GRAFFITI - STREET ART

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  1. gheagabry
     
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    «..... il graffitaro è un ribelle
    che deve rinnovare la città direttamente "sulla strada" con i suoi disegni »


    I GRAFFITI


    La graffiti art è un’«arte di frontiera» nata da una contraddizione: quella «di usare come principale veicolo espressivo le scritte e i disegni tracciati abusivamente sui muri di edifici, vagoni, stazioni della metropolitana»
    Il principio del graffitismo, da cui in definitiva deriva la sua diffusione, é stato quello di produrre un'arte fuori dagli schemi e realmente rivoluzionaria, in primo luogo perché non vendibile (essendo realizzata su supporti quali i vagoni ferroviari o le pareti urbane) e quindi disorientante verso un sistema dell'arte in cui il Mercato ha finito spesso per innescare, diffondere, celebrare o bruciare singoli artisti e correnti. In secondo luogo perché questa espressione di creatività spontanea e dirompente ha saputo indirizzarsi direttamente al pubblico, senza l'appoggio di collezionisti, mercanti d'arte, critici e conservatori di musei. In sostanza l'origine del graffitismo (1970-75) costituisce un momento di rottura con il sistema dell'arte, anche se poi la forza, il potere e le seduzioni di quest'ultimo finiranno per assorbirne il significato di rito metropolitano, separando le combinazioni collettive e privilegiando gli esiti e le espressioni individuali degli artisti, trascinandoli nelle gallerie e nei musei e in qualche modo decretando la conclusione della parabola artistica del fenomeno. E' il caso di Keith Haring, il più valido esponente della Graffiti Art.
    L'artista ebbe il merito di promuovere per primo l'uso di dipingere, scrivere e disegnare sulle pareti e sui treni del metro, sfidando con la sua esuberanza le autorità che proibivano tale pratica. Haring, che é scomparso giovanissimo, disegnava sagome di uomini con il simbolo dell 'atomica sulla testa, cani che abbaiano contro il video del televisore o davanti alle immagini dei manifesti. Sono schizzi rapidi e sintetici che raccontano le ossessioni dell'artista o commentano ironicamente i cartelloni della pubblicità ufficiale.


    «Dire che non è arte è un errore storico. Chi lo fa non pensa alle chiese dipinte del Medioevo, ai graffiti monocromi di Polidoro e Maturino, all’età greca o al Rinascimento. Certo, poi è arrivato il neoclassicismo è tutto e diventato grigio. Il risultato sono le nostre città di oggi».
    (Arturo Carlo Quintavalle)




    Nessuno conosce la sua identità:
    una studiosa all'inseguimento del writer più famoso di tutti i tempi.....


    BANKSY



    E dunque la coppia di obesi, allegri turisti occidentali immortalati nell’atto di inquadrare col cellulare il magro bambino asiatico che tira il risciò appena noleggiato. E i poliziotti in tenuta antisommossa che corrono felici, tenendosi per mano o annusando fiori. E gli scimpanzé dall’aria pensosa o perplessa, ma seria, seduti sui banchi del parlamento. E la bambina vietnamita con la pelle bruciacchiata dal napalm, tenuta per mano da due figure ridenti, Topolino e Ronald McDonald. E Burt Simpson che a scuola, sui muri della sua aula, scrive migliaia di volte «Non devo scrivere sui muri». E il granatiere di guardia che, posato il fucile, la fa contro il muro. E i trompe-l’oeil realizzati su un altro muro, quello costruito dal governo di Israele sui territori occupati della Cisgiordania, squarci che permettono di vedere che cosa c’è dall’altra parte, spiagge, bambini che giocano. E la bambina palestinese che perquisisce il soldato israeliano. E naturalmente i topi, da sempre odiati e perseguitati dagli umani. Tanti, tantissimi topi (in inglese, «rat» è l’anagramma di «art»), a seconda dei casi armati di mitra o di microfono, con gli occhiali di strass o la maschera antigas.

