La CUCINA LOMBARDA

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  1. gheagabry
     
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    La CUCINA LOMBARDA





    Le complesse vicende storiche della Lombardia, i contatti con varie parti dell'Europa, l'importante sviluppo di questa regione che si basa sul lavoro e sull'iniziativa privata hanno influito su tutti gli usi e costumi dei suoi abitanti e hanno determinato abitudini alimentari e gastronomiche molto differenziate fra le varie città. Milano in particolare che certamente è la città italiana più aperta e pertanto meno incline a ogni provincialismo ha optato per una cucina dove sono presenti specialità di varie regioni italiane accanto ai piatti locali che praticamente si possono indicare nel risotto con lo zafferano, il minestrone con alcune varianti, la cassoeula, la costoletta, la busecca (una zuppa di trippa fatta con frattaglie), l'ossobuco e il tipico dolce natalizio, il panettone che ha conquistato il mondo.
    La cassoeula è il piatto tipicamente invernale, nutriente ed economico, è l'ideale per chi ha poco tempo per mangiare durante la giornata ed ha bisogno di un cibo che fornisca abbondanti calorie. Vari tagli di maiale (puntine, cotenne, piedi, orecchi) vengono cotti insieme a verze, carote, sedano e cipolle. Curiosa anche la leggenda che narra l'origine di questo piatto. Pare infatti che risalga all'epoca della dominazione spagnola di Milano, quando un ufficiale spagnolo si invaghì di una bella popolana milanese e le insegnò la combinazione della cottura tra carne suina e verza. La donna andò poi a lavorare come cuoca presso una delle più nobili famiglie cittadine ed un giorno, per salvarsi il posto, azzardò la preparazione di questa nuova ricetta. La cassoeula piacque subito e diventò rapidamente uno dei piatti più diffusi del capoluogo lombardo. Altri piatti tipici milanesi che meritano di essere citati sono l'ossobuco, ricavato dal garretto posteriore del vitello e servito su un letto di risotto alla milanese, il vitello tonnato e la busecca, una zuppa di trippa fatta principalmente con frattaglie. Infine, il caratteristico zampone alla milanese, con cipolla, aglio e parmigiano.
    La presenza del risotto nella cucina lombarda è attestata anche nell'opera cinquecentesca di Bartolomeo Scappi che si dilunga nel descrivere la ricetta:
    "Per fare una vivanda di riso alla lombarda sottestata (= tostata) con polpe di polli, cervellate (= sorta di salsicce a base di sanguinaccio di porco) e rossi d'uova.




    Piglisi il riso nettato nel modo soprascritto e cuocasi in brodo nel qual siano cotti capponi, oche e cervellate; e cotto che sarà di modo che sia sodo, piglisi una parte d'esso riso e pongasi in un piatto grande di terra o d'argento over di stagno, e spolverizzisi di cascio, zuccaro e cannella, e pongasi sopra esso riso alcun bocconcino di butiro fresco e la polpa del petto di cappone e oche con cervellati tagliati in pezzuoli, e rispolverizzisi di cascio, zuccaro e cannella. In questo modo faccianosi tre suoli, e l'ultimo sia bagnato di butiro fresco liquefatto e spolverizzato della medesima composizione, e pongasi al forno che non sia troppo caldo, e lascisi stare per meza ora fin a tanto che pigli un poco di colore, e sbruffisi d'acqua di rose e servasi così caldo. Si può accomodar questo riso in un altro modo: cioè, cotto che sarà, pongasi il piatto di butiro, e ponganovisi fette di provatura (= mozzarella di latte di bufala) fresca non salata, e spolverizzate di zuccaro e cannella e cascio grattato; e sopra di esse pongasi il riso, e sopra il riso ponganosi rossi d'uove fresche crude, secondo la quantità del riso, avendo però fatti i vacui nel riso dove si pongano i rossi dell'uova, e sopra essi rossi ponganosi altre tante fette di provatura spolverizzate di zuccaro, cascio e cannella, e poi coprasi con altro tanto riso. In questo modo si potranno far due e tre suoli, e nell'ultimo pongasi un poco di butiro sopra e facciasi stare sulle ceneri calde, o in forno come di sopra, e servasi caldo".
    Il risotto trova anche presso i nostri contemporanei un posto d'onore nelle pagine del grande scrittore Carlo Emilio Gudala che nell'opera "Le meraviglie d'Italia" fornisce una lunga e dettagliata ricetta del risotto alla milanese per il quale si prevedono i seguenti ingredienti indispensabili: cipolle, brodo di manzo (con carote e sedani) burro lodigiano e zafferano. Come aggiunta a piacere suggerisce inoltre: midolla di osso di bue, vino rosso piemontese e parmigiano grattugiato.
    Anche le zuppe già si trovano riferite alla Lombardia nel testo di Bartolomeo Scappi che fornisce la ricetta della zuppa lombarda ancora in uso.
    "Per fare una suppa alla lombarda con brodo di carne.
    Piglisi pan bianco tagliato in fette di grossezza d'una costa di coltello e lesisene la crosta e facciasi sottostare al forno o sotto il testo (= stoviglia o fornello di terracotta per cuocere vivande); et abbiasi brodo grasso, ove sia cotta carne di vacca e capponi e cervellate, et accomodinosi le fette del pane nel piatto e spolverizzinosi di cascio grattato, zuccaro, pepe e cannella, e ponganovisi sopra alcune fettoline di provatura fresca, overo di cascio grasso che non sia troppo salato, et in questo modo si facciano tre suoli e bagnonisi con il brodo soprascritto, che non sia troppo salato, fin a tanto che sia bene insuppata e coprasi con un altro piatto, e lascisi riposare per un quarto d'ora in loco caldo, e servasi calda con li cervellati tagliati in fettoline e zuccaro e cannella sopra".



    Ma lo Scappi non dimentica i dolci offrendoci la ricetta dei morselletti.
    "Per fare morselletti, cioè mostaccioli alla milanese.
    Piglinosi quindeci ove fresche e battanosi in una cazzuola e passinosi per lo setaccio con due libre e mezza di zuccaro fino fatto in polvere e mezza oncia di anici crudi, overo pitartamo pesto, et un grano o due di muschio (= sostanza profumata ottenuta dalla secrezione ghiandolare del mosco, animale che vive nell'Asia centrale) fino; e mettansi con esse libre due e mezza di farina, e battasi ogni cosa per tre quarti d'ora e ribattasi per un'altra volta; poi si abbiano apparecchiati fogli di carta fatti a lucerne, onti, overo tortiere alte di sponde con cialde sotto senza essere bagnate di cosa alcuna, e dapoi mettasi essa pasta dentro le lucerne o tortiere, e non sia d'altezza più che la grossezza d'un dito, e subito si spolverizzino di zuccaro e ponganosi nel forno che sia caldo, overo quelle delle tortiere cuocanosi come le torte; e come tal pasta sarà sgonfiata et averà in tutto persa l'umidità e sarà alquanto sodetta, cioè sia come una focaccia intera, cavisi dalla tortiera o lucerna e subito si taglino con un coltello largo e sottile a fette larghe due dita e lunghe a beneplacito, e rimettanosi nel forno con un foglio di carta sotto a biscottarsi, rivoltandoli spesso; però il forno non sia tanto caldo come di sopra; e come saranno bene asciutte, cavinosi e conservinosi perché sono sempre migliori il secondo giorno che il primo e durano un mese nella lor perfezione".

    Ma in nessuna regione italiana le differenze fra città e città, fra zona e zona sono così marcate come in Lombardia, da ogni punto di vista e naturalmente anche da quello della cucina.



