ESPLORATORI del mondo

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  1. gheagabry
     
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    ... Uomini nella Storia ...


    « La vista di che godemmo allora era d' una bellezza tale, che la penna tenterebbe invano di potere descrivere. La nebbia distendeva sulle pianure d' Egitto un velo, che andava alzandosi e scomparendo a misura che il sole si approssimava all' orizzonte : nello sciogliersi quel velo leggero ci lasciò vedere tutta la contrada dell' antica Menfi »


    GIOVANNI BATTISTA BELZONI





    Per evitare la coscrizione nell'esercito napoleonico nel 1803 Belzoni si rifugiò in Inghilterra, dove visse sfruttando la sua notevole stazza (era alto due metri) e la sua forza erculea lavorando come artista in un circo, dove faceva l'"uomo forzuto" con il nome di "Patagonian Samson" ("Sansone Patagonico").
    Dopo una serie di viaggi in Europa e a malta giunse in Egitto dove, sfruttando le sue nozioni di meccanica e di idraulica che aveva utilizzato per esigenze scenografiche, costruì una pompa idraulica di sua invenzione con la speranza di riuscire a venderla al Califfo Mohammed Ali, ma il suo progetto fallì...Come ripiego per guadagnarsi da vivere, si incaricò dunque, su commissione del britannico Henry Salt di trasportare dal Ramesseum al Nilo la gigantesca statua di Ramesse II (12 tonnellate), portando miracolosamente a termine l'impresa, in sole due settimane, con mezzi di fortuna...Belzoni pose la sua firma dietro un orecchio della testa del colosso.
    Cominciò così, approfittando anche di un'assoluta mancanza di regole, la sua carriera di archeologo, che lo rese famoso in tutto il mondo, ma non ricco.
    All'epoca l'Egitto era percorso non da veri archeologi, ma piuttosto da avventurieri con pochi scrupoli al soldo dei maggiori musei europei o più spesso di collezionisti privati, che razziavano i pezzi (soprattutto i preziosi) in combutta con i tombaroli e le autorità locali. Rispetto a molti di questi avventurieri europei, che non si facevano alcuno scrupolo di usare gli esplosivi pur di penetrare nelle tombe, Belzoni si distinse nel tempo per le sue eccezionali scoperte.
    In pochi anni percorse in lungo e in largo l'Egitto, risalendo il fiume Nilo fino ad Assuan, scoprendo sotto la sabbia il tempio di Abu Simbel; scoprì la città di Berenice, esplorò la Valle dei Re scoprendo la tomba di Seti I, una delle più belle della valle e che è oggi nota anche con il nome di " Tomba Belzoni", che aprì sfondandone la parete con un ariete formato da un tronco di palma.. Trasportò a Londra migliaia di reperti, fra cui un colossale obelsico che servì poi a Champollion (1822) per verificare la sua decifrazione dei geroglifici.
    Dalla tomba di Seti I, inoltre, egli riportò a Londra il sarcofago in alabastro translucido del re che offrì al British Museum per 2000 sterline. Il museo rifiutò l'offerta, così scatenando anche le ire dell'opinione pubblica, ed il sarcofago venne acquistato dall'architetto John Soane (che lo fece installare nella "cripta" della sua abitazione ove, ancora oggi, si trova).
    Tra le molte scoperte vi fu quella, nel 1818, dell'ingresso della piramide di Chefren, la seconda per altezza dopo la piramidi di Cheope. Dacché troppo spesso altri si erano appropriati delle sue scoperte, lasciò la sua vistosissima firma all'interno della camera sepolcrale.
    La sua firma può essere trovata anche accanto ad un piede della statua in granito nero di Amenofi e su un altare proveniente dal tempio di Montu, a Karnak.
    Si era guadagnato il rispetto delle popolazioni locali, non solo a causa del suo carattere e della sua forza, ma anche per la considerazione che aveva per gli usi e costumi locali, dato che amava indossare abiti e barba di foggia araba.
    Tornato in Inghilterra nel 1819, scrisse e pubblicò le sue memorie, dove descriveva tutte le sue grandi scoperte archeologiche. Nel 1821 questo avventuroso esploratore dedicò alla sua fortunata scoperta nella Valle dei Re della tomba del faraone Sety I la prima mostra egittologica di ogni tempo, ricostruendone alcuni ambienti in dimensioni reali all'interno dell'Egyptian Hall di Londra, e per farlo utilizzò i calchi in cera dei rilievi e le riproduzioni ad acquerello delle pitture fatti in loco.Gli stessi acquerelli, ora conservati a Bristol, sono serviti per ricreare nella corte vetrata del Museo un modello in scala 1:3 della camera funeraria e dell'attigua sala a pilastri di questo ipogeo, lungo oltre 120 metri, per far rivivere al pubblico almeno una parte delle emozioni provate dal Belzoni al momento dell'eccezionale scoperta, in attesa che la vera tomba nella Valle dei Re torni ad essere visitabile.
    Morì nel 1823 in Nigeria, nei pressi della citta di Timbuctù, mentre stava partecipando ad una spedizione alla ricerca delle favolose sorgenti del Nilo.
    Nonostante le sue numerosissime e importanti scoperte per conto soprattutto dell'Inghilterra, il nome di quello che ad alcuni sembra un Indiana Jones ante litteram è stato a lungo ricordato da pochi libri, anche se sui reperti custoditi nel British Museum di Londra appare la sua firma.


    ...le scoperte....





    "Si trattava niente di meno che di venire a capo di un'impresa che il pubblico fino ad allora riteneva impossibile, non potendo ignorare che se non vi riuscivo mi andavo a esporre alle risa di tutti, ma supponevo che era molto merito anche nel solo tentare questo grande progetto... Questa rozza entrata non aveva più di tre piedi di larghezza ed era ingombra di piccole pietre e di sabbia, dopo che fu sgombrata apparve più larga all'interno. Dopo che tutto questo sotterraneo fu sgomberato arrivammo all'apertura che conduceva all'interno, il 2 marzo finalmente , verso mezzodì, giungemmo al vero ingresso."



    Belzoni eseguì complessi calcoli matematici in base ai quali per primo individuò il corridoio e poi l'ingresso della Piramide di Chefren.
    Infatti la posizione delle camere funerarie non è casuale ma determinata da necessità costruttive, in funzione dell'inclinazione degli spigoli e delle dimensioni della base.
    Infine, fece demolire la parete di roccia che, impediva l'accesso alla stanza funeraria trovata sfortunatamente vuota.
    Le ossa rinvenute nel sarcofago conservato all'interno della camera funeraria non appartenevano al faraone ma ad un toro: un'offerta o una successiva sepoltura sacra.
    La camera funeraria della Piramide di Chefren, è scavata nella roccia, ed è ricoperta da blocchi disposti a doppio spiovente, come lo stesso Belzoni, fece presente con un'iscrizione su una parete tracciata col carbone.





    "La mattina del 1 agosto andammo al tempio di buon'ora animati dall'idea d'entrare finalmente nel sotterraneo che avevamo scoperto... Al primo sguardo restammo stupiti della immensità di quel luogo , trovammo oggetti d'arte magnifici... pitture, sculture, figure colossali.. Entrammo nel vestibolo di cinquantasette piedi di lunghezza e largo cinquantadue, sostenuto da un colonnato di pilastri quadrati, i quali sono posti tra la prima porta e l'entrata del santuario...ogni pilastro ha scolpita una figura ..queste specie di cariatidi giungono con le teste alla volta, e somigliano a quelle di Medinet Habu..."



    Aspettando un battello di dimensioni sufficienti, Belzoni visita le tombe della Valle dei Re. Successivamente si reca in Nubia e vede Abu Simbel; poi visita Philae, dove si impossessa di un piccolo obelisco per conto di Salt. Tornato a Luxor, non trova la barca che aveva ordinato e allora tratta con dei battellieri che si incaricano di fornigliene una. Durante i preparativi, Belzoni scava a Karnak e scopre diciotto statue con testa di leone (la dea Sekhmet), una statua reale e delle sfingi che imbarchera' insieme con il busto di Ramses II, capolavori che oggi si possono ammirare nel British Museum di Londra. A Karnak le rovine sono in un disordine indescrivibile, le statue e i bassorilievi sono di chi puo' portarseli via. Belzoni per conto di Salt, e Drovetti per i suoi agenti, si affrontano apertamente, a volte violentemente. Belzoni, mentre attraversa il tempio a dorso d'asino, viene assalito dagli agenti di Drovetti e si salva soltanto grazie all'intervento del suo nemico.
    Portato a termine l'incarico ricevuto da Salt, grazie al suo ingegno, Belzoni torna ad Abu Simbel, accompagnato da tre inglesi e decide di liberare il tempio. Al termine di tre settimane di lavoro, i quattro uomini scoprono la porta e scivolano all'interno: si trovano circondati da magnifici oggetti d'ogni specie: pitture, sculture, figure colossali.
    Nella Valle dei Re, Belzoni scopre la tomba del faraone Seti I° con il suo magnifico sarcofago di alabastro e ricopia con esattezza le pitture che ornano la tomba. Esposte a Londra, queste riproduzioni a colori attirano una folla così considerevole che Belzoni decide di esporle anche a Parigi, nel 1822, dove riscuotono lo stesso enorme successo.
    Anche Champollion, che aveva appena decifrato i geroglifici grazie alla stele di Rosetta, va ad ammirarle e a copiarne i testi. Con questa esposizione, e con il suo libro tradotto in francese, Belzoni risveglia l'attenzione europea, ed aiuta Champollion ad ottenere i fondi necessari per il suo viaggio in Egitto.




    « Il mio primo desiderio in mezzo a queste rovine fu di esaminare il busto colossale che dovevo prelevare. Lo trovai vicino ai resti del corpo e del trono ai quali, in altri tempi, era unito. Il volto era rivolto verso il cielo e si sarebbe detto che sorridesse all’idea di essere trasportato in Inghilterra. La sua bellezza, più che la sua grandezza, superava ogni aspettativa. »



    Si trattava di trasportare un colossale busto in pietra pesante oltre sette tonnellate ed alto sette metri e mezzo dal tempio Ramesseum, che si trova nella piana di Deir el-Bahari nei pressi dell' antica Tebe (l'odierna Luxor), e sistemarlo in riva al Nilo che distava circa 1200 m. Il busto era chiamato erroneamente il giovane Memnone (un mitologico re etiope nipote del re troiano Priamo), si scoprì in seguito che raffigurava il faraone Ramesse II.