    Nessuno conosce l’identità dell’autore di tutto questo e di molto altro, anche se ormai si tratta di una celebrità non solo nel mondo della street art. Lui si firma Banksy, e probabilmente è nato a Bristol intorno alla metà degli Anni Settanta, visto che è alla fine del decennio successivo che i suoi primi «pezzi» iniziano a comparire sui muri di quella città sotto il nome di Kato o Tes. Ma ora è Sabina De Gregori, nata a Ginevra e residente a Roma, a mettersi sulle tracce del writer più famoso di ogni tempo: il suo Banksy. Il terrorista dell’arte (Castelvecchi) è infatti un ibrido a metà tra il catalogo d’arte, ancorché da strada, e il rapporto redatto da un’agenzia di investigazioni private.



    Partendo dai primi graffiti e dalla scena di Bristol sul finire degli Anni Ottanta, l’autrice arriva ai giorni nostri con il film presentato in absentia da Banksy al Sundance Festival di quest’anno, Exit Through the Gift Shop. E lungo la strada raccoglie indizi sulle tecniche (principalmente lo stencil) e sui maestri (il writer parigino Blek le Rat, antesignano del genere, che curiosamente adottò questo stile dopo essersi ricordato di aver visto su un muro di Padova un volto di Mussolini riprodotto proprio con lo stencil), rintraccia in quel di Londra le opere sopravvissute anche perché ormai quotate e quelle «fantasma» che sono state improvvidamente cancellate, analizzando i meccanismi di costruzione di un personaggio entrato a far parte dell’immaginario collettivo senza mai comparire di persona: cosa fuori del comune, nell’epoca della sfrenata esibizione di sé in cui viviamo.
    Dopodiché, grazie forse al fatto di essere trapiantata a Roma, il che le dà un certo vantaggio sui critici d’arte britannici, la De Gregori accosta Banksy a Pasquino, il grafomane del Parione assai dotato per la satira in rima. L’opera del misterioso protagonista della guerrilla-art infatti è senza dubbio una satira contro il potere paragonabile agli sberleffi del famoso poeta popolare, tanto irriverente da guadagnarsi una condanna a morte da parte di papa Benedetto XIII. Banksy e Pasquino, scrive l’autrice, «concentrano la comunicazione nelle strade, sotto gli occhi dei cittadini, contribuendo a rendere ancora più pubblico il paesaggio urbano». Non si tratta qui di imbrattare confusamente la città, ma di sfaldare le icone della società contemporanea «tramite un’ironia allo stesso tempo elegante e brutale e mettendo in ridicolo le molteplici contraddizioni che fanno parte del nostro tempo».



    A chi accusa gli autori di graffiti di deturpare le città, Banksy ribatte che i veri imbrattatori sono altri: «Le persone che davvero deturpano i nostri luoghi sono le compagnie che scarabocchiano con slogan giganti i palazzi e gli autobus, cercando di farci sentire inadeguati se non compriamo le loro cose». Si può essere o no d’accordo (che la pubblicità guasti il paesaggio è innegabile; altrettanto tuttavia si può dire della maggior parte dei graffiti, per tacere del cosiddetto guerrilla-marketing, che talvolta si traduce in graffiti prodotti da pubblicitari d’avanguardia per conto dei grandi marchi), ma certo il personaggio non è esente da contraddizioni. Il suo disprezzo per il sistema dell’arte contemporanea, visto come un mondo autoreferenziale dominato dal denaro e rivolto a un’élite, si scontra con il palese desiderio di farne parte. La sua ormai leggendaria abilità nell’intrufolarsi nei più importanti musei del globo per esporvi opere irriverenti di fianco a quelle ufficiali è certo un modo efficace per ridicolizzare le istituzioni e le loro misure di sicurezza, anche perché talvolta succede che per giorni nessuno se ne accorga; ma è anche un modo per entrare in quel circuito, vedi il caso del British Museum, che ha deciso di tenersi il finto frammento di roccia dove un uomo tracciato da Banksy con lo stile dei graffiti primitivi spinge un carrello della spesa. Nel 2007, in occasione di un’asta da Sotheby’s, un esperto ha dichiarato: «È l’artista di più immediata crescita che si sia mai visto». Per dire: quello stesso anno il solito duo formato da Brad Pitt e Angelina Jolie ha speso più di un milione di dollari in opere di Banksy in una galleria di Soho. E c’è chi ha paragonato l’atteggiamento del Nostro ai Situazionisti e ai Sex Pistols.
    Malgrado qualcuno sia riuscito rocambolescamente a intervistarlo, Banksy rimane a tutt’oggi inafferrabile, e non a caso il sottotitolo del volume recita «vita segreta del writer più famoso di tutti i tempi». Galleristi che hanno venduto le sue opere sostengono di non averlo mai incontrato di persona. Sabina De Gregori da parte sua individua in un certo Robin Gunningham, di cui esiste una sola foto scattata durante un viaggio in Giamaica, l’indiziato principale. Resta da dire che quello della studiosa romana è il primo tentativo italiano di biografia dell’artista (da giovane). E resta da riportare la citazione di Emile Zola che chiude il volume: «Odio le persone stupidamente serie e quelle stupidamente allegre, gli artisti e i critici che proclamano scioccamente che la verità di ieri è la verità di oggi. Non capiscono che stiamo andando avanti e che il paesaggio cambia».