    Il quadro gastronomico della Lombardia è dunque un mosaico di cucine delle sue province, che conservano caratteri propri nella vaga parentela che, sotto certi aspetti, le accomuna.
    Bergamo e Brescia, che hanno conosciuto in passato il dominio della Serenissima, recano ancora l'impronta della cucina dei dogi; Mantova e Crema sentono un poco la vicinanza emiliana; l'alta Lombardia conserva antiche ricette in Valtellina e nel Comasco: ricordiamo che Como è stata la città natale nel XV secolo di Maestro Martino, autore del "Libro de arte coquinaria", che fra i suoi contemporanei non conobbe rivali nell'arte della cucina e della relativa trattatistica dove mette in atto una partizione netta e meditata della materia, una cura meticolosa dei particolari, un criterio misurato nella dosatura e nelle proporzioni degli ingredienti.
    I risotti hanno grande rinomanza, da quello giallo milanese, il classico risotto allo zafferano, a quello comasco con i filetti di pesce persico, da quello "col puntell" mantovano a quello con la salsiccia brianzolo.
    Tra i primi piatti, spiccano altresì i pizzoccheri valtellinesi, gli agnolini mantovani, i casonsei bergamaschi, i tortelli di zucca e gli gnocchi alla comasca.
    I piatti di carne contemplano bolliti sontuosi, la classica costoletta alla milanese, la cassoeula altolombarda, la faraona alla creta valcuviana, stufati e stracotti profumati.
    I formaggi sono i più nobili d'Italia e i vini hanno una tradizione antica, come pure certi dolci famosi, come la colomba pasquale e il panettone.
    Mantova e Cremona, ad esempio, hanno sviluppato una serie di ricette che risente della vicinanza del Veneto e dell'Emilia Romagna. Specialità della cucina mantovana - che ha tradizioni popolari e aristocratiche che ha saputo difendere nei secoli - sono il riso e trigoli, ovvero riso con castagne d'acqua; le mariconde, polpettine di formaggio, pangrattato ed uovo servite in brodo; gli agnoli ripieni, cioè ravioli ripieni di cappone, cannella, formaggio e chiodi di garofano. Da ricordare anche i fantasiosi ravioli mantovani ripieni di amaretti e zucca, l'anitra selvatica in umido e la lepre alla cacciatora. Di Cremona è nota soprattutto la mostarda, la celebre salsa, fatta con pezzi di frutta candita, senape e spezie, da servire con bolliti ed arrosti. Famosi anche gli insaccati di maiale tra i quali possiamo trovare vere e proprie specialità come il salame all'aglio. Rinomati anche i marubini, ravioli con il ripieno di pangrattato, grana padano ed uova, serviti con burro e formaggio o in brodo. Secondo la tradizione la provincia di Cremona è anche la patria del cotechino, l'insaccato di maiale servito abitualmente con le lenticchie. Sembra infatti che proprio nelle campagne tra Cremona e Lodi i contadini poveri abbiano preso l'abitudine di preparare insaccati con le parti più grasse del maiale. Il cotechino quindi è nato in Lombardia come piatto "povero" ed è poi diventato una specialità d'élite, gradita anche al di fuori dei confini regionali. Tra le ricette più originali della provincia cremonese ricordiamo quella del cotechino alla vaniglia.
    Bergamo e Brescia sono state evidentemente influenzate dalle usanze gastronomiche della Repubblica di Venezia, della quale hanno fatto parte per lungo tempo. Bergamo è la patria della polenta taragna, fatta di una miscela di mais e grano saraceno e mescolata a lungo con un bastone, il "tarello" appunto, dal quale ha poi preso il nome. Ottima anche la polenta con gli uccelli, i casonsei (pasta ripiena) e il cuore di vitello alla bergamasca. La polenta con gli uccelli ritorna anche fra i dolci: si tratta di una cupola di pan di Spagna ricoperta di zucchero e farina di mais e sormontata da minuscoli uccelletti di cioccolata.
    Brescia rimane legata gastronomicamente al vicino lago di Garda. Sulle tavole della "Leonessa d'Italia" si potranno gustare quindi le specialità d'acqua dolce, in particolare il pesce fritto accompagnato dalla polenta. Specialità bresciane sono anche i casoncelli, pasta ripiena di spinaci, uova, amaretti, formaggio e mollica di pane. Ricordiamo inoltre il riso alla pitocca detto anche minestra sporca e altri tipi di minestre come i brofadei, i gnocarei e le mariconde.
    Le città di Varese e Como portano invece sulla loro tavola i segni evidenti della vicinanza con il lago di Como e con quello Maggiore: trote, persici, tinche, agoni ed i missoltit (pesci essiccati, saltati in padella ed aromatizzati con l'aceto). Il pesce costituisce anche il ripieno per i ravioli. Ottime le anguille provenienti dall'Adda con le quali si preparano le anguille alla lombarda, dal tradizionale condimento di funghi secchi e filetti di acciughe. Non mancano però piatti di origine montanara a base di polenta con stufati, stracotti e selvaggina.



    A Pavia abbondano nel menù il riso, le rane e la zuppa con uova e crostini denominata appunto zuppa pavese, mentre la zona di Sondrio e della Valtellina, nel nord della regione ai piedi delle Alpi, risente degli influssi gastronomici della vicina Svizzera. A Sondrio meritano di essere gustati le salsicce, i salami (tra i quali spicca la tipica bondiola) e la mortadella di fegato. Della Valtellina - nota per la bresaola - ricordiamo i pinzoccheri, tagliatelle di farina con grano saraceno, cotti con patate, verze, porri ed altre verdure e infornati con formaggio bitto e scemut; il chiscioo, pasta salata ripiena di formaggio e le caratteristiche frittelle sciatt. Eccellenti i vini della vallata, rossi di gran pregio, tra i quali nominiamo la Sassella, il Grumello e l'Inferno.
    Elemento unificante della cucina in Lombardia è il risotto che però viene preparato in mille modi diversi: con le verdure, le salsicce, i pesci d'acqua dolce, tinche o persici e perfino con le rane. Merita ricordare la leggenda che circola sulla nascita del famoso risotto milanese allo zafferano. Si narra, verso la fine del Cinquecento, di un giovane apprendista vetraio che venne chiamato nella capitale per lavorare al restauro delle vetrate del Duomo. Il giovane aveva un'insolita mania, quella di mettere una manciata di zafferano nell'impasto di tutti i colori che venivano usati per dipingere i vetri. "Finirai col mettere lo zafferano anche nel piatto in cui mangi", gli dicevano per scherzo i colleghi. Al termine dell'opera vennero festeggiate, proprio dietro il Duomo, le nozze della figlia del maestro vetraio e il giovane apprendista, probabilmente già inebriato dalle abbondanti libagioni di vino, decise di far avverare la profezia degli amici e sparse lo zafferano sul riso servito a tavola. Nacque in questo modo, secondo la tradizione, il risotto alla milanese che si diffuse rapidamente in tutta la città e nel resto della Lombardia. La bontà di questo piatto dipende soprattutto dalla sua corretta preparazione ed in particolare dalla perfetta unione del riso con il soffritto iniziale di aglio e cipolla.
    A Pavia è famoso il risotto alla certosina, preparato secondo la ricetta dei frati, che prevede un condimento di gamberi, funghi e piselli. I frati stessi però, nel rispetto delle loro regole, sono tenuti a gustarlo senza burro. Una delle ricette diffusa in tutte le città, è quella del risotto al salto: si divide una scodella di risotto alla milanese in tortini di riso; si friggono i tortini in burro abbondante e si servono caldi e croccanti.



    È di rilievo la produzione di formaggi tipici della Lombardia, prodotti in particolar modo tra le Alpi ed il Ticino. Qui vengono allevate mucche che forniscono un latte di prima qualità dal quale si ricavano ottimi derivati, primo fra tutti il burro che è il condimento principe della regione lombarda. I formaggi sono molti e molto conosciuti tanto che meritano una trattazione a parte.
    Nella tradizione gastronomica lombarda troviamo due dei dolci tradizionali più diffusi nelle feste religiose: il panettone natalizio (vero e proprio simbolo di Milano) e la colomba pasquale. Da segnalare anche la torta sbrisolona, tipica specialità mantovana.
    Quella della Lombardia è dunque una cucina molto frastagliata e caratterizzata dai cibi di montagna e di lago molto legati alla sua situazione geografica, alle diverse vicende storiche e alle tradizioni dei paesi confinanti, ma sostanzialmente è una cucina priva delle creazioni culinarie ispirate - come è successo in molte zone italiane - dalla povertà, dalla necessità per larghi strati della popolazione di inventare piatti con poco, rendendoli gustosi con erbe di campo, con erbe aromatiche e con particolari lavorazioni che hanno saputo produrre cibi molto apprezzati anche al di fuori del contesto economico in cui sono nati, si basa invece sulla grande ricchezza di prodotti agricoli della terra lombarda e sul benessere economico che in questa regione è sempre stato una caratteristica per molta parte della popolazione.




    (emmeti.it)


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  2. gheagabry
     
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    radetzky



    Johann Joseph Franz Karl conte di Radetz (Radetzky) 1766-1858 ...Feldmaresciallo austriaco, nato da una famiglia di antica nobiltà boema economicamente decaduta, entrò come cadetto nell'esercito imperiale austriaco, dove condusse una brillante e rapida carriera. Si era accasato con una stiratrice milanese che gli diede 4 figli e parecchie leccornie tra cui la Cotoletta alla Milanese e gli gnocchi di Zucca di cui era golosissimo.

