I LEGUMI

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    I Legumi







    Fagioli piselli ceci e lenticchie... Benchè non siano considerati alimenti "aristocratici", non essendo costosi, riescono però a dar vita a soluzioni culinarie davvero convincenti. Dalla zuppo più semplice allo sformato più raffinato.
    Salvatori dell'Europa - Nel Medio Evo, l'Europa intera era a rischio di spopolamento a causa dell'alta mortalità, dovuta a una serie di epidemie capaci di decimare intere nazioni. La gente, in maggioranza i ceti poveri nutriti male e in maniera inadeguata, era nell'impossibilità di procurarsi cibi costosi come la carne, uno dei pochi alimenti in grado di fornire proteine indispensabili a garantire le necessarie difese a organismi debilitati. Solo a partire dal X secolo, la diffusione della coltura dei legumi ha cominciato a contribuire al miglioramento della salute della collettività, rendendola più resistente alle malattie e consentendo così al nostro continente di ripopolarsi in breve tempo. Dal XVI secolo in poi, con la scoperta dei nuovo mondo e la conseguente importazione in Europa di prodotti agricoli di quelle terre, sono arrivati anche i fagioli. Merito degli uomini di allora, fu quello di trasformare quei semi in alimento, cibo diventato ben presto alla portata di tutti per il suo basso costo. E' per questo che Umberto Eco, in un lungo articolo sul Corriere della Sera, ha eletto senza indugio i fagioli, proprio per il loro alto valore nutritivo e l'elevato contenuto di proteine, a invenzione più importante del 2° millennio: "Se siamo ancora qui [ ... ] questo è dovuto ai fagioli. Senza i fagioli, la popolazione europea non sarebbe raddoppiata in pochi secoli". Un'opera significativa dei pittore Annibale Carracci attorno al 1583 ha fissato l'importanza di questo alimento: il mangiafagioli coglie con una sintesi figurativa davvero fulminea un uomo nell'atto di portarsene alla bocca una cucchiaiata, mentre sulla tavola con pochi altri ingredienti lo aspetta una ciotola ricolma.