     
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  2. gheagabry
     
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    "12 settembre, martedì. Visibilità scarsa. Brezza cattiva da S. - 52°C. I cani chiaramente resistono al freddo. Gli uomini, intirizziti nei vestiti congelati, non troppo soddisfatti dopo la notte ala gelo [...] probabilità di miglioramento del tempo: scarse"
    (da una pagina del diario di Amundsen)


    ROALD AMUNDSEN


    Amundsen nacque nel 1872, vicino alla cittadina di Sarpsborg nella parte sud-orientale della Norvegia. Abbandonata la prevista carriera di medico, decise di dedicare la propria vita alla ricerca polare. Marinaio abile e qualificato, lavorò a bordo di un mercantile nell’Artico, prima di imbarcarsi in qualità di comandante in seconda sulla “Belgica”, l’imbarcazione che dal 1897 al 1899 fu il primo a svernare all’Antartico. Le esperienze che Amundsen ricavò da questi viaggi, gli permisero di acquisire una sufficiente fiducia in se stesso da affrontare la sfida che aveva piegato per 300 anni tutti i navigatori: il Passaggio a Nord-Ovest. Da tempo gli esploratori erano consapevoli dell’esistenza di un corridoio che collegava l’Europa all’Asia, a nord del continente nordamericano, ma nessuna nave era mai riuscita a percorrerlo completamente. Amundsen acquistò una nave particolarmente solida del peso di 45 tonnellate, la “Gjøa”, dotata di vele e un motore da 13 cavalli, e nell’estate del 1903 la “Gjøa” lasciò il fiordo di Oslo e con il suo equipaggio di 6 uomini si preparò ad aprirsi la strada tra le acque ghiacciate del Passaggio a Nord-Ovest.
    La spedizione ebbe successo e nell’agosto 1906 la “Gjøa” percorse gli ultimi tratti del passaggio. Durante la navigazione gli uomini avevano anche raccolto una grande quantità di dati scientifici, i più importanti dei quali riguardavano il magnetismo terrestre, e registrato le proprie osservazioni sull’esatta locazione del Polo Nord magnetico. Inoltre, lungo il Passaggio a Nord-Ovest avevano raccolto materiale etnografico sulla popolazione degli Esquimesi...Incoraggiato dal precedente successo, Roald Amundsen rivolse la propria attenzione al Polo Nord. Progettò di far in modo che la sua nave rimasse bloccata dai ghiacci a nord dello Stretto di Bering, ma non fu facile trovare finanziamenti all’impresa. Nel settembre 1909 giunse la notizia che gli americani Robert Peary e Fredrick Cook avevano raggiunto il Polo. Amundsen decise allora di posporre la spedizione al Polo Nord e nel frattempo di tentare di raggiungere il Polo Sud prima di Robert Falcon Scott, che stava già dirigendosi verso l’Antartico a capo di una grande spedizione. In agosto Amundsen salpò a sud a bordo del “Fram”, che Nansen gli aveva messo a disposizione. Per poter attraversare lo Stretto di Bering, a quel tempo le navi erano costrette a doppiare Capo Horn. Per questo nessuno sospettava qualsiasi cambiamento di piano mentre il “Fram” procedeva verso sud.
    Quando la nave attraccò a Madeira, Amundsen informò i membri della spedizione che stavano navigando verso sud, non verso nord. Fu trasmesso un telegramma a Scott contenente la notizia che la spedizione norvegese stava puntando verso l’Antartico. Una corsa all’ultimo sangue che continua ad affascinare ancora oggi. Amundsen piantò il suo campo base nella Baia delle Balene, punto più vicino al Polo Sud di quello di partenza di Scott, il McMurdo Sound. Nonostante questo apparente vantaggio il territorio compreso tra la Baia delle Balene e il Polo era sconosciuto, mentre Scott avrebbe seguito una rotta tracciata nel 1908 dal suo connazionale Shackleton. Il 19 ottobre 1911 Amundsen lasciò il campo base con i suoi quattro compagni, quattro slitte e 52 cani. La missione di Amundsen aveva un unico scopo: raggiungere il Polo, velocemente. Due mesi dopo il suo obiettivo era raggiunto, cinque settimane prima che Scott e i suoi uomini raggiunsero sfiniti il Polo per trovarci la bandiera e la tenda di Amundsen. Il 14 dicembre 1911 la bandiera norvegese sventolava al Polo. L’equipaggio norvegese aveva attraversato la pericolosa Banchisa di Ross per raggiungere il piede di un’alta catena montuosa intervallata da ghiacciai. Proseguire sembrava estremamente rischioso, ma grazie alla loro perizia e a una buona dose di fortuna, gli uomini riuscirono a superare il Ghiacciaio di Heiberg, a valicare la catena montuosa e a raggiungere il plateau che li avrebbe portati al Polo.
    Per un esploratore del calibro di Amundsen, non rimanevano ancora molte sfide, ma c’era una cosa che ancora desiderava compiere: esplorare il Mar Glaciale Artico dall’alto. Condusse nel 1925 un’audace impresa a bordo di due idrovolanti, l’N24 e l’N25. Gli aerei furono costretti a schiantarsi sul ghiaccio al 88simo grado nord, ma gli uomini dell’equipaggio riuscirono a riparare uno dei due idrovolanti e tre settimane dopo fecero ritorno alle Svalbard.
    L’americano Lincoln Ellsworth aveva finanziato e preso parte a questa spedizione aerea insieme ad Amundsen. L’anno dopo Roald Amundsen, insieme a Ellsworth e all’italiano Umberto Nobile, condusse una spedizione a bordo del dirigibile “Norge” (Norvegia) dalle Svalbard all’Alaska passando sopra il Polo Nord. Gli esploratori sorvolarono territori fino a quel momento sconosciuti, colmando così gli ultimi tasselli bianchi che mancavano a completare la carta geografica mondiale. Per Amundsen l’esplorazione dell’Antartico era tutta la sua vita. E fu anche la sua morte. Quando Nobile, due anni dopo, allestì una seconda spedizione aerea a bordo dell’ “Italia” – il corrispondente del dirigibile “Norvegia”, la spedizione scomparve. Amundsen prese parte a una squadra di soccorso. Una seconda squadra riuscì a trovare il dirigibile e Nobile vivo, ma Amundsen e i suoi compagni non fecero più ritorno.
    (amb-norvegia.it)



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  3. gheagabry
     
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    "... il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: "non c'è altro da vedere", sapeva che non era vero. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l'ombra che non c'era. Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. sempre.
    Il viaggiatore ritorna subito."
    (Josè Saramago)

    MARCO POLO


    Marco Polo nasce a Venezia nel 1254. Mercante, viaggiatore italiano, al suo nome è legata l'opera passata alla storia come "Il Milione". Si tratta, a parere unanime degli storici, del compendio più importante e prezioso che il Medioevo, prima della scoperta dell'America e della successiva epoca delle grandi esplorazioni, abbia mai lasciato in merito ai territori d'Oriente, comprendendo con questa espressione anche un'ampia moltitudine di popoli e geografie che la civiltà occidentale, fino a quel momento, non aveva mai esplorato. Cittadino della cosiddetta Serenissima, come viene chiamata a quei tempi la Repubblica di Venezia, Marco Polo nasce in una famiglia tipica della Laguna, benché originaria di Sebenico, Dalmazia. Appartenente all'alta borghesia veneziana, figlio di Niccolò, mercante da cui apprende gran parte dei segreti del mestiere, nipote di Matteo Polo, fratello di suo padre e anch'egli mercante, all'età di diciassette anni il giovane Marco intraprende un lungo viaggio insieme con i due familiari. È il viaggio della sua vita, che consegna il suo nome alla storia. In realtà, sono proprio Niccolò e Matteo ad invogliare il giovane Marco ad intraprendere la carriera di commerciante all'estero. Nei mesi intorno alla sua nascita infatti, i due si sono spinti già nelle terre d'Oriente, stabilendo i propri mercati prima a Costantinopoli e poi a Soldaia, nella Crimea. I due fratelli Polo durante questi viaggi entrano nelle grazie del grande Qubilai, il conquistatore e unificatore della Cina,ottenendo fruttuosi privilegi, oltre che una probabile dignità nobiliare.

    Tornati a Venezia nel 1269, forti dell'esperienza appena trascorsa, dopo nemmeno due anni decidono di rimettersi in viaggio. Con loro, c'è anche Marco Polo, il quale insieme con suo padre Niccolò e suo zio Matteo, nella primavera del 1271 parte per l'Asia. Qui, stando ai primi resoconti dell'esperienza, i commercianti veneziani si guadagnano la fiducia del Gran Khan del Katai, in Cina. Questi, affida loro alcune missioni nelle province più remote del suo impero, dandogli la possibilità di intraprendere viaggi in terre impervie, alla stregua di popolazioni e culture fino a quel momento nemmeno immaginate dall'uomo occidentale. Tutta l'esperienza dura quasi venticinque anni e, successivamente e con dovizia di particolari, costituisce il corpus centrale dell'opera di Polo: "Il Milione", appunto. Secondo i documenti riportati di seguito, i Polo sarebbero giunti a Pechino alla corte del Gran Kahn intorno al maggio del 1275. Il giovane e intraprendente viaggiatore veneziano, su incarico dall'Imperatore, ispeziona le regioni al confine del Tibet e lo Yün-nan fregiandosi del titolo di "Messere". È un'onorificenza che lo pone a stretto contatto con la figura del sovrano, facendo di lui un rappresentante e informatore, oltre che ambasciatore di Stato. Svolge inoltre attività amministrative e si guadagna la stima delle alte sfere della società mongola. Nel 1278 poi, Marco Polo viene nominato Governatore di Hang-chou, già capitale, sotto la dinastia dei Sung, del reame dei Mangi. È il massimo riconoscimento per la sua abilità e per l'impegno profuso alla corte del Kahn. Nel 1292, a ventun'anni dalla partenza da Venezia, il mercante divenuto governatore inizia il viaggio di ritorno salpando dal porto di Zaitun. Dopo tanto peregrinare, nel 1295 rientra a Venezia.

    L'idea di mettere nero su bianco quanto visto e appreso durante la sua traversata in Oriente non lo sfiora minimamente, coinvolto com'è in alcune vicissitudini che riguardano la sua Repubblica. Tre anni dopo pertanto, nel 1298, Polo viene fatto prigioniero dai genovesi, durante la battaglia navale di Curzola, cui prende parte per difendere la sua Serenissima. In carcere però, durante la sua prigionia, fa la conoscenza di un mediocre letterato, tale Rustichiello da Pisa, che fino a quel momento si è guadagnato da vivere compilando avventure cavalleresche. Questi però, ha la brillante idea di farsi raccontare da Marco Polo tutta l'esperienza passata in Oriente insieme con i suoi parenti, con il fine di rendere su carta quanto appreso e diffonderla a tutti. Le regioni di cui racconta il viaggiatore veneziano, ancora del tutto ignote agli europei, sono quelle della Valle del Pamir, del deserto di Lop e del deserto di Gobi. Il testo che ne viene fuori non denuncia fratture e testimonia la piena osmosi avvenuta tra racconto orale e composizione scritta, tra oratore e narratore. Il libro viene redatto, in origine, in lingua francese, sebbene non ignorasse alcune forme lessicali e sintattiche italianizzanti, perlopiù volgare veneto e toscano. Dei primi esemplari composti, tutti andati perduti, si segnalano alcune varianti di quello che in principio doveva essere il titolo originale dell'opera, come detto in lingua francese, ossia: "Divisament dou monde". A questo, si aggiungono versioni intitolate "Livres des merveilles du monde" o, in latino, "De mirabilibus mundi". Smarrite le copie originali, restano però diverse traduzioni dell'opera, in molte lingue, e quasi tutte con il titolo giunto fino ai nostri giorni: "Il Milione". Contrariamente a quanto si pensi, questa fortunatissima traduzione dell'opera deriva da un'aferesi del nome Emilione, il quale i Polo protagonisti del viaggio usavano, nella città lagunare, per distinguersi dagli altri Polo, assai numerosi in quel di Venezia.