    A sostegno della paternità dei milanesi sulla cotoletta (costoletta) a un certo punto intervenne lo stesso maresciallo con una missiva indirizzata al conte Attems (aiutante di campo di Francesco Giuseppe). Nella lettera Radetzky affermava di aver scoperto a Milano la famosa cotoletta e ne descriveva minuziosamente la ricetta. La polemica a questo punto sembrò placarsi, poiché i milanesi interpretarono l'affermazione del feldmaresciallo come un riconoscimento di identità culturale (mediato almeno in cucina). Si racconta che il conte Attems, dopo aver ricevuto la missiva, abbia esclamato costernato: "Ahinoi, può nuocere di più all'impero, una cotoletta che le mie prigioni di Silvio Pellico; basta una cotoletta a fortificare l'animo del ribelle lombardo e a disfare la vittoria di Custoza!"


    cotoletta-alla-milanese-con-osso

    E sia eterna lode al Sacro Bue e ai doni impanabili che esso ci profonde! Nel nome del bue padre, del figlio vitello e dello spirito mucca, amen."

    Ricetta milanese dell'800, citata da C. Steiner ne Il ghiottone lombardo.

    Co(s)toletta alla Milanese

    Prendasi una costoletta di vitello o nodino che abbia il suo osso attaccato !!!, altrimenti sarebbe almeno esagerato e fuori luogo chiamarla costoletta... E la si scelga né troppo grassa né troppo magra, ma più sul magro che sul grasso. La si stenda sul tagliere e col pestacarne si cominci a tormentarla dolcemente di modo che le fibrille della carne non si spappolino, ma si rompano. Quando questa operazione che può anche durare una ventina di minuti è finita, la costoletta viene fatta passare in uovo battuto, poi in pane grattugiato. Anche questa operazione va ripetuta almeno due volte per garantire una impanatura perfetta e regolare. Sul fuoco si sarà nel frattempo messo a sciogliere un grosso pezzo di butirro e poco olio di oliva finissimo, in modo da giungere alla bollitura. In esso si faranno passare le costolette che debbono, per essere mangiabili e perfette, risultare dorate in ogni loro parte. Prima di portarle in tavola, le costolette vanno finite, cioè bisogna coprire i 'manici' di ciascuna con un decoro di carta (tipo coroncina) o carta alluminio utile per quando la si mangia con le mani rosicchiando l'osso. Un tempo infatti i buoni milanesi non avrebbero per nessuna ragione al mondo rinunciato ad agguantare l'osso e a rosicchiare la saporita carne fino in fondo. Si abbina bene con il risotto alla milanese.




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  3. gheagabry
     
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    RISOTTO ALLA MILANESE



    Il risotto alla milanese è il piatto tipico per eccellenza del cuore economico del nord Italia. Questo piatto molto semplice affascina soprattutto per il colore dorato conferitogli dallo zafferano, ingrediente principale della ricetta. Non tutti sanno, però, che un risotto alla milanese come tradizione vuole contiene il midollo di bue, ingrediente fondamentale per arricchirne il gusto.

    I piatti ad effetto, mascherati, contraffatti, multicolori erano prerogativa della cucina araba ed europea medioevale, destinati a stupire i ricchi signori alle tavole dei potenti dell'epoca.
    Nel '300 il riso veniva coltivato estensivamente solo nel Napoletano. Da qui, grazie agli stretti rapporti che legavano gli Aragonesi ai Visconti e agli Sforza, la sua coltivazione si affermò nella pianura padana ed in particolare nel Vercellese. I primi ricettari trecenteschi iniziano a proporre piatti dove il riso svolge un ruolo fondamentale.

    Il progenitore del risotto alla milanese è descritto da Bartolomeo Scappi nella meta' del'500. La "Vivanda di riso alla Lombarda" era composta da riso bollito e condito a strati con cacio, uova, zucchero, cannella, cervellata (tipico salume milanese colorato di giallo dallo zafferano) e petti di cappone.
    Ma è necessario attendere la fine del 1700 perche' il riso alla milanese, cosi' come oggi e' conosciuto, prenda forma. L'anonimo autore della "Oniatologia" (scienza del cibo) titola una sua ricetta "Per far zuppa di riso alla Milanese", dove il riso, lessato in acqua salata, alla quale si aggiunge un buon pezzo di burro quando bolle, e' condito con cannella, parmigiano grattato e sei tuorli d'uova, per fargli acquisire un bel colore giallo.

    La ricetta definitiva nasce all'inizio dell'800 nel libro "Cuoco Moderno", stampato a Milano nel 1809, di un misterioso L.O.G. La sua ricetta: "Riso Giallo in padella". Cuocere il riso, saltato precedentemente in un soffritto di burro, cervellato, midolla, cipolla, aggiungendo progressivamente brodo caldo nel quale sia stato stemperato dello zafferano.
    Ai primi del '900 compare anche il vino: l'Artusi fornisce due ricette del Risotto alla Milanese, la prima senza vino e senza midollo e grasso di bue, la seconda con vino bianco, che serve con la sua acidità a sgrassare il palato dall'untuosità del midollo e del grasso di bue.
    Ai giorni nostri Gualtiero Marchesi, maestro della cucina creativa, perfeziona la ricetta, consigliando di tostare il riso in poco burro, iniziare la cottura col brodo, poi aggiungere lo zafferano; frattanto fare sudare a parte la cipolla in pochissimo burro e vino bianco, aggiungere burro fresco ben freddo per ottenere una crema omogenea. Mantecare il Risotto, con questo burro, a fine cottura.


    Sì o No?

    Come tutti i risotti che non prevedono l'uso di verdura, il risotto alla milanese non può essere un piatto Sì, in quanto manca la componente ipocalorica che deve bilanciare quella ipercalorica, per riportare le calorie per 100 g sotto i limiti per garantire una sufficiente sazietà. Certamente ci si può ispirare al risotto alla milanese, utilizzando una verdura che sta sicuramente bene con lo zafferano, per esempio la zucchina.





    Ricetta in prosa del risotto alla milanese tratto da «LA CUSINNA DE MILAN» di Giuseppe Fontana del 1938.

    «Gina, Gina, stavolta chi el risott voeui cural mi. Prepara bella netta la padella, che sem in sett o vott. El broeud te ghe l’ee bon ? Sì ? De manzetta ? Famel on poo saggià. Bon, bon, va là, sent che odorin ? El fa resuscità.

    El ris l’è del vialon rivaa su jer ? L’è mondaa ? Torna a dagh ona passada. Sù, sù, mett in padela el to butter e on tochell de scigola ben tridada. Mett a foeugh, fà tostà movend sul fond cont el cazzuu a fal de color biond.

    Dent el ris. Ruga. Bagnel cont el vin bianch, magher (mezz biccer). Dent el zaffran. Ruga. Fagh sugà el vin. Sent che odorin ! Sugaa ? Giò el broeud da man a man. Boffa sott che’l dev buj a la più bella de sentil a sparà in de la padella.

    Bagnel del tutt e rangiel giust de saa. Lassel coeus. Brava. Gratta giò el granon. Oi, oi sott, sotta foeugh chel s’è incantaa. Gina che risottin, che odor de bon ! Ten rugaa veh ! Adasi e dappertutt. Varda, l’è quasi all’onda, on cinq minutt.

    Giò che l’è pront. L’è moll ? Fa nient, el ven. Dent el grana abbondant e on bell tocchell de butter peu mantecchel ben, ben, ben, menand sù svelt che’l ven e bon e bell. Quest chi sì l’è on risott che var la spesa, on risott propi faa a la milanesa !

    Cott al punt, mantecaa a la perfezion, bell, mostos, el te fà resuscità anca on mort ch’è crepaa d’indigestion. Tirel giò e mett on tavola che in là con tant d’oeucc e sospiren guardand chi. Servel, che vegni subit anca mi».




    Ingredienti Per 4 persone:
    Mezza cipolla
    Riso Carnaroli o meglio ancora Semifino Vialone Nano
    Brodo di carne
    Mezzo bicchiere di vin bianco
    40 gr di burro
    40 gr. di midollo di bue
    0,5 gr. di zafferano in pistilli
    Parmigiano grattato.

    Dunque, fai fondere a fuoco basso in una casseruola col fondo bello spesso (meglio rame stagnato o alluminio) meta' del burro e il midollo sminuzzato.

    Aggiungi la mezza cipolla tritata finissima e falla "sudare" senza che prenda colore.

    Appena diventa morbida e trasparente, trasforma in medio/alto il fuoco e butta il riso (tre pugni a testa).

    Mescola col cucchiaio di legno e un poco di dolcezza, finche' il riso e' bollente (basta toccarlo col dorso delle dita).

