SARDEGNA PARTE 5^

LA LINGUA SARDA,CADDOS BIRDES,MAMUTHONES,SA SARTIGLIA,MALLOREDDUS,SEBADAS

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    BUONGIORNO ISOLA FELICE ... BUON RISVEGLIO A TUTTI


    “ ... Giungiamo dopo aver tanto parlato e tanto raccontato della Sardegna, al momento in cui dobbiamo parlare delle origini, della storia e tradizioni di questa splendida terra. Una terra che mostra in ogni suo gesto o manifestazione le proprie radici che affondano nelle più radicate origini; una terra nella quale le persone non parlano un dialetto, ma una lingua ... una terra e i propri abitanti che portano orgogliosi il vessillo della propria identita sarda e dicono con fierezza e orgoglio illimitati :” Deo so Sardu” e recitano come fosse una litania ... Deo so Sardu. In iscola m’an fatu istudiare, frantzesu, italianu cun s’inglesu, ma non b’at mastru chi l’epat cumpresu, ch’in sardu deo cherzo faeddare. Nelzan puite las dev’impreare, limbas anzenas coment’an pretesu cando so sardu e cussu l’ap’apresu primu ancora de poder caminare. Cun amore m’at dadu vida e brios, chie su sardu m’at fat’imparare, proende a mi lu fagher’ammentare cun dicios antigos, cando fin bios. Chi so sardu no ap’ismentigadu, che mama e babbu cun sos avos mios, ch’in Sardigna m’an dadu sos nadios pro esser sardu e che sardu fentomadu. Su sardu frades mios faeddade ca in meda lu sun’ismentighende, e gai chenz’onore sun bochende, coro e anima e ogni dignidade... Buon risveglio amici miei, anche oggi la mongolfiera ci accompagna in alto, nel cielo dei desideri e dei sogni e ci mostra il mondo visto da lì ...”

    (Claudio)



    LA LINGUA SARDA..CADDOS BIRDES..MAMUTHONES..SA SARTIGLIA..MALLOREDDUS, SEBADAS..PAGINE DELLA STORIA SARDA


    “Quello che altrove si è perso in Sardegna resiste, radicato nella vita delle comunità.Il sacro e il profano si mescolano. Echi di riti ancestrali, di culti pagani dispersi nell'ardore cristiano di marca spagnola.E le mille tetre leggende che ancora qualche anziano racconta vicino a su fochile.”


    “Il dialetto algherese odierno corrisponde alla lingua parlata in Catalogna fra la metà del secolo XIV e la fine del XVII, continuando a sopravvivere nonostante la cessata dominazione spagnola. Una lingua del '400, dunque, molto antica rispetto al catalano moderno che ha subìto i normali adattamenti e trasformazioni del passar dei secoli. Nonostante gli elementi della lingua nazionale, il nucleo dell'algherese è rimasto quasi intatto, permettendo di affermare che il catalano odierno di Barcellona è meno puro dell'algherese.”


    “Prima della distruzione dei boschi in Sardegna, la valle del Temo era una grande foresta di querce, sughere e con una vegetazione sottostante impenetrabile, dove vivevano tante specie di animali, tra questi, i leggendari Caddos birdes (cavalli verdi). La storia di questi cavalli selvatici pare sia molto antica ed estesa anche in altre località, ma a Monteleone questa leggenda è più radicata per detti e per aneddoti, e anche perchè qui esiste una località chiamata "Sa urmina de su caddu 'irde", dove l'orma del cavallo verde sarebbe impresso nella roccia; la località si trova a Monte Germinu. Il colore del manto verde pare fosse dovuto ad alcune specie di alghe che si sviluppavano favorevolmente tra il pelame dell'animale.”


    “Ed in Sardegna, in questa meravigliosa terra, vi sono numerosi centri, anche molto piccoli, che sono spesso teatro di un carnevale spettacolare. In Barbagia c’è Gavoi con la sfilata de "Sa Sortilla e' tumbarinos", Olzai con il rogo di "Zuanne Martis Sero" e "Ziu Baga Biu", Ovodda con il fantoccio Don Conte Forru che viene bruciato e gettato da un ponte, Mamoiada con i Mamuthones. Poi Marrubiu, Santu Lussurgiu, Ghilarza, Samugheo nell’oristanese che vede nella “Sartiglia”, che si svolge nel capoluogo, il carnevale più famoso di tutta l’Isola. Minore richiamo, seppure ricche sempre di tradizione, sono le feste che si svolgono nelle provincie di Cagliari, Sassari, dell’Iglesiente, dell’Ogliastra, del Medio Campidano, mentre nella neo provincia di Gallura, spicca su tutti quello di Tempio Pausania, il più noto tra i carnevali non etnici della Sardegna….Carnasciali Tempiesu..Così è detto in lingua locale il carnevale che si svolge a Tempio Pausania. Un carosello di maschere e carri che impazza per le strade e le piazze del centro, nelle sale da ballo e nei ritrovi della città.”



    “Nell'Anglona, la pratica dell'intreccio ha origini remote che risalgono alla Preistoria. Gli abili artigiani locali che si dedicano all'arte dell'intreccio danno vita a una notevole varietà di oggetti di cestineria esposti, in genere, sulle pareti delle case come oggetti d'arredamento, tipici soprattutto della casa rustica tradizionale. Secondo la località in cui vengono prodotti, varia la tipologia delle creazioni, e la materia prima utilizzata. Sono molto noti i cestini di Castelsardo, caratteristici rispetto a quelli prodotti nel resto dell'isola che rappresentano da sempre una ricchezza radicata nelle tradizioni artigiane del Nord Sardegna.”