    legumi erano considerati in epoca medievale un piatto povero ed erano consumati soprattutto dalle classi subalterne. Proprio per queste caratteristiche divennero uno dei simboli dell’alimentazione monastica che, in contrapposizione alla mentalità dei potenti basata nell’abbondante consumo di carne quale espressione di superiorità, diffondeva un modello di comportamento alimentare molto sobrio. Così gli alimenti da prediligere erano su tutti gli ortaggi e i legumi, simboli della purezza in quanto primordiale cibo dell’uomo. Ai legumi si attribuiva un valore mistico legato alle grandi figure dei monaci eremiti, significavano la continenza dalla lussuria e la mortificazione del corpo.
    Al di là dei significati simbolici, nel medioevo i legumi rappresentarono per la popolazione meno agiata i migliori alimenti da affiancare o da sostituire ai cereali, non solo in periodi di crisi e carestia, ma anche in momenti di normalità. Questo accostamento con i cereali, che dal punto di visto nutrizionale non presenta molti aspetti comuni, deriva soprattutto dalla tipologia di coltura simile, a campo aperto e primaverile. Ecco che i legumi venivano spesso alternati ai cereali nel sistema di rotazione triennale e frequentemente assimilati ai “grani minuti”, cioè minor di pregio.
    Nel Medioevo troviamo frequentemente attestato l’uso di macinare i legumi, soprattutto la fava ed i ceci, e combinarli con la farina di frumento. Un uso già noto in epoca romana, come ci narra il grande scrittore Plinio che nei sui scritti ricorda quanto diffusa fosse l’abitudine di mescolare la farina di fava con quella di cereali e in particolare con quella di panico. Una tradizione che troviamo ancora intatta durante il medioevo, testimoniata dalla numerosa presenza nei mercati cittadini medievali di venditori di “cicera e panicum” in particolare durante il periodo della Quaresima.
    In cucina, quasi tutti i legumi, soprattutto le fave e i piselli, potevano essere consumati verdi, con un po' di sale ed olio e forse anche con erbe aromatiche o salse particolari. In genere però il resto dei legumi, grazie alla loro facile conservazione, venivano essiccati ed erano utilizzati in cucina interi o franti o addirittura macinati. Servivano particolarmente per la preparazione di minestre, di brodi, di creme o zuppe calde, ma potevano anche essere preparati insieme agli ortaggi o semplicemente cotti e conditi con l’olio. Raramente accompagnavano i piatti di carne e nelle mense delle classi più agiate, dove peraltro non avevano una grossa presenza, potevano essere serviti insaporiti dall’aggiunta di spezie.
    Anche i legumi rientravano nella dieta del greco antico per la loro sapidità ed il loro alto valore nutritivo. Zuppe di legumi misti, le cosiddette “panspermià”, venivano offerte alla Grande Madre all’inizio di ogni primavera, per propiziare il raccolto. I più umili di tutti erano i lupini, detti “thermòs”, che comparivano sulle tavole della Grecia contadina nell’ultimo giorno di ogni mese, con lo scopo di propiziarsi Ecate, dea dell’Oltretomba e allontanare, così, dalle case i fantasmi. In queste cosiddette “cene di Ecate” i poveri mangiavano gratis. Insolita è la loro preparazione: dopo averli lessati, venivano lasciati in ammollo in acqua di mare e poi consumati nei giorni di digiuno. Questo legume era anche alla base della dieta dei filosofi “cinici” (Zenone, Diogene ecc.). Un altro cibo tipico dei giorni di digiuno era la fava. Uno degli alimenti più antichi dell’umanità, la cui coltivazione, antecedente a quella dei cereali, risale all’età del Bronzo.
    Omero, nell’Iliade, descrive distese che “biondeggiavano di fave nere e ceci”. Bandite dai pitagorici, che lo ritenevano un cibo impuro, le fave verranno consumate nelle feste della semina o “Pyanopsie” sotto forma di zuppa (puanion pòltos).
    Un altro legume antichissimo, “pre-cerealicolo”, sono i ceci. Popolarissimi, in quanto il loro prezzo di mercato era molto basso, venivano consumati abbrustoliti, come saporito passatempo, nei teatri e nelle agorà. I più saporiti erano quelli che crescevano vicino al mare. “Dorati ceci crescono sulle rive bianche del mare” canta la poetessa Saffo. Nei banchetti, per stimolare la sete di vino, si usava sgranocchiare fave, ceci e frutta secca. Altro legume diffusissimo nell’antica Grecia erano le lenticchie. Interdette dai banchetti, venivano consumate, sotto forma di zuppe, nei pranzi privati, nell’intimità delle mense domestiche. Legume umile, tipico dei giorni di magro, le lenticchie erano apprezzate per il loro valore proteico, tanto che, il grande Ippocrate le consigliava agli uomini anziani, per potenziarne la virilità. Per questa stessa ragione erano stimate da Aristotele che le consumava spesso condite con lo zafferano (altro prodotto ritenuto afrodisiaco, ndr.). Plutarco, invece, era convinto che fosse una buona zuppa di fagioli (“fasolada”) ad incoraggiare Afrodite. In particolare, il “phàselos” greco, più piccolo e più saporito di quello americano, presenta una macchia nera sul bordo, il cosiddetto “occhio” o “matìa”. Non era molto amato dai buongustai greci, tanto che Ateneo lo cita “insieme con la fava e il fico secco come alimento degno degli Spartani”.







