata (260 a.C). ma la prontezza nella scelta di campo gli valse la concessione di privilegi ed un trattamento di rispetto.
    Fu nel 104 a.C. che da Segesta iniziarono le rivolte degli schiavi in Sicilia, le cosiddette guerre servili, guidate da Atenione. Queste rivolte furono soffocate nel sangue dai Romani nel 99 a.C.
    Segesta fu distrutta dai Vandali nel V secolo, e mai più ricostruita nelle dimensioni del periodo precedente.
    Ciononostante, vi rimase un piccolo insediamento e, dopo la cacciata degli Arabi, i Normanni vi costruirono un castello. Questo, ampliato in epoca sveva, fu il centro di un borgo medievale. Se ne perse poi quasi il nome fino al 1574, quando lo storico domenicano Tommaso Fazello, artefice dell'identificazione di diverse città antiche della Sicilia, ne localizzò il sito.

    ....il Tempio....


    Il tempio di Segesta, uno dei monumenti più perfetti a noi giunti dall'Antichità, si innalza, in maestosa solitudine, su un poggio circondato da un profondo vallone incorniciato da Monte Bernardo e Monte Barbaro, sul quale si trova il teatro. Eretto nel 430 a.C., è un elegante edificio dorico dalle proporzioni di una rara armonia. Il peristilio ha conservato quasi completamente intatte le 36 colonne, in magnifico calcare di una tinta dorata e prive di scanalature. Questo fatto e la mancanza di una cella interna ha fatto supporre che la costruzione sia stata abbandonata prima della fine. A questa teoria si oppone però l'opinione di alcuni studiosi per i quali l'assenza di ogni traccia della cella interna (punto da cui normalmente la costruzione veniva iniziata), testimonierebbe che l'edificio è in realtà un peristilio pseudotemplare. A questo si aggiunge il mistero della sua destinazione, visto che non è stato ritrovato alcun elemento che possa indicare a quale divinità fosse dedicato.
     
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  4. gheagabry
     
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    STRANE CITTA'...

    NAOURS


    Accanto alla bellezza di alcuni luoghi, si nascondono meraviglie nascoste che pochi conoscono, proprio come la città sotterranea di Naours. Questa località di 1200 abitanti è un piccolo paesino appartenente alla regione della Piccardia. La caratteristica principale è rappresentata dagli edifici costruiti con malta, argilla e paglia. Ma la particolarità di Naours, sta nelle sue grotte e tunnel presenti nel sottosuolo. In questa regione, non sono rari questi rifugi sotterranei, conosciuti come "creuttes". In passato, era in grado di ospitare circa 30 mila abitanti con bestiame. Passeggiando in questi tunnel, vi accorgerete di vivere un mondo parallelo, dove sono presenti 2km di strade, piazze, tantissime sale, cappelle, stalle e una panetteria dotati di forni .
    All'esterno, Vi ritroverete immersi in un paesaggio verdeggiante, quasi da libro fantasy, dove le colline sembrano di velluto e il cielo un manto di stelle davvero unico.


    A Naours, nel IV secolo d.C., si temeva l'incursione dal mare, dei barbari e allora gli abitanti della piccola città pensarono di mettersi in salvo rifugiandosi in una serie di grotte sotterranee, ingrandendole e collegandole tra loro con passaggi e gallerie. L'espediente risolve il problema in modo positivo e l'occupazione durò sino all'850. Il villaggio contava 2000 metri di gallerie, era composta da 500 vani, parecchie grandi sale, alcune piazze e, all'incrocio delle strade, vi era una vasta chiesa a tre cappelle laterali sostenute da enormi colonne. Le gallerie hanno una larghezza e l'altezza di 3 metri e vi si accede da due diversi ingressi, nel cuore di una foresta, così ben mimetizzati da essere introvabili se non da pochi esperti muniti di carta topografica gelosamente custodita nel municipio di Naours. Il villaggio sotterraneo si trova alla profondità di 40 matri ed è raggiunto da un ruscella di acqua giudicata potabile. Una serie di camini naturali convoglia aria fresca e pulita nel villaggio che si è rivelato come una salvezza anche nel XIV secolo, durante la guerra dei 100 anni e nei due ultimi conflitti mondiali