    “ In una società rurale come quella dell' Oristanese, il calendario delle feste coincide con quello dei campi. Al ciclo invernale appartengono le feste di sant' Antonio che accendono di falò le piazze di quasi tutti i paesi della provincia ed introducono il Carnevale. La sera del 16 gennaio vengono accesi dei giganteschi fuochi in onore di S. Antonio Abate (Santu Antoni de su fogu), il santo eremita che, secondo quanto narra la leggenda, avrebbe rapito il fuoco all' inferno per donarlo agli uomini…Al ciclo primaverile appartengono i rituali pasquali. Processioni e rappresentazioni sacre di probabile origine spagnola, si svolgono in molti centri dell' oristanese…. il venerdì santo viene celebrato su Eiscravamentu, ossia la deposizione di Gesù Cristo dalla croce, che si può seguire immersi nella melodia di canti gregoriani del '400, fedelmente interpretati da giovani coristi…..Il 24 giugno, i festeggiamenti in onore di S. Giovanni Battista segnano l' avvento del solstizio d' Estate. Antichi riti, legati al mondo nuragico, come l'offerta santo dei nenniris (chicchi di grano o di altri cereali che, deposti in una ciotola vengono fatti germogliare al buio, per propiziare la fecondità e fertilità degli uomini, delle piante e degli animali) o la raccolta di erbe e di acqua a scopo magico-terapeutico, costituiscono l' ennesiva prova del sincretismo del mondo popolare sardo….Al ciclo estivo, infine, appartengono le grandi feste campestri che sanno di vino, di arrosto, di gare poetiche. Sui palchi si intrecciano danze antiche, rituali, come su ballu tundu, accompagnate dal suono delle launeddas o della fisarmonica. Si intonano canti in onore del santo che viene festeggiato (gosos) o strofe improvvisate il cui tema varia a seconda dell' occasione mutettus).”


    “L'ultima Domenica e l'ultimo martedì di carnevale si svolge ad Oristano Sa Sartiglia, un'antica giostra equestre risalente al 1600. Protagonista assoluto della manifestazione è Su Componidori, figura enigmatica e affascinante dalla bella maschera androgina che guida i cavalieri… Organizzata da due Gremi o Corporazioni, quello dei contadini la Domenica e quello dei falegnami il Martedì, ha inizio con la vestizione del capocorsa che si svolge in pubblico ad opera di giovani donne in costume, is massaieddas. Tra un rullio di tamburi e squilli di trombe avviene la trasformazione dell' uomo in semidio. Le mani esperte delle massaieddas prima lo vestono con la camicia immacolata, il giubbotto ed il cinturone, poi passano al viso. Lo incorniciano di fazzoletti, sistemano la maschera di legno, fissano il velo, posano il cilindro nero e, alla fine, appuntano la camelia…Su Componidori è seduto, immobile, su uno scanno poggiato su un tavolo cosparso di grano, di petali di fiori ed altri simboli di fecondità; da questo momento fino alla fine della corsa non potrà più posare piede in terra per non scaricare la sacralità acquisita. Dal tavolo, una volta conclusa la vestizione, monterà direttamente sul cavallo. Preceduto da un gruppo di trombettieri e tamburini e seguito da un corteo di cavalieri mascherati e dai costumi variopinti, su Componidori attraversa la città benedicendo la popolazione con sa pippia emaju, un mazzo di violette mammole legate ad uno scettro di steli di pervinca, simbolo dell'eminente primavera…La giostra si svolge nella via del Duomo dove, sospesa ad un filo di seta verde, pende la stella che i cavalieri dovranno infilzare con la spada correndo al galoppo. Dal numero delle stelle infilzate la popolazione, che segue la corsa con grande partecipazione, trae gli auspici per la prossima annata. La corsa alla stella termina con la figura del capocorsa che, supina sul cavallo al galoppo, benedice la folla con il mazzo di violette…Poco dopo, in un' altra via cittadina hanno inizio le corse de Is Pariglias, gruppi di due o tre cavalieri che realizzano acrobazie sui cavalli in corsa, nel tentativo di superarsi, esprimendo grandi doti di destrezza e di coraggio.”



    “Anche a Santu Lussurgiu, la festa più grande è quella del carnevale quando la sua gente si lancia in una delle più forti e straordinarie manifestazioni di temerarietà nella corsa dei cavalli detta carrela e nanti. Negli ultimi tre giorni di carnevale, lungo la via Roma in selciato e in pendenza, due cavalli per volta, montati da cavalieri eleganti in maschera, si lanciano in galoppate rapidissime nella via strettissima, tesi nello sforzo di correre in pariglia fino alla fine del percorso. E' uno spettacolo di grande emozione, una sfida fra gli uomini di Santu Lussurgiu per l'affermazione del coraggio, dell'abilità e della forza per la conquista del prestigio in seno alla comunità.”



    “Ancora elementi sacri ed elementi profani, cavalli e cavalieri nella manifestazione sedilese del 6 e 7 luglio in onore di San Costantino Imperatore. La corsa rituale dell'Ardia ricorda la vittoria di San Costantino su Massenzio: i cavalieri simulano il combattimento intorno allo stendardo del santo, la cui sconfitta costituirebbe il trionfo delle forze del male sulle forze del bene….Tempo storico e mito si fondono nel ricordo di antichissimi riti legati alla morte e rinascita della natura. Non a caso la festa si pone come dieresi fra la conclusione dei riti di primavera e il rito estivo della mietitura: ringraziamento per il raccolto ed espiazione del sacrificio che il contadino si prepara a compiere, cioè l'uccisione del campo con la mietitura del grano.”


