Grandi Battaglie nella storia

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  1. gheagabry
     
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    L’attacco a Pearl Harbor, 70 anni fa



    Alle 7.48 del 7 dicembre 1941, settant’anni fa, la base navale di Pearl Harbor, sede della Flotta del Pacifico della marina militare statunitense a Oahu, una delle otto isole principali delle Hawaii, venne colpita dai primi proiettili delle decine di aerei da guerra giapponesi che stavano eseguendo l’”operazione AI”, l’attacco a sorpresa che portò all’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale. Anche se nell’immediato l’attacco fu un successo quasi completo, questo non assestò all’apparato militare statunitense nel Pacifico il colpo mortale che aveva previsto il comando giapponese.
    Prima di Pearl Harbor
    Alla fine del 1941, mentre in Europa la Germania nazista portava avanti da sei mesi la sua offensiva contro l’Unione Sovietica arrivando alle porte di Mosca, il Giappone stava continuando la sua aggressiva politica di espansione nel sudest asiatico, minacciando le principali colonie occidentali nell’area (come l’attuale Malesia, allora britannica, o le Indie Orientali olandesi) dopo aver già occupato l’Indocina francese. L’attacco alla base navale principale della Flotta del Pacifico della marina statunitense (che ha ancora oggi sede a Pearl Harbor) intendeva rendere gli Stati Uniti incapaci di reagire agli ulteriori attacchi giapponesi alle colonie in Indocina e nelle Filippine, aree necessarie al Giappone per il rifornimento delle materie prime.
    Un confronto militare tra il Giappone e gli Stati Uniti era ampiamente previsto da molti osservatori e dalla stessa maggioranza dell’opinione pubblica, ma a dicembre del 1941 tra i due paesi erano ancora ufficialmente aperti i canali diplomatici ed erano in corso negoziati. Oltre a questo, gli Stati Uniti non si attendevano un attacco nelle Hawaii, relativamente lontane dal teatro di guerra, e dove la Flotta del Pacifico era stata spostata da pochi mesi dalla precedente base a San Diego, in California.
    L’attacco
    La progettazione dell’attacco, che faceva capo al comandante in capo della Flotta Combinata giapponese, l’ammiraglio Isoroku Yamamoto, proseguiva dai primi mesi del 1941, ma l’autorizzazione definitiva dell’imperatore Hirohito arrivò solo il primo dicembre. La squadra di sei portaerei e diverse navi da guerra di supporto era già in mare da cinque giorni, partita da una base nel nord del Giappone.
    Gli aerei giapponesi che parteciparono all’attacco furono oltre 350, divisi in due ondate. La prima ondata aveva l’obiettivo di cercare e prendere di mira i bersagli principali, identificati con le navi da guerra più grandi, tralasciando magazzini, basi dei sommergibili e centri di comando. La seconda ondata doveva attaccare altri obbiettivi eventualmente tralasciati dalla prima. Altri bersagli preferenziali erano gli aerei parcheggiati nelle basi, in modo da evitare una risposta aerea immediata.
    Insieme all’attacco aereo, i giapponesi utilizzarono anche cinque minisottomarini partiti da altrettanti sottomarini maggiori che stazionavano a pochi chilometri di distanza dalla base, ma questa parte dell’attacco si rivelò un fallimento quasi completo, dato che quattro vennero distrutti o abbandonati dall’equipaggio senza aver causato danni rilevanti e di un quinto si persero le tracce, senza che facesse mai ritorno al sottomarino-base.




    I soldati statunitensi furono colti completamente di sorpresa. Anche se la prima ondata, una flotta di 183 aerei da guerra (caccia, bombardieri e lanciasiluri) in arrivo da nord, venne rilevata da una piccola stazione radar dell’esercito statunitense quando era a circa 250 chilometri dalla base, venne scambiata con un gruppo di sei bombardieri il cui arrivo era previsto dagli Stati Uniti. La trentina di postazioni di artiglieria a difesa della base erano quasi completamente sguarnite, il livello di allerta era basso e le centinaia di aeroplani nelle basi aeree a poca distanza da Pearl Harbor erano parcheggiati molto vicini per evitare sabotaggi.
    Tutte le otto maggiori navi da guerra presenti a Pearl Harbor al momento dell’attacco vennero danneggiate, e quattro vennero affondate nelle acque basse della laguna (cosa che avrebbe aiutato il recupero e la nuova messa in funzione di sei di queste nell’arco di pochi mesi). La seconda ondata di aerei giapponesi, divisa in tre gruppi (uno era destinato a un obiettivo secondario), consisteva di 171 aerei che arrivarono alla base quasi simultaneamente da diverse direzioni. Solo otto piloti dell’aviazione statunitense riuscirono ad alzarsi in volo, dei 402 aerei presenti nelle isole Hawaii.
    Complessivamente, l’attacco durò solamente un’ora e mezzo ed ebbe effetti devastanti: morirono 2.331 soldati e 55 civili americani, quasi 1.200 nell’esplosione del magazzino degli armamenti della nave Arizona. I feriti furono 1.139. Le navi danneggiate o distrutte furono nel complesso diciotto. 188 aerei statunitensi vennero distrutti al suolo, oltre 150 furono danneggiati. In confronto, le perdite giapponesi furono leggerissime: 55 uomini, di cui un marinaio di un minisottomarino catturato dagli statunitensi l’8 dicembre, 29 aerei e i cinque minisottomarini.



    Poche ore dopo l’attacco alla base di Pearl Harbor, il Giappone attaccò le Filippine, che erano sotto il controllo degli Stati Uniti. L’8 dicembre 1941 il presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt pronunciò un celebre discorso davanti alle camere riunite del parlamento americano, dicendo che il 7 dicembre 1941 sarebbe stato “un giorno che vivrà nell’infamia”. Meno di un’ora dopo il Congresso approvò la richiesta del presidente di una dichiarazione di guerra al Giappone. Durante la guerra, l’attacco a Pearl Harbor venne usato molto spesso dalla propaganda (uno dei sottomarini incagliati nei pressi della base venne portato in giro per gli Stati Uniti nelle campagne che pubblicizzavano la sottoscrizione di buoni di guerra).
    L’11 dicembre 1941 la Germania e l’Italia dichiararono guerra agli Stati Uniti, seguendo quando prescriveva il Patto Tripartito firmato a Berlino dai rappresentanti di Germania, Italia e Giappone nel settembre del 1940.
    Anche se l’attacco a Pearl Harbor fu un successo nell’immediato, le sue conseguenze non furono così durevolmente favorevoli al Giappone come questi aveva progettato, per due motivi principali. Il primo fu che l’attacco a sorpresa spazzò via i dubbi dell’opinione pubblica statunitense sulla necessità di scendere in guerra contro il Giappone, ma anche contro i regimi fascista e nazista in Europa, mentre nei mesi precedenti il fronte dei sostenitori dell’isolazionismo degli Stati Uniti era sempre stato consistente. Dal punto di vista militare, poi, le tre portaerei statunitensi della Flotta del Pacifico (la Lexington, la Saratoga e l’Enterprise) non erano presenti nella base al momento dell’attacco, fatto di cui i giapponesi erano consapevoli, e nel seguito della guerra il fattore decisivo nel Pacifico fu la superiorità aerea più che le grandi battaglie navali.
    (ilpost.it)



     
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  2. gheagabry
     
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    I KAMIKAZE



    "Vento Divino", in giapponese "kamikaze" (nell'antichità era anche letto shinpuu), è il nome dato dai giapponesi alle tempeste che distrussero la flotta cinese d'invasione di Kubilai Khan nel 1274 e nel 1281. Queste provvidenziali tempeste diffusero la credenza che il Giappone fosse protetto dagli dei. Infatti le forze armate della dinastia Yüan erano sovrastanti. La prima flotta d'invasione era composta da 30.000 soldati e la seconda da 140.000. Non è quindi sorprendente che si credesse a un intervento degli dei. L'idea che il Giappone sia il "paese degli dei" è detta shinkoku shisou.