    In italiano, l'opera ha avuto come felice traduzione del suo titolo quella di "Ottimo", diffusa soprattutto intorno agli inizi del '300, ma di sicuro prima del 1309. L'intellettuale Ramusio, successivamente, nel 1559, è noto per aver curato la prima edizione a stampa dell'opera famosa. A conti fatti, "Il Milione" resta un documento fondamentale per comprendere sia l'Oriente medievale, sia la mentalità mercantile italiana verso la fine del '200. La sua struttura, di impianto trattatistico e romanzesco insieme, si mantiene unitaria, nonostante convivano nell'opera elementi apparentemente discordanti, quali l'amore per il fiabesco e il gusto per l'osservazione diretta e precisa, oltre all'attenzione ad alcuni aspetti tecnici economici e sociali propri di un esperto mercante. Le tre anime insomma, derivanti da due personalità in carne ed ossa, sono ravvisabili e, in ogni caso, non cozzano tra loro. C'è il cronista fantasioso, il viaggiatore attento e il mercante, abile nell'apprendere i meccanismi più vicini alla quotidianità di un popolo e di una terra fino ad allora sconosciuta.
    Marco Polo muore a Venezia nel 1324, a settant'anni. In Italia il suo volto campeggia sulla banconota da 1.000 lire in uso dal 1982 al 1988.


    "Signori imperatori, re e duci e tutte altre gente che volete sapere le diverse generazioni delle genti e le diversità delle regioni del mondo, leggete questo libro dove le troverrete tutte le grandissime maraviglie e gran diversitadi delle genti d’Erminia, di Persia e di Tarteria, d’India e di molte altre province."
    (Marco Polo, Il Milione)


    ......il MILIONE......


    Poche opere nella storia della letteratura possono essere annoverate tra quelle che hanno plasmato l’immaginario dell’uomo. Tra queste, c’è il libro di gran lunga più celebre del Duecento italiano: “Il Milione”. Tutti noi conosciamo, almeno di nome, il capolavoro di Marco Polo. Pochi, invece, sono a conoscenza del fatto che il titolo originale dell’opera era Le divisament dou monde (“La descrizione del mondo”), fedele trascrizione in lingua d’oil (l’antico francese) del racconto orale di Marco il quale, fatto prigioniero dai genovesi, incontrò durante la triste esperienza Rustichello da Pisa, che si dilettava a scrivere romanzi in prosa proprio in antico francese. E – supponiamo – pochi sono coloro che si spiegano il titolo Milione, che deriva dal soprannome di “Emilione”, proprio della famiglia Polo. È questo il titolo che compare nella più antica redazione toscana, risalente all’inizio del Trecento e adottata nelle moderne stampe italiane...Il prologo afferma chiaramente come l’avventura del nostro protagonista sia del tutto eccezionale. Marco, partito insieme al padre Niccolò e allo zio Matteo, mercanti di professione, giunge nel continente asiatico intorno al 1271, assumendo con il tempo una posizione di prestigio all’interno della corte del Gran Khan, imperatore di gran parte dell’Asia... questo mondo sfumato e inafferabile, dalla sovrapposizione dei confini tra realtà e immaginazione, scaturisce un messaggio universale, che va ben al di là dell’indiscusso valore artistico dell’opera: è l’invito alla conoscenza del “diverso”, il trionfo del relativismo culturale, che implicitamente condanna l’antropocentrismo di matrice occidentale e strizza l’occhio al vasto orizzonte della civiltà umana. Con Marco Polo si è plasmato forse non solo un continente, ma l’uomo moderno.
    (Corrado Capone)



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  4. gheagabry
     
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    Il desiderio di esplorare lo sconosciuto è sempre stato la forza che ha portato l'uomo a compiere imprese grandiose. I primi esploratori erano mercanti, in cerca di nuovi clienti. Poi arrivarono gli avventurieri, i quali, spinti da credenze religiose nonch'è dalla smania di ricchezza, intrapresero viaggi inimmaginabili. I moderni libri di storia certificano che le prime esplorazioni avvennero intorno al XIV secolo, ma è evidente che le esplorazioni tra l'Eeuropa e l''Asia iniziarono molto prima.
    I primi esploratori non avevano un' idea certa delle rotte intraprese; spesso le terre da loro cercate erano quelle narrate nelle leggende e non quelle realmente esistenti. Per equipaggiare una nave in modo che potesse sopportare lunghi viaggi, occorrevano grosse somme di denaro, ed era per questo motivo che le prime esplorazioni furono volute dai nobili e dai reali. Molti uomini degli equipaggi che in quel periodo prendevano parte alle spedizioni, erano marinai senza esperienza, ma garantivano il proseguimento della spedizione in caso di malattie o epidemie.


    VASCO NUNEZ BALBOA


    Esploratore e conquistatore spagnolo, Balboa il 25 settembre dell'anno 1513, attraversato l'istmo centro-americano vide per la prima volta le acque di un grande oceano sino ad allora sconosciuto. Il nuovo mare venne chiamato "Mare del Sud".
    Egli capì così che Cristoforo Colombo non sarebbe mai potuto arrivare a toccare le coste dell'Asia, perché il continente americano si frapponeva fra l'Atlantico e il nuovo oceano. Semplice ufficiale dell'esercito spagnolo, non poteva allora sapere di trovarsi di fronte alla più grande distesa d'acqua del pianeta: l'Oceano Pacifico. Nel 1904 in suo onore Panamá chiamò la sua moneta Balboa


    “Segui il sole - disse un vecchio indio a Balboa - Là, troverai un grande mare.”
    “Deve trattarsi del mare che arriva fino all’Asia! - esclamò
    Balboa - Devo vederlo con i miei occhi.”
    Con un gruppo di uomini, attraversò l’istmo di Panama per trovare il grande mare. Di giorno, avanzavano faticosamente nella fitta giungla tropicale; di notte, avevano l’impressione di essere mangiati vivi dalle zanzare. Dopo poco tempo, molti di loro morirono di febbre malarica.
    I sopravvissuti, fra cui Balboa, si sforzarono di arrampicarsi sulla cresta dell’ultima montagna... Davanti a loro si estendeva un oceano blu e scintillante al sole. Balboa estrasse la spada e rivendicò il grande Oceano Pacifico come proprietà del suo re.
    Quando il governo spagnolo venne a sapere della scoperta, decise di scavare un canale attraverso le quarantacinque miglia di territorio che separavano l’oceano Atlantico dal Pacifico. Tuttavia, la cosa si rivelò più difficile di quanto sembrasse in un primo momento. Non esistevano grandi scavatrici meccaniche per rimuovere la terra, a quel tempo; il lavoro doveva essere eseguito a mano. Gli uomini mandati a scavare il grande canale contrassero la malaria e morirono. Il progetto fu abbandonato per quattrocento anni. Perché? Non era questione di montagne, di denaro, di armate che sbarrassero il passaggio... c’era una piccola zanzara che diffondeva la malaria. Il progetto non fu completato fintanto che i medici non scoprirono come neutralizzare la piccola zanzara.....Ricorda, fu sufficiente una piccola zanzara per fermare un intero paese nella costruzione di un canale. Una piccola zanzara può uccidere un’intera armata.
    (da “Stepping Stones” di Dorothy Eaton Watts - pag. 18)
     
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  5. gheagabry
     
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    Chissà cosa avrebbe scoperto Colombo se l'America non gli avesse sbarrato la strada.
    (Jonathan Swift)


    CRISTOFORO COLOMBO


    Molto si è scritto e molto si scriverà su Cristoforo Colombo (in spagnolo: Cristóbal Colón; Genova, fra il 26 agosto e il 31 ottobre 1451 - Valladolid, 20 maggio 1506) noto esploratore e navigatore italiano, la cui fama è indissolubilmente legata alla scoperta del continente americano avvenuta il il 12 ottobre del 1492.
    Una delle cose più controverse è proprio la sua città di nascita. La tesi dominante e la più accettata, lo vuole genovese anche se non si è sicuri se nacque a Genova o in Liguria o in uno dei possedimenti della Repubblica dell’epoca. A Genova, nei pressi del Piano di Sant'Andrea si trova tuttora la casa nella quale il navigatore ha vissuto la sua infanzia e gioventù, assieme alla famiglia.
    Non vi sono documenti che indichino esattamente la sua data di nascita, poiché all'epoca non si tenevano ancora registri ufficiali delle nascite e delle morti, i quali furono ordinati dal Concilio di Trento intorno alla metà del 1500. I genitori di Cristoforo furono Domenico, tessitore genovese, e Susanna Fontanarossa, figlia di lanaioli liguri. Più attendibile ancora è Andrè Bernaldez, un amico intimo di Cristoforo che ebbe la fortuna di ospitarlo in casa sua, reduce dal secondo viaggio, ed ebbe in dono dal navigatore vari importanti manoscritti; nella sua opera "Reyes catolicos" scrisse esattamente: "El qual dicho Almirante D. Christobal Colon… estando en Valladolid en el ano de 1506 en el mes de Mayo, muriò in senectute bona, inventor de las Indias, de edad de 70 años poco mas o menos." tradotto "Il quale detto Ammiraglio Don Cristoforo Colombo… trovandosi in Vagliadolid nell'anno 1506 nel mese di Maggio, morì in buona vecchiaia, scopritore delle Indie, in età di 70 anni poco più o meno". In base a queste parole il navigatore sarebbe nato nel 1436. Anche il Peragallo, amico di Genova, sostiene questa data di nascita. Cristoforo Colombo dunque è nato nel 1436-37 ed è morto nel maggio 1506.