    “Olmeda…la Mostra del Pane (inizio novembre) e il Presepe del Pane (a Natale) presso la Chiesa di N.S. di Talia. Per la Mostra del Pane vengono allestiti diversi stand dove si espongono i vari tipi di pane per uso quotidiano e per le occasioni speciali. Si ricordano in particolare: su cozzulu de s’ou, un tipo di pane a pasta dura sfornato in occasione delle festività pasquali, realizzato in varie fogge (treccia, cestino, corona, ovale, a cuore, fantasie varie) che contiene al centro un uovo sodo; il risultato finale è quello di una specie di uovo pasquale tradizionale che viene consumato durante la Pasquetta e che, in particolare, si regala ai più piccoli. Poi vi sono su pane russu, pane di pasta dura lavorato a varie fogge (a battos melas, lotura, a ferru de caddu), su pane oltadu in telu, pane generalmente di forma allungata fatto lievitare su appositi teli che ricoprono i pani a mo’ di nido d’ape; è un pane quotidiano da tavola che va servito tagliato a fette, per via della sua consistenza e che ben si adattava agli uomini che andavano in campagna per rimanervi per più giorni. Due i tipi di pane chiamato su pane fine: quello per le grandi occasioni (festa di Maggio, matrimoni, cresime, prime comunioni) pane fine piccadu (ricamato), la cui lavorazione del tutto particolare, dalle varie forme ellittiche e decorato con motivi floreali, sottolinea la sacralità dell’avvenimento, e il pane fine tradizionale, per tutti i giorni di foggia ellittica semplice e privo di ornamenti; questo pane, data la finezza della pasta e quindi di difficile lievitazione, viene solitamente prodotto nei periodi più caldi, da aprile a ottobre. Poi c’è sa covazza berda, pane sfornato in occasione dell’uccisione del maiale, proprio perché la farina viene impastata con il grasso maiale (berda) che si ottiene dalla lavorazione (scioglimento) de s’assunza, e con l’aggiunta di uva passa e zucchero in superficie; è un pane che può essere considerato anche un dolce. Su coccu, è un pane tipo focaccia per tutti i giorni che si ottiene dopo una lunga lievitazione; il risultato finale è un tipo di pane più morbido, rispetto alla focaccia tradizionale con una durata di circa una settimana; altra particolarità è che la lievitazione avviene dentro cestini di giunco e pertanto la superficie del pane assume la forma dell’intreccio del cesto stesso. Della tradizione olmedese fa parte il piatto tipico, su pane a fittas, la cui base è data dal pane raffermo. Strumento indispensabile per la decorazione dei pani speciali, sono sas improntas, particolari timbri che segnano il pane in sovraimpressione con figure varie di fiori, animali, frutti e motivi che richiamano l’artigianato locale, i quali variano a seconda della ricorrenza. Altra tradizione che si conserva in occasione delle festività pasquali è il rito di su sepucru (il Sepolcro). Consiste nel disporre, il 19 marzo, una buona manciata di grano duro su un piatto piano che ogni due/tre giorni viene innaffiato con acqua e conservato al buio dentro un armadio; questa procedura viene ripetuta fino al giovedì santo; il grano germoglia fino a raggiungere l’altezza di circa 20/30 cm., formando un suggestivo effetto floreale di forte impatto visivo. Il piatto, abbellito ed esaltato con dei nastri colorati, alle 11 del giovedì santo viene portato presso la chiesa di N.S. di Talia per l’adorazione del Santo Sepolcro; il giorno dopo viene ritirato e conservato nuovamente in casa. A Pasquetta viene portato nelle campagne per un rituale di benedizione delle stesse, usanza che fa pensare ad un rito di fertilità come auspicio per una buona annata. Il Presepe di Pane viene interamente realizzato con pane, che assume le diverse forme dei personaggi della sacra rappresentazione, richiamando per la sua particolarità migliaia di visitatori e fedeli affascinati da questa suggestiva visione.”



    “L'insularità, la cultura agropastorale e l'agricoltura caratterizzano la cucina sarda: semplice e nello stesso tempo originale, ricca di ingredienti e sapori fondamentali, priva di elaborazioni, aromatica di erbe e legna odorosa ma non piccante…Nella cucina sarda, i cardini sono le carni arrostite, i latticini, i salumi, il pane, i dolci e i vini….. tra le paste più conosciute dell'isola i malloreddus, preparati con la semola migliore e con acqua tiepida leggermente salata, che nella migliore tradizione gastronomica sarda venivano aromatizzati con zafferano. Il loro aspetto finale di conchiglia vuota…Il piatto tipico sono is malloreddus alla campidanese, con sugo di pomodoro, salsiccia a pezzetti ed abbondante pecorino grattugiato….. La fregula, pasta costituita da piccole palline confezionate a mano e tostate al forno.. I pillus è una pasta semifresca, simile ai tagliolini, cotta nel brodo di manzo o in quello di pecora e fatta precipitare in abbondantissimo formaggio pecorino fresco. Le panadas sono tortine salate farcite.. I culurgiones ogliastrini, conosciutissimi anche al di fuori della Sardegna, sono originali sacchetti di purè di patate, rosso d'uovo, pecorino fresco, cipolla e mentuccia……Il principale "protagonista" dei secondi è il porchetto, che la tradizione vuole infilzato su di un artigianale spiedo ricavato dal legno di corbezzolo con la sola aggiunta, durante la cottura, di sale e qualche goccia di lardo, e arricchito di erbe aromatiche come il mirto, rosmarino, alloro e salvia che conferiscono alle sue carni quel profumo e sapore inimitabile; il tutto "incorniciato" da una sapiente cottura……i saporiti arrosti di muggine e sempre di muggine lo scabecciu, ossia la marinatura dello stesso nell'aceto; l'aragosta alla vernaccia, pietanza in cui il nobile crostaceo viene impreziosito dai chiodi di garofano e dal delicato vino….Il pecorino Sardo DOC, è certamente fra i più conosciuti al mondo, fatto con latte di pecora intero conserva gli aromi di erbe incontaminate….Per i numerosissimi dolci sardi, le mandorle sono uno degli ingredienti più utilizzati; e proprio le mandorle tagliate a pezzetti compongono il gattò, oltre allo zucchero o miele e alla scorza d'arancio; is culurgiones de mendula (ravioli di mandorle), dolci tipici del carnevale; copulettas, dolci che ricordano in chiave rustica le meringhe; gli amaretti; i suspirus……Per le ricorrenze religiose più solenni, come Ognissanti e la commemorazione dei defunti, vengono preparati dolci come il pane 'e sapa o le pabassinas a base di mosto concentrato o sapa. Altri dolci conosciutissimi sono i pirichittus, i pistoccos, i mustazzoli, le pardule. Da non dimenticare forse i più caratteristici che sono a base di formaggio e miele, le sebadas."