    Poveri ma buoni - I legumi più conosciuti: fagioli, ceci, piselli e lenticchie, sono quanto di più comune siamo abituati a trovare sulle nostre tavole. Questi prodotti, infatti, sono parte della tradizione gastronomica italiana, appartenendo alla "cucina povera": solo perchè gli ingredienti costano poco, non certo perché siano poveri di gusto o di proprietà nutritive. L'Italia contadina, fino agli anni Cinquanta, ha vissuto di legumi, prevalentemente cucinati in minestra, da soli o tutti insieme, perché alimenti carichi di proteine. Tutti gli studi in proposito confermano la presenza nei legumi di un elevato valore energetico, un alto contenuto dì vitamina B, di ferro e di calcio. Inoltre, il carico di proteine dei legumi freschi è dei 6-7% dei totale, mentre in quelli secchi è tra il 20 e il 25%.
    Tanti tipi e varietà - Mentre i vari tipi di ceci sono sostanzialmente indifferenti per l'uso in cucina, sono molte le varietà di fagioli, alcune note in tutta Italia, altre tipiche di certe zone. I più diffusi sono i borlotti, i cannellini, i bianchi di Spagna, i rossi e i neri, tipici questi ultimi del Centro e Sud America. E' difficile attribuire a ognuno una vocazione in cucina e forse sarebbe anche un po' arbitrario. Pensiamo solo ai cannellini, sono l'ideale per un antipasto e un'insalata, i borlotti per le minestre, i bianchi per umidi di carne e trippa; ma realtà, come sempre, lasciatevi guidare dalle vostre preferenze. Per le lenticchie abbiamo quelle comuni d grandezza media e quelle piccole di Ventotene e Castelluccio. Ottime anche quelle decorticate, di colore rosso, ideali per la purea. I piselli si classificano in base alla grandezza, si va dai medi ai finissimi e la morbidezza è inversamente proporzionale alla dimensione. In quasi tutte le ricette presentate potete sostituire i legumi in scatola a quelli secchi.









    Freschi, secchi in scatola - D'Estate, i piselli e i fagioli si trovano facilmente freschi, basta aprire i baccelli e sgusceranno fuori pronti a cedere la loro fragranza e il loro sapore alla preparazione che avrete scelto. Per i ceci e le lenticchie, invece, dopo la raccolta è sempre necessaria una sosta ad asciugare all'aria aperta, per cui praticamente si trovano soltanto secchi. Il prodotto fresco, naturalmente, non ha bisogno di essere lasciato a bagno prima della cottura, che sarà anche più veloce, poiché impiegherà poco più della metà del tempo occorrente al prodotto secco. Proviamo ora a dare un quadro schematico dei tempi necessari per i legumi secchi, consapevoli che, come sempre, occorre controllare di volta in volta l'andamento della cottura: dipenderà dal tipo di legume e dai mille altri fattori che non ci permettono mai di dare per scontato niente. Tutte le ricette che leggerete forniscono un tempo di cottura: utilizzatelo in modo indicativo, controllate di persona e decidete in base al vostro gusto il punto giusto.

    - Fagioli: 2 ore
    - Ceci: 3 ore
    - Lenticchie: 45 minuti
    - Piselli: 40 minuti

    C'è poi la risorsa dei legumi in scatola, che sono già lessati: basteranno pochi minuti per insaporirli con gli altri ingredienti. Se la ricetta richiede una purea, potete passare subito i legumi in scatola al passaverdura, usandoli secchi dovrete prevedere una cottura più lunga.
    A bagno per una notte - I legumi secchi devono essere tenuti a bagno nell'acqua una notte prima di esser cucinati. Alcuni sostengono che l'aggiunta di 1/2 cucchiaino di bicarbonato all'acqua li ammorbidisca e accorci i tempi di cottura, sottraendo però ai legumi parte del sapore. Le lenticchie non hanno bisogno di essere tenute a bagno, a meno che vogliate trasmettere sapori speciali di una marinata.








    I legumi hanno anche altri pregi nutritivi

    I legumi, con l'eccezione della soia, contengono pochi grassi (2-4%), il che li rende consigliabili per le diete ipolipidiche. Inoltre tali grassi sono in genere ricchi di acidi grassi polinsaturi. Elevato è invece il contenuto in fibra alimentare, sia di quella «insolubile» (soprattutto cellulosa, localizzata prevalentemente nella buccia esterna), capace di regolare le funzioni intestinali, sia di quella «solubile» o «formante gel», capace di collaborare al controllo dei livelli di glucosio e di colesterolo

    nel sangue. Questa azione «ipocolesterolemizzante» sembra comune a tutti i legumi, anche indipendentemente dall'azione della fibra. Non è ancora ben chiaro quale sia il componente che esercita questo effetto favorevole: forse le proteine stesse, forse i fosfolipidi, forse le saponine.