    Durante la Seconda Guerra Mondiale, l'espressione "vento divino" tornò attuale per l'impiego dei piloti suicidi. Nel 1944 si costituì lo "Shinpuu tokubetsu kougekitai" (Gruppo speciale d'assalto vento divino), abbreviato anche come "Kamikaze tokkoutai" o semplicemente "Tokkoutai". I Kamikaze diventarono protagonisti della storia, durante la seconda guerra mondiale. Erano militari giapponesi che con i loro aerei carichi di carburante ed esplosivo, si lanciarono contro le navi statunitensi. Era l'estremo tentativo di fermare l'avanzata americana. La prima azione omicida fu nella battaglia di Leyte. In seguito vennero impiegati a Iwo Jima e Okinawa.... fu qui che cessarono le loro incursioni, nell'estate del 1945. Il motivo? Non erano i volontari a scarseggiare, ma gli aeroplani! L'industria del Sol Levante bloccò la produzione di velivoli. In quel periodo erano quasi ventimila i Kamikaze. Distrussero trentaquattro navi americane, tra cui tre portaerei. Ne danneggiroano duecentottanta. Le prime imprese furono attuate con piccoli aerei bomba, chiamati Ohka che significa "fiore di ciliegio". Gli americani li ribattezzarono baka, che significa pazzo, stupido, sciocco.
    La strategia degli attacchi suicidi con aeroplani destinati a schiantarsi sulle navi statunitensi fu decisa dal viceammiraglio Oonishi Takijirou, comandante del 1° Kokukantai (Prima Flotta Aerea). Nella riunione del 19 ottobre 1944 a Mabalacat (Filippine), fu stabilita la formazione dello "Shinpuu tokubetsu kougekitai" (Gruppo speciale d'assalto vento divino). La grave decisione fu adottata a causa delle pessime condizioni in cui versavano le forze nipponiche. Dopo la sconfitta a Leyte (Filippine) e il fallimento dell'operazione Shou (vittoria), l'inferiorità in mezzi, rifornimenti e uomini era netta. Ogni attacco aereo era destinato al fallimento, il velivolo sarebbe stato abbattuto dai caccia avversari o dalla contraerea. Perciò si decise di continuare a combattere a costo del sacrifico supremo.Molti piloti accettarono con entusiasmo la scelta di continuare la lotta con questo mezzo estremo, e tanti furono anche i volontari. Ma non si deve dimenticare il dramma vissuto in questa scelta identificando erroneamente i kamikaze come fanatici. L'eroe di guerra Sakai Saburou ci ricorda quanto fosse tragica questa decisione, e quanto i giapponesi amassero la vita che donavano in sacrificio:


    [...] le antiche parole mi turbinavano nella mente: 'Un samurai deve vivere in modo tale da essere sempre preparato a morire' [Yamamoto Tsunetomo. Hagakure, ndr]. Il codice del samurai tuttavia non prescriveva che un uomo dovesse essere sempre preparato al suicidio. Esisteva un abisso tra il togliersi la vita e l'andare invece in combattimento con l'intenzione di affrontarne i rischi e gli azzardi. In quest'ultimo caso anche la morte può divenire accettabile e non possono esservi rimorsi. [...] Ma come è invece possibile accettare, in brevissimo spazio di tempo, di andare a uccidersi?....Anche Ivan Morris ci ricorda l'umanità dei piloti kamikaze giapponesi riportando una lettera di uno di loro: "Pensare agli inganni di cui i cittadini innocenti sono stati vittime da parte di alcuni nostri scaltri politicanti mi lascia un sapore amaro in bocca. Ma accetto di ricevere ordini dall'alto comando e perfino dagli uomini politici, perché credo nello Stato giapponese. Il modo di vita dei giapponesi è veramente bello e io ne sono fiero, come sono fiero della storia e della mitologia giapponese che riflettono la purezza dei nostri antenati e la loro fede nel passato. [...] E' un onore poter offrire la mia vita in difesa di valori così belli e alti."

    Gli attacchi kamikaze furono dal punto di vista militare un fallimento. Infatti i danni recati al nemico furono limitati e mai decisivi. Ma dal punto di vista morale essi furono impressionati. Gli americani rimasero stupefatti nel constatare la determinazione del nemico, e per ovvie ragioni culturali avvertirono come disumana quella strategia di guerra. Combattere contro un nemico che non si comprendeva rendeva tutto ciò destabilizzante. Oggi i nomi dei piloti kamikaze sono conservati nello Yasukuni Jinja, un tempio shintoista di Tokyo. Le visite al tempio di alcuni premier giapponesi (come quelle di Nakasone nel 1985 e di Koizumi nel 2001) sono state oggetto di aspre critiche.
    Ma si deve ricordare che i kamikaze sacrificarono le loro vite per il Giappone, non contro qualcosa e qualcuno, oppure a favore di una classe politica, ma per l'intero paese.

    ...nella storia...



    Il termine giapponese “Kamikaze” significa “vento divino” e fu il nome dato ad un leggendario tifone che, da quanto si dice, salvò il Giappone da una flotta d’invasione mongola inviata da Kublai Khan intorno al 1281.... al largo del Giappone è stato ritrovato un relitto di una nave mongola del XIII secolo, che probabilmente faceva parte di questa flotta d’invasione affondata dalla furia del Kamikaze.
    Questa forza navale era costituita da più di 1.170 giunche da guerra. Il relitto è sepolto sotto un metro di fango ed è stato trovato da archeologi di una università di Okinawa. Questi studiosi hanno trovato 12 metri di chiglia in legno a cui erano attaccati altri pezzi. Si stima che la lunghezza della nave era almeno di 20 metri.
    Insieme al relitto sono stati ritrovati pezzi di ceramica cinese risalenti all XII – XIII secolo la cui presenza ha permesso di datare i resti dell’imbarcazione....

    1281. La flotta dell’impero mongolo-cinese sta per sbarcare sulle coste di un Giappone che con fierezza suicida si è rifiutato di pagare i tributi richiesti da Kublai Khan. Il comandante mongolo Arik Temur è in allerta, e non solo perché non si fida dei suoi marinai cinesi: i giapponesi hanno adottato una tattica snervante fatta di raid compiuti da piccolissimi commando di samurai silenziosi che salgono a bordo delle navi mongole seminando morte e distruzione in pochi minuti. Così accade anche alla nave di Temur, ma il suo valore fa sì che i samurai vengano sterminati in un tempo relativamente breve. Il comandante mongolo non fa in tempo a gioire che sulla flotta d’invasione si abbatte un terribile uragano, che la spazza via come fosse fatta di giocattoli. I giapponesi - pur decimati da un tremendo tsunami – si salvano dai mongoli e ringraziano il KamiKaze, il Vento degli Dei. Sospinto dalla violenza delle onde, il legno di Temur naufraga su un’isola sconosciuta, abitata da indigeni gentili, ricca di cibo e vegetazione lussureggiante. Quando Temur tornerà in patria il suo racconto della bellezza dell’isola colpirà profondamente il suo imperatore, tanto che Kublai Khan progetterà di essere sepolto proprio nell’isola sperduta...

    L’archeologo Kenzo Hayashida fu a capo della spedizione che scoprì i relitti della flotta della seconda invasione al largo della costa occidentale di Takashima. Le sue scoperte suggeriscono con forza che Khubilai Khan procedette con troppa fretta al tentativo di conquistare il Giappone e quindi cercò di costruire la sua gigantesca flotta in un solo anno (mentre l'impresa ne avrebbe richiesti, costringendo i cinesi a usare tutte le navi disponibili, comprese le imbarcazioni fluviali, del tutto inadatte ad affrontare l'alto mare.
    (dal web)
     
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  3. gheagabry
     
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    Ignazio Cantu

    LeVicende Della Brianza

    CAPITOLO XI

    GUERRE DEI BRIANTEI’ COI COMASCHI
    DAL 1112 AL 1152.