     
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  5. gheagabry
     
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    gated_community_644_362_80_imgk_cropped

    Gated community, fenomeno mondiale

    Dentro: facce felici, piscine, prati ben curati. Fuori: la violenza della massa povera che silenziosamente urla la propria disperazione. Così si può riassumere la presenza nei territori nazionali di una gated community.
    Lontano dalla terminologia anglosassone possiamo chiamarla in molti modi: città dei ricchi, città chiusa, isola della speranza in Australia, alphaville in Brasile. In sostanza un agglomerato d’abitazioni della media ed alta borghesia divise dal resto del mondo attraverso muri, filo spinato e vigilanza armata.
    Comunità dotate d’ogni comfort utile per non dipendere dall’esterno, da quella realtà inquietante che non si vorrebbe mai vedere. Sullo sfondo rimangono ancora gli occhi dei bambini che sporchi e malnutriti corrono su cumuli d’immondizia, oltre il muro c’è però la piscina, la palestra, la scuola per i figli e lo sguardo vigile ed armato della vigilanza privata che controlla l’entrata di pedoni, biciclette ed automobili.
    Nascono come funghi in un mondo dove il dislivello economico si fa più esteso e la gente meno abbiente reclama i propri diritti: Argentina, Brasile, Australia, Canada, Cina, India, Messico, Filippine, ma anche Regno Unito e Stati Uniti d’America.
    Una lotta continua tra uno Stato che dovrebbe essere pubblico e la voglia di isolarsi nel proprio status, nel proprio benessere privato. Non solo il terzo mondo o le nazioni segnate dalla grande povertà sociale vedono spuntare come funghi le gated communities, ma anche in Europa o nel nord America quest’ultime stanno diventando una moda per le persone “di un certo livello”.
    Nella capitale del regno della Regina Madre ne troviamo parecchie: in particolare nei Docklands come la New Caledonian Wharf, King and Queen Wharf, Pan Peninsula e nell’est di Londra il Bow Quarter. In totale l’Inghilterra ne conta un migliaio.
    Il paese a stelle e a strisce non è da meno con le sue duemila comunità private (le stime non sono aggiornate da tempo) che però qui sono obbligate a mantenere al loro interno una municipalità pubblica ed i suoi relativi servizi.
    Insomma, occhio non vede, cuore non duole. Soprattutto se a proteggerlo c’è una guardia armata.
    (Francesco Bizzini)


     
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    «C’è un posto in cui nessuno è nato e nessuno muore. Certo, puoi morire ovunque ma non puoi essere sepolto qui perché i corpi non si decompongono (a causa del permafrost, un terreno sempre ghiacciato, n.d.r.). Non puoi nascere qui perché le donne incinte devono tornare sulla terraferma per partorire. Non ci sono gatti, alberi, nessun semaforo. Non esiste un parco divertimenti, ma c’è un circo. In inverno è completamente buio, ma in estate il sole non tramonta mai».
    (Dominika Gesicka)



    Longyearbyen, Norvegia



    La città di Longyearbyen, situata nell'Isfjorden, è quella di grandezza maggiore, situata a 78° di latitudine Nord. E' dotata di un porto, un aeroporto, musei, c'è la sede dell'Università, ci sono negozi e ristoranti, un cinema e una chiesa, agenzie turistiche, insomma è una cittadina che può soddisfare ogni esigenza, considerando che si trova al polo.

    Dall'aeroporto una navetta porta al centro della città, dove il turista può raggiungere il proprio hotel, mangiare, fare acquisti e vedere il monumento al minatore in bronzo.



    Una lunga strada attraversa l'intera cittadina, da cui dipartono alcune vie interne. Percorrendola, a destra e a sinistra si possono vedere, sui versanti delle montagne, le vecchie miniere, ora abbandonate.

    I musei offrono uno spaccato della storia e della natura presente alle Svalbard e la loro visita è consigliata.