    (Articolo di Giuseppe Culicchia per La Stampa, sab 27 novembre 2010)




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  2. gheagabry
     
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    Anche la bomboletta di spray del graffitaro, in buone mani (in questo caso quelle di The Miha Artnak), è capace di fini sfumature...



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  3. gheagabry
     
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    KENNY RANDOM

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    Non è soltanto un artista che si è fatto da sè. E’ uno che i primi lavori li ha realizzati di nascosto, a notte fonda per le strade di Padova, stando attento di non essere scoperto dalle forze dell’ordine. Finché anche il graffitismo è stato sdoganato e promosso al ruolo di espressione artistica. Con il suo vero nome Andrea Coppo, quarantenne padovano, lo conoscono in pochi, ma come Kenny Random è un’altra cosa: è diventato un creativo apprezzato in Europa, ma anche oltre Oceano, uno dei più quotati «street artist» del mondo. Schivo e per nulla amante della mondanità, circondato da un’aura di mistero che vuole mantenere tale, Kenny preferisce comparire il meno possibile nelle occasioni ufficiali e non farsi fotografare. «Sono le mie opere a parlare per me, non la mia immagine », dice.



    Del nottambulo degli anni Ottanta, quando vagava in cerca di «muri adatti» su cui sbizzarrirsi con smalti e bombolette spray, mantiene umore e fantasia. Ma è anche il ragazzo che si guadagnava da vivere tra il ’95 e il ’98 facendo il giocoliere per le vie di Londra. E’ grazie al suo osare che è diventato un artista affermato a livello internazionale, di quelli con la «A» maiuscola. «Un giorno mentre mi esibivo come giocoliere nella city- racconta- mi vede un amico e mi fa conoscere il proprietario della linea di abbigliamento "Blunt". I miei lavori gli piacciono e così compra alcuni disegni che diventano parte della collezione dell’estate 1998». Ma prima dell’esperienza inglese, Kenny Random aveva bighellonato per la Florida, girando di marciapiede in marciapiede col suo skateboard fino a sbattere contro un negozio che vendeva surf. «Ha un marchio bruttino e così entro e alla proprietaria gliene propongo uno mio. Quella mi ascolta, mi guarda strana, io le sparo un prezzo che le sembra caro; così esco. Ma lei mi rincorre e mi dà l’incarico. Poi quando sono di nuovo in Italia, mi arriva un biglietto aereo Roma-Miami. Mi chiamano a disegnare la linea d’abbigliamento "Urban Pilgrim" e a coordinarne l’immagine e le campagne pubblicitarie per qualche anno».

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    Il suo tocco d’artista si sposta dai muri della città agli oggetti di uso quotidiano, mantenendo intatto lo stile e l'ispirazione. L’artista ha curato anche la collezione KennyRandom di T-shirt, trolley, bags, foulard, teli mare e tazzine da caffè. Tutti rigorosamente caratterizzati dal suo tratto inconfondibile. La sua ascesa è stata un susseguirsi di incontri avvenuti nei posti giusti, con le persone giuste, come nel 1999 quando al Beach Festival presentò la sua linea d’abbigliamento "Sleep". «Lì conosco il proprietario della "Roces", leader mondiale di pattini in linea, che dopo poco mi contatta per avere entro due giorni due campagne pubblicitarie per una nuova linea. Io rispetto i tempi e lui mi firma un contratto anche per tutte le altre campagne dell’azienda». Con un’attrezzatura video professionale, ha seguito in California Daniel Cardone, uno dei migliori skater del mondo, filmando tutto quello che lo attraeva e presentando poi il lavoro finito a Mtv Europe che gli commissionò 20 clip a tema skater e surfer.