    Entriamo in uno dei periodi più dolorosi per le terre nostre. Senza lagrime non potrai, lettor mio, gettare uno sguardo in codesti tempi, in cui il nome di patria era chiuso fra le siepi che circondavano il villaggio, tra le pareti anguste di una casa, se la casa stessa non era divisa in più fazioni. Cessato il timore de’ nemici stranieri d’origine, lingua, costumi diversi, quasi fosse bisogno tuffarsi nel sangue degli italiani si abbandonavano alle guerre intestine fra tutte le più micidiali, e dimentichi che la sola concordia forma la forza di uno Stato, non intendendo più ad uno scopo comune, erano in continue lacerazioni - Milano approfittando delle contese tra il Papa ed Enrico III., aveva acquistata signorìa su di Lodi, e mentre cercava di tirar in suo dominio anche la città di Como, bentosto comparve il pretesto per colorire i desideri. Landolfo, diacono della metropolitana milanese, stratto della nostra nobilissima di Carcano, diverso da quello di cui abbiamo parlato, con mene e simonie aveva ottenuto il vescovado di Como, era stato unto dall’antipapa Gregorio VIII., e confermato da Enrico III.(1). Ma Urbano II., legittimo pontefice, avendo già nominato a tale dignità Guido de’ Grimoldi di Cavallasca, scomunicò l’intruso simoniaco, e lo costrinse, dopo lunga resistenza, a trovare scampo nel castello d’ Agno in Isvizzera. Pure i Comaschi, guidati da Adamo del Pero e Gaudenzio Fontanelli, recatisi a quel castello, data di notte tempo la scalata, riuscirono a far gran macello di Milanesi, e prigioniero lo stesso Landolfo. Quei di Milano che sopravvissero, fuggirono immediatamente alla volta della loro città; e seco recate le vesti insanguinate degli uccisi, le stesero sulla pubblica piazza, e taciturni e piangenti vi sedettero vicini. Le vedove girandovi in. torno, versavano lagrime, nè con più efficace eloquenza avrebbero potuto ottenere vendetta. Mentre’ i fedeli accorrevano ai sacri uffici, Giordano arcivescovo, ritto sulla soglia della chiesa, ordinò che non si aprissero le porte, fin a tanto che il carroccio non fosse avviato verso Como(2).
    Vendetta, gridò ad una voce il popolo milanese; diè di piglio alle armi, precipitò fino a Rebbio, villaggio due miglia vicino di Como e rese quei campi il teatro d’una fiera battaglia, che durò tutto il giorno. Ma sopravvenuta la notte, avendo i Comaschi, sotto la scorta di Adamo del Pero, guadagnata l’erta del Baradello, i Milanesi, protetti dalle tenebre, pratici di quei siti, giù per l’alveo del fiume Aperto, scesero taciturni fino alla città, ne schiusero le porte, ed entrati vi misero tutto a ruba ed a fiamme. Non furono tardi ad addarsene i Comaschi dalle vampe, che serpeggiavano fra i tetti della lor patria, e resi più arditi e più feroci all’idea del pericolo dei figli e delle donne, precipitarono dal monte con impeto sì grande, che i Milanesi, tra perchè improvidi, tra perchè sbandati al saccheggio, aggiunsero a grande ventura il potersi mettere in salvo(3). Unico vantaggio che da questa spedizione ritraessero i Milanesi fu la liberazione di Landolfo; il quale, al primo arrivare dei suoi concittadini posto in libertà, la prima cosa fu a mettersi in salvamento. E poichè la Martesana era alleata de’Milanesi, i Comaschi per farne la vendetta, sorpreso il borgo di Cantù, ne fecero sacco. Non dormirono a ciò i Canturiesi, ma gettatisi sulle terre comasche, s’impadronirono di alcune ville, molti menarono prigionieri, sperperarono le campagne e le case di Lipomo, Albate, Trecallo, rendendo e ricevendo dappertutto insulto per insulto. Finalmente i Comaschi convocano un consiglio, spiegano la bandiera della guerra, vestono l’armi, e movono contro Cantù.



    La terra di Cantù, lontana dalla capitale della provincia intorno a quattro miglia, da parte di scirocco, è ricchissima di antichi monumenti; e Paolo Giovio, nella vita di Ottone Visconte, la vorrebbe fondata dai Canturigi, appoggiato alla sola analogia tra il nome del popolo o del borgo, ed alla circostanza di trovarsi Cantù fra una ridente corona di colli, e di leggere in Strabone che i Canturigi abitarono una regione vitifera e montuosa. Gli abitatori di questo ragguardevole borgo attendono principalmente alla fabbricazione di merletti e di chioderie. Vicino circa tre miglia da Cantù trovi Mariano, anch’esso paese di molta considerazione, e fra i più ragguardevoli del ducato della Martesana, che si vuole anticamente chiamato fundus Manlianus, o villa Mauriliana. Fra Como e Cantù ergesi il monte Trogoglio, mediocre altura come tutte nel centro della Brianza. Dietro a questo monte appiattatisi i Canturiesi, sotto la scorta di un certo Gaffuro, prode ed arrischiato capitano, ivi aspettavano i Comaschi, pronti a venire alle mani. La mischia fu presta a cominciare, ma fra il furore della pugna, il Gaffuro perdette la vita con cinque dei suoi migliori soldati. Costernazione, spavento nell’esercito brianzuolo! I Comaschi, traendone profitto, lasciarono un’imboscata nelle gole del Trogoglio e dentro il letto d’un fiumicello, che taglia e bagna la pianura del Bassone, mentre gli altri raggiunsero di nuovo il corpo dei Canturiesi. Questi, imprevedendo lo stratagemma, si fanno addosso ai Comaschi, e li rispingono sino al Trogoglio; ma d’ improvviso uscito il drappello appostato, i Canturiesi vengono chiusi nel mezzo, nè trovando altro scampo, guadagnano parte l’erta, e parte gettansi nel fiume con considerevoli danni. I cadaveri insanguinati gridarono però vendetta nei loro compatrioti(5). I Canturiesi, alleatisi con quei di Mariano, strinsero d’assedio la città di Como e minacciavano il più micidiale ricambio, se non che quel blocco, dopo essere durato per un mese, fu, secondo la consuetudine di quei tempi, sospeso da un’amnistia fatta per la celebrazione delle festi pasquali.
    Ma in un tempo, in cui all’idee della virtù che impone l’ordine e la pace erano subentrate quelle del sentimento opposto, che comanda gloria e grandezza, non poteva la quiete durar lungamente. Essendosi il castello di Nesso, dapprima devoto ai Comaschi, ribellato, questi, senza por tempo in mezzo, mossi alla volta del castello, forzarono gli abitanti a sgombrarlo. I Milanesi, che molto contavano su questa rivolta, forse da essi sollecitata, imposero tosto a quei di Lecco, loro alleati, di allestire una flotta e spedirla alla volta di Como, per assalir la città dalla parte del lago; mandando contemporaneamente altri uomini i quali la stringessero per terra. Frementi di ardor guerriero, incorati dalle robuste parole delle spose e dei genitori, salparono i Lecchesi su trenta navi, e dato de’ remi nell’acqua, vogavano verso la città, quando ecco i Comaschi, avvisati del pericolo, e preparati alla difesa, poco lontano da Torno collocarsi a fronte della flotta nemica. Un suono di trombe, un grido guerriero furono il segnale della battaglia; s’avvicinarono i navili, s’avventarono l’un contro l’altro, fu d’ambe le parti sanguinosa la zuffa; infine i Lecchesi, perdute quattro navi, stimarono meglio ripararsi nell’isola Comacina, stretta in società coi Milanesi(6). Così quella mischia navale tornò vantaggiosa ai Comaschi, i quali nel medesimo tempo avendo fatta una sortita improvvisa dalla città, calarono addosso alle truppe pedestri de’ Milanesi con tanto vigore, che le cacciarono fino a Mariano, scorrendo e predando le terre in cui si avvennero in questo intervallo. Ma è più facile vincere, che conservar la vittoria. Mentre i Comaschi, pazzi della gioja, s’abbandonavano al sacco, eccoli raggiunti da una mano di Milanesi e Martesani, che ne fecero un macello, togliendo loro il castel di Lucino, per tradimento d’un Arialdo avvocato, che ne era il custode. Mesti i Comaschi, tornarono alle loro case, da cui erano partiti colla baldanza del vincitore, e raccontarono ai figli ed ai genitori i tristi casi di quella giornata, giurandone la vendetta (1125).
    Un giorno sull’imbrunire, alcuni Pievesi e Comaschi passeggiavano di conserva lungo il Lario, quando da discosto videro un legno carico di calce, ferramenti e sassi, che vogava all’isola Comacina, dove stavasi riedificando la torre di Cavagnola, distrutta dai Comaschi. E riconosciuta per una nave di Lecco, corsi tosto a metter assieme gente, mossero incontro ad essa con quattro navi. I Comaschi, favoriti e dai venti, e dagli animi preparati, e da armi apposite, piombati addosso a quei di Lecco, lasciarono loro appena il tempo di ripararsi nell’isola Comacina. Ma gli isolani, subitamente munita una grossa nave, forte di una torre di legno, si fecero incontro al Grifo, che era il più grosso naviglio dei Comaschi, però con esito infelice; poiché questi, adattata alla prora del Grifo una robusta punta di ferro, irruppero con tale impeto dentro la nave nemica, che la spinsero al lido sfracellata. Tentarono i Comaschi trar profitto anche dalla viltà, e a gran prezzo ottennero il castello di Cervio, devoto ai Milanesi, ma con niun vantaggio. Poiché mentre confidenti nel nuovo acquisto si curavano poco del nemico, perdettero il Lupo, grossa nave che conteneva il fiore dei militi comaschi, per cui in un tratto la loro baldanza si fiaccò, e per riscattarlo dovettero cedere e il guardiano ed il castello. I Lecchesi fecero quindi scorrerie in Valtellina fino a Berbenno, e tornando ricchi di bottino, assalirono il castello di Malgrate, ove stavano rifuggiti molti Comaschi. Malgrate è quella terra che, foggiando un porto di mare, risponde di fronte a chi guarda ‘da Lecco verso la Valmadrera. Il lago ivi presenta un bacino cinto da bei prospetti sempre qualche cosa vani e nuovi, e ricco d’una quantità di pesciolini chiamati antisiti, ed ha le rive intorno biancheggianti sempre di calce, di cui ivi si fa gran commercio. All’acquisto di quella ròcca e per terra e per mare s’affrettarono i nostri. Era notte, e i Comaschi abbandonati al sonno. Parve questa una bella opportunità, e fatto un notturno assalto addosso ai dormenti, finirono coll’ucciderne alcuni, e mettere in fuga i superstiti. Per quanto fosse stata crudele la carnificina, pure tutti rispettarono i cadaveri e li rimandarono a Como perché avessero quieta sepoltura (1126)(7). Né poca parte furono i Martesani e i Lecchesi dell’assedio decenne, onde fu stretta l’abbattuta, ma sempre forte città di Como, la quale videsi arsa dal foco gran parte delle sue case, smantellata di mura, sottoposta al crudele divieto di non più riedificarle; ed alla trista sembianza d’ un presente che, ahi troppo! discordava con un passato felice. Oh se si potessero cancellare dalla storia nostra queste pagine lorde di sangue e di nefandità, in cui ai miti sentimenti di pace, onde sono ricreati i Lombardi presenti, erano sostituiti quelli di vendetta e di brutalità! A questi tempi di agitazioni intestine succedono i non meno calamitosi, in cui l’Enobarbo, traendo partito da tali fraterne contese, calò in Italia, e vi lasciò deplorabili ricordanze.
    (museobiassono.it)