    Breve storia di Longyearbyen

    Longyearbyen è nata come un villaggio, nel 1906, grazie all'americano John Munroe Longyear, che fondò la Arctic Coal Company, e dapprima il suo nome fu Longyear-City. Nel 1916, quando la società americana e tutte le strutture americane furono vendute ai norvegesi, il nome della società fu cambiato in Store Norske Spitzbergen Kulcompani (grande compagnia norvegese di Spitzbergen per l'estrazione del carbone) e anche il nome della città fu cambiato, Longyearbyen (by in norvegese significa città).

    Interamente realizzata e strutturata come una città mineraria, non era adatta per ospitare le famiglie dei lavoratori, la maggior parte delle quali restava in Norvegia. Con condizioni di vita primitive, scarsità di igiene, cibo pessimo, i minatori videro accolte le richieste per un miglioramento delle loro condizioni soltanto negli anni '70, quando il governo norvegese prese il controllo della città, stabilendo che avrebbe dovuto essere in tutto simile a qualsiasi altro centro abitato della Norvegia.

    Con la costruzione dell'aeroporto, nel 1975, la città subì nuovi cambiamenti, poiché le comunicazioni col resto del mondo poterono avvenire per tutto l'arco dell'anno, senza contare la possibilità di ricevere cibo fresco in tempi brevi e altri beni che migliorarono la vita dell'intera comunità.

    Adesso Longyearbyen ha sviluppato altre attività, in particolar modo il turismo e le ricerche scientifiche. Sono state aperte le sedi dell'università (University Centre in Svalbard), del Norwegian Polar Institute e dello Svalbard Science Center.

    Qualsiasi resto delle precedenti attività minerarie è considerato patrimonio culturale e è protetto. Nella città è possibile osservare le vecchie miniere, le cui strutture, in parte cadenti e arrugginite, sono la muta testimonianza del passato di Longyearbyen e il monumento al minatore, al centro della città, sembra osservare il mare, come a dimostrare, finalmente, l'apertura della comunità al resto del mondo.

    Si tratta del paese dove Non si può morire. O meglio si può morire ma c'è il divieto di essere sepolti. Nessun corpo è stato sepolto nel cimitero locale negli ultimi cento di anni. Perché? Le temperature perennemente fredde non permettono ai corpi di decomporsi correttamente. Dopo l'epidemia di influenza del 1917, Longyearbyen ha vietato le sepolture nel cimitero della città.



    Edited by gheagabry - 22/12/2017, 20:18
     
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  8. gheagabry
     
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    "Noti dei comignoli spuntare dal terreno e subito pensi al peggio: una catastrofe naturale deve aver sommerso un intero paese sotto tonnellate di sabbia. E invece no: sei semplicemente a Coober Pedy, dove la gente vive sottoterra."


    COOBER PEDY



    Coober Pedy è famosa per essere definita “la capitale dell’opale nel mondo”. E per una volta tanto non si tratta di un’esagerazione: il 70% della produzione globale del minerale si svolge qua. A distanza di un secolo dalla scoperta, il sottosuolo non smette di produrre. La città fu fondata apposta per l’estrazione mineraria, chiamandola con un nome che suona come il termine aborigeno kupa-piti, che vuol dire pozzo dell’uomo bianco. C’erano da affrontare due problemi però. Trovandosi nel bel mezzo del deserto australiano, non c’era traccia d’acqua e le temperature erano troppo incostanti, sfiorando i 40° di giorno per scendere anche sotto lo zero la notte. Il primo problema è stato risolto con il rifornimento idrico da una fonte esterna alla città. Il secondo invece ha avuto una soluzione più radicale: vivere sottoterra.