    Aggiungi mezzo bicchiere abbondante di vin bianco e gira con delicatezza fino a evaporazione quasi completa.

    Aggiungi due o tre mestolate di brodo gia¹ a bollore, gira un paio di volte e non toccare piu' fino alla prossima aggiunta di brodo (non e' mica polenta: a girare in continuazione, la cuticola del riso di rompe in anticipo e il risotto comincia subito ad attaccare sul fondo della pentola).

    Continua con le aggiunte di brodo a due o tre mestoli alla volta. Verso metà cottura sciogli i pistilli di zafferano in un mestolo di brodo bollente e aggiungi.

    Spegni il gas col riso ancora al dente, con il tutto che abbia ancora una consistenza bene "all'onda": non deve assolutamente essere un pappone fermo.

    Aggiungi il parmigiano e il resto del burro ben freddo, rimescolando freneticamente per un minuto buono: e' il momento della "mantecatura" e sbattere il riso serve a montare il burro e al tempo stesso a rompere la cuticola dei chicchi (ora e' il momento!), in modo che il tutto assuma una consistenza cremosa.

    Metti nei piatti, aspettando un paio di minuti prima di servire in modo che il riso riposi e i sapori si omogeneizzino.



    ...leggenda....

    La leggenda vuole che l’origine del risotto giallo, quello allo zafferano, profumata e gustosa colonna portante nella cucina milanese, sia legata alla costruzione del Duomo, altro simbolo della città.


    Era il 1574 e i lavori della cattedrale procedevano.
    Il maestro vetraio Valerio di Fiandra e i suoi discepoli si davano da fare per terminare le vetrate. E proprio uno di questi si distingueva dagli altri per la sua bravura e la mania per il giallo, colore che aggiungeva a ogni impasto fino a meritarsi il nome “Zafferano”.
    Il maestro lo prendeva in giro dicendo che avrebbe finito per mettere questa spezie anche nel riso.
    Il giovane, che voleva vendicarsi o burlarsi del capo, lo prese in parola e al matrimonio della figlia di Valerio convinse al cuoco a miscelare lo zafferano al risotto.
    Da uno scherzo nacque così la famosa pietanza gialla.

    Che cosa c’è di vero?
    I due ingredienti del risotto alla milanese sono riso e zafferano, entrambi di origine orientale.
    Il riso era già noto ai Romani, che però lo usavano solo per infusi e decotti; solo nel 1400 iniziò a essere coltivato in Italia.
    Lo zafferano fu portato dagli Arabi con la conquista della Spagna dall’anno Mille in poi, ma era tanto raro e prezioso da far parte del corredo di nozze.
    Riso zafferano si incontrarono dunque nel Rinascimento; ma solo con la fine del 1700 i due ingredienti trovarono a Milano le giuste proporzioni per trasformarsi in un piatto ora famoso nel mondo dei buongustai.


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  4. gheagabry
     
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    Il risotto con lo zafferano è il simbolo di Milano


    La leggenda, come sempre, è più affascinante della realtà. Il risotto giallo, come una favola, nacque nel settembre del 1574 nella città di baracche dove risiedevano gli artigiani provenienti da ogni parte d'Europa per completare la fabbrica del Duomo. C'era, in quel crogiuolo di lingue e comunità, anche un piccolo gruppo di belgi tra cui Valerio di Fiandra, mastro vetraio. Tra gli apprendisti della sua bottega ce n'era uno, in particolare, bravissimo nel dosare i colori. Il suo segreto era lo zafferano. Forse eccedeva un po' nell'utilizzo, così Valerio lo aveva soprannominato «Zafferano» e lo prendeva in giro: «Prima o poi lo infilerai anche nella roba da mangiare».

    E l'ingegnoso Zafferano lo fece, spruzzando i preziosi pistilli proprio nel risotto del pranzo di nozze della figlia del capo. La montagna gialla che emerse dalla cucina sconcertò inizialmente i commensali, ma dal primo assaggio alla scomparsa del risotto il passo fu brevissimo. Fin qui la leggenda. Il riso, a Milano, era arrivato dal Sud. Cominciò a essere coltivato nel Napoletano nel '300. Poi grazie ai legami tra gli Aragonesi e i Visconti-Sforza, risalì la penisola affermandosi nelle zone che ora conosciamo (Lomellina, Vercellese) e entrando di diritto nei ricettari. Bartolomeo Scappi, a metà '500, parla della «Vivanda di riso alla Lombarda», ma è nel 1809 che troviamo la ricetta definitiva. Riso giallo in padella: cuocere il riso, saltato precedentemente in un soffritto di burro, cervellato, midolla, cipolla, aggiungendo progressivamente brodo caldo nel quale sia stato stemperato dello zafferano. E via così, con le modifiche dell'Artusi (con il vino per sgrassare il midollo) e i suggerimenti di Gualtiero Marchesi (tostare il riso in poco burro, iniziare la cottura del brodo, aggiungere lo zafferano), fino ad arrivare ad oggi.



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  5. gheagabry
     
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    LA STORIA DEL RISOTTO



    Il risotto è nato a Napoli. Quest’affermazione, con qualche esagerazione, e una buona dose di approssimazione (due caratteristiche tipiche - secondo alcuni - dei napoletani) contiene in sé alcuni grani (si stava per dire: alcuni chicchi) di verità. Considerando infatti che il riso è il padre del risotto, va ricordato che l’uso alimentare del riso in Italia è incominciato a Napoli. Non che l’abbiano scoperto i napoletani, il riso: l’avevano portato fino al loro gli spagnoli (per la precisione: gli Aragonesi) nel XIV secolo. I napoletani cominciarono così a consumarlo come piatto unico: però non fu mai, per loro, unico quanto la pasta. Che proprio in quegli anni andava affermandosi e fermandosi stabilmente a Napoli. Il riso invece a Napoli non si trattenne, e nemmeno venne trattenuto; emigrò presto al nord, dove peraltro già lo conoscevano come farmaco e come ingrediente per dolci, e vi prese stabile dimora. Favorito in ciò dall’abbondanza d’acqua, per lui indispensabile per crescere bene. Fu così che l’uso alimentare del riso si affermò soprattutto nel settentrione d’Italia. L’abitudine di mangiare riso perciò non è per nulla napoletana. E ancor meno quella di preparare risotti. Più (e prima) che un piatto, il risotto è un modo di preparare il riso, che si chiama “cottura a risotto”. L’archetipo del risotto è il risotto alla milanese. E, come vedremo, non solo l’archetipo: anche il prototipo. La sua origine non è un giallo; è una leggenda. Il colore dipende dallo zafferano, pianta i cui fiori sbocciano in ottobre. La parte superiore dei pistilli (lo stimma)contiene una sostanza oleosa e aromatica. Gli stimmi vanno essiccati e macinati, fino a ricavarne una polvere gialla, un po’ amara e un po’ piccante.In Italia lo zafferano si coltiva poco, negli Abruzzi e in Sardegna. In Europa lo producono la Spagna e la Grecia, nel mondo le maggiori piantagioni di zafferano si trovano in India e in Iran. Dove la mano d’opera costa poco: una fortuna, dal momento che l’intera lavorazione dello zafferano è manuale. Per fare un chilo di zafferano si devono raccogliere 150 mila fiori, e ci vogliono 500 ore di lavoro. Lo zafferano si impiega in cucina (per il risotto di cui stiamo parlando, e per altro), ed entra nella preparazione di sciroppi e di liquori. E non si ferma qui; entra anche in chiesa. O per lo meno c’è entrato in passato. E proprio là ha dato vita al risotto alla milanese.E’ una bella storia, e bisogna raccontarla bene. A partire dal 1385 cominciarono a giungere a Milano artisti, architetti,artigiani, muratori, pittori, vetrai. Per dare il loro contributo alla“Fabbrica del Duomo”; un immenso cantiere che rimase aperto per decenni, fino ad esitare in quell’incredibile testimonianza del gotico fiammeggiante che sembra uscita dall’estasi di un mistico.Tra i convenuti c’era un fiammingo di Lovanio, tal Valerio Perfundavalle, di professione pittore di vetrate. Per conferire ai suoi gialli un tocco di brillantezza in più, Perfundavallle impiegava lo zafferano. A Milano si lavorava sodo fin d’allora, e lo spacco per il pranzo era piuttosto breve (non c’erano ancora i sindacati, del resto). Il nostro pittore pertanto si riduceva a mangiare un po’ di riso dalla “schiscetta”, sul suo ponteggio sospeso tra terra e cielo. Com’è e come non è, un bel giorno, causa un movimento maldestro, un po’ dello zafferano che serviva per le vetrate finì nel riso.La leggenda sorvola sulle reazioni del nostro eroe (avrà forse sacramentato in fiammingo, a bassa voce dato il luogo). Però….il riso colorato di giallo pareva proprio appetitoso. E il sapore? Perfundavalle esitò un istante. Poi si disse:che male può farmi? E’ una pianta! (Come la cicuta, NdR).Così l’assaggiò. Gli piacque molto.