     
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  4. gheagabry
     
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    In hoc signo vinces.
    Sotto questo segno vincerai.


    LA BATTAGLIA PONTE MILVIO, 28 ottobre 312 d.C


    Tra le versioni che precedettero la battaglia di Ponte Milvio, una delle più curiose è quella comparsa in un memoria agiografica che Eusebio scrisse dopo la morte di Costantino. L’imperatore, rivolgendosi al cielo per cercare l’aiuto divino prima dell’imminente battaglia, rimase folgorato dall’apparizione di una croce di luce e della scrittura “In hoc signo vinces” Non solo lui, ma l’intera armata avrebbe assistito al miracolo. Las storia è tanto strana da far esclamare allo storico MacMullen “Se la scritta in cielo fu vista da 40mila uomini, il vero miracolo risiederebbe nel loro silenzio sull’accaduto”
    Il giorno seguente, i suoi soldati avrebbero dipinto sugli scudi il monogramma di Cristo, le lettere “Chi Rho”, e combattuto con Dio al fianco. Quando furono riportati questi fatti, Costantino era già passato alla storia come l’imperatore che aveva dato inizio a una nuova era. Sotto la sua protezione, il Cristianesimo si sviluppò fino a diventare religione dominante. Il 28 ottobre del 312, la tetrarchia voluta da Diocleziano aveva le ore contate. Una guerra civile ventennale per il potere aveva dissanguato l’impero e Costantino era determinato a porvi fine. Invasa l’Italia, dopo una serie di scontri vittoriosi, riuscì a convergere su Roma, accampandosi sulla riva destra del Tevere a poca distanza del Ponte Milvio.
    Di fronte erano schierate le truppe di Massenzio ( secondo Zosimo poteva contare su 170mila fanti e 180mila cavalieri invece nei Panegyrici si parla di 100mila uomini), autoproclamatosi imperatore nel 306. Costantino, nonostante l’inferiorità numerica (secondo Zosimo, era forte di 90mila fanti e 8mila cavalieri; nei Panegyrici latini la cifra è ridimensionata a 40mila uomini), condusse il suo esercito contro le forze del rivale che aveva disposto i suoi uomini troppo a ridosso del fiume. La loro possibilità di movimento, pertanto, risultava limitata in caso fossero stati costretti a ritirarsi. La sua abilità militare fu evidente nel momento in cui lanciò la sua cavalleria contro quella nemica mettendola in fuga. Quando fece avanzare anche la fanteria, l’avversario incominciò a ritirarsi, trovandosi la strada sbarrata del Tevere.
    Solo il ponte avrebbe potuto garantire la fuga. La rotta si trasformò in dramma quando le arcate del ponte collassarono sotto il peso dei soldati, con Massenzio tra loro. Solo la guardia pretoriana rimasta isolata al di qua del ponte vendette cara la pelle, facendosi massacrare. Lo scontro terminò con una vittoria trionfale di Costantino e Roma lo accolse con tutti gli onori. Era il nuovo e unico imperatore d’Occidente e dedicò la ua vittoria al Dio dei cristiani.(tratto da History)
     
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  5. gheagabry
     
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    "Anche la partita a scacchi non finisce con una vincita o con una perdita. finisce quando i pezzi bianchi e quelli neri vengono tolti dalla scacchiera e rimessi nella scatola. Rimane allora qualcosa di diverso dalla vittoria o dalla sconfitta – rimane il ricordo di una trama che è stata tessuta, di una melodia che è stata suonata. Non rimane Scipione, rimangono Scipione e Annibale. Il primo non può e non potrà mai esistere senza il secondo. La vincita non sta nell'ultima mossa, sta nella somma finale."
    (Ernst Jünger)


    202 a. C. LA BATTAGLIA DI ZAMA



    Roma fin dalla nascita aveva dovuto combattere una serie di guerre di espansione, che si era conclusa con la travolgente vittoria nella prima guerra punica (264-241 a.C.). Cartagine e Roma, dapprima alleate in funzione antietrusca e antigreca, avevano cominciato a contendersi il dominio del Mediterraneo. Con la vittoria nella battaglia delle isole Egadi (241 a.C.), Roma credeva di aver messo la parola fine alla contesa. Ma Cartagine, con molta difficoltà era risorta e ora voleva distruggere la sua acerrima nemica. Il 2 agosto del 216 a. C. nella piana di Canne si scrisse una delle pagine più buie della storia dell’Urbe: sedici legioni erano state massacrate da Annibale. Roma era piombata nel caos e il rischio che la seconda guerra punica si tramutasse in un disastro si era fatto reale. Non si trattava più di debellare una minaccia, ma lottare per la propria esistenza. Il conflitto si trasformò in una lotta senza quartiere e per anni le legioni furono costrette a dare battaglia su più fronti. Fino a quando i romani non decisero di portare la guerra sul suolo cartaginese, affidando questo compito a Cornelio Scipione. Il proconsole, sbarcato in Africa nel 204 a. C. , iniziò una campagna per costringere il nemico alla resa sconfiggendo diversi generali avversari. Cartagine fu così costretta a richiamare Annibale e il suo esercito dall’ Italia. Lo scontro che si profilò a Zama non lasciava dubbi: qui si sarebbe giocato il destino della guerra. La carica degli elefanti, che era stata l’arma segreta dei cartaginesi in altre battaglie, non ebbe grossi effetti sui Romani. Ormai sapevano come affrontare i pachidermi: li spaventarono con il suono di grosse trombe dirottandoli sulle file nemiche. Quando le fanterie vennero in contatto Scipione ordinò ai suoi di tentare un aggiramento che, però, fallì per la presenza dei veterani cartaginesi tenuti più arretrati. Le perdite erano state contenute, ma i combattimenti avevano permesso ad Annibale di stancare i Romani. I fantasmi di Canne si materializzarono. Fu la cavalleria a decidere lo scontro: si lanciò alle spalle dei cartaginesi scompigliandone le fila. Stretto in una morsa, il nemico cedette. Dopo anni di guerra interrotta, Zama sancì la definitiva sconfitta , sottoposta a una pace durissima, perse tutti i suoi domini. Roma era padrona del Mediterraneo.
    (Tratto da History, aprile 2014-04-29)