    C’è un’atmosfera rilassata e affabile a Coober Pedy, dove 3.500 abitanti di 45 diverse nazionalità si sono letteralmente rifugiati sotto terra per sfuggire alle temperature roventi dell’outback. La maggior parte degli abitanti lavora nelle miniere di opali, ma questa eccentrica comunità sotterranea, dove non mancano una chiesa, hotel e un campo da golf privo d’erba, ha reso il turismo il secondo settore più importante.
    Scoperta nel 1913 dal quattordicenne Willie Hutchinson, Coober Pedy trae il suo nome dalle parole aborigene kupa (uomo non iniziato o uomo bianco) e piti (buco), che nella lingua degli indigeni significa dei "pozzo dei ragazzi". Oggi le sue 70 miniere occupano quasi 5.000 chilometri quadrati e producono la maggior parte degli opali del mondo. Le case sotterranee degli abitanti rimangono ad una temperatura costante tutto l'anno, mentre vivere sulla superficie sarebbe assai più difficile poiché il clima è afoso di giorno e rigido di notte (dobbiamo tener conto che Coober Pedy si trova in un'area desertica). Per migliaia di anni le popolazioni nomadi hanno camminato attraverso questa zona ma a causa dell'ambiente del deserto (il primo "albero" fu costruito dagli abitanti con rottami di ferro) questa gente si spostò costantemente alla ricerca di rifornimenti idrici e di cibo. Il problema dell'acqua è stato risolto solo recentemente: infatti a Coober Pedy arriva il rifornimento idrico da una fonte sotterranea posta 24 chilometri a nord della città.
    Ma Coober Pedy non è un semplice dormitorio per minatori. Grazie a una rete di tunnel dal sapore vagamente post-apocalittico si può infatti ammirare un tessuto "urbano" fatto di negozi (l’opale è il souvenir per eccellenza), musei, bar, sale da biliardo, addirittura una chiesa e un cimitero. Chi volesse visitare una vera casa underground può bussare alla porta di Faye Nayler ,l ’ unica residenza privata aperta al pubblico. La maggior parte delle case appartiene alle famiglie dei minatori che lavorano qui, provenienti da tutta l’Australia ma anche da altri paesi. Coober Pedy è una cittadina cosmopolita che accoglie chiunque sia in cerca di fortuna, e dove il lavoro nelle miniere non manca mai. Non pensiate però che perché si tratta di case scavate nel terreno siano rustiche, sporche e spartane. Tutt’altro: le abitazioni sono fornite di tutte le comodità e qui arrivano acqua, elettricità, televisione e persino la connessione internet.
    In in superficie si può ammirare la Dingo Fence , il baluardo protettivo contro i dingo, che, pur non avendo il fascino della muraglia cinese, con i suoi oltre 5600 Km è pur sempre la più lunga recinzione mai costruita dall’ uomo. Oppure si può giocare una partita notturna di golf (l’ attività sportiva è sconsigliata nelle calde ore pomeridiane), su green davvero poco verdi (l’ erba non c’ è) e si usano palline luminose.

    La chiesa cattolica dedicata a San Pietro e Paolo fu probabilmente la prima chiesa “underground” costruita nell’emisfero australe, e venne scavata con metodi pionieristici da tutti i membri della comunità. Di epoca successiva è invece la chiesa Serba Ortodossa, realizzata con l’impiego di macchinari moderni in grado di creare un’ampia e profonda navata centrale che prende luce dalle splendide vetrate raffiguranti i santi cui la chiesa è dedicata. Entrambe opere uniche nel loro genere, che per la loro semplicità e nudità esteriore fanno pensare alle origini vere della chiesa.

    Nel 1988 venne inaugurato anche il “Desert Cave Hotel” il primo albergo con alcune camere realizzate sottoterra e a disposizione degli ospiti, realizzato dalla famiglia Coro di origini italiane. Successivamente le sistemazioni con questo tipo di offerta si sono moltiplicate, grazie anche all’intuito e all’intraprendenza di nuovi personaggi giunti qui lungo le misteriose vie del Signore. E’ il caso della signora Elisabeth Hilgenga, assistent manager presso l’Hotel Comfort Inn. Nata in Olanda – ci racconta -giunse qui alcuni anni or sono, durante un normale viaggio in Australia. Ora è responsabile di questo hotel underground che, durante i lavori di ampliamento, ha riservato ai suoi proprietari preziose ed incantevoli sorprese, per un valore complessivo di diverse centinaia di migliaia di dollari.
    The Opal Cutter, è uno dei negozi/galleria più eleganti di Coober Pedy. Gestito da una signora tedesca offre alcuni dei gioielli più raffinati e particolari che si possono trovare in commercio. La vista di questi fantastici colori cangianti rischia per un attimo di farci dimenticare la fatica ed il pericolo che bisogna affrontare per portarli alla luce. Tutto sembra semplice, a portata di mano: ma non lo è.

    ...la storia...