    Sempre per Mtv andò nel 2002 a Genova girando un corto sul G8 trasmesso in Europa, America, Australia. Oggi Andrea Coppo, in arte Kenny Random, di cui i muri di Padova rivelano ancora il passaggio, è raccontato in questo libro che ne sintetizza gli anni salienti: la prima parte rievoca i suoi interventi in città, ma anche scorci del suo studio e dettagli dei suoi lavori; la seconda riunisce ciò che Kenny Random ha fatto dal 2000 ad oggi. La mostra allo Spazio Tindaci di Padova resterà aperta fino al 16 gennaio. E tutto è nato da quel primo segno degno di importanza che ricorda, un omino nero disegnato nel 1986 sul muro del cinema Eden in piazza Cavour a Padova, quando era ancora un quindicenne studente di grafica pubblicitaria all’istituto "Ruzza". Kenny è l’artefice di Angel, Lady lies, July, tutti personaggi che in questi anni di anonimato artistico, hanno tappezzato i muri di tutta Europa con la loro vena di malinconico umorismo.
    (Roberto Brumat)

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    Edited by gheagabry1 - 1/2/2023, 15:53
     
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  4. gheagabry
     
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    R O A

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    All’origine dell’arte di strada c’è un atto cosciente o disinteressato, quello di scegliere gli spazi pubblici, ovvero le strade, oltre ai musei. Da allora, diversi artisti sono stati accolti nei musei e sono stati in grado di vendere la propria arte, come l’artista francese Ben. A Londra, è l’artista belga Roa che ha liberato un’affascinante collezione di animali sui muri della capitale.
    Lo stile di Roa è a dir poco distintivo. Se vi è capitato di vedere un animale gigante e di malumore dipinto su un muro, avete visto un’opera di Roa. La sua collezione di animali in bianco e nero si estende tra Shoreditch e Hackney, come mostra la mappa. Scoiattoli, lepri, strane donnole, uccelli assortiti, alcuni di essi rappresentati con le interiora in mostra, altri semplicemente raffiguranti le ossa. E’ una collezione abbagliante, sconvolgente, dannata, bella che merita l’acclamazione generale.
    La maggior parte di queste opere è finita, la scorsa primavera, per creare una mostra “da solista” di Roa alla Pure Evil Gallery (Londra). Sebbene alcune di esse siano state rimosse o aggiunte da allora, la maggioranza è rimasta. Le opere di Roa necessitano di molto tempo per essere dipinte ed egli lo fa previo rilascio di un permesso, per favorire la longevità dei suoi lavori.(dal web)


    London-Street-Art-Roa-MartinRon-2014

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    Edited by gheagabry1 - 1/2/2023, 16:00
     
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  5. gheagabry
     
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    A differenza del classico graffito, dipingere le strade solo con il gesso, facendoli apparire vivace, divertente e interessante. L'unico 'problema' è che i 'quadri' simile possono essere visti solo da un angolo specifico. Beh, incontrare il lavoro di artisti come Edgar Mueller, Julian Beever e Kurt Wenner è emozionante.

    EDGAR MULLER

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    JULIAN BEEVER

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    KURT WENNER


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    Edited by gheagabry1 - 1/2/2023, 15:51
     