    "Nell'Africa settentrionale vi erano probabilmente due città chiamate Zama (una terza a Sidi Abd el Djedidi, a nord-ovest di Kairouan, non era forse chiamata Zama). Zama Regia era con ogni probabilità Seba Biar, ma questo insediamento può essere scomparso e la Zama dell'impero romano può essersi trovata nell'odierna Jama: vedi Scullard, Scipio (1970), pag. 271 segg. Una volta determinati approssimativamente i paraggi di Zama, i luoghi esatti sono meno importanti per le operazioni militari, dal momento che a Zama c'era evidentemente solo l'accampamento di Annibale, prima della sua avanzata finale a ovest verso il campo di battaglia. Dal canto suo, Scipione si accampò a Naraggara (Livio; Polibio indica Margaron, che è altrimenti sconosciuta), ma è impossibile individuare in quella zona un campo di battaglia adatto. Il luogo più probabile è quello proposto da Veith (Atlas, col. 40, Schlachtfelder, IV, p. 626 segg.) nella pianura di Draa-el-Metnam, a circa tredici chilometri da El Kef, pressappoco a metà strada tra Naraggara e Zama (Seba Biar). Un sopralluogo ha corroborato in chi scrive la convinzione della plausibilità di questa collocazione, su basi geografiche oltre che letterarie. La maggior parte della letteratura sulla questione è vagliata criticamente da Veith, Schlachtfelder, III, pag. 599 segg. e IV, p. 626 segg., sebbene egli stranamente trascuri la valida versione data da De Sanctis, SR, III, 2, pp. 549 segg., 588 segg., che apparve prima che egli pubblicasse il suo quarto volume. Per la discussione di un'altra collocazione, proposta da F. H. Russell (Archeology, 1970, p. 122 segg.), vedi Scullard in Polis and Imperium, Stud. in Hon. of E. T. Salmon (a cura di J. A. S. Evans, 1974), p. 225 segg. (dove ho corretto il nome della collina su cui Scipione si accampò da Koudiat el Behaima a Koudiat Sidi Slima)."
    (tratto da Storia del mondo Romano, vol 1. di Howard. H. Scullard)


    Forze in Campo

    Romani guidati da Publio Cornelio Scipione l'Africano

    Fanteria: 23.000 Romani e Italici (citati da Appiano), 6.000 Numidi (Liv., XXX, 29, 4; Pol., XV, 5, 12) e probabilmente 900 berberi (De Sanctis).
    Cavalleria: 1.500 Romani e Italici (citati da Appiano), 4.000 Numidi (Liv., XXX, 29, 4; Pol., XV, 5, 12), 600 Berberi (citati da Appiano).

    Cartaginesi guidati da Annibale Barca

    Fanteria: 12.000 mercenari tra Liguri, Celti, Baleari e Mauri (Pol., XV, 11, 1), 15.000 Libi e Cartaginesi, 15.000 veterani della campagna d'Italia e probabilmente anche 4.000 macedoni (Liv., XXX, 26, 3).
    Cavalleria: 2.000 Cartaginesi, 2.000 Numidi. Elefanti: 80 (Liv., XXX, 33, 4) o un numero leggermente maggiore (Pol., XV, 11, 1).

    Perdite romane. 1.500
    Perdite puniche. 24.000 morti circa 15.000 prigionieri
    Bottino dei Romani.11 elefanti e 132 insegne militari


    Discorso di Annibale ai soldati



    Già!
    La morte sembra essere compagna a questa nostra folle, strana, impresa!
    Marciammo a lungo nella penisola,
    che è ricca più d’ogni altra terra:
    l’Italia, la patria dei terribili Latini.
    Fummo invasori, or siamo invasi.
    E rapidi, come neri lampi nel cielo opaco,
    compresso di nuvole grigie
    e di tristi presagi di futuri conclusi o mai nati:
    aborti del dio Tempo;
    e lungo le vinte stagioni, le morte
    epoche che si dipanano sconfitte sui cadaveri
    che giacciono a terra;
    e lungo gli alberi neri di fuliggine
    e la terra arsa di fresco incendio
    dove bianche urlano ossa rotte;
    sopra il fiume sventrato dalle mine, i ponti divelti,
    le case a tal guisa aperte, di rosse scatole craniche
    in asettiche, impersonali, sale;
    volano, rapidi come neri lampi,
    i corvi della sventura assassina.
    Abbandonati dagli dei, lottiamo,
    contro invasori che furono invasi,
    ma mai furono stancati e fiaccati.
    Le nostre famiglie ci attendono, vittoriosi o morti,
    alle nostre case, trascinando le ferite al coperto
    dove la cura è il Tempo e l’affetto.
    Ma non ci saranno case se oggi,
    dopo sì aspra e lunga battaglia,
    giaceranno a terra i nostri corpi!
    Non il figlioletto nella bianca culla,
    non la donna amata nel gineceo,
    non l’amato campo, fruttuosa sopra,
    non l’acropoli bella e il colle sostenuto,
    non le mura bianche e le torri alate,
    non le nere navi e l’operoso porto.
    Non la vita, dopo questa sconfitta.
    Che la disperazione vi sia compagna,
    perché per oggi non ci resta altro.
    (Francesco Mola)



    Edited by gheagabry - 16/6/2015, 21:16
     
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    « Per questa disfatta, in accordo con i libri sibillini,
    venne offerta in voto una primavera sacra. »
    (Periochae, 22.5)




    LA BATTAGLIA DEL TRASIMENO

    Addì 21 giugno 217 a.C.



    Nel giugno 217 a.C., Roma era in attesa di notizie. Per quasi mezzo secolo, la Repubblica era stata impegnata in un’ aspra rivalità con la sua principale concorrente del Mediterraneo, Cartagine. Ora la guerra era scoppiata di nuovo e questa volta il suo esito sembrava spaventosamente incerto. Con una mossa sorprendente, il condottiero cartaginese Annibale, allora trentenne, aveva guidato decine di migliaia tra soldati, cavalieri ed elefanti verso nord, attraverso la spagna e oltre alle Alpi, fino all’ Italia. A dicembre Annibale aveva sbaragliato un esercito romano nella valle del Po e nella primavera del 217 era ormai giunto nell’Italia centrale. La sopravvivenza di Roma non era mai sembrata in cosi grave pericolo. Anche i nemici del generale cartaginese lo rispettavano come un degno avversario. Secoli dopo, lo storico romano Livio scrisse che Annibale assomigliava ad Amilcare, il suo celebre padre: aveva

    “lo stesso sguardo intenso; lo stesso ardore negli occhi,
    espressione e lineamenti che parevano i medesimi”
    .



    Attraverso gli Appennini, il generale cartaginese aveva perso un occhio a causa della congiuntivite e aveva dovuto far a meno di migliaia di uomini uccisi dalle malattie, ma nulla aveva spento la sua sete di vittoria. Il problema era però che Annibale stava combattendo in terra straniera: i Romani potevano quindi permettersi di aspettare e sperare che egli esaurisse le risorse di cibo e perdesse il sostegno degli alleati. La priorità di Annibale, pertanto, era costringerli a combattere. Per sua fortuna, il comandante romano, il console Gaio Flaminio, non era minimamente alla sua altezza. Flaminio era accampato vicino ad Arezzo, ma l’avversario aveva un piano per stanarlo. Scrisse lo storico romano Polibio:

    “Secondo i calcoli di Annibale” ..
    “se egli avesse oltrepassato l’accampamento e fosse arrivato sul territorio al di là di esso,
    Flaminio (in parte per il timore di venire biasimato da tutti, in parte per la sua stessa irritazione)
    non avrebbe potuto rimanere a guardare la distribuzione delle campagne
    senza muovere un dito, ma lo avrebbe seguito, dandogli l’opportunità di attaccarlo”
    .



    Annibale aveva ragione. Mentre la campagna bruciava, Flaminio scalpitava. Alcuni dei suoi ufficiali insistettero affinchè aspettasse rinforzi, ma Flaminio era preoccupato per la propria reputazione.

    “Bisognerebbe pensare a ciò che di sicuro diranno i compatrioti nell’Urbe”,
    replicò con ira,
    “ quando vedranno la campagna devastata fin quasi alle porte di Roma”.