    Della sua vita si sa piuttosto poco: di certo fu un navigatore, pare dai suoi 14 anni. Nel 1473 ha vissuto a Savona e da allora pare abbia viaggiato sempre, al servizio di case genovesi. Dei suoi viaggi si è scritto quasi di tutto: da Tunisi all’Islanda, con incontri con navi corsare, famiglie potenti e scienziati di fama, dagli studi all’Università di Pavia fino ai rapporti stabili con il Portogallo, allora forse la più importante potenza marinara. Sono stati anni fondamentali per la formazione di Colombo, anni che sono serviti per formare il progetto di viaggio che Colombo presenterà con forza ai reali di Spagna, anni dei quali sappiamo molto poco e che forse nascondono delle sorprese: di certo non era il marinaio testardo, ignorante ma fortunato che la tradizione ancora ci racconta. Ma cosa nascondono gli anni sconosciuti di Colombo? Un giornalista e saggista romano, Ruggero Marino, avrebbe trovato le prove di uno stretto rapporto tra Colombo ed Innocenzo VIII, un Papa genovese come lui, già Vescovo di Savona nel periodo in cui Colombo visse lì, e morto solo 7 giorni prima della sua partenza da Palos per quelle che allora vennero chiamante “le Indie”.
    E’ stato il Papa allora ad aiutare Colombo? I Re di Spagna, che dovevano essere solo lo sponsor politico del viaggio, hanno poi preso il sopravvento? Ad aiutare quest’ultimo disegno ci sarebbe stata la morte tempestiva di Innocenzo VIII, seguita subito dall’elezione di Alessandro VI, Rodrigo Borgia, uno spagnolo dai modi pare molto determinati, che avrebbe poi dato agli spagnoli le nuove terre scoperte da Colombo.
    Innocenzo VIII era Giovanni Battista Cybo, la cui famiglia era originaria di Rodi, l’isola dei cavalieri oggi chiamati di Malta che avevano ereditato tanti tesori templari, e legato da vincoli di parentela con Lorenzo il Magnifico, tra l’altro morto pochi mesi prima di lui. Possono essere stati questi due grandi uomini ad aiutare Colombo a organizzare la sua impresa e a trovare i finanziamenti? Sulla lapide (del 1621) che lo ricorda all’interno della Basilica c’è scritto “Novi orbis suo aevo inventi gloria” nel tempo del suo pontificato la gloria della scoperta di un nuovo mondo, e poi: “regi hispaniarum cattolici nomine imposto” cioè ha dato il nome di cattolici ai re di Spagna Ferdinando D’Aragona e Isabella di Castiglia: due elementi forse strettamente legati.
    In effetti, come ha notato Marino, la maggior parte dei finanziatori dell’impresa di Colombo furono tutti legati a Innocenzo VIII: gli armatori e i banchieri genovesi suoi parenti, tra cui Francesco Pinelli, nipote del Papa, o Louis de Santàngel, il banchiere che riceveva le rendite ecclesiastiche in Aragona, o il banchiere di Lorenzo il Magnifico, il fiorentino Giannotto Berardi.. Lo stesso Colombo si auto-finanziò l’impresa, mentre i reali di Spagna avrebbero dato alla spedizione una copertura più politica che economica. Ed è una leggenda che la regina Isabella abbia venduto dei gioielli per finanziare Colombo.

    E come avrebbe fatto Colombo a convincerli della validità di un viaggio tanto azzardato? Dopo anni di insistenze, tutto si sbloccò quando, nel gennaio del 1492, la Spagna vinse la sua battaglia contro i Mori e conquistò Granada. Determinante pare sia stata anche l’intercessione a favore di Colombo di religiosi legati ai reali, un’ulteriore prova del fatto che l’impresa doveva avere l’approvazione del Papa. Che era allora ancora Innocenzo VIII. Nell’aprile del 1492 si siglò l’accordo tra Colombo e i Re di Spagna. Colombo ottenne la nomina di Ammiraglio dei mari e viceré delle terre e delle isole eventualmente scoperte, e questo diritto sarebbe andato in eredità ai suoi discendenti, compresa la decima parte dei proventi, esenti da tasse.
    Le tre caravelle S. Maria, Pinta e Nina avevano in tutto un equipaggio di 100-150 uomini. Ufficialmente la spedizione aveva uno scopo commerciale ed era destinata a raggiungere i ricchi paesi dell’Asia orientale, oltre ad altre terre sconosciute.
    Ma oltre alle motivazioni economiche, dietro all’impresa c’erano motivi di ordine religioso. Colombo era religiosissimo, legato ai francescani, che con i domenicani lo hanno protetto ed aiutato. Pare anche che sia morto indossando il saio francescano. Nel suo Diario di bordo, si leggerà che "in ogni posto dove sbarcava faceva innalzare una croce e ve la lasciava". Secondo il giornalista Ruggero Marino, dietro all’impresa di Colombo si nascondeva l’intenzione di mettere in piedi una vera e propria crociata per liberare Gerusalemme ed il Santo Sepolcro. Le nuove terre avrebbero portato le ricchezze necessarie alla Spagna per iniziare questa nuova conquista, visto l’esito positivo della lotta contro i Mori a Granada. Da qui l’appoggio del Papa Innocenzo VIII e l’arrivo dei finanziamenti, da qui il titolo di Re cattolicissimi ai reali spagnoli. Per questo forse Colombo si considerava “colui che porta Cristo”. A questo proposito un vero e proprio mistero che dura ormai da più di 500 anni è la sua inspiegabile firma, un criptogramma pare, strettamente collegato alla sua convinzione di avere avuto una precisa missione da Dio e che nessuno è mai riuscito a svelare completamente, una firma che non poteva essere di quel marinaio ignorante che ci ha tramandato la storia.
    E non è tutto. Colombo ha studiato a lungo libri e carte nautiche dell’epoca, era un appassionato lettore del Milione di Marco Polo, era in contatto con Toscanelli, un grande matematico ed astronomo fiorentino, dal quale ricevette delle mappe, studiò a fondo l’Imago Mundi, del cardinale D’Ailly, e chissà quanti altri testi antichi, favorito magari dall’appoggio di Innocenzo VIII..
    La sua era un’epoca di scoperte, di cartografi e di naviganti avventurosi. E tra le carte considerate misteriose, c’è quella del cartografo turco Piri Reis Ibn Haja Mehemet, famosa come mappa di Piri Reis. Una mappa nella quale sono riprodotte terre che all’epoca ancora non si conoscevano e nella quale si parla proprio di Colombo e di un suo incredibile viaggio.
    Giuseppe Carrisi, giornalista di Rai International ha filmato la mappa di Piri Reis al Museo Topkapi di Istanbul e ne ha fatto tradurre alcuni passi. Sul bordo della mappa, Piri Reis ha scritto: “Queste coste hanno ricevuto il nome di spiagge delle Antille. Furono scoperte nell’anno 890 del calendario arabo (il nostro 1485 come ha rilevato Marino) e si racconta che un infedele genovese di nome Colombo fu colui che trovò questi luoghi” “Si sa che un libro capitò nelle mani del citato Colombo nel quale si diceva che, al termine del Mar dell’Est (L’Atlantico) sul lato occidentale c’erano coste, isole e ogni tipo di metallo e di pietre preziose”
    Se questo fosse vero, Colombo, in quegli anni così poco conosciuti, avrebbe fatto un primo viaggio esplorativo guidato da un libro che noi non conosciamo (forse veniva dalla Biblioteca di Alessandria), in accordo probabilmente con Innocenzo VIII.
    L‘America quindi lui l’avrebbe scoperta nel 1485, ben 7 anni della data ufficiale, ed avrebbe organizzato la spedizione con gli spagnoli sicuro di quello che avrebbe trovato, certo di andare ad evangelizzare altri popoli e di assicurare ai “re cattolicissimi” il necessario per la crociata in Terra Santa. Dunque non un marinaio sprovveduto convinto di andare nelle Indie ma un uomo del Papa che ha portato avanti discretamente un disegno ben preciso.
    Alle 8 di mattina del 3 agosto 1492 Colombo iniziava il suo viaggio ufficiale, prima verso le Canarie e poi verso quello che tutti consideravano l’ignoto. Il 12 ottobre è sbarcato su un’isola alla quale diede il nome San Salvador .. Cinque mesi dopo tornò in Spagna con una sola caravella, acclamato come un sovrano. Ma nel frattempo era cambiata la situazione: ad Innocenzo VIII era succeduto lo spagnolo Alessandro VI Borgia, che aveva cancellato il ricordo del suo predecessore. Colombo organizzò altre spedizioni, fino a che nel 1504 morì la regina Isabella, sua protettrice. Due anni dopo morì anche lui, tra l’indifferenza di tutti, senza essere riuscito ad ottenere dal re le ricchezze che si era guadagnato con la scoperta del Nuovo Mondo e che dovevano servire anche a liberare Gerusalemme con una nuova crociata.. Neanche i figli riuscirono ad avere quello che spettava al padre, nonostante una lunga causa con il Fisco spagnolo. Iniziò, in compenso, una sistematica e duratura opera di svalutazione del navigatore genovese.


    Per anni gli storici hanno discusso sui motivi della destituzione di Colombo da governatore. Molti hanno parlato di ingraditudine della Corona spagnola nei confronti del navigatore genovese. Inoltre in passato già si erano scoperti documenti nei quali si evinceva che Colombo fosse stato un cattivo governatore: a Santo Domingo, la capitale della Repubblica Domenicana, egli governò con pugno autoritario, maltrattando le popolazioni indigene. Ma dai nuovi documenti si comprendono chiaramente i motivi della sua destituzione da governatore dei Caraibi nel 1500 e del suo imprigionamento per ordine degli stessi monarchi, Ferdinando il Cattolico e Isabella di Castiglia, che nel 1492 gli avevano dato il comando della spedizione in America.Dalle 46 pagine di questi documenti, non solo Colombo, ma anche i suoi fratelli Diego e Bartolomeo, appaiono sanguinari tiranni, senza alcuno scrupolo morale. Tra le altre cose essi vietavano che i nativi del luogo fossero battezzati, così come i figli degli schiavi. «Il nuovo ritratto del navigatore», conclude Varela, «mostra un uomo fortemente avido e ingiusto e che purtroppo per sette anni inflisse dure pene ai suoi sottoposti e che fu destituito giustamente dal suo incarico di governatore delle Indie occidentali».
    (Francesco Tortora, tanogabo)
     