    I legumi forniscono anche sali minerali e vitamine

    Principalmente allo stato secco, i semi di leguminose contengono una discreta quantità di fosforo ed anche (sebbene parzialmente legata e quindi non del tutto disponibile per l'assorbimento) di calcio e soprattutto di ferro, uno dei principi nutritivi più scarsamente presenti negli alimenti. Per quanto riguarda le vitamine, i legumi apportano quantità apprezzabili di alcune vitamine del gruppo B (B1, B2 e niacina), e, allo stato fresco, anche di vitamina C.

    Come scegliere e conservare i legumi

    I legumi sono disponibili tutto l'anno e sono venduti sciolti, oppure in buste trasparenti o inscatolati. Quando li si compra o li si prepara è utile controllare che non vi siano sostanze estranee frammiste al prodotto, e che i semi non siano stati danneggiati o attaccati da insetti.

    E' bene conservare i legumi in un luogo fresco e asciutto.






    Mesc-cìua o Messciua spezzina









    Piatto povero della tradizione spezzina consistente in una zuppa di legumi, che si presume risalga al XVIII sec. Per essere preparata richiedeva soltanto la pazienza necessaria alla raccolta dei suoi ingredienti, consigliata ed imposta anche dalla miseria del tempo.
    La Spezia, allora era poco più di un borgo abitato da contadini, pescatori, naviaganti, artigiani e commercianti, che ancora alla metà del XIX sec. arrivava a contare non più di 10.000 abitanti.
    Come è facile immaginare l’isolamento, determinato dall’orografia del territorio e dalle difficili vie di comunicazione, era rotto solamente dagli scambi marittimi che, non solo avvenivano lungo le coste del mare Tirreno, ma in tutto il Mediterraneo.
    La mancanza di moli d’attracco ed i bassi fondali non consentivano l’avvicinamento di velieri, brigantini o golette; l’approdo alla spiaggia della marina poteva avvenire solo con i “Leudi“ a vela latina, classiche barche da trasporto liguri con equipaggio di 6 persone che, secondo gli usi cui erano destinate, avevano una lunghezza variabile da m. 9 a m. 15 e potevano trasportare merci tra 25 e 30 tonnellate.
    In considerazione dele tipologie di colture in essere nel territorio è facile comprendere che legumi e granaglie rappresentassero buona parte delle merci che giungevano a La Spezia via mare.
    I “camalli”, cioè gli uomini di fatica che provvedevano al carico ed allo scarico dei battelli, avevano constatato che, a causa di qualche sacco rotto o forato, sul fondo della stiva restavano residui a volte consistenti di ceci, fagioli secchi, grano, ecc. che recuperati potevano diventare un'occasione per arrotondare il magro salario.
    Le quantità recuperate di ogni singolo legume o cereale non era però sufficienti a realizzare delle zuppe monoingrediente per famiglie spesso numerose. Nasceva così un cibo di recupero, che assumeva il nome di mescolanza, in dialetto mesc-cìua.


    Ingredienti per 4 persone
    - Ceci secchi 250 g - Grano 250 g - Fagioli secchi 250 g - Olio extravergine ligure 2 dl - Sale - Pepe bianco
    Preparazione
    Mettere in bagno, utilizzando tre diversi recipienti di coccio:
    -i ceci 48 h. prima della cottura;
    -i fagioli ed il grano 12-14 h. prima della cottura;
    Scolare il cereale ed i legumi, versarli separatamente nelle tre terrine contenenti ciascuna acqua leggermente salata ( gli ingredienti ammollati devono essere coperti da circa 1 l. di acqua).
    Cuocere a fuoco medio, nei cocci parzialmente coperti, i ceci per almeno 1 h., il grano per circa
    45 min. ed i fagioli per circa 20 min.
    A cotture ultimate scolare la mescolanza senza gettare il liquido; unire in un'unica pentola legumi e cereale, aggiungere 1,5 l. di liquido, prelevandolo in parte uguale dai tre cocci, e finire la cottura fino a che i tre elementi avranno raggiunto la giusta morbidezza.
    Versare la zuppa calda in piatti fondi, aggiungere un cucchiaio d’olio, ed eventualmente una leggera spruzzata di pepe bianco







    fonte dal web

    Edited by gheagabry - 4/1/2017, 16:31
     
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    Daniele disse al custode [...]: "Mettici alla prova per dieci giorni, dandoci da mangiare legumi e da bere acqua, poi si confrontino, alla tua presenza, le nostre facce con quelle dei giovani che mangiano le vivande del re; quindi deciderai di fare con noi tuoi servi come avrai constatato". Egli acconsentì e fece la prova per dieci giorni; terminati questi, si vide che le loro facce erano più belle e più floride di quelle di tutti gli altri giovani che mangiavano le vivande del re. D'allora in poi il sovrintendente fece togliere l'assegnazione delle vivande e del vino e diede loro soltanto legumi.
    (Libro di Daniele)