    Ciò che seguì fu una delle più grandi catastrofi della storia romana. Annibale aveva scelto bene il terreno di battaglia, posizionando i suoi soldati sui crinali boscosi sopra il Lago Trasimeno. E, all’alba del 21giugno, quando le colonne romane giunsero in vista, Annibale seppe che gli dei erano con lui. ”Era un mattino insolitamente nebbioso” scrisse Polibio, eppure Flaminio non si era nemmeno preoccupato di inviare sentinelle in ricognizione. Quando Annibale colpì, secondo lo storico, i Romani furono per la maggior parte “fatti a pezzi quando ancora si trovavano in formazione di marcia e impossibilitati ad aiutarsi l’un l’altro..Perciò furono annientati prima ancora di rendersi conto di ciò che stava accadendo, quando si stavano domandando come reagire”. Fu probabilmente una scena orrenda: si sentivano le corazze delle armi e le grida dei soldati. La terra era intrisa nel sangue. Scrisse lo storico Livio:

    “In una nebbia tanto fitta..
    le orecchie erano più utili che gli occhi:
    gli uomini spostavano lo sguardo in ogni direzione,
    cogliendo i lamenti dei feriti, i colpi sugli scudi o sulle corazze
    e le grida di trionfo che si mescolavano alle urla di terrore”.




    Lo stesso Flaminio fu ucciso e i Romani smisero di opporre resistenza per darsi alla fuga: i soldati corsero nel lago e tentarono di salvarsi a nuoto, ma fu “un’impresa immane e senza speranza”, affogarono, oppure si trascinarono di nuovo sulla riva, dove i Cartaginesi li aspettavano spada in pugno.
    “E le spade si tinsero di sangue”

    A Roma, la notizia della sconfitta fu un terribile shock. Donne in lacrime si radunarono alle porte della città, disperate, in attesa di conoscere la sorte dei loro cari, mentre “la gente si riversava nel Foro in uno stato di grande panico e confusione”. Eppure il colpo che maggiormente temevano – un attacco diretto alla capitale – non giunse mai. Annibale non possedeva i mezzi d’assedio per conquistare Roma e invece di avanzare contro la città si diresse a sud verso il fertile territorio campano. Forse, persino allora si chiese se il suo piano di attaccare i Romani avrebbe mai davvero potuto aver successo. La battaglia del Lago Trasimeno viene ricordata oggi come una delle più stupefacenti vittorie militari della storia, eppure sul lungo periodo ebbe poca importanza. Tutti rammentano Annibale e i suoi elefanti, eppure, come lui stesso avrebbe fatto notare per primo, fu Roma e non Cartagine a vincere la guerra.
    (articolo tratto da History giugno 2015- BBC HISTORY ITALIA)



    La mattina era nebbiosa. Le quattro legioni di Flaminio, non essendo a conoscenza della posizione del nemico, procedevano senza particolari accorgimenti difensivi. D'altra parte, le loro metodologie belliche erano ancora ferme allo scontro frontale, ben dichiarato e con il nemico schierato di fronte. Annibale non schierò le sue truppe, ma le scatenò sulla colonna in marcia, che venne stretta fra le colline e le rive del lago e accerchiata. Fu, appunto, un massacro in cui persero la vita 15.000 romani, uccisi sul campo, mentre

    « 10.000, sparsamente fuggendo per tutta l'Etruria,
    giunsero a Roma per diverse vie »
    (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XXI, 7, 2.)


    A questi si aggiunsero i prigionieri, che Polibio stima in numero di più di quindicimila.
    Lo stesso console Flaminio, che cinque anni prima aveva distrutto Mediolanum, fu ucciso da un cavaliere insubre di nome Ducario. Quest'ultimo, racconta Tito Livio:

    « cacciati gli sproni nel ventre del cavallo,
    si gettò impetuosamente in mezzo alla foltissima schiera dei nemici
    ed abbattuto prima lo scudiero che si era lanciato incontro a lui
    che avanzava minaccioso, trafisse il console con la lancia »
    (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, XXII, 6.)


    Il giorno dopo vennero sconfitti anche alcuni reparti di cavalleria di Servilio, appena arrivati, che si scontrarono con la cavalleria numida di Maarbale. Qualche migliaio di superstiti delle legioni si disperse in Etruria o riuscì a raggiungere Roma.
    Contrariamente a quanto accaduto con la Battaglia della Trebbia, questa volta il disastro non venne nascosto: il Trasimeno era troppo vicino. Servilio assunse il comando delle forze navali, Marco Atilio Regolo sostituì Flaminio al consolato ma, come sempre nelle più dure avversità, Roma nominò un dittatore: Quinto Fabio Massimo Verrucoso, che passerà alla storia come cunctator ("temporeggiatore").


     
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    “Non conosco guerra più ingiusta di questa:
    finirà per coprire di vergogna senza fine il nostro Paese”


    La guerra dei papaveri


    Le Guerre dell'oppio furono due conflitti, svoltisi dal 1839 al 1842 e dal 1856 al 1860 rispettivamente, che contrapposero l'Impero Cinese sotto la dinastia Qing al Regno Unito al culmine di dispute commerciali tra i due paesi. Su questo conflitto si è spesso sorvolato in Occidente, o addirittura si è favorita un'interpretazione esattamente opposta alla realtà, lasciando credere che siano stati gli europei a cercare di stroncare con le armi il commercio dell'oppio praticato dai "cattivi" orientali. La verità è che nel 1840, con l'appoggio delle altre potenze capitalistiche, fu la Gran Bretagna a scatenare una guerra di aggressione contro la Cina feudale, proprio per poter continuare a gestire il traffico dello stupefacente.

    "La ‘Sudder Opium Company’ che i veterani della compagnia chiamavano affettuosamente ‘Ghazeepore Carcanna’ era uno stabilimento enorme. Copriva una superficie di quarantacinque acri e si estendeva su due aree attigue, ciascuna con diversi cortili, serbatoi dell’acqua e capannoni con il tetto di lamiera. Come i grandiosi forti medievali sul Gange, la fabbrica era situata in modo da avere facile accesso al fiume, e tuttavia abbastanza in alto da sottrarsi alle inondazioni stagionali. Ma la Carcanna, diversamente dai forti di Chunar e Buxar, invasi dalla vegetazione e sostanzialmente abbandonati, era tutt’altro che una pittoresca rovina: le torrette ospitavano squadre di sentinelle e i parapetti erano sorvegliati da un gran numero di peoni e burkundaz armati"

    Inizia così la descrizione del principale stabilimento di produzione dell’oppio, "uno dei più preziosi gioielli della corona della regina Vittoria" – vicino alla città di Ghazipur, a un’ottantina di chilometri da Benares, esteso per circa 18 ettari sulle rive del Gange – in un libro di Amitav Ghosh.

    "... Quando si riprese si trovò davanti a una visione impressionante: una moltitudine di torsi scuri senza gambe che giravano e rigiravano, come una tribù di demoni in schiavitù. (…) Quando i suoi occhi si furono abituati alla penombra, scoprì il segreto di quei torsi senza gambe: erano uomini immersi fino alla vita in vasche piene d’oppio, che camminavano in tondo per ammorbidire quella poltiglia. Avevano sguardi vuoti e appannati, eppure continuavano a girare con la lentezza di formiche nel miele, pigiando con passo pesante. Quando non ce la facevano più, si sedevano sul bordo delle vasche agitando la sinistra fanghiglia solo con i piedi. Mai aveva viso esseri umani così simili a spettri, con occhi come braci ardenti nell’oscurità. Sembravano completamente nudi, dato che il perizoma, se pure l’avevano, era così impregnato di droga da confondersi con la pelle".


    “Non conosco guerra più ingiusta di questa: finirà per coprire di vergogna senza fine il nostro Paese” Così si espresse nel 1839, durane una movimentata seduta del Parlamento inglese, il giovane William Gladstone, mentre l’Inghilterra si apprestava a dichiarare guerra alla Cina per “proteggere un infame traffico di contrabbando." Prevalse la controparte che accusava “l’insopportabile presunzione dei cinesi”, colpevoli di non voler stare alle regole inglesi degli scambi commerciali. Poco importa che il commercio fosse quello dell’oppio, una droga che aveva ridotto allo stremo milioni di asiatici. Ma che per più di 60 anni fu la principale fonte di reddito dell’impero britannico. Per la Cina si aprì un periodo che denominò “secolo dell’umiliazione”.