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    Il VIAGGIO DI MAGELLANO



    Il viaggio attorno al mondo di Ferdinando da Magellano nasce, come quasi tutti i viaggi marittimi dell’epoca da necessità commerciali. La scoperta dell’America apre nuovi orizzonti alla colonizzazione da parte di Spagnoli e Portoghesi ed in tempi brevi si arriva a conflitti fra queste due potenze coloniali per la giurisdizione sui nuovi territori.
    Il trattato di Tordesillas concluso il 7 giugno 1494 tra i re di Spagna Fernando ed Isabella ed il re Giovanni del Portogallo pone fine a tali conflitti stabilendo un confine ideale tra questi due imperi. Con tale trattato si stabilisce come confine un meridiano terrestre, la raya (all’epoca i meridiani e paralleli non erano ancora stati inventati) che passa a 370 leghe ad ovest delle isole di Capo Verde, colonia portoghese. Una lega erano poco più di sei chilometri, quindi abbiamo circa 2.000 chilometri. Tale meridiano taglia grosso modo una fetta di America Latina che corrisponde al Brasile, o meglio ad una sua parte. Infatti il Brasile è stata l’unica colonia portoghese in America Latina. L’idea di Magellano era sostanzialmente la stessa di Colombo, cioè di giungere alle Indie e quindi la via delle spezie, circumnavigando la Terra da ovest verso est e soprattutto cercare il passaggio a sud fra i due oceani. Gli Spagnoli potevano giungere alle Indie solo da ovest, proprio perché dovevano rispettare il trattato di Tordesillas, mentre i Portoghesi vi giungevano semplicemente circumnavigando l’Africa ed attraversando l’Oceano Indiano. Inizialmente Magellano offre i suoi servigi al re di Portogallo, convinto che le Isole Molucche, da cui proveniva la maggior parte delle spezie, si potessero raggiungere più rapidamente navigando verso ovest. Il re di Portogallo però non considera utile il progetto. Non rifiuta invece il re di Spagna Carlo V che in questo modo avrebbe verificato se le Molucche si trovassero nel campo di influenza spagnolo quindi ad est dell’antimeridiano della raya. La spedizione parte dal porto spagnolo di Sanlùcar de Barrameda (37° Nord) il 20 settembre 1519, composta da cinque navi, la Trinidad, la San Antonio, la Victoria, la Concepciòn e la Santiago, con a bordi 265 uomini tra cui 24 italiani. Fa scalo per qualche giorno alle Isole Canarie (30°N), passa al largo delle Isole di Capo Verde (15°N), poi rotta verso la Sierra Leone (10°N) ed attraversa l’Oceano Atlantico per giungere sulla costa brasiliana e costeggiarla fino a Rio de Janeiro (23°S, tropico del Capricorno) dove vi arriva il 26 dicembre 1519. Da qui prosegue verso sud per arrivare al Rio de la Plata (35°S) il 10 gennaio 1520. Si inoltra nel Rio de la Plata fino a che capisce che non è il passaggio tra gli oceani.
    Continua il suo viaggio a sud ed arriva presso la baia di San Juliàn (50°S) in Patagonia, il 31 marzo 1520 dove vi trascorre l’inverno australe.
    Passato l’inverno la spedizione si dirige nuovamente verso sud dove viene persa la nave Santiago mentre si inoltra nello stretto che porta il suo nome (55°S). Qui si ammutina l’equipaggio e la San Antonio fa rotta verso la Spagna.
    Il 28 novembre 1520 dopo più di un mese di navigazione la spedizione esce dallo stretto e con tre navi entra nell’Oceano Pacifico.
    La traversata si conclude il 6 marzo 1521 quando la spedizione raggiunge l’isola di Guam nell’arcipelago delle Marianne (15°- 20°N). Per la prima volta viene attraversato l’Oceano Pacifico.
    Da qui fa vela verso le Filippine (20°N) dove ne inizia la conquista in nome del re di Spagna. In uno scontro con una tribù indigena nell’isola di Mactan viene ucciso il 27 aprile 1521.
    Il comando della spedizione passa a Juan Sebastiàn Elcano che data alle fiamme la Concepciòn perché priva di equipaggio raggiunge le Molucche l’8 novembre 1521 (0°N, equatore). La Trinidad parte con l’intenzione di riattraversare il Pacifico, sbaglia rotta ed arriva quasi in Alaska per poi ritornare indietro ed essere distrutta dai Portoghesi. La Victoria l’unica nave rimasta salpa dalle Molucche il 21 dicembre 1521. Nel gennaio 1522 viene raggiunta l’isola di Timor (10°S) nell’Indonesia. Il 6 maggio 1522 viene doppiato il Capo di Buona Speranza, in Sudafrica (35°S).
    La spedizione arriva alle Isole di Capo Verde il 9 luglio 1522 ed l’8 settembre 1522 giunge a Siviglia con 18 sopravvissuti tra cui Juan Sebastiàn Elcano ed il vicentino Antonio Pigafetta la cui relazione del viaggio (la più particolareggiata) viene pubblicata nel 1525.
    (leracine)


    "Magellano aveva studiato l'itinerario nei minimi particolari, voleva assicurare il successo alla sua impresa: avrebbe costeggiato le coste occidentali dell'Africa, le isole Canarie, le isole del Capo Verde; a da qui, attraversando l'Oceano in direzione obliqua sud-ovest, avrebbe raggiunto le coste del Brasile, tagliando l'Equatore.
    E cosl fu. Navigò infatti lungo l'Equatore per quasi sessanta giorni sotto piogge torrenziali: « ... Una cosa molto strana da vedere », scriverà il suo scrivano Pigafetta, «ci sono grandi pesci con denti terribili e un uccello che non nidifica perchè non ha zampe e la femmina depone le uova sul dorso del maschio e Il le cova».
    Avvistò la costa brasiliana il 29 novembre 1519, al Capo Sant'Agostino vicino a Pernambuco. Quattordici giorni dopo gettava le ancore nella baia di Santa Lucia (l'odierna Rio de Janeiro). All'inizio di febbraio del 1520 la piccola flotta era davanti all'estuario del Rio della Plata. Qui Magellano cerca il passaggio verso il Pacifico, ma non lo trova. Il31 marzo del 1520 ripara a Porto San Giuliano: siamo sulle coste della Patagonia. I patagoni, con alcuni dei quali è lecito supporre che Magellano abbia fatto conoscenza, sono gente di alta statura, abilissimi nel cavalcare; vivono di caccia e di pesca: quando qualche balena viene a morire sulla costa, fanno festa, essendo particolarmente ghiotti della carne di questo cetaceo. Dopo una bella scorpacciata, ne conservano parte sottoterra, e se ne cibano anche dopo tre o quattro mesi, quando la carne è diventata putrefatta e manda un fetore che sarebbe per noi insopportabile. Su un punto di questa costa ingrata Magellano abbandonò un suo ufficiale e un sacerdote: per punizione, essendosi i due ammutinati.
    18 ottobre 1520: ecco finalmente la sospirata apertura:
    Capo delle Vergini. Magellano imbocca lo stretto, che poi prenderà il suo nome, lasciando alla sua sinistra le ultime propaggini meridionali del continente americano: la Terra del Fuoco.
    Terra del Fuoco: una delle regioni più fantastiche del nostro pianeta, cielo color di cenere, montagne altissime, grigie, un'atmosfera che varia di ora in ora. L'isola della Desolazione è tutta coperta di neve: grandina, tuona e lampeggia, poi d'improvviso torna il sereno; gli abitanti si chiamano fuegini: capelli duri, ispidi, spioventi sul viso sino a coprire gli occhi, faccia piatta e tonda di color giallo cupo, naso schiacciato tra zigomi assai pronunciati; vestono, quando vestono, nei modi più strani: pelli e tele incatramate, spoglie di caccia, regali di forestieri di passaggio, uniformi gallonate di ufficiali di marina ... Ma seguiamo Magellano mentre sta attraversando lo stretto: dopo più di un mese di lenta esplorazione, l'ammiraglio manda una lancia in ricognizione. La barca parte. Torna tre giorni dopo con la grande notizia: era arrivata a un capo molto lungo, oltre il quale doveva esserci il mare aperto. Scrive Pigafetta: «Dalla gioia il Capitano Generale si mise a piangere e dette il nome di 'Capo deseado' a questo Capo, come cosa da lungo tempo desiderata ». La sera del 28 novembre 1520 le tre navi entrano nelle acque di una sconfinata, tranquilla distesa d'acqua: l'Oceano Pacifico."(dal web)


    «Nessuno li credeva vivi, ma sono arrivati stanotte. Hanno gettato l’ancora e sparato tutta l’artiglieria. Non sono sbarcati subito né si sono fatti vedere. All’alba sono apparsi sulle pietre del molo. Tremanti e cenciosi, sono entrati a Siviglia impugnando torce accese. La folla ha fatto largo, sbigottita, a questa processione di spauracchi capitanata da Juan Sebastiàn de Elcano. Avanzavano barcollando, appoggiandosi gli uni agli altri, di chiesa in chiesa, offrendo voti, sempre seguiti dalla folla. Camminavano cantando.
    Erano partiti tre anni fa, discendendo il fiume, su cinque navi gagliarde che presero la rotta dell’ovest. erano un mucchio di uomini alla ventura, venuti da ogni parte, che si erano dati appuntamento per cercare, insieme, il passaggio tra gli oceani e la fortuna e la gloria. Erano tutti fuggiaschi; si misero in mare fuggendo la povertà, l’amore, il carcere o la forca.
    I sopravvissuti parlano ora di tempeste, crimini e meraviglie. Hanno visto mari e terre che non avevano geografia né nome; hanno attraversato sei volte la zona dove il mondo ribolle, senza bruciarsi mai. Al sud hanno trovato neve azzurra e, nel cielo, quattro stelle in croce. Hanno visto il Sole e la Luna muoversi al contrario e i pesci volare. Hanno sentito parlare di donne ingravidate dal vento e hanno conosciuto uccelli neri, simili a corvi, che si gettano a capofitto nelle fauci aperte delle balene e ne divorano il cuore. In un’isola molto lontana, raccontano, vivono esserini di mezzo metro d’altezza, che hanno orecchie lunghe fino ai piedi. Così lunghe sono le orecchie che, quando si coricano, una serve loro da materasso e l’altra da coperta. E raccontano che quando gli indios delle Molucche videro arrivare sulla spiaggia le scialuppe staccatesi dalle navi, credettero che le scialuppe fossero figliolette delle navi, che le navi le partorissero e le allattassero.
    I sopravvissuti raccontano che nel sud del sud, dove si aprono le terre e si abbracciano gli oceani, gli indios accendono alti fuochi, giorno e notte, per non morire di freddo. Quelli sono indios così giganteschi, raccontano, che le nostre teste a malapena gli arrivavano alla vita. Magellano, il capo della spedizione, ne catturò due mettendogli dei ceppi di ferro come ornamento delle caviglie e dei polsi; ma poi uno morì di scorbuto e l’altro di caldo.
    Raccontano che non hanno avuto altra scelta che bere acqua putrida, tappandosi il naso, e che hanno mangiato segatura e cuoio e le carne dei topi venuti a contendere loro le ultime gallette bacate. Quelli che morivano di fame li gettavano fuori bordo e, non essendoci pietre a cui legarli, i cadaveri restavano a galla sull’acqua: gli europei con la faccia la cielo e gli indios bocconi. Quando arrivarono alle Molucche, un marinaio scambiò con gli indios sei uccelli per una carta, il re di denari, ma non poté assaggiarne neanche un boccone, tanto aveva le gengive gonfie.
    Hanno visto piangere Magellano. Hanno visto lacrime negli occhi del duro navigatore portoghese Ferdinando da Magellano, quando le navi entrarono nell’oceano mai attraversato da nessun europeo. E hanno saputo della tremenda furia di Magellano, quando fece decapitare e squartare due capitani ammutinati e abbandonò nel deserto altri ribelli. Magellano è adesso un trofeo putrefatto in mano agli indigeni delle Filippine che gli conficcarono nella gamba una freccia avvelenata.
    Dei duecentotrentasette marinai e soldati che partirono tre anni fa da Siviglia, ne sono tornati diciotto. Sono arrivati su di una sola nave lamentosa, che ha la chiglia corrosa e fa acqua da tutte le parti. I sopravvissuti. Questi morti di fame che hanno appena finito di fare per la prima volta il giro del mondo.»
    (Eduardo Galeano, Le Memorie del Fuoco, vol 1°)
     