    Sagre principali in Sardegna

    A gennaio

    In Sardegna feste e sagre si susseguno tutto l'anno: iniziano la notte del 16 gennaio con i monumentali fuochi votivi di cisto odoroso ed elicriso o di tronchi d'albero (a secondo delle regioni), accesi in onore di Sant'Antonio abate. È un momento di grande festa popolare e si consuma tra riti di ringraziamento e devozione con l'assaggio di vini novelli e caratteristici dolci (cotzuleddas, cogoneddas, su pistiddu). I falò notturni, costruiti a forma di cono, alti in alcuni casi anche 20 metri, sono molto suggestivi e raccolgono intorno al fuoco tutta la comunità. La costruzione del falò è preceduto dal trasporto del cisto, festa anche questa altrettanto importante, per i ricchi banchetti a base di porcetti, agnelli e capretti arrosto che accompagnano la raccolta delle frasche.

    Carnevale

    Febbraio è invece il mese del Carnevale ed in tutta l'Isola si tengono sfilate di balli in maschera o esibizioni di carri allegorici. A Cagliari i cortei di Carnevale sono rallegrati da alcune maschere storiche, come is paneteras, ovvero le panificatrici, is tiàulus, i diavoli, su caddèmis, il pezzente, sa fiùda, la vedova, su dotòri, il dottore, su sabatèri, il calzolaio, sa dida, la balia, al rullare incessante dei tamburi della Ratantìna. I festeggiamenti si chiudono il giorno di Martedi Santo con il rogo nel quale viene bruciato su Rei Canciofàli, il pupazzo di stracci. Molto belle sono le sfilate di Tempio Pausania, del Carnevale Guspinese, di San Gavino Monreale, di Iglesias, di Santu Lussurgiu ed il carnevale di Bosa (OR). A Santa Teresa di Gallura (OT) si svolge un carnevale subacqueo.

    Sa Sartiglia

    La Sartiglia (Sartilla o Sartilia) è una corsa all'anello di origine medievale che si corre l'ultima domenica e il martedì di carnevale ad Oristano. È certamente il Carnevale più spettacolare e più coreografico della Sardegna. Ricordi sfumati di duelli e Crociate, colori spagnoleschi, echi di nobiltà decaduta e costumi agro pastorali si sovrappongono come se le sequenze di un film fossero state montate a casaccio.

    Il vocabolo Sartiglia o Sartilla (come si diceva un tempo a Oristano) deriverebbe dal castigliano Sortija, che a sua volta ha origine dal latino sorticola, anello, diminutivo di sors, fortuna. Nel significato si coglie il senso della gara che è sì una corsa all’anello, alla stella, ma anche una festa legata alla sorte. Un evento nel quale è facile rintracciare reminiscenze di antichi riti agrari attraverso i quali i popoli chiedevano agli Dei la fertilità della terra e l’abbondanza del raccolto.

    Le radici della giostra sono sicuramente molto antiche e vanno fatte risalire ai giochi militari utilizzati per l'addestramento delle milizie. La loro introduzione in Europa è avvenuta probabilmente grazie ai Crociati intorno all'XI secolo, i quali a loro volta ne avevano appreso la pratica dai loro nemici Saraceni. In Sardegna, le gare cavalleresche di stampo orientale furono importate dalla Spagna, dove già le praticavano i Mori. La Sartiglia è presente ad Oristano dalla metà del XIII secolo. È probabile che molti giudici e donzelli del Giudicato di Arborea, educati alla Corte Aragonese (dove era praticato l’esercizio all’anello) una volta saliti al trono giudicale abbiano introdotto in città la Sortija o Sartilla spagnola. La gara subì molte evoluzioni e fu conservata con alcune varianti.Col passare del tempo e con l'introduzione della polvere da sparo, la lancia cadde in disuso e le giostre equestri vennero usate solo come esercizio per le reclute della cavalleria. Nel corso dei secoli la pratica della Sartiglia si mantenne viva dapprima come manifestazione delle classi nobiliari, poi borghesi coinvolgendo infine strati sociali prima esclusi, diventando in tal modo un’espressione di vita, di costumi e di cultura popolari. La tradizione vuole che, approfittando della confusione carnascialesca, la popolazione e i cavalieri locali dessero sfogo al profondo odio che provavano per i dominatori aragonesi e che, proprio per porre un argine alle risse sempre più frequenti e sanguinose, il canonico oristanese Giovanni Dessì istituisse nel 1543 legati a favore del Gremio dei Contadini e del Gremio dei Falegnami, per il mantenimento della Sartiglia (dove il corpo a corpo era vietato) e per sostenere le spese per il ricco pranzo da offrire ai cavalieri che partecipavano alla Giostra. La tradizione trova conferma nel fatto che il Gremio gode ancora oggi del lascito (su cungiau de sa Sartiglia) per il mantenimento della Giostra. Il registro delle deliberazioni del medesimo Gremio riporta inoltre la notizia della permuta di un chiuso "detto canonico Dessì posto in territorio di Oristano". Al 1543 si fa quindi comunemente risalire il passaggio della giostra da gioco riservato ai militari d'alto rango da ripetersi, probabilmente, più volte l'anno a manifestazione carnevalesca. La numerazione ufficiale parte comunque dal 1465 per cui l'edizione 2010 è stata la 545a.