    L’oppio in Cina era conosciuto già dal secondo millennio a.C. per le sue virtù terapeutiche: riduceva il dolore e la tosse, ma soprattutto curava la dissenteria, a cui i contadini erano molto esposti per le variazione climatiche. Se l’uso era diffuso, non lo era l’abuso. La situazione cambiò quando, già dal ‘500, portoghesi e olandesi cominciarono a importare in Asia il tabacco scoperto in America, e insieme le pipe che la civiltà amerinde usavano assumerlo. Fumare, ai cinesi, piacque subito. Già alla fine del secolo Pechino era piena di botteghe di tabacco, al punto che, per frenare il dilagare della nuova moda, l’imperatore nel 1610 decise di vietare l’uso dell’esotica sostanza. Ma fatta la legge alcuni fumatori cominciarono a sostituire il tabacco con l’oppio, prodotto dell’antica tradizione che non era percepito come nocivo e che nessuno si sognava di proibire. Purtroppo la nuova modalità di assunzione era ben diversa da gocce e tinture: via polmone gli alcaloidi presenti nella sostanza, la morfina in particolare, raggiungevano prima e meglio il circolo sanguigno potenziando gli effetti euforizzanti. L’abuso e la dipendenza si diffusero così a macchia d’olio. Ci vollero parecchi anni perché la corte di Pechino si rendesse conto che il fenomeno aveva raggiunto dimensioni preoccupanti. Nel 1729 l’imperatore Yongzheng si decise ad intervenire, e vietò che l’oppio fosse venduto e fumato. Troppo tardi: gran parte della popolazione era ormai tossicodipendente, e della forma più grave di dipendenza, simile a quella da eroina, per l’organismo umano.

    Inoltre l’organiz-
    zazione sociale cinese era da tempo lacerata dalle continue tensioni tra gli eumuchi e i mandarini. Questi ultimi spesso appoggiavano i tentativi di rivolta dei contadini per indebolire il potere centrale e godere di maggior autonomia. Per la stessa ragione non esitavano a chiudere un occhio sui traffici commerciali illeciti o addirittura a incoraggiarli. Ad approfittarne furono soprattutto gli inglesi.

    “..verso la fine del XVIII secolo, l’immagine della Cina in Europa era quella di un Paese all’apice della della prosperità e gloria” osserva Guido Samarani, docente di Storia della Città all’Università Ca’ Foscari di Venezia. “Si apprezzavano le capacità di governo e si ammiravano le decorazioni, i giardini, gli oggetti, nonché la laboriosità dei suoi abitanti” La tradizioni confuciana era però ostile ai mercanti: si riteneva che i commerci favorissero i disordini e che promuovessero la pirateria, ragion per cui i dazi doganali i dazi erano altissimi. Inoltre gli stranieri erano tenuti a tributare onori e regali all’imperatote, che per i cinesi era il figlio del Cielo con un mandato per governare sulla Terra. I Qing, la dinastia salita al potere dopo il suicidio dell’ultimo Ming(1644), avevano ulteriormente limitato i rapporti con l’estero, concedendo agli scambi il solo porto di Canton. I mercanti stranieri scalpitavano, ma quelli inglesi erano a dir poco furenti. La merce cinese, in patria, era infatti richiestissima. Oltre ai vasi di porcellana e agli indumenti di seta, c’era una bevanda locale di cui l’Inghilterra si era palesemente innamorata: il tè. Per bilanciare le importazioni, i mercanti tentarono di esportare prodotti europei ma con scarsissimi risultati. L’unica merce che sembrava interessare al Celeste Impero erano i metalli preziosi. La conseguenza fu un’emorragia di oro e argento che dalle case dell’Inghilterra entrava direttamente in quelle cinesi. Cosicchè il governo inglese fece buon viso a cattivo gioco quando i loro mercanti puntarono tutto sull’oppio, l'unico commercio davvero fiorente. Illegale, purtroppo: ma gli europei del tempo non badavano troppo alle usanze locali, come avevano già ampiamente dimostrato in Africa e nelle Americhe.

    Il tutto avvenne dunque alla luce del sole: alla fine dell’700, un accordo tra Gran Bretagna, Francia e Portogallo aggiudicava alla prima, tramite le East India Company, il monopolio dell’oppio del Bengala, dalla qualità particolarmente rinomata. La Compagnie delle Indie Orientali decise allora di incrementare la produzione di oppio in India per rivenderlo in Cina: Per aggirare i divieti, riforniva le navi dei contrabbandieri che, grazie alla complicità dei mandarini, introducevano l’oppio in Cina. Gli affari inglesi andarono da subito a gonfie vele: in circa 20 anni il numero di ceste d’oppio contrabbandate in Cina salì da circa 5000 a oltre 40.000 all’anno. “In Cina le quantità disponibili di oppio erano molto limitate e il costo molto alto, per cui la diffusione restò a lungo contenuta. Fu dopo l’insediamento britannico in India che l’oppio divenne una merce sempre più disponibile e a costi accessibili” spiega Samarani. I metalli preziosi fecero così inversione di rotta, tornando in Gran Bretagna con gli interessi, mentre in Cina l’abuso prendeva le dimensioni dell’epidemia sociale. Intanto in Europa le voci giravano. Ma mentre l’opinione pubblica attaccava pubblicamente l’atteggiamento ambiguo del governo britannico, questo non era intenzionato a rinunciare alla gallina dalle uova d’oro. D’altra parte si sentiva dalla parte della ragione. Come osserva Samarani “gli inglesi trovavano inaccettabile che la Cina rifiutasse di adeguarsi a un trend internazionale segnato dalla libertà di commercio e dalla superiorità del Paese in cui la Rivoluzione industriale aveva avuto inizio”. E alle critiche risposero alimentando la proprio immagine “civilizzatrice”, ovvero imbarcando sulle navi che trasportavano l’oppio in Cina, i missionari della Chiesa Anglicana, con il nobile scopo di evangelizzare il Paese. Nel frattempo in Cina non si capiva bene che cosa fare. Chi suggeriva di rendere lecito il commercio di oppio per poterlo tassare chi di esacerbare i divieti. Alla fine prevalse la seconda linea. E nel 1838, l’imperatore si affidò a un funzionario particolarmente inflessibile, il confuciano Lin Zexu. Per prima cosa inviò una lettera alla regina Vittoria. “ Il tema su cui Lin faceva leva era etico-morale” spiega Samarani “ scriveva infatti:” Mi è stato detto che avete proibito l’oppio nel vostro Paese e ciò indica senza dubbio che conoscete i danni che esso arreca. Non volete che l’oppio arrechi danno al avostro paese ma scegliete di arrecare danno ad altri Paesi come la Cina. Perché?” Non è chiaro se la lettera arrivò mai a destinazione o venne requisita prima di raggiungere i lidi britannici. Certo è che la sovrana che passerà alla storia come moralmente irreprensibile non mosse un dito.

    In mancanza di risposte Lin passò alle maniere forti: di fronte alle continue violazioni degli accordi, ordinò che fossero confiscate tutte le casse di oppio in mano ai mercanti britannici. Ne raccolse più di 20.000 e in tre settimane le fece distruggere tutte: ogni balla fu fatta a pezzi e buttata in acqua mescolata con calce e sale, diventando fanghiglia liquida e irrecuperabile. E mentre Lin componeva un’ode per scusarsi con il mare, la Compagnia delle Indie, che voleva essere risarcita dell’immensa perdita, reclamava a gran voce l’intervento del governo britannico. Così, dopo l’animata discussione parlamentare, gli inglesi optarono per reagire con durezza all’ ingerenza cinese. Ufficialmente il motivo per aprire le ostilità non riguardava il traffico d’oppio, in cui il regno Unito non poteva ammettere di essere coinvolto. Il pretesto fu l’arresto arbitrario di alcuni cittadini inglesi. Fatto sta che nel giugno del 1840 il contingente militare britannico, armato di moschetti moderni e cannoni, giunse in Cina. La guerra durò pochissimo, le truppe europee erano militarmente superiori d ebbero rapidamente la meglio. Nel 1842 l’imperatore cinese fu così obbligato a firmare l’umiliante trattato di Nanchino: la Cina era tenuta a risarcire la Gran Bretagna, a diminuire i dazi doganali favorendo i prodotti britannici, ad aprire nuovi porti al commercio con l’Occidente e a concedere la città di Hong Kong. Città destinata a diventare il nuovo centro del traffico d’oppio. Che da li in poi aumentò considerevolmente: secondo alcune stime a metà 800 i fumatori erano più di 10 milioni.