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  7. gheagabry
     
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    L’epopea dei Caboto, gli esploratori dimenticati

    Caboto_Giovanni

    Durante l’epoca dell’espansione europea nel Nuovo Mondo, i navigatori italiani hanno avuto un peso determinante non solo nell’esplorazione marittima, ma anche nello studio del Nuovo Continente da un punto di vista etnico, sociale e naturalistico.
    I cinque grandi navigatori italiani furono: Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci, Giovanni e Sebastiano Caboto e Giovanni da Verazzano.
    Tutti dovettero cercare ingaggi fuori dall’Italia, visto che i governanti del tempo non avevano compreso il reale valore aggiunto che questi navigatori potevano apportare ai loro territori (e tantomeno all’Italia intera, intesa come nazione). Purtroppo anche oggi molti cervelli eccelsi scelgono di emigrare alla ricerca di Paesi che possano dare loro un futuro, Paesi che abbiano una visione, e che valorizzino il valore aggiunto che una persona preparata può apportare alla società.
    Giovanni Caboto nacque a Genova nel 1450, e si trasferì molto presto a Venezia. Lì, giovanissimo, sposò Donna Mattea ed ebbe tre figli, tra cui Sebastiano, che probabilmente lo seguì nel suo primo viaggio.
    Caboto fece alcuni tentativi per ottenere navi e mezzi dalla Repubblica di Venezia, ma le sue richieste non furono accolte. Quindi andò a Valencia, in Spagna, dove diresse i lavori di ampliamento del porto, proprio nel periodo in cui Colombo rientrava trionfante dal suo primo viaggio.
    Caboto, entusiasta di quelle scoperte, si propose a Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona per un viaggio di esplorazione verso Occidente, seguendo una rotta più settentrionale di quella percorsa dall’Ammiraglio. Ricevette però un rifiuto e così, nel 1496 andò in Inghilterra per convincere re Enrico VII ad appoggiare il suo progetto. Questi, per recuperare il ritardo rispetto a Spagna e Portogallo, s’affrettò a concedere l’autorizzazione per organizzare la spedizione. Ecco il permesso del re d’Inghilterra Enrico VII a Giovanni Caboto, il 5 marzo 1496:

    Vi concedo piena e libera autorità, permesso e potere di navigare in ogni regione e coste del Mare dell’est e dell’ovest sotto i nostri vessilli, bandiere ed insegne, con cinque navi da carico della qualità che lui voglia, con tutti gli uomini che lui voglia portare con se in quelle navi, a sue proprie spese, con lo scopo di trovare, scoprire, esplorare ed investigare, siano isole, paesi, regioni o provincie di pagani e infedeli, siano nelle parti del mondo che prima di quel momento fossero sconosciute per tutti i Cristiani.



    La mancanza di mezzi e la difficoltà di reperire l’equipaggio ritardarono però la partenza di Caboto fino al maggio del 1497, allorché prese il mare con il Matthew, una nave di 50 tonnellate, e con soli 18 uomini d’equipaggio. Il 24 giugno la caravella approdò sull’isola di Cap Breton (o nell’isola di Terranova) toccando poi una terra vergine nel continente, che fu chiamata Nuova Scozia. Il navigatore italiano prese possesso di questi nuovi territori in nome di Enrico VII.
    Il 24 giugno del 1497 fu un giorno molto importante per la storiografia della colonizzazione europea del Nuovo Mondo: innanzitutto ben antecedente al 1498, l’anno del terzo viaggio di Colombo, quando per la prima volta l’ammiraglio genovese mette piede nel continente sudamericano. Inoltre nello stesso giorno, secondo le lettere di Amerigo Vespucci, il fiorentino toccava terra sudamericana nel suo primo viaggio (vedi mio articolo Origine del nome America). Da notare però che Amerigo Vespucci fu il primo occidentale a mettere piede nella terraferma americana e riconoscerla come tale, in quanto Giovanni Caboto giunse il 24 giugno 1497 nell’isola di Cap Breton (o nell’isola di Terranova), e non in terraferma.
    Il Matthew ritornò in Inghilterra in agosto e il suo arrivo fu celebrato con grandi festeggiamenti. Nel 1498 il re d’Inghilterra autorizzò un’altra impresa, alla quale parteciparono sei velieri con 200 uomini d’equipaggio, con l’obiettivo di colonizzare le terre scoperte, ritenute isole asiatiche. La spedizione partì nell’estate del 1498 ma Giovanni Caboto non fece mai più ritorno in Europa.
    Si sono fatte varie ipotesi sull’insuccesso del viaggio ma la più probabile è che alcune imbarcazioni, cercando un passaggio per Cipango, si siano spinte troppo a nord, scontrandosi con iceberg.
    Negli anni a venire l’Inghilterra non organizzò altre imprese, ciò nonostante le esplorazioni dell’italiano Giovanni Caboto gettarono le basi per la futura colonizzazione inglese del Nuovo Mondo.
    Negli anni successivi alla conquista del Messico, il figlio di Giovanni Caboto, Sebastiano, fu il comandante di un importante viaggio in Sud America. Sebastiano, che nacque a Venezia nel 1484, seguì le orme del padre, apprendendo fin da giovane l’arte di navigare. La passione per la geografia, inoltre, lo portò ad affinare le sue doti di cartografo. Prestò servizio presso la corte inglese con questo compito fino al 1512, quando viaggiò in Spagna.
    Fu nominato Piloto Mayor de Castilla e assunse il titolo di capitano generale nel 1525.
    Il re di Spagna Carlo V lo autorizzò a organizzare una spedizione per esplorare il Rio de la Plata, perché si credeva che il leggendario paese di Birú (il Perú), fosse facilmente raggiungibile risalendone il corso. La flotta, di tre navi e 150 uomini d’equipaggio, partì da Cadice il 5 aprile 1526. Dopo tre mesi di navigazione, il convoglio giunse nell’estuario del grande fiume e iniziò ad inoltrarsi nell’interno. Caboto navigò fino alle cascate di Yacareta-Apipe, dove dovette fermarsi trovandosi di fronte a scoscesi salti d’acqua. Nella zona dell’attuale provincia argentina di Santa Fe fondò un villaggio e un forte, chiamato Santo Spirito.
    Il veneziano rimase nella zona per anni, inviando spedizioni nelle vicinanze, studiando la morfologia del terreno ed esplorando personalmente i fiumi Paraguay e Pilcomayo. I suoi ufficiali Francisco Cesar, Francisco de Rojas, Martin Mendes e Miguel de Rodas partirono, con un contingente di soldati, per un viaggio esplorativo nell’interno del continente, alla ricerca di Birú e dei suoi favolosi segreti (dal cognome di Francisco Cesar si originò in seguito la leggenda della Città dei Cesari). Nel contempo, il villaggio che era stato fondato fu distrutto dai nativi, cosicché il veneziano decise di rientrare in Europa.
    Una volta in Spagna, alla corte di Carlo V, Caboto chiese di essere riconosciuto Adelantado e governatore delle terre scoperte, e di poter ripartire al comando di una flotta più numerosa. Ma la Corona, che proprio in quegli anni aveva dato a Francisco Pizarro la concessione per la conquista del Perú attraverso la rotta di Panama, non ascoltò le richieste del veneziano, che fu addirittura imprigionato per aver abbandonato i suoi luogotenenti. Un anno dopo fu liberato e prestò servizio presso la Corona di Spagna come Piloto Mayor fino al 1547.
    Negli anni successivi tentò nuovamente di arruolarsi al servizio del Re d’Inghilterra ma senza esito. Ebbe contatti con le autorità veneziane, con le quali stava progettando un viaggio in Cina allo scopo di stabilire rapporti commerciali, ma anche questi tentativi non portarono a nulla di concreto.
    Morì a Londra nel 1557, mentre organizzava ulteriori viaggi di esplorazione per conto della Company of Merchant Adventurers, una società che aveva lo scopo di cercare il leggendario passaggio a nord-ovest per raggiungere la Cina con una rotta più diretta.
    Le sue esplorazioni nel cono sud del continente americano ebbero il merito di descrivere e redigere le mappe di nuovi territori del Rio de la Plata, che furono colonizzati negli anni successivi.

    Yuri Leveratto



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  8. gheagabry
     
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    4 novembre 1922 - 2012

    90 anni fa .... la scoperta della tomba di TUTANKAHAMEN




    Intorno alle dieci di mattina del 4 novembre 1922, l’archeologo inglese Howard Carter scoprì alcuni gradini nascosti sotto i resti di un antico villaggio nella Valle dei Re, in Egitto. Il nome del sito era la sigla KV62, ma da allora divenne noto come la tomba di Tutankhamen. Fu uno dei ritrovamenti archeologici più ricchi della storia e la pietra fondante della moderna egittologia.
    All’epoca fu un avvenimento tanto sensazionale e seguito dal pubblico che la morte sospetta di alcuni membri della spedizione fece nascere la leggenda della maledizione del Faraone, a cui contribuirono scrittori come Arthur Conan Doyle, e che è rimasta nella cultura popolare fino ai giorni nostri.



    La storia della scoperta cominciò con le parole di Theodore Davis, un avvocato americano appassionato di archeologia. Davis fu l’autore di numerosissime scoperte all’interno della Valle dei Re e nel 1914 scoprì una tomba piuttosto misera (KV54, poco più di un pozzo), che però decise essere la tomba di Tutankhamen. Davis proclamò alla fine del libro in cui raccontava le sue ultime scoperte:
    «Penso proprio che nella Valle dei Re non ci sia più nulla da scoprire.»
    Successivamente si scoprì che gli scavi di Davis terminavano due metri prima dell’ingresso alla vera tomba di Tutankhamen e dei suoi immensi tesori.
    Otto anni dopo, ricominciò a scavare proprio in quella zona Howard Carter, un archeologo che era finanziato dal nobile inglese George Herbert, quinto conte di Carnarvon. Carter e Lord Carnarvon non procedevano alla cieca: erano alla ricerca proprio della tomba di Tutankhamen e non ritenevano plausibile che il pozzo scoperto da Davies fosse la tomba di un faraone. Ma avevano pochissimi indizi – qualche coccio con inciso il nome del faraone – e la zona degli scavi era già stata ampiamente ricercata da altri archeologi.