    Da quel giorno le sue vetrate furono un po’ meno gialle, e il suo riso lo fu di più. La voce, com’è ovvio,si sparse. E lo zafferano passò in cucina. Come dire: dal croco al cuoco.Questa storia è sicuramente falsa, dalla prima all’ultima parola. Ma è suggestiva, perché mette insieme i due must di Milano: il Duomo, e il risotto alla milanese. Facendoli nascere nello stesso luogo, l’uno dall’altro.Le scatole cinesi non hanno fine: da tutto questo scaturisce – secondo un’altra leggenda – anche il nome“risotto”. Un umanista, assaggiando questo singolare riso giallo, pare abbia esclamato: “Risus optimus!”Leggende ed amenità a parte, è documentato che la “cottura a risotto” è una tecnica tutta italiana.Che non si facciano avanti i soliti cinesi (che ci stanno - stavolta - sulle scatole): che smacco per loro, inventori di quasi tutto, essersi fatti scappare un risotto giallo! O gli immarcescibili Arabi. I primi il riso l’hanno coltivato ed esportato, i secondi ce l’hanno condotto quasi fin dentro casa. Ma siamo stati noi italiani, con la creatività che il mondo ci riconosce, ad inventare e a rendere famoso il risotto.Certo è che nel 1791 il risotto in Piemonte era già un piatto tradizionale, anche se soltanto del bel mondo: i Savoia erano soliti farlo servire a mezzanotte, durante i ricevimenti che davano nei loro bei palazzi torinesi. A codificare il risotto così come lo intendiamo oggi fu peraltro un cuoco rimasto semi-anonimo, dal momento che di lui conosciamo soltanto le iniziali: L.O.G. ….Nessun discorso che si occupi di cucina può comunque prescindere dal citare, magari di volata, il grande Pellegrino Artusi. Il grande emiliano (forlimpopolese) …..per poter mettere bocca in tutto, mise in bocca tutto. Si deve a lui la classificazione dei risi in base alla cottura. Il risotto acquista così una sua specificità, cucinato - come dev’essere - in casseruola, con un soffritto al quale va aggiunto, poco per volta, del brodo.Ma non c’è autenticità senza certificato di garanzia. Il risotto c’ha pure questo; il suo imprimatur come capolavoro dell’arte culinaria italiana reca nientemeno che la firma di Auguste Escoffier. Quando parla, e scrive di risotti, il celebre cuoco francese non manca mai di definirli “una preparazione all’italiana”. E li descrive, abbinandoli ai luoghi d’origine (alla piemontese, alla milanese, alla fiorentina)

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    salutare il risotto,grazie gabry
     
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  7. arca1959
     
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    grazie Gabry
     
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  8. gheagabry
     
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    Bruscitti: un primo, un dolce, un Magistero.



    I bruscitti sono un piatto tipico della cucina bustocca. Taluni lo attribuiscono alla tradizione culinaria tipica dell’altomilanese, ma mi permetto di dissentire. Al di fuori del circondario di Busto Arsizio, non è un piatto conosciuto. O per lo meno la ricetta non è quella della tradizione bustocca. Come lascia del resto supporre l’uso improprio del vocabolo bruscitt del dialetto varesino al posto del bustocco bruscitti.
    Volendo a tutti i costi giustificare l’origine del piatto, taluni lo fanno risalire all’utilizzo dei brandelli di carne che rimanevano attaccati alle pelli da concia (in Busto Arsizio, nel medioevo, erano attive delle concerie). Mi sembra eccessivo. Personalmente, ritengo più plausibile un uso attento di tutte le parti delle bestie macellate, una spolpatura totale delle ossa, un recupero di quelle parti che venivano scartate dalle mense dei più abbienti. Allora la carne non si mangiava tutti i giorni e in ogni caso non si cucinavano certo tagli di prima scelta. I tagli pregiati, quelli che stanno "dietro la testa e prima della coda", erano destinati alla cucina dei ricchi. Ai più, restavano la testa, la coda, i piedini e le interiora non nobili, cioè la trippa, l’intestino e i polmoni. Talvolta si riusciva ad acquistare a buon prezzo quella parte di polpa ricca di connettivo e cartilagine, come il fusello o il geretto, che disossata e lardellata, dava origine a stracotti e stufati. Nel lesso, assieme a pezzi di carne finivano le ossa, da cui si staccavano attentamente le cartilagini per poi mangiarle con la polenta o con i fagioli. Nulla veniva buttato: ciò che non si poteva mangiare, veniva usato per produrre sugo (la pucia) in cui intingere pane o polenta.
    E difatti per i bruscitti si utilizzavano parti come la fustela e il tampetu, parti muscolose, dure, che richiedono una lunga cottura. Anche qui sono sorte delle leggende metropolitane sul fatto che la carne venisse tagliata a pezzettini (bruscitti = briciole) con un coltello. E con che cosa se no? È ridicolo riproporre la ricetta dei bruscitti, scrivendo che la carne deve essere tagliata delle dimensioni di un fagiolo con un coltello ben affilato. Primo, finiremmo tutti al pronto soccorso. Secondo, lasceremmo tutta la bontà della carne sul tagliere. E poi, chi compra più la carne dal macellaio? Chi conosce il tampetto, il fustello? Ecco allora una versione moderna ( la mia!) dei bruscitti:
    Comprate al supermercato della carne trita, dei semi di finocchio (versione moderna del finocchio selvatico o erbabonna) e del vino rosso corposo. In una pentola ponete del burro, aggiungete la carne, fate rosolare un attimo. Aggiungete dell’acqua sin quasi a coprire la carne, un dado e un sacchettino con i semi di finocchio. Regolate di sale e pepe. Fate cuocere a fuoco lento per una mezz’ora. Al termine verificate la consistenza: non devono essere né troppo asciutti né troppo acquosi. Aggiungete un bicchiere di vino (se volete), rimestolate e fatelo evaporare completamente. Quando non avvertite più il profumo del vino, i bruscitti sono pronti. Mettete nei piatti una polenta calda e versatevi al centro i bruscitti. Al posto dei semi di finocchio si possono aggiungere dei chiodi di garofano e se non vi piace l’odore del vino, tralasciatelo pure. In circa tre quarti d’ora, avete preparato un ottimo piatto unico. Se poi volete gustare la versione ‘antica’ dei bruscitti, vi conviene fare un salto a Busto Arsizio e scegliere uno dei tanti ristoranti a cucina tipica. Dubito però che troviate la carne tagliata a ‘bruscitti’ a mano.
    Ma i bruscitti, sono anche un dolce. Ai famosi mostazzitt e cupett, dolci tipici di Busto Arsizio, di recente si è aggiunta una torta che nell’aspetto ricorda un piatto di polenta e bruscitti. Buonissima!
    A Busto Arsizio ha poi sede il Magistero dei Bruscitti da Busti Grandi, un’associazione fondata nel 1975 che si prefigge di diffondere la conoscenza della cucina rustica bustocca. E chi meglio di loro può fornirci l’indirizzo di un buon ristorante bustocco dove gustare polenta e bruscitti? Se vi fidate, provate All’Antica Trattoria della Pesa, in piazza Colombo 1,oppure all’Osteria dul Tarlisu, via Ugo Foscolo, 2 o anche al Ristorante da Aristide e Fiore in via XX Settembre, 36.
    Ad ogni modo se volete assaggiare un buon piatto di polenta e bruscitti, preparato secondo tradizione, fate un salto a Busto Arsizio Giovedì 29 Gennaio, il giorno della Gioeubia, quando una volta bruciata la vecchiaccia verrà offerto a tutti il tradizionale piatto bustocco.