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  6. gheagabry
     
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    ALEXANDRE FARTO


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    Alexandre Farto, l’artista urbano noto come Vhils che gratta i muri, per creare insoliti ritratti. La curiosità mi ha fatto sfogliare il suo portfolio. L’opera muraria di Londra è molto bella, ma ci sono altre ancora più coinvolgenti.
    A Vhils si deve la brillante idea di utilizzare la tecnica dell'acquaforte (una delle tecniche più antiche dell'incisione) per realizzare le sue opere sui muri e pareti. Per chi non lo sapesse, l'acquaforte è una tecnica calcografica molto diffusa consistente nel corrodere una lastra di metallo (zinco di solito; rame per grandi tirature, come nel passato) con un acido, per ricavarne immagini da trasporre su un supporto. L'artista portoghese, ha pensato che la stessa tecnica potesse essere riportata sui muri (quasi sempre fatiscenti) e che lo stesso acido potesse anche corrodere le pareti, dopo mesi e mesi di sperimentazioni su acidi, esplosivi, pareti e materiali diversi, oggi Vhils è uno tra gli street artist più conosciuti e affermati nel mondo, grazie anche ad una tecnica che difficilmente ripetibile da altri.
    Artista portoghese che vive a Londra, Vhils attraverso questa sua tecnica, evoca il ruolo che le mura pubbliche avevano ai tempi della rivoluzione portoghese. Spazi attraverso i quali la massa comunicava. Non che questo oggi non avvenga, ma il ruolo è stato ricoperto esclusivamente dalla comunicazione aziendale e pubblicitaria. Vhils, riporta allora in vita il fenomeno, andando a scorticare il tessuto (con scalpello, martello, acidi e altri mezzi), per far emergere la vera natura delle cose. E proprio distruggendo (spesso la stessa pubblicità), crea qualcosa di nuovo.


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    Edited by gheagabry1 - 1/2/2023, 16:09
     
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  7. gheagabry
     
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    I dipinti interattivi di Ernest Zacharevic




    In occasione del George Town Festival, una manifestazione artistica della durata di un mese che viene celebrata ogni anno a Penang, in Malesia, questo giovane creativo lituano ha realizzato una serie di graffiti che stanno letteralmente trasformando in opere d’arte viventi i residenti, perché li invitano a una partecipazione alla quale è difficile resistere.





    I murales di Zacharevic, infatti, ritraggono bambini in bicicletta, in moto o in barca rappresentati a grandezza naturale su mezzi reali (a parte la barca, ma vabbe’, quella è già sospesa sull’acqua grazie alla scelta di utilizzare la parete di una casa-palafitta), coinvolgendo gli spettatori-passanti in giochi che danno vita a una nuova forma di creatività, rappresentata dalle foto che gli abitanti di Penang si scattano o si fanno scattare in ‘pose interattive’ con i disegni.




    “Questa è l’arte di strada al suo meglio, quando smette di essere un’opera individuale e diventa parte dell’immaginazione pubblica“, spiega Zacharevic. E i suoi dipinti sono coinvolgenti in un modo a dir poco inaspettato: la coppia di bambini che, in sella a una bici, sembra imboccare una discesa a tutta velocità, con il più piccolo abbrancato alla sorellina con gli occhi chiusi per non vedere, è diventato meta di un vero e proprio pellegrinaggio, con le persone che si ingegnano per diventare parte del ‘gioco’ dei due fratelli, saltando, correndo, fingendo di fotografarli in corsa.



    Una partecipazione così sentita che, a un certo punto, l’artista ha iniziato a incoraggiarla, invitando tutti coloro che si scattano una foto con il murales in questione a pubblicare l’immagine sulla sua pagina Facebook che, a oggi, conta già più di 100 ritratti. L’idea è di premiare poi due ‘vincitori’: uno per la foto più creativa – a insindacabile giudizio di Zacharevic stesso – e uno per il maggior numero di like ricevuti.



    .kreathink.it
     
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    LA MIA TELA E' IL MONDO

    J R


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    Il numero di telefono che lampeggia sul display fa pensare inequivocabilmente a Parigi o, al massimo, a uno dei suoi tanti sobborghi. Ma quando si parla di JR, nessun omaggio all’eroe cattivo di Dallas (è lui stesso ad assicurarlo), potrebbe essere qualsiasi città del mondo, una di quelle stesse che il fotografo- artista-graffitaro invita a recuperare con i suoi lavori («I più hippy dal tempo di Banksy» come li ha definiti il «Guardian»), coinvolgendo direttamente chi ci abita, spesso ai limiti della condizione umana.