    Carter cominciò a scavare il primo novembre su un sito dove aveva già scoperto, sotto tre metri di detriti, i resti di un villaggio degli operai che avevano costruito la tomba di Ramses VI. La mattina del 4 novembre un operaio egiziano scoprì il primo gradino che conduceva alla tomba. Entro sera venne liberata dalla terra un’intera scala. Quel giorno Carter scrisse sul suo diario:
    «Intorno alle 10 ho scoperto sotto la prima capanna le prime tracce dell’entrata della tomba (Tut.ankh.Amen)»
    A quel punto l’esplorazione della tomba proseguì in maniera lenta e metodica. La porta al termine delle scale aveva i sigilli rotti, segno che i ladri l’avevano già visitata. Da lì partiva un altro corridoio, che conduceva all’ingresso vero e proprio. Anche qui i sigilli erano spezzati, ma i geroglifici erano chiari: si trattava della tomba di Tutankhamen. La porta venne aperta ufficialmente soltanto il 29 novembre, dopo che Carter fece un buco nella porta, ci infilò un mano e accese un fiammifero per verificare che ci fosse ossigeno all’interno. La prima camera si rivelò vuota, ma Carter era sicuro che ci fosse una porta segreta.



    La trovò e una volta aperta si rivelò piena di tesori. In tutto Carter scoprì cinque stanze: il corredo funebre del faraone si rivelò così ricco e Carter fu così disciplinato nella catalogazione che soltanto il 10 novembre 1930, otto anni dopo la scoperta, l’ultimo oggetto fu asportato dalla tomba. Gli oggetti catalogati furono più di cinquemila: dalle statue d’oro alla cassa decorata in avorio che conteneva i canopi con all’interno gli organi estratti dal faraone – gli oggetti oggi sono quasi tutti conservati nei musei del Cairo e per legge, dal 1970, non possono lasciare l’Egitto.
    Ma il reperto più interessante che trovò Carter fu il monumento funerario vero e proprio del faraone. Era l’oggetto più grande, costituito da 4 altari che, inseriti uno dentro l’altro come una matrioska, proteggevano il sarcofago. Quello esterno, il più grande, misurava 5 metri di lunghezza, quasi quattro di larghezza e tre di altezza. All’interno di questi quattro altari era custodito il sarcofago, intagliato nel granito che a sua volta conteneva tre bare, una dentro l’altra. L’ultima era fatta con 110 chilogrammi d’oro. La mummia che custodiva era coperta dalla maschera funebre d’oro e lapislazzuli, probabilmente il reperto più famoso di tutta l’egittologia.
    Il ritrovamento della tomba, annunciato in una conferenza stampa il giorno in cui Carter entrò nella prima camera, suscitò immediatamente l’attenzione dei mezzi di comunicazione. Ma la passione per l’Egitto crebbe in maniera smisurata quando cominciarono a venire alla luce i primi tesori. Il pubblico era tanto ansioso di avere notizie e Carter procedeva in maniera tanto prudente che presto ogni dettaglio della spedizione cominciò ad essere riferito in maniera più o meno esatta dalla stampa.



    La leggenda della maledizione del faraone nacque per un episodio curioso, che ha a che fare con un cobra e con un canarino. Un collega di Carter raccontò un episodio all’apparenza misterioso che venne pubblicato sul New York Times il 22 novembre, qualche settimana dopo l’apertura della tomba. A quanto pare, Carter aveva inviato a casa sua uno dei suoi operai per portare un messaggio. Entrato in casa l’operaio sentì un grido «quasi umano» e scoprì che un cobra reale, simbolo della monarchia egiziana, aveva mangiato il canarino di Carter. Proprio quel giorno, secondo la leggenda, la tomba veniva aperta: un segnale, secondo alcuni, per cui come Carter entrava nella casa del faraone, così il faraone entrava nella sua.
    La leggenda si consolidò con la morte di Lord Carnarvon, il finanziatore di Carter, proprio pochi giorni dopo la scoperta della camera del tesoro. Carnarvon, mentre si faceva la barba, si tagliò proprio sopra la puntura di una zanzara. Dal taglio si propagò un’infezione che lo uccise in un paio di settimane. La notizia venne riportata e ingigantita da tutti i giornali del Regno Unito e degli USA e anche Arthur Conan Doyle si inserì nella discussione, suggerendo che forse Carnarvon era stato ucciso da alcuni «elementali» posti a guardia della tomba del faraone.
    In tutto furono undici le persone collegate alla spedizione, anche solo remotamente, a morire negli anni dei lavori, tra il 1922 e il 1930. Ma furono probabilmente centinaia, se non migliaia, le persone che visitarono la tomba in quegli anni. Dei 58 che furono presenti all’apertura della tomba, che secondo la leggenda avrebbero dovuto essere i più maledetti di tutti, nel giro di dodici anni morirono soltanto in otto. Lo stesso Carter visse fino al 1939.



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  9. gheagabry
     
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    “Io la ritroverò, la riporterò alla luce”
    dopo 40 anni, scavò e convinse il mondo che Troia era realmente esistita.


    HEINRICH SCHLIEMANN



    Il giorno di Natale del 1890, in Piazza della Santa Carità, una strada di Napoli, un passante vestito in maniera dimessa, crolla al suolo. Lo sconosciuto riprende conoscenza ma è incapace di parlare, viene portato all’ospedale più vicino e adagiato su una barella di legno. I soccorritori non trovano su di lui né denaro né alcun elemento per poterlo identificare, ma soltanto il biglietto da visita di un illustre otorinolaringoiatra napoletano, il quale riconosce nello sconosciuto, Heinrich Schliemann. Un giornale del tempo riportava “sconosciuto colpito da improvviso malore sulla pubblica via”. L’archeologo morì il giorno dopo. Finiva così una delle personalità più discusse della storia. Henrich Schliemann è considerato il più grande archeologo di tutti i tempi, appassionato conoscitore degli autori classici e grande cultore di Omero che attraverso i suoi scavi di Troia e Micene, trasformò in storia le leggende Omeriche. Come altri personaggi vissuti nella sua epoca, Schliemann non nasce come archeologo professionista, ma fu commerciante, imprenditore, banchiere che solo tardivamente si dedicò alla sua passione di scoprire antiche civiltà sepolte.
    Schliemann nacque il 6 gennaio 1822 a Neubuckow in Germania. Quel villaggio, pieno di leggende influenza la sua fantasia; come quella del fantasma del precedente parroco che si aggirava nel giardino della parrocchia; o quella del laghetto chiamato “Scodella d'argento”, da cui la notte emergeva lo spirito di una fanciulla con una scodella in mano. E nei pressi del villaggio c'era una antica tomba pagana nella quale si diceva un cavaliere gigante avesse sepolto il suo bimbo in una culla d'oro; inoltre c'era anche un castello medioevale con tanto di fantasmi e passaggi segreti.
    Il padre la sera gli racconta le storie dei popoli antichi e dei miti omerici e di Troia.. All’età di otto anni in un libro per ragazzi vide una figura di Troia in fiamme, e al padre che diceva che era un immagine di fantasia rispose che l'avrebbe ritrovata.
    Nel 1841 dopo un corso di contabilità decise di partire da Amburgo per il Venezuela a cercar fortuna, così povero che vendette il suo unico vestito per comprare una coperta. La nave su cui si era imbarcato naufragò presso le coste olandesi, costringendolo così a rimanere in Europa. Trovò allora un impiego come fattorino e contabile in una ditta commerciale ad Amsterdam e cominciò, nel tempo libero, a dedicarsi allo studio delle lingue, imparando in breve tempo a parlare con facilità l’inglese, il francese, l’italiano e il portoghese. La sua azienda lo inviò come agente di commercio a San Pietroburgo e lì imparò il russo ed ebbe tanta fortuna da riuscire, nel 1849, ad aprire a Mosca una filiale della ditta. Tra il 1850 e il 1852 si stabilì in America, dove continuò ad arricchirsi, prestando denaro ai cercatori d’oro. Tornato a San Pietroburgo, sposò una russa, da cui ebbe tre figli. Durante la guerra di Crimea (1854-1856), accumulò un’enorme fortuna come fornitore dell'armata zarista..Nel 1868, ritiratosi dagli affari, Schliemann si dedicò alla realizzazione dei suoi sogni, i viaggi e le scoperte archeologiche e dopo un soggiorno in Italia, fece il primo viaggio in Grecia, visitando Corfù, Itaca (dove compì alcuni scavi alla ricerca del palazzo di Ulisse), Tirinto e Micene.
    (dal web)



    ...le città perdute.....TROIA E MICENE......


    “io la ritroverò, la riporterò alla luce!”
    E così fu.
    Cercò Troia su una collina detta Hissarlik, tra il mar Egeo e lo stretto dei Dardanelli, in Turchia.
    Nel 1870 comincia gli scavi e nel 1873 scopre una cittadella con tracce di incendio: aveva portato alla luce Troia....La storia di Troia, e della famosa guerra che la distrusse comincia tanto tempo fa, in un'epoca mitica, quando i capricci degli dei erano legge per tutti gli uomini. E comincia sull'Olimpo, il monte sacro degli antichi greci, pensate un po', con una mela. Una mela d'oro che Eris, dea della discordia, lancia durante un banchetto divino sulla tavola imbandita. Sopra ci sta scritto: "Alla più bella". Ma chi è la più bella? Subito nasce una zuffa tra Era, la potente moglie del re degli dei Zeus, Atena, dea della saggezza, e Afrodite, dea dell'amore...Nessuno degli dei si sente di compiere la difficile scelta e così si decide di affidare il compito a un uomo: il bellissimo Paride, ultimo figlio di Priamo, re di Troia, una delle più ricche città dell' Asia Minore (l'odierna Turchia). Pur di essere prescelta, ogni dea promette al giovane un dono. Era gli assicura la ricchezza e la potenza, Atena la sapienza e l'invincibilità, Afrodite la donna più bella del mondo: Elena, la sposa del re di Sparta Menelao. Paride dà la mela ad Afrodite. Poi va a Sparta, conosce Elena, se ne innamora e la porta con sé a Troia. Furioso, Menelao chiede la restituzione della sposa e, non ottenutala, chiama a raccolta tutti i greci per formare un grande esercito. È la guerra...Una guerra lunga, che per 10 anni vede la città resistere con successo all' assedio finché Ulisse, l'astuto re di Itaca, non escogita un trucco: i greci devono far finta di partire lasciando dietro di sé, come dono degli dei, un grande cavallo di legno nel cui ventre cavo vengono nascosti dei guerrieri. Credendo ormai di aver vinto, i troiani abbandonano ogni prudenza e portano fra le mura il cavallo come un trofeo. Ma la notte, quando tutti dormono, i greci escono dal cavallo e aprono le porte della città ai compagni. Per Troia è la fine: i suoi abitanti sono uccisi senza pietà, i suoi templi e le sue case vengono rasi al suolo. Passa il tempo, la storia della guerra di Troia viene tramandata di bocca in bocca e diventa il tema di uno dei poemi epici più celebri che siano mai stati scritti: l' Iliade di Omero. Ma con il trascorrere dei secoli il suo vero ricordo si fa sempre più lontano: quando è successo tutto questo? E in che luogo? Gli antichi greci sapevano che sorgeva presso lo Stretto dei Dardanelli, ma dove esattamente? Se sul" quando" quasi tutti gli studiosi si sono trovati abbastanza presto d'accordo (basandosi su varie testimonianze storiche si è fissata per la famosa guerra la data del 1250 avanti Cristo), il mistero di dove giacesse sepolta Troia ha resistito per secoli. Almeno fino al 1868, quando appare all' orizzonte un ricco uomo d'affari tedesco che fin da bambino sognava di scoprire la città perduta di Omero... Schliemann, è convinto che Troia si trovi nella Turchia nord occidentale e che i suoi resti vadano cercati in un luogo ben preciso: una modesta altura chiamata Hissarlik che sorge tra due fiumi e dista meno di 5 chilometri dal mare, proprio come si racconta nell'Iliade. Pieno di entusiasmo, Schliemann comincia a scavare e subito porta alla luce strati su strati di rovine. È un groviglio di muri d'ogni genere, appartenenti a epoche diverse che vanno dal 3000 avanti Cristo fino al sesto secolo della nostra era: non una sola città, dunque, ma (si calcolerà più tardi) ben nove. E allora, qual è la vera Troia? Schliemann cerca di dare una risposta all'enigma buttando all'aria mezza collina e finalmente sembra avere uno straordinario colpo di fortuna: nel 1873, dopo cinque anni di lavoro, trova un favoloso tesoro, quello che lui stesso battezza "Tesoro di Priamo"...Ma ben presto sorgono i primi dubbi. Il livello a cui gli oggetti sono stati trovati sembra essere troppo profondo (e quindi troppo antico) per essere quello della "vera" Troia...Saranno i suoi successori, sessant'anni dopo, a trovare lo strato giusto, quello del 1260 avanti Cristo: lo chiamano Troia VI...Della passata gloria è rimasto solo il vento che, come racconta Omero, soffia più intenso che altrove tra la rada vegetazione della pianura, su fino alla collina di Hissarlik.