    Nel gennaio 1915 Jim Hutchison e suo figlio William stavano cercando, senza successo, l'oro a Coober Pedy. I due uomini avevano installato un accampamento e, mentre cercavano l'acqua, William trovò dell'opale sulla superficie della terra. Coober Pedy originalmente era conosciuto come il "campo opalino dello Stuart" perché deve il suo nome a John McDouall Stuart, che nel 1858 fu il primo esploratore europeo della zona. Nel 1920 è stato cambiato il nome in Coober Pedy. Durante la grande depressione del 1930 i prezzi dell'opale scesero a picco e la produzione ebbe quasi uno stop.
    Durante gli anni sessanta, l'industria estrattiva si è espansa velocemente grazie ai molti immigranti europei che vi vennero a cercare fortuna.
     
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  9. gheagabry
     
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    LE CITTA' COLORATE

    Le città dalle tinte allegre e vivaci pitturate per esigenze di navigazione, tradizioni locali o per i capricci dei loro sovrani. Qualunque sia l'origine del look multicolor di questi luoghi, ciascuno di essi meriterebbe una visita.

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    Benjamins Lichtwerk, Flickr

    Quartiere di Bo-Kaa a Città del Capo, Sudafrica, dove il mix di colori sui muri esterni riflette la mescolanza culturale che si trova all'interno delle case. Il distretto era originariamente popolato dagli schiavi malesi portati qui dagli olandesi, nonché rigorosamente musulmano. Dopo la fine dell'apartheid è divenuto un luogo multiculturale dove i colori investono ogni edificio, dalle case ai negozi, agli edifici sacri.

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    © Peter Adams/JAI/Corbis

    Si racconta che le tinte vivaci delle case siano inizialmente nate come una reazione degli schiavi al trattamento dei coloni, che li obbligavano a vestire di nero e grigio. Anche se nel tempo i colori sono diventati il tratto distintivo di questo angolo di Sudafrica - insieme alla cucina multietnica - e un'attrazione per turisti e fotografi.


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    Steve McCurry

    Molti secoli fa i membri delle famiglie dei bramini, la casta sacerdotale di Jodhpur, in India, decisero di verniciare le proprie abitazioni di azzurro per distinguerle da quelle degli altri abitanti. Ma il colore piacque a tutti e in breve diventò quello di tutte le case del centro storico. Questa storia non è condivisa da tutti gli abitanti della seconda città del Rajasthan: alcuni sostengono che il blu tenga lontane le zanzare, altri che sia un modo per mantenere freschi gli edifici e difendersi dall'afa.


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    l'Hawa Mahal, o Palazzo dei Venti
    © Andrew Holbrooke/Corbis

    Nel 1876, il Maharaja Ram Singh, re di Jaipur, la capitale del Rajastan, in India, decise di far dipingere la città di rosa, il colore tradizionalmente legato all'ospitalità, tutta la città, per dare il benvenuto a Re Edoardo VII Principe di Galles. Da allora Jaipur è conosciuta come la "Città Rosa": questo è il colore dominante in strade e monumenti .

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    Dene' Miles, Flickr

    Nel quartiere simbolo del tango, La Boca, a Buenos Aires, le case venivano dipinte, nell'800, con le rimanenze dei colori usati per dipingere le barche attraccate sul Riachuelo, il fiume che bagna questa parte di Argentina.
    Gli autori della geniale trovata furono i marinai genovesi emigrati qui alla fine del XIX secolo: della cultura ligure sono rimaste tracce sia in alcuni vocaboli sia in cucina: si può gustare a La Boca una versione argentina della Fugazza con queso (la focaccia al formaggio) e della farinata.


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    Mark Fischer, Flickr

    Si narra che gli edifici di Chefchouen, la città blu del Marocco, furono dipinti di azzurro dai rifugiati ebrei che vi stabilirono negli anni '30 del '900. Il blu è il colore di Dio e del paradiso, e questa tradizione - che un tempo si basava su tinte esclusivamente naturali, ricavate dal guscio di un crostaceo - si è tramandata fino ad oggi.