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    Come quando, a Morro da Providencia, la più pericolosa favela di Rio de Janeiro, o negli slum di Kibera, in Kenya, aveva tappezzato i tetti e lemura delle case con i volti delle donne, rigorosamente in bianco e nero, che lì vivono, «per ricordarne la povertà». O come quando, nel 2004, subito dopo les riots dans les banlieues, aveva rivestito il Marais con i ritratti di una generazione, quella stessa (fatta di giovani molto arrabbiati) che era appena scesa in strada. Di quest’eroe della street art che con Face2Face, la più grande esposizione d’arte non autorizzata mai allestita, aveva rivestito in Medio Oriente il muro tra palestinesi e israeliani, si sa che è nato (forse) a Parigi nel 1983, che dietro quella sigla ci sono (ancora una volta forse) le iniziali del suo nome e che tutto è iniziato con una macchina fotografica trovata nel metrò di Parigi. Di certo ci sono un Ted Prize nel 2011 per la sua ispirazione eccezionale (da qui è nato il progetto Inside Out che si concluderà nelle città italiane); la parete della Tate Modern rivestita con una delle sue monocromie, una sua stampa (Ladj Ly) veduta nel 2009 per 26.250 dollari (all’epoca un record nel genere).

    La sua è un’arte che mette insieme fotografia, serigrafia e incollaggio guardando a Ernest Pignon-Ernest («per la vicinanza del suo lavoro), agli impacchettamenti di Christo, a Warhol e Basquiat «per l’uso che fanno della strada», alla fotografia secondo Doisneau, Cartier-Bresson, Arcibald Reiss. Per una serie di progetti — azioni letteralmente «senza confini» — che vedono protagonisti i poveri, i dimenticati. O che si trasformano in mostre-installazioni-eventi come a Bruxelles, Londra o New York.

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    Dunque, un artista senza volto e soprattutto senza terra. A Los Angeles, per uno dei suoi lavori più recenti, ha utilizzato un vecchio serbatoio per l’acqua, in cima a un grattacielo: un luogo invisibile, qualcosa che di fatto «nessuno sa nemmeno che esiste». Lo conferma nell’intervista concessa in esclusiva a «la Lettura», un’intervista che anticipa l’uscita in Italia (per la casa editrice «L’Ippocampo» del suo Women are Heroes).

    Dove trova la sua ispirazione?

    «Dal mondo»

    La scelta dell’anonimato potrebbe però apparire dettata da motivi pubblicitari, di mercato…

    «All’inizio è stata solo una scelta obbligata, di fatto era l’unica strada per me percorribile. I miei lavori erano e sono illegali, perché realizzati senza chiedere autorizzazioni, in spazi spesso proibiti. Ancora adesso potrei finire in prigione».

    Non le pesa non essere conosciuto quanto forse meriterebbe?

    «Un po’. A volte mi piacerebbe poter uscire dall’anonimato, ma d’altra parte credo che sia proprio grazie al fatto che nessuno conosca il mio nome che posso spostarmi e lavorare con tranquillità. È l’anonimato che mi permette di lavorare sotto traccia, in totale libertà».

    Ci sarà almeno un posto al mondo a cui è legato più degli altri?

    «No, non amo nessuna città in particolare. Parigi, Roma o Rio hanno per me lo stesso valore, quello che conta è che siano realtà dove sia possibile interagire, dove sia possibile coinvolgere direttamente le persone, costringendole in qualche modo a prendere coscienza di quello che sono. Insomma, amo tutti gli angoli dove posso creare i miei lavori».

    Per i suoi ritratti sceglie però sempre, o quasi, angoli e spazi particolarmente degradati, sia che si tratti di Phnom Penh o di New Delhi, di Los Angeles o del Kenya. Qual è la ragione?

    «L’arte per me deve essere prima di tutto partecipazione. E in quei sobborghi dove spesso è letteralmente difficile vivere è anche molto più facile coinvolgere le persone, perché sono realtà senza mediazione e senza protezione. Quando cerco uomini o donne per i miei progetti, li trovo sempre e sono sempre persone disposte a raccontarsi e a mettersi in gioco. E sono situazioni dove io stesso posso lavorare con estrema libertà, non ho bisogno di avere un nome per tappezzare una casa con i miei volti di donne. Mentre in una situazione normale non sarebbe certo così facile».