    I LEGUMI



    Le Fabacee (Fabaceæ, da faba = fava, una delle specie coltivate più antiche), o Leguminose (leguminosæ, da legume, il frutto più tipico), o anche papilionacee (da papilio = farfalla, per la forma del fiore), sono una famiglia di piante dicotiledoni dell'ordine delle Fabales.
    Ne fanno parte tra l'altro il fagiolo (Phaseolus vulgaris L.), il pisello (Pisum sativum L.), la fava (Vicia faba L.), il lupino (Lupinus), il cece (Cicer arietinum L.), il caiano (Cajanus indicus), l'arachide (Arachis hypogaea L.), la soia (Glycine max (L.) Merr.), la lenticchia (Lens culinaris), la cicerchia (Lathyrus sativus) e alberi come la mimosa (Acacia), la sofora (Sophora), la robinia (Robinia pseudoacacia), il carrubo (Ceratonia siliqua), il tamarindo (Tamarindus indica), la grenadilla (Dalbergia melanoxylon).
    La caratteristica comune a tutte le specie della famiglia è la presenza del legume o baccello: si tratta del frutto della pianta, formato da un carpello che racchiude i semi. Alcune volte presenta strozzature che lo suddividono in camere: in questo caso il legume è detto lomento (per es. il frutto dell'arachide). Giunto a maturità il baccello si apre in corrispondenza delle due suture, dorsale e ventrale, rilasciando i semi.
    Altra caratteristica comune a molte delle leguminose è la presenza sulle radici di un batterio, il Rhizobium leguminosarum, che è in grado di fissare l'azoto atmosferico, rendendo la loro presenza fondamentale per la sostenibilità degli agro-ecosistemi. Tale proprietà è infatti utilizzata in agricoltura per effettuare la rotazione delle colture erbacee concimando così il terreno (pratica del sovescio).




    La famiglia comprende 650 generi circa con oltre 12.000 specie ed è suddivisa in tre sottofamiglie:

    Faboideae o Papilionoideae
    È la più grande delle tre sottofamiglie e comprende circa i due terzi delle specie della famiglia. Si tratta in maggioranza di specie erbacee, ma esistono anche specie arboree (p.es. Laburnum spp. e Ulex spp). Il fiore delle Faboideae ha la caratteristica forma "papilionacea": è zigomorfo ed ha una corolla costituita da un grande petalo situato superiormente e diretto in alto detto vessillo, da due petali laterali che somigliano alle due ali di una farfalla e sono detti appunto ali e da due petali inferiori saldati insieme in basso a formare la carena.
    A questa famiglia appartengono specie di interesse economico come la fava (Vicia faba), la soia (Glycine max), il pisello (Pisum sativum), il cece (Cicer arietinum), il fagiolo (Phaseolus vulgaris), la lenticchia (Lens culinaris) e l'arachide (Arachis hypogaea).

    Caesalpinioideae
    La sottofamiglia comprende specie arbustive e arboree, più raramente erbacee, in maggioranza diffuse nella zona tropicale o subtropicale. Il fiore delle Caesalpinioideae è zigomorfo ma non è papilionaceo; possiede cinque petali non differenziati, con stami visibili esternamente.
    Appartengono a questa sottofamiglia specie di interesse economico come il carrubo (Ceratonia siliqua) e il tamarindo (Tamarindus indica) e specie ornamentali come l'albero di Giuda (Cercis siliquastrum), l'albero di fuoco (Delonix regia) o la Caesalpinia pulcherrima.

    Mimosoideae
    Anche le Mimosoideae sono in prevalenza specie arbustive e arboree diffuse nella zona tropicale o subtropicale. Hanno fiori actinomorfi riuniti in infiorescenze dense, generalmente a spiga, somiglianti a un pon-pon. Gli stami costituiscono la parte più attrattiva del fiore, mentre i petali sono poco appariscenti.
    Tra i generi più noti di questa sottofamiglia ci sono Acacia e Mimosa.