    Come Troia, che per millenni era esistita solo nelle pagine di Omero prima di essere ritrovata da Schiemann, anche un' altra città famosa (questa volta greca) sembrava non ricordare più nulla del suo glorioso passato: Micene. Una città dal destino tragico come quello del suo sovrano Agamennone, che alla guida degli eserciti greci aveva assediato Troia per dieci lunghi anni e alla fine l'aveva conquistata grazie allo stratagemma del cavallo di legno. Agamennone, che discendeva dal fondatore stesso di Micene, Atreo, era ambizioso e crudele: prima di partire alla volta di Troia non aveva esitato a sacrificare agli dei la figlia primogenita Ifigenia pur di ottenere venti favorevoli per le sue navi. Durante la sua assenza, nella reggia micenea rimasta senza re, la regina Clitemnestra, tormentata dall' odio per la perdita della figlia, non seppe resistere alle lusinghe di Egisto, un cortigiano infedele che voleva prendere il posto del sovrano. Quando Agamennone tornò in patria, Egisto non esitò a ucciderlo.
    Il terribile delitto non restò però impunito: otto anni dopo Oreste, il figlio del re assassinato, si vendicò uccidendo a sua volta Egisto e l'infedele Clitemnestra. E anche il suo destino fu tragico perché fu perseguitato per tutta la vita da un rimorso senza fine. Il sanguinoso dramma, cantato dai poeti greci, divenne famoso, ma la città ricca e potente che ne era stata teatro cadde in rovina, saccheggiata da gente guerriera venuta dal nord, i Dori. Al suo posto, non rimasero che ruderi: i resti delle mura ciclopiche, l'ingresso monumentale alla rocca,la famosa "porta dei leoni" e un dedalo di tombe fra cui spiccava il grande edificio dal soffitto a volta noto come "tesoro di Atreo". Qui molti credevano che fosse stato sepolto Agamennone, ma dei suoi resti non c'era traccia.
    Incuriosito da questo mistero, lo scopritore di Troia, Schliemann decise di scoprire la verità. Sempre accompagnato dalla sposa Sofia, nel 1876 il geniale" archeologo dilettante" si mise a scavare in un luogo a cui nessuno aveva pensato prima: il cuore stesso della cittadella. E ben presto il suo intuito fu premiato, vicino alla porta dei leoni vennero alla luce cinque tombe. Dentro di esse riposavano i resti di 19 uomini e donne e due bambini, tutti letteralmente ricoperti d'oro e circondati da un vero tesoro di vasi, oggetti, gioielli del prezioso metallo. Gli uomini poi portavano sul volto una maschera d'oro cesellata finemente in modo da riprodurre le fattezze che avevano in vita.
    Schliemann ne fu subito certo: quegli uomini erano gli eroi della guerra di Troia e uno di essi doveva essere Agamennone. Purtroppo, ancora una volta, aveva commesso un errore, tradito dal suo grande entusiasmo: come già nel caso di Troia, le sepolture da lui trovate erano più antiche di alcuni secoli rispetto all' epoca della famosa guerra. Quei resti appartenevano probabilmente ai primi sovrani di Micene e una delle maschere poteva addirittura ritrarre Atreo, il mitico fondatore della dinastia. Riguardo ad Agamennone, a quanto pare nessuno é finora riuscito a disturbare il suo sonno.



    Schliemann vien molto criticato per la sue scoperta, nonostante il fatto che si avvalga della collaborazione di innumerevoli studiosi...
    Egli è il padre dell'archeologia. Prima di lui l'archeologia era solo ricerca dell'arte classica, di tesori e vasi. Solo successivamente alla sua pertinacia, l'interesse dell'archeologia si è rivolto soprattutto alla successione degli strati, all'identificazione di una civiltà e del panorama umano di un'epoca.


     
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  10. gheagabry
     
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    IL CONTE TELEKI VON SZECK



    Il conte Teleki von Szeck era un nobile asburgico di rango: bon vivant, piuttosto bene in carne (gli africani lo chiamavano Bwana Tumbo, il “Signor Pancia”), di carattere socievole e buon conversatore. Celibe fino alla fine dei suoi giorni, spese la propria vita tra occasioni mondane, impegni politici, battute di caccia e viaggi. Era immensamente ricco. Benché buon scrittore, come testimoniano le sue lettere al principe Rodolfo, non scrisse una sola riga sul viaggio che lo rese famoso, probabilmente per pura indolenza. La molla che fece scattare il desiderio di un viaggio in Africa non fu certo spinta dalla brama di gloria: Teleki era restio ad assumersi impegni troppo gravosi e voleva semplicemente divertirsi, collezionando trofei di caccia. La regione del lago Tanganyka, sua prima meta, era già selvaggia a sufficienza per i suoi scopi. Fu quasi a malincuore che cedette ai consigli del suo illustre amico, il principe Rodolfo d’Asburgo: trasformare una battuta di caccia in un viaggio di scoperta verso terre ancora sconosciute. Come compagno di viaggio e suo luogotenente il conte scelse Ludwig von Hönhel, uno sconosciuto ufficiale di marina.[..] Nell’ottobre del 1886 von Honel giunse a Zanzibar per predisporre la logistica e assumere le famose guide locali Jumbe Kimemeta e Qualla Idris. Teleki partì da Pangani, sulla costa dell’odierna Tanzania. La spedizione, equipaggiata con circa trecento armi da fuoco, contava oltre 670 effettivi ed era così composta: 450 portatori, 200 Zanzibariti (con compiti più specializzati), 9 guide, 9 soldati e 7 asinai. Inoltre seguivano il corteo 25 asini, una mandria di 21 vacche e 60 tra pecore e capre.
    Per trovare i fondi per l’impresa Teleki vendette una grossa proprietà terriera e un diamante di grande valore storico, già appartenuto ai suoi antenati. Le spese complessive ammontarono a 130.000 Corone, equivalenti in valore a 40 chilogrammi d’oro (ovvero, alla quotazione attuale, 1.600.000 Euro). Oltre al materiale da campo, agli effetti personali e alle scorte di viveri, nel bagaglio della classica spedizione ottocentesca in Africa figuravano stoffe, fili metallici, perline di vetro a altri articoli usati come doni e merci di scambio durante il percorso. Teleki ne acquistò quantità inverosimili, tanto che questa voce costituiva oltre la metà del carico al seguito della spedizione.[..] Qualche giorno dopo la partenza gli esploratori cercarono di stilare un inventario, assegnando ad ogni portatore il suo fardello, pari a circa 35 chilogrammi.
    Dal diario di Ludwig von Hönhel:
    “Allora iniziammo ad occuparci della revisione dell’ equipag-
    giamento della spedizione, accatastato in un mucchio talmente consistente nel mezzo dell’accam-
    pamento da impedire l’accesso alle nostre tende.
    Avevamo: - tende, tavoli, sedie, letti, valige piene di vestiti, strumenti, etc.: 65 carichi..- armi e munizioni: 35 carichi
    - articoli di uso quotidiano(sapone, tabacco, zucchero, tè, caffè, etc.): 44 carichi.. - medicine, bendaggi, filtri: 3 carichi
    - razzi ed esplosivi: 2 carichi.. - alcool: 1 carico.. - materiale per illuminazione: 3 carichi.. - seghe da legna, pale, asce: 4 carichi.. - utensili, ricambi, corde: 3 carichi.. - equipaggiamento per guadare fiumi e paludi (cavi robusti): 2 carichi
    - lubrificanti per fucili, etc.: 1 carico.. - riso: 5 carichi.. - cognac, vino, aceto: 4 carichi.. - imballaggi: 2 carichi
    - stoffe: 90 carichi.. - perle di vetro: 100 carichi.. - fili metallici: 80 carichi.. - cauri, catenelle di metallo, etc.: 5 carichi
    - moneta di rame(per la zona costiera): 3 carichi.. - battello smontabile in 6 parti di metallo, battello smontabile in 2 parti di tela: 22 carichi......Totale 470 carichi"


    Teleki e von Hönhel raggiunsero il lago Turkana il 5 marzo del 1888, un anno dopo la partenza da Zanzibar. Durante il percorso la spedizione perse oltre i due terzi dei componenti, fuggiti col proprio carico o uccisi in combattimento con tribù ostili. Teleki perse nel viaggio circa 30 chili del proprio peso.
    Sulle carte geografiche dell’Africa scompare l’ultimo Ignoto. Comincia la spartizione coloniale del continente.
    (Paolo Novaresio, pubblicato il 11 gen 2013 in Vite e avventure, www.luomoconlavaligia.it/)


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  11. gheagabry
     
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    Luigi Robecchi Bricchetti


    Luigi Robecchi Bricchetti (nato a Pavia il 27 maggio 1885, ivi morto il 31 maggio 1926) nel 1885 partì da Alessandria d’Egitto con una piccola carovana e raggiunse, col rischio di morir di sete, l’Oasi di Siua nel deserto libico, più nota come Oasi di Giove Ammone. In seguito i suoi interessi africani si indirizzarono verso la Somalia

     
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