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    Ma nel suo caso, vista anche la celebrità ormai raggiunta, non potrebbe scegliere di puntare di più sul circuito delle grandi gallerie internazionali?

    «Sono forse famoso, ma non sono certo ricco. Perché non ho avuto né ho adesso sponsor, né mercanti d’arte alle spalle. Quindi, oltre che per motivi ideologici, non mi potrei comunque permettere di esporre in gallerie di grande nome: non ho i soldi sufficienti. La mia galleria d’arte, d’altra parte, è la più grande in assoluto, perché è il mondo».

    Anche alla Biennale d’architettura di Venezia il tema di fondo è quello della ricerca di un «common ground», di un terreno comune capace di far incontrare arte, architettura e società…

    «Gli edifici sono per me come delle grandi tele su cui creare. L’importante è che siano in posizione strategica, dove l’interazione sia massima».

    Ma l’arte può davvero cambiare il mondo? Insomma cosa è cambiato nelle favelas di Rio dopo i suoi interventi legati al progetto «Women are Heroes»?

    «I miei lavori suggeriscono il cambiamento, non hanno la pretesa di mutare quello che è impossibile. Ma certo chi è stato coinvolto nei miei progetti, non è più un senza nome, ha acquistato lui stesso una nuova dignità. E soprattutto una consapevolezza. E poi è positivo che certe case dove ho realizzato i miei lavori siano ancora in piedi mentre già da tempo avrebbero dovuto essere abbattute. In fondo è come riconoscere un valore anche alla mia arte».




    A proposito di arte. Come definirebbe la sua? Giusta o meno la definizione che danno di lei come di un graffiteur?

    «No, è una definizione francamente limitativa. Sono prima di tutto un artista. Non sono solo fotografo, scultore, pittore. Piuttosto sono un artista libero, senza confini e senza limitazioni. L’idea di scegliere questi spazi degradati, come le dicevo, mi concede grande libertà. Perché è la libertà la cosa più importante».

    Come la chiamerebbe allora?

    «Io parlo spesso di un’arte infiltrante, non invitata, da piazzare sugli edifici delle periferie parigine, sui muri del Medio Oriente, sui ponti spezzati in Africa e nelle favelas brasiliane. Fatta da persone abituate a vivere con lo stretto indispensabile che scoprono qualcosa di assolutamente superfluo. E che a un certo punto non si accontentano più di guardare: vecchie signore che diventano modelle per un giorno, bambini che si trasformano in artisti per una settimana. Un posto dove tutti sono al tempo stesso attori e spettatori»

    I suoi sembrano ritratti classici dilatati al limite del possibile.

    «La mia idea è prima di tutto quella di raddoppiarne la forza, di intensificarne l’effetto. Ma non devo niente alla tradizione, perché non guardo ai classici, non mi ispiro a loro, ma piuttosto ne prendo le distanze come le prendo, in fondo, anche dai media. La mia ispirazione è la realtà, niente di più, niente di meno».

    Stefano Bucci




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    CORRIERE, LETTURA

    Edited by gheagabry1 - 1/2/2023, 21:21
     
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    NIKITA NORMEZ



    L'artista Nikita Nomerz è solito viaggiare in diverse città e trasformarle con i suoi graffiti.
    In un'intervista al quotidiano inglese The Telegraph dice di sè: «ho iniziato a scuola con i classici graffiti classici, ma crescendo mi sono interessato di più alla street art e ho iniziato tutta una serie di esperimenti. Ora fondamentalmente mi piace giocare con lo spazio e gli oggetti. Sono ispirato dal luogo stesso. Mi piace guardare la città e trovare un luogo interessante. Di solito non impiego tanto tempo per creare un lavoro, a volte ci metto meno di un'ora. Ma tutto dipende dalle dimensioni dell'oggetto e le mie idee».



















    focus.it
    Tutte le foto: © Nikita Nomerz
     
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    GRAFFITI A MIAMI

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    Alexis Diaz (Joe Raedle/Getty Images)