    I legumi erano considerati in epoca medievale un piatto povero ed erano consumati soprattutto dalle classi subalterne. Proprio per queste caratteristiche divennero uno dei simboli dell’alimentazione monastica che, in contrapposizione alla mentalità dei potenti basata nell’abbondante consumo di carne quale espressione di superiorità, diffondeva un modello di comportamento alimentare molto sobrio. Così gli alimenti da prediligere erano su tutti gli ortaggi e i legumi, simboli della purezza in quanto primordiale cibo dell’uomo. Ai legumi si attribuiva un valore mistico legato alle grandi figure dei monaci eremiti, significavano la continenza dalla lussuria e la mortificazione del corpo.
    Al di là dei significati simbolici, nel medioevo i legumi rappresentarono per la popolazione meno agiata i migliori alimenti da affiancare o da sostituire ai cereali, non solo in periodi di crisi e carestia, ma anche in momenti di normalità. Questo accostamento con i cereali, che dal punto di visto nutrizionale non presenta molti aspetti comuni, deriva soprattutto dalla tipologia di coltura simile, a campo aperto e primaverile. Ecco che i legumi venivano spesso alternati ai cereali nel sistema di rotazione triennale e frequentemente assimilati ai “grani minuti”, cioè minor di pregio.
    Nel Medioevo troviamo frequentemente attestato l’uso di macinare i legumi, soprattutto la fava ed i ceci, e combinarli con la farina di frumento. Un uso già noto in epoca romana, come ci narra il grande scrittore Plinio che nei sui scritti ricorda quanto diffusa fosse l’abitudine di mescolare la farina di fava con quella di cereali e in particolare con quella di panico. Una tradizione che troviamo ancora intatta durante il medioevo, testimoniata dalla numerosa presenza nei mercati cittadini medievali di venditori di “cicera e panicum” in particolare durante il periodo della Quaresima.
    In cucina, quasi tutti i legumi, soprattutto le fave e i piselli, potevano essere consumati verdi, con un po' di sale ed olio e forse anche con erbe aromatiche o salse particolari. In genere però il resto dei legumi, grazie alla loro facile conservazione, venivano essiccati ed erano utilizzati in cucina interi o franti o addirittura macinati. Servivano particolarmente per la preparazione di minestre, di brodi, di creme o zuppe calde, ma potevano anche essere preparati insieme agli ortaggi o semplicemente cotti e conditi con l’olio. Raramente accompagnavano i piatti di carne e nelle mense delle classi più agiate, dove peraltro non avevano una grossa presenza, potevano essere serviti insaporiti dall’aggiunta di spezie.
    (Testo a cura di Maurizio Tuliani Dottore di Ricerca in Storia Medievale, collabora stabilmente con il Dipartimento di Storia dell’Università di Siena. Ha studiato i temi dell’alimentazione, dell’ospitalità e del viaggio, del commercio e dell’artigianato nel Medioevo., www.tccuinistorici.it)

     
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  5. gheagabry
     
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    Roveja, rubiglio, corbello, pisello dei campi, pisello selvatico, pisello grigio, field pea in inglese pois gris per i francesi. Tanti nomi diversi per indicare un unico legume per lungo tempo considerato un ‘erba infestante.



    LA ROVEJA



    Roveja, anche detto pisello dei campi o robiglio, è una varietà di pisello. Questo legume è importato in Europa dal Medio Oriente, conosciuto fin dal Neolitico ma ultimamente praticamente scomparso dalle nostre produzioni. Esistono diverse cultivar del pisello dei campi quali i kapucijner che vengono coltivati in Olanda e la roveja che si trova ormai soltanto nell'Italia Centrale dove viene coltivato prevalentemente nelle Marche e in Umbria da agricoltori che vogliono diversificare e riscoprire le tradizioni.