    I protagonisti

    I Gremi

    I gremi sono le antiche corporazioni delle arti e mestieri. Il termine Gremio deriva dal mettersi "in grembo" cioè sotto la protezione di uno o più santi patroni. In Oristano fino al XIX secolo erano attivi sette Gremi: Muratori, Scarpari, Ferrari, Falegnami, Figoli, Sarti e Contadini. Ad oggi sopravvivono il Gremio dei contadini, sotto la protezione di San Giovanni Battista, quello dei falegnami, sotto la protezione di San Giuseppe e quello dei muratori sotto la protezione di Santa Lucia. Al Gremio dei Contadini è affidata l'organizzazione della Sartiglia che si corre la domenica, mentre quello dei Falegnami organizza invece la corsa del martedì. Entrambi sono custodi della tradizione ed è loro compito assicurarne lo svolgimento in qualsiasi condizione meteorologica, economica e sociale. La loro attività si svolge durante tutto l'arco dell'anno ed è strettamente correlata con la giostra equestre. In occasione della festività del santo patrono vengono rinnovate le cariche sociali e si procede alla nomina de s'Oberaju Majore (o Majorale), cui spetta il compito di scegliere su Cumponidori.

    Su Cumponidori

    La Sartiglia della domenica si svolge sotto la protezione di San Giovanni Battista, quella del martedì, organizzata dal Gremio dei Falegnami, sotto la protezione di San Giuseppe. Le usanze stratificate nel tempo fanno da contorno all’unico vero protagonista: su Cumponidori e la sua maschera androgina. È lui il Signore della Festa. Uomo e donna al tempo stesso, né femmina né maschio, su Cumponidori nasce nel corso di una vestizione pubblica, celebrata da ragazze che indossano costumi antichi. La Sartiglia comincia con la vestizione del Capo Corsa, uno dei riti più impenetrabili della tradizione sarda.

    Tamburini e Trombettieri

    Essendo la giostra di origine cavalleresca ogni momento è scandito dai ritmi dei tamburi e dai suoni delle trombe a sottolinearne l'importanza e contribuendo così alla sua solennità. Ogni passo ha il suo significato, viene tramandato da secoli e imparato a memoria. Il suono dei tamburi e gli squilli delle trombe hanno inoltre una funzione di sicurezza, avvisano infatti della discesa in pista di un cavaliere, invitando così a sgomberare il percorso per evitare incidenti. I ritmi:

    * Su passu de su Cumponidori (Il passo del Cumponidori). Accompagna il capo corsa dalla casa dell'Oberaju Majore del Gremio al luogo in cui avviene la vestizione; viene poi suonato durante la vestizione, durante la cerimonia d’incrocio delle spade, quando su Cumponidori riporta la spada al Gremio e prende su stocu ed infine durante la svestizione.
    * su passu de istrada (Il passo della strada). Eseguito durante la sfilata.
    * Su passu de sa gil. Viene eseguito quando scende in pista su Segundu Cumponi, assistente de su Cumponidori.
    * Su passu de tres (Il passo del terzo). Accompagna la discesa de su Tertzu Cumponi, aiutante di campo de su Cumponidori.
    * Su passu de s’atru Cumponi (Il passo dell’altro Cumponidori). Accompagna il percorso del capo corsa dell’altro Gremio che si porta alla partenza.
    * Su passu de is bachetas (Il passo delle bacchette). Accompagna su Cumponidori che si reca dal presidente del Gremio per ricevere sa pipia de maju con cui benedice la folla chiudendo la corsa alla stella.
    * Sa curreba (la corsa). Si esegue prima che inizi la vestizione de su Cumponidori, durante la discesa dei cavalieri alla stella, durante le pariglie acrobatiche ed infine quando su Cumponidori sveste la maschera. I tamburi tengono un ritmo che accompagna la corsa del cavallo, segnalandone la velocità crescente con il diverso rullare. È il ritmo che ha anche la funzione di avvisare il pubblico dell'arrivo di un cavallo al galoppo.

    I Momenti

    La Candelora

    L'organizzazione della giostra impiega cavalieri e gremi per buona parte dell'anno, ma è il 2 febbraio, festività della Candelora, il primo atto ufficiale in vista dell'evento. La mattina del due febbraio infatti i rappresentanti dei gremi si recano a messa, nella propria chiesa di San Giovanni dei Fiori quello dei contadini e in Cattedrale quello dei falegnami. Durante la cerimonia religiosa vengono benedetti i ceri il più grande dei quali, riccamente decorato con fiori e ornato di nastri è riservato a su Cumponidori. Al termine della cerimonia il presidente del Gremio, accompagnato dalle massime cariche del gremio stesso, si reca a casa del Cumponidori prescelto e gli consegna il cero benedetto, comunicando così in forma ufficiale a tutta la città il nome di colui che avrà l'onore di guidare la manifestazione, fino allora segreto. In tempi recenti, il nome del Cumponidori prescelto viene comunicato qualche mese prima della candelora, soprattutto per motivi organizzativi, ma la cerimonia non ha perso la sua solennità ed è comunque un momento emozionante.