    La Ricetta originale:
    Il testo che segue è la trascrizione integrale dell'atto con cui è stata depositata la ricetta originale dei Bruscitti presso il notaio Franco Rossi di Parabiago.
    i rappresentanti dell'Accademia Italiana della Cucina e quelli del Magistero dei Bruscitti, facendo risultare i risultati degli studi e ricerche condotti, con il presente atto dichiarano e
    codificano

    gli ingredienti, il modo, i tempi e la esecuzione della ricetta per la preparazione dei "Bruscitti" perchè in ogni opportuna sede ne sia data la giusta divulgazione.
    Si riporta di seguito la ricetta calcolata per sei persone:
    CARNE: 2 (due) chilogrammi di carne di bovino adulto fra polpa reale - tampetto o diaframma - fustello o lombatello - cappello del prete.
    ALTRI INGREDIENTI: burro grammi 100 (cento); pancetta o battuto di lardo grammi 30 (trenta); "erba bona" (semi di finocchio selvatico) due cucchiaini da caffè; aglio (uno spicchio); vino rosso (Barbera o Barolo o Barbaresco o Gattinara) un bicchiere da tavola; sale e pepe quanto basta.
    PREPARAZIONE: con un coltello ben affilato (onde non farne perdere il sugo) tagliare la carne a pezzetti grossi come una mandorla (la carne non va tritata). E' elemento indispensabile mantenere integro il sugo della carne che verrà rilasciato con la cottura e si mescolerà al burro. In una pentola di grosso spessore mettere la carne a freddo con il burro, la pancetta (non affumicata) a pezzetti o il battuto di lardo, sale e pepe. Aggiungere in mezzo alla carne un sacchetto di garza ben chiuso contente la "erba bona" e l'aglio.
    COTTURA: porre la pentola sul fuoco a fiamma molto bassa, coperchiata e con due pesi sul coperchio.
    Cuocere per due o tre ore secondo la qualità della carne tenendo sempre il fuoco molto basso.
    FINITURA: ogni quindici minuti di cottura è necessario rimestare con un cucchiaio di legno prestando attenzione a non rompere il sacchetto di garza. Periodicamente provvedere a qualche assaggio e se vi fosse troppo liquido scoprire la pentola o, nel caso vi fosse carenza di liquido aggiungere solo burro. Evitare l'aggiunta, durante la cottura, di altri odori o brodo.
    Quando si è prossimi alla ultimazione della cottura togliere il sacchetto dei profumi, alzare la fiamma e aggiungere il vino rosso; dopo alcuni minuti di cottura a fiamma vivace ed a pentola scoperta continuare la cottura a fuoco bassissimo sino a che, annusando, sia scomparsa l'asprezza iniziale del vino, situazione che denota l'avvenuto amalgama del vino con il burro.
    A questo punto togliere dal fuoco e servire ben caldo accompagnando questo piatto con polenta di farina macinata grossa o con fette di "pane misto" di Busto Arsizio.
    I Comparenti tutti


    www.macelleriapiran.it/magistero/ricetta.php


    POLENTA e BRUSCITTI



    Ingredienti per 6 persone

    2 kg di carne bovina
    (cappello del prete, polpa reale oppure tampetto/fustello nomi poco conosciuti oggi, la carne deve tenere una lunga cottura)
    1 spicchio d'aglio
    1 cucchiaio di semi di finocchio
    50 gr di burro
    30 gr di strutto o pancetta fresca non affumicata
    1 bicchiere di vino rosso corposo
    sale e pepe a piacere.

    Preparazione della carne
    Tagliare la carne con un coltello molto affilato a pezzetti grandi come una mandorla. Il coltello deve tagliare di netto e bisogna cercare di non perdere il liquido mentre si taglia la carne. La ricetta originale prevede che deve essere assolutamente tagliata con coltello affilato ed in nessun caso "macinata".
    Mettete la carne cosi tagliata (oppure macinata grossa) nel tegame a freddo assieme al burro ed allo strutto o pancetta e l'aglio. I semi di finocchio dovreste metterli in un sacchettino in modo che non si spargano nella pietanza, Fate andare a cottura a fuoco molto molto basso e coprite in modo che il vapore non esca ma rimanga tutto all'interno.
    Questo perchè la cottura deve durare circa 2 ore se la carne è tagliata con il coltello, 1 ora se macinata e non deve essere aggiunta alcun liquido... ne acqua, ne brodo o quant'altro. Se ritenete asciutto potete aggiungere dell'altro burro fino a 100 gr complessivi.
    Verificate e mescolate ogni 15 minuti circa per verificare se non è troppo liquido od asciutto. Poco prima della fine cottura togliete il sacchetto con i semi e versate un bicchiere di vino rosso. Alzate la fiamma in modo che evapori l'alcool ma rimanga solo il buon sapore base del vino ovvero non sentito l'odore acidulo del vino stesso che denota l'amalgamazione completa dello stesso.
    Nel caso che fosse troppo liquido basta che alziate la fiamma in caso contrario chiudete e servite.

    I Bruscitti vanno serviti con una polenta di grano grosso non troppo morbida o fette di pane...dicono quello di Busto Arsizio ...che se non viviamo da quelle parti sarà difficile gustare. Fette di pane pugliese o toscano leggermente tostate secondo me possono sostituire.



    (mementosolonico)
     
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  9. gheagabry
     
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    BRUSCìT E LA SUA STORIA



    I bruscitti sono un piatto tipico della cucina bustocca. Taluni lo attribuiscono alla tradizione culinaria tipica dell’altomilanese, ma mi permetto di dissentire. Al di fuori del circondario di Busto Arsizio, non è un piatto conosciuto. O per lo meno la ricetta non è quella della tradizione bustocca. Come lascia del resto supporre l’uso improprio del vocabolo bruscitt del dialetto varesino al posto del bustocco bruscitti.Volendo a tutti i costi giustificare l’origine del piatto, taluni lo fanno risalire all’utilizzo dei brandelli di carne che rimanevano attaccatti alle pelli da concia (in Busto Arsizio, nel medioevo, erano attive delle concerie). Mi sembra eccessivo. Personalmente, ritengo più plausibile un uso attento di tutte le parti delle bestie macellate, una spolpatura totale delle ossa, un recupero di quelle parti che venivano scartate dalle mense dei più abbienti. Allora la carne non si mangiava tutti i giorni e in ogni caso non si cucinavano certo tagli di prima scelta. I tagli pregiati, quelli che stanno "dietro la testa e prima della coda", erano destinati alla cucina dei ricchi. Ai più, restavano la testa, la coda, i piedini e le interiora non nobili, cioè la trippa, l’intestino e i polmoni.Talvolta si riusciva ad acquistare a buon prezzo quella parte di polpa ricca di connettivo e cartilagine, come il fusello o il geretto, che disossata e lardellata, dava origine a stracotti e stufati. Nel lesso, assieme a pezzi di carne finivano le ossa, da cui si staccavano attentamente le cartilagini per poi mangiarle con la polenta o con i fagioli. Nulla veniva buttato: ciò che non si poteva mangiare, veniva usato per produrre sugo (la pucia) in cui intingere pane o polenta.
    E difatti per i bruscitti si utilizzavano parti come la fustela e il tampetu, parti muscolose, dure, che richiedono una lunga cottura. Anche qui sono sorte delle leggende metropolitane sul fatto che la carne venisse tagliata a pezzettini (bruscitti = briciole) con un coltello. E con che cosa se no? È ridicolo riproporre la ricetta dei bruscitti, scrivendo che la carne deve essere tagliata delle I bruscitti sono un piatto tipico della cucina bustocca. Taluni lo attribuiscono alla tradizione culinaria tipica dell’altomilanese, ma mi permetto di dissentire. Al di fuori del circondario di Busto Arsizio, non è un piatto conosciuto. O per lo meno la ricetta non è quella della tradizione bustocca. Come lascia del resto supporre l’uso improprio del vocabolo bruscitt del dialetto varesino al posto del bustocco bruscitti.Volendo a tutti i costi giustificare l’origine del piatto, taluni lo fanno risalire all’utilizzo dei brandelli di carne che rimanevano attaccatti alle pelli da concia (in Busto Arsizio, nel medioevo, erano attive delle concerie). Mi sembra eccessivo.



    Personalmente, ritengo più plausibile un uso attento di tutte le parti delle bestie macellate, una spolpatura totale delle ossa, un recupero di quelle parti che venivano scartate dalle mense dei più abbienti. Allora la carne non si mangiava tutti i giorni e in ogni caso non si cucinavano certo tagli di prima scelta. I tagli pregiati, quelli che stanno "dietro la testa e prima della coda", erano destinati alla cucina dei ricchi. Ai più, restavano la testa, la coda, i piedini e le interiora non nobili, cioè la trippa, l’intestino e i polmoni.Talvolta si riusciva ad acquistare a buon prezzo quella parte di polpa ricca di connettivo e cartilagine, come il fusello o il geretto, che disossata e lardellata, dava origine a stracotti e stufati. Nel lesso, assieme a pezzi di carne finivano le ossa, da cui si staccavano attentamente le cartilagini per poi mangiarle con la polenta o con i fagioli. Nulla veniva buttato: ciò che non si poteva mangiare, veniva usato per produrre sugo (la pucia) in cui intingere pane o polenta.