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    AlfredoGhidini, iFocus

    E anche in Italia non mancano gli esempi di cittadine dai colori allegri e vivaci. Quelli delle case di Burano, un insieme di isole nella laguna di Venezia settentrionale, dovevano servire ai pescatori in navigazione sui canali a ritrovare la propria abitazione nelle giornate di nebbia. Le caratteristiche cromatiche di Burano e la vicinanza a Venezia attirarono qui, nei primi del '900, molti pittori: nacque così la cosiddetta "scuola di Burano", più che una vera e propria scuola, una stagione pittorica che durò fino al 1946.


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    spud1979, Flickr


    Vernazza, dove i colori sono stati, dopo la tragica alluvione del 25 ottobre 2011, un simbolo di rinascita: un anno fa il borgo ha ospitato una sessantina di artisti italiani e stranieri che hanno dipinto le porte provvisorie di compensato della cittadina, restituendole i colori (delle barche, delle case, delle insegne) che il fango aveva coperto.


    juzcar_1151426

    Passare da 300 a oltre 180 mila turisti all'anno: è successo a Júzcar, un piccolo borgo andaluso a pochi chilometri da Malaga, che nel 2011 si è rifatto il look in occasione del lancio del film d'animazione Puffi 3D. La Sony Pictures Releasing ha infatti scelto il paese rurale, dalle tradizionali case bianche, per lanciare il proprio lavoro, e nell'agosto di due anni fa 9 mila chili di vernice azzurra hanno trasformato le abitazioni candide in una cittadina a misura di omini blu. Il cambiamento ha dato lavoro a metà dei disoccupati del borgo rilanciando il turismo in una località da tempo dimenticata e il sindaco ha deciso di mantenere l'insolita tinta rifiutando l'offerta della Sony di assumersi i costi di una nuova imbiancatura.


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    Zach Bonnell, Flickr

    Il centro della cittadina di St Johns, sull'isola di Terranova, Canada, è soprannominato "Jellybean Row": le case colorate, viste dal mare, somigliano infatti a una fila di caramelle in gelatina. La tradizione vuole che in passato i capitani delle navi dipingessero le facciate delle case per vederle meglio quando erano in procinto di approdare. Per i suoi colori St Johns è stata soprannominata la "San Francisco in miniatura".


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    Martinads, Flickr

    "Painted Ladies" è il soprannome dato dagli abitanti di San Francisco a questa schiera di case vittoriane ed eduardiane costruire tra la seconda metà dell''800 e i primi del '900 nel distretto di Lower Haight, tra le parti più visitate della città.
    Gli edifici erano originariamente grigi: furono colorati a partire dal 1963, quando Butch Kardum, un artista di San Francisco, dipinse la propria abitazione di un'insolita tinta blu verde. Inizialmente criticato, venne poi imitato dapprima dai vicini, quindi da molti altri concittadini.


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    Emilio Santacoloma, Flickr

    I colori sgargianti delle case della parte vecchia di San Juan, Porto Rico, sono talmente vari che i suoi abitanti sostengono non si ripetano mai: gli edifici che sorgono su stradine strette e pedonali risalgono al XVI-XVII secolo.


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    tururu-u, Flickr

    Le case di legno con l'intonaco scrostato - e coloratissimo - di Balat, uno storico quartiere ebraico nel distretto di Fatih, ad Istanbul.


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    Filmmiami, Flickr

    I brillanti colori di Valparaíso, cuore culturale del Cile, sono meglio apprezzabili dalle funicolari (ascensores) che collegano alla parte alta della città. Alcune di queste cabine colorate, spesso ferme per guasti e scarsa manutenzione, sono state iscritte nella Lista del Patrimonio mondiale dell’Unesco dal 2003 e sono considerate alla stregua di monumenti storici.


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    I♥RainyDays, Flickr

    La città più colorata del Messico: Guanajuato. Un tempo capitale mondiale dell'estrazione di argento (nel 18esimo secolo), oggi è tra i patrimoni mondiali dell'Umanità tutelati dall'Unesco.


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    antenne, Flickr

    Izamal, la "città gialla" in cui gran parte degli edifici è dipinta di questo colore brillante. L'effetto? Anche nelle - poche - giornate grigie, questo luogo sembra sempre baciato dal sole.