    Il Bando

    Per lunghi secoli l’attività dei banditori rappresentava una delle principali fonti di informazione di un’intera comunità. Tale formula di comunicazione e di avviso pubblico non mancava di segnalare eventi e cerimonie importanti quali potevano essere spettacoli ed avvenimenti celebrativi. È verosimile che sin dalle più antiche edizioni, anche la corsa della Sartiglia venisse annunciata da un araldo nelle principali piazze della città. Attualmente non si hanno documenti storici relativi a questa fase della giostra che ormai da alcuni decenni, ad opera della Pro Loco cittadina, risulta istituzionalizzata e quindi parte integrante della manifestazione. La figura dell’araldo a cavallo e la lettura del bando risultano oggi i primi atti del giorno della Sartiglia. L’avviso della corsa viene dato nella mattina della domenica di quinquagesima, e del martedì successivo, partendo dalla piazza Eleonora, la piazza prospiciente il Palazzo di Città. Il banditore, scortato da alfieri recanti le insegne della città e accompagnato da tamburini e trombettieri, percorre le strade del centro storico cittadino, raggiunge i borghi più vicini, e, soffermandosi nei principali crocevia, da lettura dell’annuncio dell’imminente corsa. Per provvedere all’utile e nobile divertimento dell’intera comunità, l’autorità cittadina invita cavalieri e pubblico, per correre ed assistere alla corsa, a recarsi presso “sa seu de Santa Maria” ovvero nel piazzale antistante la cattedrale della arcidiocesi arborense. L’araldo rende note le volontà dell’autorità civica, l’orario d’inizio della gara e i premi riservati ai cavalieri vincitori che, secondo l’antica costumanza, dovranno cimentarsi nelle prove di abilità con la spada e la lancia, si comunica inoltre la disposizione affinché tutti i cavalieri partecipanti siano sottoposti al comando e all’ordine de “su Mastru Cumponidori”, ovvero del capocorsa già nominato.

    La Vestizione

    Sono i due Gremi a scegliere e selezionare chi, tra tanti aspiranti, vestirà i panni di su Cumponidori. C’è un antico rituale che viene rispettato e raggiunge il suo culmine nella vestizione del Capo Corsa, il giorno della gara. Un rito denso di sacralità, perché su Cumponidori deve essere forte, puro e coraggioso, deve diventare un sacerdote della fecondità, la cui purezza è legata —nella vigilia della Sartiglia— alla confessione e alla comunione.Il cavaliere prescelto si presenta, accompagnato da un drappello di tamburini e trombettieri, vestito con una maglietta bianca, calzoni corti di pelle aderenti e con stivali anch'essi di pelle. Accompagnato dal suono delle launeddas sale su un tavolo (sa mesita) vero e proprio altare, posto all'interno della sala, dove abbondano grano e fiori. Da quel momento, su Cumponidori non può più toccare terra (non podit ponnî pei in terra). Qualunque contatto diretto con la Grande Madre deve essere evitato perché egli conservi la purezza necessaria a gareggiare e vincere. A vestire il Cavaliere ci pensano sas Massajeddas, giovani fanciulle in abito sardo, guidate dalla loro maestra, sa Massaja Manna, mani esperte appartenenti a donne del Gremio. Al Capo Corsa non è nemmeno consentito di toccare gli abiti. È una vera funzione, un rito lungo seguito in silenzio da un numero ristretto di persone, i cui passi salienti sono sottolineati da squilli di tromba, rullare di tamburi e applausi, il cui culmine è il momento in cui viene cucita sul viso la maschera. L’espressione profonda di questa maschera trasforma su Cumponidori, lo rende inavvicinabile, inarrivabile. Da quel momento in poi, sino alla fine della corsa, il Cavaliere diventa un "semidio" sceso tra i mortali per dare loro buona fortuna e mandare via gli spiriti maligni. Alla fine su Cumponidori, vestito con in capo un cilindro nero, la mantiglia, una camicia ricca di sbuffi e pizzi, il gilet e il cinturone di pelle, sale sul cavallo che è stato fatto entrare in una sala disposta a religioso silenzio per non innervosire la bestia, gli viene consegnata sa pipia de maju e, completamente sdraiato sul cavallo, esegue sa remada per passare sotto la porta ed uscire all'esterno, dove lo attendono gli altri cavalieri e una folla plaudente che subito inizia a benedire.

    La Corsa alla Stella

    Ultimata la vestizione su Cumponidori, preceduto da un corteo in abito tradizionale sardo, dai membri del gremio e da tamburini e trombettieri, unitamente ai suoi luogotenenti su Segundu Cumponi e su Tertzu Cumponi, si mette alla testa di altri 117 cavalieri mascherati, con cavalli riccamente bardati, e si dirige verso la via Duomo. Qui, dopo aver benedetto la folla che lo attende, consegna sa pipia de maju a s'Oberaju Majore per riceverne le spade con cui effettuerà la cerimonia dell'incrocio delle spade: al di sotto della stella che è stata appesa sul percorso, per tre volte incrocia la propria spada con quella de su Segundu con evidente valore propiziatorio. Sarà poi lui stesso a poter tentare per primo la sorte, lanciandosi al galoppo con la spada tesa nel tentativo di infilzare la stella. L'onore sarà concesso poi dapprima ai suoi aiutanti di campo e poi, cavallerescamente, alla pariglia dell'altro Cumponidori. Il capo corsa concede via via la spada ad altri cavalieri, in segno di fiducia o di sfida nei confronti della loro abilità. Quanti e quali cavalieri avranno l'onore e l'onere di calcare la pista è sua esclusiva decisione. Una volta soddisfatto del numero di stelle colte per il proprio gremio e per la città, ritorna sul percorso per restituire le spade a s'Oberaju Majore e ricevere su stocu col quale tenterà ancora una volta di cogliere la Stella. Potrà concedere di sfidare la fortuna con quest'arma anche ai suoi luogotenenti, dopodiché, con in mano ancora una volta sa pipia de maju, lancerà il cavallo al galoppo e, completamente sdraiato su di esso, benedirà la folla con ampi gesti: è sa remada, con la quale dichiara conclusa la corsa alla stella e al termine della quale il corteo si riunisce per spostarsi nella via Mazzini, lungo la quale si corrono le pariglie.