    I bruscitti raccontano una storia di povertà, facile da intuire perché il diaframma non è certo un taglio nobile e tutto nasce dalla necessità delle famiglie dove lavorava anche la moglie di avere pronto un qualcosa appena tornati a casa la sera e un umido era una soluzione, da sposare alla polenta o a fette di pane.
    (ilfogolar)



    Edited by gheagabry - 4/2/2012, 01:33
     
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  10. gheagabry
     
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    Il risotto coi bruscitt



    Piccola premessa: io ho usato il vino rosso, ma volendo si può fare un semplice risotto alla parmigiana e condirlo coi bruscitt. C’è anche chi fa il riso al forno tipo pilaf ma a me piace più nella prima versione.

    Ingredienti (per una famiglia… diversamente numerosa, come la mia!):

    500 g di riso Originario

    500 g di carne trita scelta di manzo

    250 g di luganega

    lardo, burro, mezza cipolla

    chiodi di garofano, lauro, pepe

    un pizzico di sale

    vino rosso corposo (io ho usato un Dolcetto)

    grana in abbondanza

    Preparazione

    A Varese, ossia all’inizio del lungo tragitto dell’Olona nella Valle dei Mulini dove sono nati (secondo la leggenda, dalle pelli da concia scarnificate dalle massaie), i bruscitt sono più piccini e aromatizzati diversamente rispetto a quelli del basso corso del fiume. Io, avendo fretta, ho usato della carne trita che avevo in frigorifero, anche se i bruscitt andrebbero tagliati in punta di coltello da pezzi interi di manzo piuttosto magri.

    Fatto un leggero soffritto di lardo, burro e cipolla, la carne (con l’aggiunta spuria della salsiccia, che comunque di norma si usa pur non essendo prevista nella ricetta del Magistero) va fatta cuocere –senza rosolare –lentissimamente, incoperchiata, per un paio d’ore nel grasso e nel suo vapore, aggiungendo un pizzico di sale e gli aromi; a fine cottura si sfumerà con un bicchiere generoso di vino rosso e si alzerà la fiamma fino ad evaporazione quasi totale.

    Con questa carne, che deve risultare tenerissima, si condirà un risotto cotto per metà nel vino rosso e ben mantecato con burro e grana.

    (Bosina)

     
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  11. gheagabry
     
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    DOLCE

    "Polenta e Bruscitti"




    Dolce specialità della Pasticceria Campi di Busto Arsizio. Ricorda il piatto tipico bustocco: la polenta e bruscitti appunto
    In pratica è un pandispagna farcito di crema al cioccolato e panna e bagnato con strega con sopra una crema gialla particolare, che risulta molto gommosa che dovrebbe ricordare una polenta, ed intorno delle nocciole tritate intrisi nel miele che dovrebbero ricordare la carne macinata, i bruscitti.





    Edited by gheagabry - 10/3/2012, 18:48
     
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  12. gheagabry
     
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    Tagliatelle alla Santa Giuletta



    Questo piatto è legato a una leggenda: il 19 maggio 1859 il marchese e Ciambellano Imperiale Lorenzo Isimbardi, la cui dinastia regnava sul territorio già dal Settecento, di ritorno da un giro di perlustrazione nelle sue terre, si trovò ad avere come inattesi ospiti quattro ufficiali piemontesi e francesi, tra questi anche il conte Corrado Cravetta di Villanovetta dei Cavalleggeri del Monferrato che aveva conosciuto il padrone di casa qualche anno prima. Mentre il marchese intratteneva gli ospiti, vennero raggiunti da due ufficiali austriaci del reggimento Ulani delle Due Sicilie, anche loro in visita di cortesia. L’atmosfera era molto critica perché gli ufficiali erano di due opposte fazioni, le stesse che, il giorno seguente, avrebbero combattuto la famosa battaglia di Montebello (20 maggio 1859). Il marchese, imbarazzato e preoccupato per la situazione, decise di invitare tutti a gustare i piatti locali e ordinò ai cuochi di cucinare, tra le tante altre specialità, anche questo primo che suscitò apprezzamenti da parte dei commensali che, almeno per quel momento, mise tutti d’accordo.

    Ingredienti per 4 persone:
    • 500 gr. di tagliatelle all’uovo
    • 250 gr. di lingua salmistrata
    • 150 gr. di prosciutto crudo a fette
    • 150 gr. di sedano
    • 100 gr. di burro
    • sale e pepe

    Procedimento
    Tagliate a listarelle sottili la lingua salmistrata e il prosciutto crudo. Tagliate il sedano a fiammifero. In un tegame antiaderente lasciate fondere il burro e rosolate per circa 10 minuti la lingua salmistrata, il prosciutto e il sedano. Lessate le tagliatelle in abbondante acqua salata, sgocciolatele al dente e trasferitele nel tegame. Regolate di sale e lasciate amalgamare il tutto per qualche minuto con il sugo. Completate con abbondante pepe macinato al momento



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  13. gheagabry
     
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    L'ossobuco alla milanese





    Ossobuco con tutte le sue erronee varianti (osobuco, ossobucco, osso bucco, etc.) è una delle parole italiane più conosciute nel mondo. Non per caso, in solo 0,26 secondi Google in inglese può arrivare a dare quasi due milioni di risultati con questo nome. Il significato della parola sarebbe osso cavo e in termini culinari si riferisce generalmente al piatto conosciuto come ossobuco in gremolata alla milanese. Il suo ingrediente principale è lo stinco di vitello e specificamente la parte centrale di quello posteriore che ha abbastanza carne tenera utorno all’osso, cosa che quello anteriore non ha. La sua popolarità fa dell’ossobuco uno dei piatti più taroccati della cucina italiana tradizionale nel mondo: Per questa ragione è stato proclamato piatto ufficiale della quinta edizione della IDIC – International Day of Italian Cuisines 2012, la cui missione ê proteggere e promuovere l’autenticità e la qualità della cucina italiana. Nelle ricette tradizionali gli ossobuchi appena rosolati sono irrorati di vino che viene quindi fatto evaporare. Quindi sono conditi con sale e pepe e fatti cuocere a fiamma bassa nella pentola coperta. Devono essere girati a intervalli regolari e bagnati con brodo quando basta per non tenerli secchi. Questa è la tecnica originale italiana chiamata “arrosto morto” che poi è simile a quella del brasato (“neppure un raffinato gesuita è in grado di distinguere un arrosto morto da un brasato”, scrive Allan Bay). Negli ultimi decenni questa tecnica è stata sostituita da una molto comune nella cucina francese: dopo l’evaporazione del vino gli ossobuchi sono coperti dal brodo di vitello e messi nel forno caldo a brasare. Questa tecnica per cuocere gli ossobuchi inizia ad apparire nei ricettari –come negli Essentials di Marcela Hazan – a partire dagli anni Settanta del secolo scorso.
    La gremolata (‘gremolada’ or ‘cremolata’), nella sua tradizionale versione base è preparata con prezzemolo, aglio e buccia di limone tritati insieme. La parola gremolata viene dal milanese “gremolà”, ridurre in grani, ed era usata nel passato anche per insaporire le scaloppine e piatti a base di coniglio.Viene aggiunta all’Ossobuco solo alla fine, prima che si mandi in tavola. A volte la gremolata contiene rosmarino o salvia, o addirittura acciughe, come nella ricetta che Ada Boni pubblica ne Il talismano della felicità.


    Il mangiatore di fagioli in the cover of Ada Boni´s famous Il talismano della felicità and Pellegrino Artusi’s La Scienza in Cucina e l’Arte di mangiar bene

    Gli ossobuchi devono cuocere fino a che la carne si stacca dall’osso e può essere tagliata con la sola forchetta. Gli stinchi devono essere di vitelli di latte per ottenere la tenerezza dovuta. La carne dovrebbe essere “tenera come le cosce di un angelo / che ha vissuto un’esistenza in volo”, ha scritto il poeta americano Billy Collins nel suo poema “Osso Buco” (“qualcosa che non si sente molto in poesia, / quel santuario di fame e privazioni”). La tenerezza e la succulenza sono le caratteristiche dei migliori ossobuchi. Il midollo infine è una leccornia e tradizionalmente era mangiato con l’aiuto di un cucchiaino lungo che si chiama “esattore”.






    Attenzione, parlo dell'ossobuco alla milanese, non di quelli che servono in giro per l'Italia, contornate da tristi pisellacci grigiastri e sugaccio di pomodoro. Dell'Oss Bus, insomma, che si serve con contorno di risotto giallo. Quindi...