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    annina92, iFocus

    Le celebri facciate colorate di Portobello Road, nel quartiere londinese di Nothing Hill. È tra questi edifici che si tiene il celebre mercato che attira ogni settimana centinaia di turisti.



    breslavia_1151120
    Magda of Austin, Flickr

    Una delle città più colorate d'Europa e tra i luoghi più vivaci della Polonia: Breslavia, che nella sua storia è stata contesa tra la Germania, la Prussia, l'Austria, oltre al suo attuale stato di appartenenza.


    curacao_1151137
    Dex Sularte, Flickr

    Narra la leggenda che nel 1800 uno dei governatori olandesi di Willemstad, la capitale dell'isola caraibica di Curaçao, attribuì la colpa dei suoi frequenti mal di testa al bianco accecante degli edifici della città, che riflettevano la luce del sole. Emanò quindi un decreto che impose agli abitanti di pitturare le facciate delle case di qualunque colore, fuorché il bianco.



    fonte. Focus.it
     
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  10. gheagabry
     
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    KANDOVAN, Iran



    Il villaggio di Kandovan sorge nella regione dell' Azerbijan, adiacente alla montagna Sahand, che per via dei fiori e soprattutto dei papaveri che ricoprono le sue pendici, è famosa come "la sposa delle montagne dell'Iran". Le case del villaggio sono a forma di cono e sono di roccia e di lava indurita;
    Visto dall'alto ricorda un fitto termitaio. Ma avvicinadosi si scopre che queste costruzioni di forma conica del villaggio di Kandovan, sono vere e proprie abitazioni. I karan, che nel dialetto locale significa "alveari", sono scavati all'interno di rocce di origine vulcanica, il Sahand è un vulcano spento. Originariamente utilizzati come riparo per difendersi dall'avanzare delle orde di Mongoli, ora sono abitazioni a più piani del tutto efficienti nel riparare dalle temperature esterne. Le ceneri vulcaniche compresse che formano le pareti sono infatti perfetti isolanti naturali. Il villaggio di Kandovan ha una moschea, delle terme pubbliche, una scuola ed un mulino. Anche la moschea è ricavata all'interno di un Karan. La caratteristica dei Karan è che al contrario delle altre case tipiche iraniane si sviluppano molto in altezza. Alcuni arrivano ad essere di tre o quattro piani; al pian terreno ci sono di solito le stalle ed ai piani superiori le stanze per la famiglia. Di solito al quarto piano di questi Karan vi è la dispensa.Il villaggio ha più di 700 anni ma continua a esercitare un fascino fiabesco.




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    Benvenuti a Puolanka,
    la città più infelice del mondo


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    Si chiama Puolanka ed è una piccola città nel mezzo della Finlandia che detiene il poco invidiabile record di città più infelice del mondo.

    No, non è perché le cose vadano particolarmente male, ma perché per dare un’ identità turisticamente riconoscibile alla città , le autorità cittadine hanno deciso di fare di Poulanka la capitale del Pessimismo: ci sono un marchio del pessimismo, un festival del pessimismo. e un musical sul pessimismo e persino un negozio online tutto dedicato al pensare al peggio.
    Tutto è condito con un sottile humor nero e i video che ritraggono Puolanka in tutta la sua gloria pessimistica hanno centinaia di migliaia di visualizzazioni online.


    Il sindaco Harri Peltola ha provato a spiegare a BBC il perché della scelta di votarsi al pessimismo. La ragione, secondo il primo cittadino della città, sta tutta nella demografia: Puolanka è “il comune più remoto della provincia più remota della Finlandia, la città ha circa 2.600 abitanti, il 37% dei quali ha più di 64 anni e la sua popolazione è diminuita della metà dagli anni ’80”. Timo Aro, un esperto finlandese di demografia ha spiegato che il cambiamento di popolazione sta creando vincitori e perdenti “e Puolanka è uno dei perdenti: se guardi i numeri Puolanka, sono piuttosto cupi in tutti i modi possibili, non importa quanto li interpreti positivamente”. Dunque sì, se immagina il suo futuro, Poulanka lo vede nero e desolato. Ha ragione ad essere pessimista.




    Luciana Grosso, https://it.businessinsider.com/
     
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