    Le Pariglie


    Uscendo lanciati al galoppo dal portico che si apre all'inizio della Via Mazzini, tutti i cavalieri, ad eccezione delle pariglie dei Cumponidoris (che non possono rischiare di cadere da cavallo compromettendo così la propria sacralità) si esibiscono in spericolate acrobazie in piedi sulla groppa dei propri destrieri, fino a quando le condizioni di luce lo consentono. È qui che maggiormente vengono evidenziate qualità quali il coraggio, la destrezza e assume primaria importanza la simbiosi uomo-cavallo. La competizione da individuale passa ed essere un gioco di squadra e solo chi, durante il corso dell'anno, è riuscito a sviluppare particolare affiatamento con i propri compagni e con gli animali, sarà in grado di esibire numeri di grande destrezza e abilità. Le corse a pariglia sono diffuse in tutta la Sardegna e, in principio, non facevano parte della giostra. Furono introdotte in seguito, quando iniziò a partecipare alla giostra anche la parte non nobile della popolazione, anticamente esclusa dalla corsa alla stella. Emblematico a questo proposito è il fatto che si corra su un percorso situato all'esterno delle mura giudicali (un tempo acquitrinoso) e quindi più popolare. Le corse a pariglia sono oggi la parte più spettacolare della giostra, una giuria valuta le esibizioni proposte e il riuscire ad eseguire un buon numero permette di essere ammessi di diritto a partecipare all'edizione della manifestazione.


    La svestizione


    Al termine delle pariglie su Cumponidori saluta la folla benedicendola ancora una volta supino sul cavallo al galoppo, ora assistito dai suoi luogotenenti che gli tengono le briglie e, ricomposto il corteo, si dirige verso lo stesso luogo dove qualche ora prima si era celebrato il rito della vestizione. Qui, sempre a cavallo, si avvicina al tavolo, scende dalla sella badando a non toccare terra e le Massajeddas provvedono a rimuovere gli abiti che ne fanno un semidio e il cavaliere che, per un giorno, è stato re della città, riceve gli applausi e i brindisi in suo onore coinvolgono tutti i presenti. Al contrario della vestizione, che è un rito quasi privato a cui è molto difficile accedere, la svestizione, altrettanto emozionante, è in genere aperta a tutti. Si da mano ai fiaschi di vernaccia e alle zippole, dando inizio ai festeggiamenti che si protrarranno per tutta la notte. Tutti i cavalieri, tamburini e trombettieri e i componenti del gremio si riuniscono per la ricca cena offerta dal gremio stesso, mentre la folla presente si accalca per le vie del centro storico della città mangiando e bevendo sino a notte fonda.

    I simboli

    La Stella

    La tradizione vuole che l'anello originario continuasse ad essere utilizzato per la corsa fin dal 1543. Per appenderlo sul percorso era utilizzato un sottile filo di lana fin quando uno stagnino (lataraneri), Maistru Busciuca non introdusse la saldatura di un gancetto. Ezechiele Urpis succedette a Maistru Busciuca ed inventò la stella. La bottega di Urpis, si trovava alla fine della via Mazzini, in sa pesada de Portixedda. Qui l'ingegnoso stagnino intuì come una stella forata fosse il bersaglio più adatto per la difficile competizione. La prima stella misurava un raggio di 8 centimetri e un foro centrale di dimensioni molto ridotte, appena quanto un cece. Riuscire a centrarlo lanciati al goloppo richiedeva, oltre che una grande abilità anche una altrettanto grande fortuna: una sola folata di vento era sufficiente a compromettere la riuscita dell'impresa. Le dimensioni della stella rimasero immutate fino al 1955, allorquando la Pro Loco decise di ampliare le dimensioni sia del foro centrale che della stella stessa, per aumentare il numero di stelle mietute e quindi la spettacolarità della corsa. Si ha notizia di stelle a cinque, sei e otto punte, quest'ultima venne utilizzata nella Sartiglia 1976, Cumponidori Enrico Fiori. Ad oggi viene impiegata una stella ad otto punte appesa ad un nastro di raso verde, durante la manifestazione può venire cambiata più volte. Negli ultimi anni viene forgiata una stella in argento massiccio per le discese del capocorsa, che diviene suo trofeo personale qualora riesca nell'impresa di coglierla. La stella è simbolo di buona sorte e di fecondità, per cui, anche fra il pubblico, numerose sono le persone che si accalcano per toccarla e trarne buon auspicio.

    La spada e su stocu

    Su stocu è un'asta di legno lavorato con la quale il capocorsa e su segundu cumponi (a discrezione de su Cumponidori anche su Terzu) si possono cimentare una seconda volta nella corsa alla stella. Essendo questa sorta di lancia più grossa rispetto alla spada, centrare la stella è più difficile e riuscire nell'impresa è considerato indice di grande perizia, particolari acclamazioni vengono tributate al Cumponidori che riesca a centrare la stella sia con la spada che con su stocu, guadagnandosi la stella d'oro. Per questo rimane agli annali la Sartiglia 2003 del Gremio dei Contadini, guidata da Gabriele Pinna, il quale riuscì a cogliere due volte la stella, evento che non si verificava da 25 anni. Ancora più raro è che lo stesso cavaliere riesca a centrare tre stelle nelle due giornate fregiandosi della stella di platino, dopo decenni l'impresa riuscì ad Angelo Bresciani nel 1988.