    In primo luogo, pomodoro niet. Questa e' la regola principe.
    In secondo luogo, piselli vade retro.
    In terzo luogo, niente manzo ma solo VITELLO.
    In quarto luogo, il segreto dell'amalgama dei sapori sta nella "gremolada", ovvero nell'ABBONDANTE trito finissimo di scorza gialla di limone non trattato, prezzemolo fresco e acciuga dissalata e diliscata, che va unito agli ossi buchi tre minuti prima di spegnerli. Tutto qui.





    Ingredienti
    Quattro ossi buchi di vitello, mezza cipolla, mezza carota (opzionale), burro e olio, brodo, vino bianco, sale, pepe bianco, concentrato di pomodoro in tubetto, scorza gialla di limone non trattato, prezzemolo fresco, acciughe dissalate e diliscate.

    Procedimento:
    Infarinate quattro ossi buchi, alti almeno un paio di dita, dopo aver inciso in tre o quattro punti la pellicola che li circonda. Fate sudare in una pentola bassa e larga a fondo spesso (NO acciaio!!! Rame stagnato o alluminio) una mezza cipolla (option anche una mezza carotina) affettate fini fini in abbondante burro e olio (non "burro O olio", ma "burro E olio").
    TOGLIETE la cipolla (e la carota), mettendole in un piattino, e fate rosolare gli ossi buchi prima da un lato e poi dall'altro. Bagnate con un bicchiere di vin bianco, aggiungendo poi sale, pepe bianco, 3 cm di concentrato di pomodoro in tubetto e infine la cipolla (e la carota) gia' stufate. Abbassate il fuoco al minimo, coprite, muovendo spesso gli ossi buchi perche' non si attacchino e grattando dolcemente il fondo della pentola con una spatola di legno.
    Lasciate cuocere un'ORA E MEZZA. Eventualmente aggiungete qualche cucchiaio di brodo, ma poco poco. Unite la gremolada, un mezzo mestolino di brodo, girate gli ossi buchi da entrambi i lati... tre minuti ed ecco fatto.

    L'accompagnamento ideale, va da se', e' un risotto giallo, ma leggero leggero e con pochissimo parmigiano, se proprio ci tenete.



    (gennarino)
     
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  14. gheagabry
     
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    Un pò di storia culinaria : il Vitello Tonnato

    Il celeberrimo (ed estivo) piatto di Vitello tonnato pare abbia antiche origini lombardo-piemontesi, senza nessuna traccia di pesce, e che il tuo nome fosse Vitello tannè, che significa conciato, accomodato e che nulla abbia a che vedere con la cucina della confinante Francia, dove non si trova nessun riscontro della ricetta italiana.
    I tagli di carne utilizzati sono la rotonda della coscia, o il girello, o il magatello di vitello.
    Il breve è diventato il goloso piatto principale delle giornate estive, utilizzato in Piemonte anche come antipasto. La salsa che deve ricoprire le fettine di vitello ha alla sua base il tonno, e che divenne "tonnato" dalla definizione attribuitagli dall'Artusi nell'Ottocento.
    Comunque sia la ricetta la carne non deve essere eccessivamente cotta e mantenere la sua morbidezza; con l'utilizzo del tuorlo d'uovo sodo (sbriciolato), che serve ad aiutare a legare tutti gli ingredienti, fa la sua comparsa la maionese, elemento presente nella maggiore parte delle ricette odierne.
    La ricetta così detta "all'antica" non prevede la maionese e l'equilibrio dei sapori è legato al dosaggio e qualità degli ingredienti.
    Ultima notizia "curiosa" è che secondo la vecchia tradizione lombarda, il Vitello Tonnato (o Tannè) veniva servito caldo e solamente per i giorni di Ferragosto poteva essere servito freddo.
    (da A.I.C. n.210-2009)

     
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  15. gheagabry
     
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    Ho ciappà i pussé mej di condiment
    I ho messedà cont i savor de la Brianza
    G'ho taccà là un grizzen de sentiment,
    Cont olî de gombet in abondanza,
    Adess disem, o gent, sa va fà nagott,
    L'é minga on portent 'sto Masigott?





    MASIGOTT

    La tradizione vuole che il termine masigott derivi a questo tipico dolce erbese, avvicinabile un po’ al pan meìn e un po’ ai dolci con la frutta, nella tipologia della miascia, dal fatto che fosse destinato, per la sua grossolanità, a persone goffe e vestite alla buona, in dialetto: masigott, appunto. Riteniamo piuttosto che masigott fosse termine da attribuire al dolce stesso, a causa della semplicità degli ingredienti e delle sue forme imprecise, che col passare dei secoli si sono però molto raffinate.

    Nello spiazzo che divenne la piazza di Sant’Eufemia ad Erba, in epoca romana si teneva un mercato conosciuto in tutta la Brianza. Alla metà di ottobre vi si svolgeva anche una festa di fine raccolto, durante la quale si preparava, in un grande paiolo, un’enorme puls di castagne e fagioli, con sfarinati di varia origine. Nel XVI secolo, la festa agricola fu trasformata in sagra religiosa e fissata alla terza domenica di ottobre, in concomitanza con la celebrazione del ricordo di sant’Eufemia nell’omonima chiesa antistante la piazza del mercato. Nel corso del ‘700, la farina di granturco divenne l’ingrediente principale nella preparazione della polentona di sant’Eufemia. Vuole la tradizione che da una elaborazione pasticcera di questo rozzo pastone abbia avuto origine il masigott, dolce che può essere considerato uno dei molti antenati del panettone, preparato con una miscela di farina gialla e bianca e frutta secca, che oggi è l’attrattiva alimentare della festa ottobrina di sant’Eufemia, conosciuta anche come sagra dei masigott.




    ...la ricetta...

    Ingredienti:

    UVETTA SULTANINA (300 g),
    FARINA DI FRUMENTO (400 g),
    FARINA DI MAIS (400 g),
    BURRO (già ammorbidito, 150 g),
    ZUCCHERO (250 g),
    UOVA (intere, n° 6 + 8 tuorli),
    NOCCIOLE (tritate, 200 g),
    VANILLINA (una bustina),
    LIMONE (la scorza grattugiata, n° 2),
    SCORZA D’ARANCIA CANDITA (a cubetti, 300 g),
    BURRO e FARINA (per lo stampo, q. b.),

    Esecuzione:
    Mettere a bagno l’uvetta in acqua tiepida.
    Mischiare tra loro le farine e sbattere le uova in una scodella.
    Montare in una terrina, con un cucchiaio di legno, il burro ben ammorbidito e lo zucchero.
    Aggiungervi le uova sbattute, la miscela di farina passandola al setaccio, le nocciole tritate, la vanillina, la scorza di limone e i cubetti di arancio candito.
    Scolare l’uvetta, strizzarla leggermente e incorporarla al composto.
    Imburrare e infarinare uno stampo da plum-cake, versarci il composto e infornare a 180°C per 45 minuti circa.

    Le versioni più antiche potevano avere nell’impasto anche fagioli lessi e castagne. Quelle più recenti non di rado ricorrono a una punta di lievito in povere per ottenere un minimo di lievitazione in un impasto che di per sé non lievita. E’ abitudine anche aggiungere un po’ di profumo con cannella o chiodo di garofano in polvere. Nelle pasticcerie talvolta si ricopre il masigott con una glassa di zucchero a velo e albume d’uovo, in cui possono essere incorporate lamelle di mandorle.

    .....l'ingrediente....

    Le scorze candite degli agrumiTra l’autunno inoltrato e il Carnevale è il periodo dell’anno in cui il Sole si trova al punto più basso rispetto all’orbita celeste della Terra. Ed è in questo periodo che gli uomini un tempo sentivano il bisogno di rafforzare la propria fiducia in un avvenire che all’alba dell’umanità doveva apparire affondato nella tenebra, con simboli rassicuranti, insieme apotropaici e propiziatori, che restituissero al sole un po’ della potenza perduta, associati anche agli alimenti, soprattutto a quelli rituali. Il dono natalizio per i bambini, nella società tradizionale, erano gli agrumi, massimamente le arance e i mandarini, frutti solari, che dell’astro celeste riproducono la forma, il colore e la capacità di superare l’inverno senza morire. Nelle società tradizionali, le scorze dell’arancio e del cedro candite rappresentavano, in quanto prodotto di conserva, arricchito di zucchero, una riserva di calore e di energia nei momenti del freddo più intenso, e per questo, non solo in Lombardia, entrano nella formulazione di quasi tutti i dolci di questo periodo, sia in quelli rustici (bisciöla) sia in quelli di pasticceria (panettone).




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43 replies since 12/9/2011, 20:53   13166 views
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