    Piccola, grande roveja




    Certamente non pensavano di scrivere una storia importante della nostra gastronomia, Silvana Crespi De Carolis e Geltrude Moretti. Siamo nel 1998 e il paese è Civita di Cascia (Perugia). Una minuscola frazione a 1300 metri d’altitudine, semidistrutta e spopolata dopo il terremoto del 1979, ma ancora piena di giovani e di voglia di fare. Le due donne devono semplicemente mettere in ordine una cantina. E, tra scaffali impolverati e vecchi attrezzi, cosa ti trovano? Un barattolo pieno di piccoli piselli rossi, verdi, marroni e neri appartenuti al suocero scomparso. Sul barattolo, una scritta a matita mezza cancellata: “roveggia”. Quando li vede, nonna Lucia esclama: “Questa è la roveja, è tanto buona ma ti spezza la schiena!” Fu così che iniziò la riscoperta di questo legume, un tempo coltivato su tutta la fascia appenninica centrale, dall’Altopiano di Colfiorito fino al Gran Sasso passando per Cascia e Castelluccio. E che, con il suo gusto e le sue proprietà nutritive, oggi ha tutte le carte in regola per sfondare nei gusti degli Italiani.



    La capitale? Civita di Cascia
    La roveja, o roveggia o pisello dei campi, è un piccolo legume simile al pisello ma più piccolo, di colori che variano dal verde al marrone-grigio. La sua diffusione ad alta quota sui Monti Sibillini è dovuta alla sua capacità di resistere alle basse temperature e in condizioni di scarsità d’acqua. Era il cibo per eccellenza dei pastori e dei contadini che vivevano in alta quota, che la utilizzavano per preparare gustose zuppe assieme a lenticchie, cicerchie, fave e fagioli, oppure assieme al farro. Tra Colfiorito e il Gran Sasso, passando per la “capitale” Civita di Cascia, la si può trovare anche allo stato selvatico, lungo le scarpate, nei prati e a volte perfino ai bordi delle strade. Proprio per questo molti ricercatori ritengono che la roveja (Pisum arvense) sia il progenitore del pisello comune (Pisum sativum). Secondo altri sarebbero invece due specie completamente diverse.

    Dall’uomo agli agnelli, fino al declino
    Nella zona di Cascia la “Fonte dei rovegliari” della frazione di Preci testimonia l’antichità di questa coltura, coltivata fin dalla Preistoria e più volte menzionata dai ricettari romani e medievali. L’agronomo bologenese Pietro de’Crescenzi (1233-1320), si spingerà fino a distinguere la “rubiglia” bianca da quella nera, e “la seconda essere meno pregiata della prima”. Con il passare del tempo, però, gli antichi trattati sembrano confinare sempre di più la roveja a pianta più adatta al foraggio per agnelli e volatili che per cibo per gli uomini. Il declino e la momentanea scomparsa dalle tavole appenniniche arriverà nel Dopoguerra, quando la roveja venne abbandonata a favore di coltivazioni più redditizie, mentre lo spopolamento delle aree montane relegherà il pisello dei campi a lontano ricordo di un passato di miserie da dimenticare. Nonostante l’estrema facilità con cui cresce, infatti, la coltivazione di questo legume è assai impegnativa. Quando la pianta è piena di baccelli i rami si piegano verso il terreno. La raccolta, che avviene in estate dopo la semina in marzo, può essere quindi solo manuale e per di più “spezza la schiena”. Dal 2006 la roveja è presidio Slow Food, e il suo uso in cucina sta rinascendo anche nelle regioni vicine.



    Le proprietà
    Merito soprattutto del gusto e delle proprietà nutritive davvero notevoli, soprattutto per i vegetariani sempre “a caccia” di proteine vegetali: come legume fresco, infatti, contiene il 7% di proteine e fornisce circa 75 calorie ogni 100 grammi. Mentre, da secco, arriva al 21% di proteine e a 300 calorie ogni 100 grammi, valori abbinati anche a un elevato contenuto di carboidrati che arrivano al 50%. E a un ricco contenuto di potassio, fosforo, fibre e vitamina B1.