    In questi giorni a Miami è in corso l’edizione invernale di Art Basel, una delle principali fiere d’arte moderna e contemporanea. Sono arrivati anche decine di street artists da tutto il mondo per decorare i muri del quartiere di Wynwood. Il loro lavoro si colloca all’interno del progetto The Wynwood Walls, ideato da Tony Goldman, uno dei principali proprietari di immobili del quartiere. Nel 2009, spinto dal desiderio di rendere più ospitale una zona considerata pericolosa, Goldman mise per la prima volta a disposizione di un gruppo di artisti una serie di edifici, per farne decorare le facciate. Nel giro di tre anni Wynwood è diventata un’esposizione permanente a cielo aperto e la zona artistica più creativa di Miami.

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    Meggs (Joe Raedle/Getty Images)

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    (Joe Raedle/Getty Images)


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    Carlos Black Pacifier (Joe Raedle/Getty Images)



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    DAVI DE MELO SANTOS



    L’arte di trasformare in bello ciò che di bello non ha nulla. Questo fa ed ha fatto Davi De Melo Santos, un giovane artista brasiliano che vive a Catanzaro e che ha trovato nella recente crisi della spazzatura che il capoluogo, e non solo, sta vivendo una fonte di ispirazione. Sono tre anni e mezzo che Davi vive a Catanzaro, dove si è trasferito per seguire la moglie e qui ha portato avanti numerosi progetti con il centro polivalente di via Fontana Vecchia ed anche con il carcere minorile, dove ha tenuto lezioni di street art. L’arte di strada, quell’arte che oggi, come in altre occasioni in passato, lo ha portato ad essere rimbalzato sui social network di mezzo mondo come Facebook, dove la sua foto accanto alla spazzatura ridipinta.









     
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    Louis Gan in Penang, Malaysia

     
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    Addio a P183, il Banksy russo

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    E morto l'artista di strada russo che si firmava con la sigla "P183" e di cui si conosceva solo il nome di battesimo Pavel: veniva definito il "Banksy russo" per la grafica e il messaggio politico dei suoi interventi, tutti comparsi nei dintorni di Mosca, il più celebre dei quali forse sono gli occhiali che sbucano da una piazza innevata, con un palo della luce a fare da stanghetta. Pavel non aveva più di trent'anni, si dice 29. La notizia della sua morte prematura è stata diffusa dalla sua casa di produzione senza aggiungere alcun dettaglio. "Esprimere la propria opinione è una forma di difesa civile...voglio insegnare alla gente in questo paese a distinguere le bugie dalla verità, il bene dal male, ancora non sono in grado di farlo" aveva spiegato Pavel, che respingeva il paragone con l'artista britannico sottolineando il lavoro originale che aveva svolto negli ultimi 14 anni, in una recente intervista all'emittente televisiva Rt
    (ap, REPUBBLICA.IT)

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    A MILANO




    Il Piccolo Principe sui muri di via della Pergola 12




    Porta Ticinese





    “Music is a Neverending Journey” - Navigli




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    Quartiere Ortica





    Parco di CityLife

    Uno dei murale più lunghi del mondo: ben 120 metri di muro, W.A.L.L. (acronimo di Wall Are Love’s Limits). Al centro del murale brilla un sole accecante che crea ombre di alberi più o meno definite, mentre il filo spinato è disegnato dai nomi dei cinque continenti, ripetuti con lettere piccolissime. A livello simbolico, questo muro verrà rimosso tra circa un paio d’anni, per volere dell’artista stesso: un messaggio contro tutti i muri del mondo, metaforici o meno.









    Edited by gheagabry1 - 1/2/2023, 21:42
     
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    PETER GIBSON

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    Vicoli traformati in tele a cielo aperto, incroci ripitturati ad arte, disegni su strada che rivoluzionano l'aspetto di una piazza. I fortunati abitanti di Montreal ci incappano spesso, quando si muovono a piedi. Proprio nella città canadese abita infatti Peter Gibson, mago degli stencil che ha fatto della street art la sua professione.

    L'asfalto è la sua base di lavoro preferita. Ogni angolo della città viene studiato a fondo prima di essere trasformato in un'opera di guerrilla art.

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    Edited by gheagabry1 - 1/2/2023, 15:06
     
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