    La Cina digerì male il trattato. La corte imperiale, che esitava a riconoscere la superiorità britannica, rifiutò più volte di accogliere gli ambasciatori stranieri e si oppose alle clausole. Il nuovo casus belli si verificò nell’ottobre del 1856: le autorità cinesi sequestrarono la Aroow, una nave pirata che però si era affretta in tempo a issare la bandiera inglese. Il console britannico a Hong Kong ordinò l’immediato rilascio dell’equipaggio e le scuse formali per l’offesa al vessillo. I marinai furono rilasciati, ma le scuse non arrivarono. I cinesi meritavano un’altra lezione: fu dato l’ordine di bombardare Canton. Era di nuovo guerra, e stavolta l’Inghilterra combatteva insieme alla Francia: la superiorità europea fu dunque ancora eclatante. I nuovi negoziati tra Cina, Gran Bretagna e Francia, a cui poi si aggiunsero Stati Uniti e Russia, portarono ai Trattati di Tientsin (1858) e successivamente a quello di Pechino (1860) che si rilevarono per la Cina se possibile ancor più penalizzanti: oltre a una pesante indennità, il celeste Impero doveva garantire alle potenze straniere un maggior numero di concessioni, il controllo su miniere e ferrovie, il libero accesso alla rete fluviale e un’apertura maggiore ai missionari. Doveva inoltre aprire agli occidentali nuovi dieci poti e mai più opporsi ai diplomatici stranieri in visita a Pechino. Era il via libera definitivo per lo sfruttamento imperialista della Cina.

    Mai come allora la popolazione cinese si compattò contro l’Occidente e contro quei documenti di accordo che vennero battezzati “trattati ineguali”. Gli stranieri erano, ai loro occhi, barbari, dai tratti fisici comuni e strani e dalla sostanziale inferiorità intellettuale e morale. Convinzione che esplose con la rivolta dei Boxer.
    Il commercio di oppio, intanto, continuò fino al 1920, benchè dal 1912 fosse proibito dalla convenzione dell’Aia. E anche se nel 1941 il generale Chiang Kai-Shek ordinò la distruzione delle coltivazioni, nel 1946 i fumatori d’oppio erano ancora 40 milioni. Solo Mao riuscì ad arginare il fenomeno. “Fu la vittoria comunista nel 1949 a segnare la fine del “secolo di umiliazione nazionale”: La Repubblica popolare cinese rappresentò infatti la nascita di una Cina nuova, il cui obiettivo primario, oltre allo sviluppo, era quello di non permettere più a nessuno di calpestarne la dignità.
    (Marta Erba, Focus Storia)


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    L’ARTE DELLA GUERRA

    IL CARRO DA BATTAGLIA



    La prima grande rivoluzione militare della storia fu la comparsa del carro da guerra trainato da cavalli. All’inizio del II millennio a.C., dopo l’addomesticamento del cavallo, in Asia Anteriore venne introdotto il suo utilizzo per trainare in modo veloce e potente i carri da battaglia. “Grazie a questo animale” spiega Alessandro Roccati, “il carro divenne protagonista della guerra del 1600 a.C. in poi”. L’altra decisiva invenzione che permise per la prima volta nella storia di avere un alternativa più valida dei soldati a piedi fu la ruota a raggi. Il carro da guerra era veloce, leggero, aperto, montato su due ruote, trainato da due o più cavalli attaccati fianco a fianco, guidati da un auriga. L’aggiogamento del cavallo al caro introdusse nella storia militare il principio tattico delle mobilità e della manovra e dal quel momento la guerra non fu mai più una questione della sola fanteria. Fu prima il popolo dei Mitanni (nord Iraq) e poi quello degli Ittiti (Turchia) a utilizzare in modo organico questo rivoluzionario mezzo di combattimento.



    Furono invece gli egizi a portarlo al suo massimo splendore tanto che l’immagine simbolo del faraone divenne quella del guerriero che scaglia frecce dal suo carro. Faraoni come Thutmose III e Ramses II costituiscono intorno al nuovo veicolo potenti eserciti che guerreggeranno in medio oriente costruendo un vasto impero. “Vennero costruiti” spiega Roccati (Professore di Egittologia all’Università di Sapienza di Roma) “dei corpi speciali di carristi dotati di alloggiamenti, scuderie e, soprattutto, campi di addestramento e uno stuolo di artigiani dedicati. La militanza in questo corpo d’élite portò alla professionalizzazione dei militare. A differenza dei più pesanti carri ittiti, quelli egizi erano più mobili e leggeri ed ospitavano due uomini: l’auriga e l’arciere. L’impiego tattico non era tanto quello della carica, quanto l’utilizzo come piattaforma mobile per tirare con l’arco su nemico da distanza di sicurezza e posizione più elevata”


    LA FALANGE OPLITICA



    Una schiera compatta di uomini coperti di bronzo che spinge in avanti un muro di scudi da cui sbuca una foresta di lance. La falange greca cambiò il modo di fare la guerra: non più gesta eroiche ma una formazione militare compatta in cui ciascun uomo si affida a chi gli sta vicino proteggendosi gli uni con gli altri. E’ l’inizio dell’arte della guerra occidentale. “Con la falange oplitica si passa dal guerriero al soldato”., spiega Giovanni Brizzi (prof. in storia romana all’Università di Bologna). L’oplita prende il nome da “oplon” lo scudo tondo di bronzo che ne caratterizza l’armamento, composto poi da elmo, corazza e schinieri di bronzo con la lancia e una spada di riserva. Le formazioni di politi greci si fronteggiavano in battaglie decisive che avevano un che di rituale: i due muri contrapposti si affrontavano con le loro lance e si spingevano fino a quando uno non riusciva a rompere la compattezza dell’altro provocandone il collasso “ Lo sviluppo della falange avviene in un parallelo alla nascita di una società di eguali, di cittadini.



    Non ci sono più guerrieri fanatici, combattimenti solitari in cerca di atti eroici come i principi omerici. Il nuovo modo di combattere riduce le perdite. Nasce una struttura in cui tutto è profondamente cambiato, prevalgono una serie di regole nuove che trasformano radicalmente la guerra. Perfino la musica che accompagna i combattimenti cambia. Si modifica anche il quadro etico di riferimento.” Questo istrice di bronzo è una novità sui campi di battaglia dell’antichità, tanto efficace da consentire a pochi greci di sconfiggere gli enormi ma più leggeri eserciti persiani. Dall’Egitto alla Persia tutti vollero ingaggiare come mercenari gli opliti greci. Alessandro Magno poi sviluppò la falange macedone con nuove potenzialità, picche più lunghe, e l’interazione con cavalleria e fanti leggeri.


    LA LEGIONE ROMANA




    I Romani non ci stavano a perdere, ed erano sempre pronti a perseguire ogni miglioramento per ottenere la vittoria. E così, combattendo guerre su terreni accidentati, si resero presto conto che la falange oplitica era decisamente troppo rigida per poter essere impiegata lontano da i campi di battaglia pianeggianti. Fu in particolare durante le Guerre Sannitiche – condotte nel IV sec a.C. contro i popoli appenninici – che i Romani sperimentarono difficoltà e sconfitte. Così si arrivò alla riforma della legione manipolare, cioè organizzata in unità chiamate manipoli, ciascuno composto da due centurie. A differenza del blocco compatto della falange, l’organizzazione in unità minori dava alla legione grande superiorità tattica. La legione in età medio-repubblicana disponeva di circa 4200 uomini divisi in quattro schiere. Davanti c’erano i velites, fanti leggeri chi disturbavano il nemico senza impegnarlo a fondo.



    Poi c’erano le tre linee di 1200 hastati, 1200 principes e 600 trianii: tre tipologie di fanteria pesante, armati di pilum (un giavellotto tipico dei Romani), gladio e scudo. Al fine del combattimento che privilegiava la spada, lo scutum fu un’arma fondamentale e un contributo tecnico decisivo, in quanto molto più maneggevole dell’oplon dei Greci. “La legione” spiega Giuseppe Cascarino( scrittore), “è la prima forma realmente organizzata di macchina da guerra. Viene costruito un sistema estremamente solido che non è stato più uguagliato fino allo sviluppo delle armi da fuoco” Il suo segreto era la flessibilità e la capacità di manovra, molto superiore a quella di una falange. Infatti i Romani vinsero quasi tutti gli scontri con i Greci. Le schiere romane erano in grado di attaccare gladio in mano i punti deboli delle formazioni nemiche. Questa manovrabilità era figlia di un duro addestramento e di una ferrea disciplina. “I comandanti romani petevano giovarsi della grande flessibilità della legione che grazie all’addestramento e a una feroce autosisciplina era capace di eseguire qualsiasi ordine”.


    (History , marzo 2015)
     
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