    Compagna ideale di cicerchie, fave, farro…In cucina si può utilizzare, fondamentalmente, in due modi. Primo, nelle zuppe, da sola a o più spesso mescolata al farro o ad altri legumi, a cominciare dalle fave e dalle cicerchie. La roveja secca va lasciata in ammollo per almeno 12 ore e quindi fatta bollire per 40 minuti. Dopo averla scolata, occorre preparare un soffritto di aglio, cipolla, pepe e prezzemolo in olio extravergine d’oliva, su cui andrà gettata della passata di pomodoro e infine la roveja lessata, che andrà così cotta per qualche altro minuto. Sulle zuppe ci si può davvero scatenare con la fantasia: oltre a legumi e cereali, come ingredienti si possono utilizzare anche le patate, le carote, il sedano, il peperoncino e il guanciale, e con crostini un filo di olio extravergine d’oliva a crudo come tocco finale.

    La farecchiata..La seconda ricetta è la farecchiata o pesata, una sorta di polenta di roveja. Macinata a pietra, si trasforma in una farina dal lieve retrogusto amarognolo. La farecchiata viene tradizionalmente condita con un battuto di acciughe, aglio e olio extravergine d’oliva, buona anche il giorno successivo se affettata e abbrustolita in padella. In ogni caso, la roveja si abbina perfettamente alle erbe spontanee del territorio italiano: borragine, tarassaco, saporitella. E può essere cucinata anche nelle stesse ricette dei piselli comuni. Per non parlare, poi, dell’abbinamento con i funghi o il tartufo nero. Piccola roveja, nessuna più di te merita di essere riscoperta!


    (30/10/2015 Massimo Lanari, www.lacucinaitaliana.it/)






    Nei secoli passati questo legume era prodotto su tutta la dorsale appenninica umbro-marchigiana, in particolare sui monti Sibillini, dove i campi si trovavano anche a quote elevate. Questo tipo di pisello, dal seme colorato che va dal verde scuro al marrone per arrivare al grigio, cresce anche in forma spontanea, lungo le scarpate e nei prati, e nei secoli passati era addirittura protagonista dell'alimentazione dei pastori e contadini dell’area. Il declino della roveja iniziò nella seconda metà del XX secolo, con la maggiore redditività di altre colture e l'introduzione dei mezzi meccanici nell'agricoltura.
    La sua origine non è ancora chiaramente definita: molto probabilmente proviene dal Medio Oriente. In Europa questa specie conosciuta fin dalla preistoria ha rappresentato, insieme a lenticchia, orzo e farro, la base dell'alimentazione umana nel neolitico. Sia i Greci che i Romani lo consideravano un legume prelibato.
    La roveja è resistente anche alle basse temperature, si coltiva in primavera-estate e non ha bisogno di molta acqua. Ha grande valenza nutritiva perché molto proteica, in particolare se consumata secca, con alto contenuto di carboidrati, fosforo, potassio e pochissimi grassi.
    Oggi è stata pressochè abbandonata ovunque e resistono solo pochi agricoltori nella val Nerina, in particolare a Cascia dove, in una località chiamata Preci, c'è una fonte detta dei Rovegliari. In questa vallata la roveja si semina a marzo a un'altitudine che va dai 600 ai 1200 metri e si raccoglie tra la fine di luglio e l'inizio di agosto. La battitura è simile a quella della lenticchia: quando la metà delle foglie è ingiallita e i semi sono diventati cerosi, si sfalciano gli steli e si lasciano sul prato ad essiccare. Quando l'essicamento è completato si portano sull'aia e si trebbiano. Si deve poi liberare la granella dalle impurità con una ventilazione che avviene con setacci.
    La roveja, detta anche roveglia, rubiglio, pisello dei campi, corbello, si può mangiare fresca oppure essiccata, in questo caso diventa un ottimo ingrediente per minestre, zuppe. Macinata a pietra, si trasforma in una farina dal lieve retrogusto amarognolo che serve per fare la farecchiata o pesata: una polenta tradizionalmente condita con un battuto di acciughe, aglio e olio extravergine di oliva, buona anche il giorno successivo, affettata e abbrustolita in padella.
    (www.taccuinistorici.it/)

     
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    Il cece è una pianta della famiglia delle leguminose, di cui noi mangiamo il seme, contenuto in un piccolo baccello. È una delle coltivazioni più antiche scoperte dall’uomo, oggi presente soprattutto in India (che detiene quasi il 70 per cento della produzione mondiale), Pakistan, Australia, Turchia, Birmania, Etiopia e Iran.

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