    Sa pipia de maju

    Sa pipia de maju(la bambina di maggio), è una sorta di scettro che sta a simboleggiare l'arrivo della primavera e quindi la fertilità. Le due estremità sono composte da mazzi di viole mammole che, con alcune ore di lavoro, vengono unite ad un fascio di pervinche avvolto in una fettuccia di lino verde che ha la funzione di robusta impugnatura. Brandendola il capocorsa manifesta la propria autorità e, con ampi gesti a forma di croce, impartisce la propria benedizione.

    Oristano e la Sartiglia

    È così che l’ultima domenica e il martedì di Carnevale, ogni anno, Oristano diventa capitale della Sardegna. C’è la Sartiglia. Festa dai mille simboli, festa della magia, della prosperità e della miseria, del dolore e della speranza. Da Via Sant’Antonio, passando per il Duomo, sino a Via Vittorio Emanuele e Piazza Mannu, un fiume di persone, provenienti dalle città e dai paesi di tutta l’isola, si accalca ai bordi di un tracciato di terra e paglia. Ad ogni edizione, su quel percorso pestato dagli zoccoli dei cavalli si riversano secoli di storia. E un fragore di urla e applausi guida le gesta del cavaliere, quando la spada trafigge la stella. Prima delle acrobatiche e spericolate Pariglie, che regaleranno emozioni e paure sino al tramonto, su Cumponidori dovrà tenere fede ad un ultimo rito, sa Remada, con il Cavaliere costretto a percorrere di corsa la pista disteso di schiena sul dorso del cavallo. Solo allora la Sartiglia potrà essere dichiarata conclusa e il rito definitivamente consumato. Ma sarà una semplice pausa. In attesa dell’edizione successiva, quando ancora una volta la folla si identificherà in quell’eroe, uomo e donna insieme, protagonista di una cerimonia pagano - cristiana che continua a ripetersi inalterata da secoli, forse da millenni.

    La Sartiglia tra cultura e tradizione

    La Sartiglia non è una semplice celebrazione dei riti carnevaleschi, non è nemmeno la riproduzione di una giostra medioevale, né una mera esibizione di audaci e aitanti cavalieri. Dentro la Sartiglia convivono elementi di tradizione e cultura tramandati da centinaia d’anni. In questa manifestazione, che ad Oristano è vissuta con intensità emotiva indescrivibile sin dai tempi del Giudicato d’Arborea, sopravvivono probabilmente alcuni degli aspetti più interessanti e inesplorati della ritualità pagana, contaminata dai cerimoniali di origine cristiana. La Sartiglia di Oristano trae presumibilmente origine dal gioco dell'anello, sortija, contaminandosi di tutti quegli elementi pagani che sono propri di questo popolo. La corsa della Sartiglia è infatti legata alla ciclicità delle stagioni e ha ragione di esistere in quanto propiziazione del raccolto. Il Cumponidori è il tramite divino che agisce per l'ottenimento del risultato. Al termine della Sartiglia su Cumponidori ricompone le pariglie, formate da terzetti di cavalieri e cavalli affiancati, e percorre la via Eleonora, la piazza Eleonora, il corso Umberto fino alla piazza Roma, immettendosi nella via Mazzini per dar vita all'esibizione delle "pariglias"; questa corsa consiste nel percorrere la lunga e diritta via Mazzini mentre i cavalieri fanno delle evoluzioni di vario tipo sui propri cavalli lanciati a galoppo sfrenato. I più abili e temerari sono capaci anche di stare in piedi ai due lati tenendo sulle spalle il compagno al centro che sta in verticale governando i tre purosangue che appaiati galoppano alla massima velocità. L'unica pariglia (Terzetto) che non può esibirsi è quella di su Cumponidori, che si dovrà limitare a fare una galoppata mentre i due compagni ai suoi lati gli reggono le redini (talvolta poggiando le mani sulle spalle dei compagni); infatti, non potendo rischiare di cadere e toccare il suolo, non gli è concesso tentare acrobazie.





    Mamoiada è sita a 650 metri s.l.m., mentre l'altitudine media del suo territorio è di 736 metri circa.Situata a nord della catena montuosa del Gennargentu, confina con i territori di Fonni, Gavoi, Ollolai, Sarule, Orani, Nuoro e Orgosolo.Dista da Nuoro 17 km circa, con cui è collegata dalla strada a scorrimento veloce Nuoro-Lanusei-Arbatax (Ogliastra) quasi a ricordare l'antica strada "Kalàribus-Ulbiam", passante per i paesi dell'interno, tra i quali Soràbile (tra Fonni e Mamoiada).Il suo territorio si estende complessivamente per 4.903 ettari, da "Trumùghine" a "Sas Baddes", da "Bisèni" a "Sa Radichina", da "Sa Làcana" a "Su Dòvaru".Una parte di questi terreni è estremamente accidentata con notevoli dislivelli e formazioni granitiche, mentre altre, vedi la zona "San Cosimo", comprendono un territorio ricco di sorgenti naturali, corsi d'acqua, terreni a pascolo e a colture ("Marghine" ed altopiano di "Lidana").Le attività produttive prevalenti sono: pastorizia e viticoltura, che danno prodotti di ottima qualità.

    La festa di Sant'Antonio Abate, nata in tempi remoti come rito propiziatorio per la nuova annata agraria, inizia la sera del 16 gennaio - "Sa die de su Pesperu" - con l'accensione e la benedizione del fuoco all'esterno della Chiesa parrocchiale. I fuochi in onore di S.Antonio I fedeli girano intorno ad esso recitando il Credo per 3 volte. La tradizione vuole che ogni rione accenda poi il suo fuoco con un tizzone preso da quello principale in onore del Santo. Per tutta la notte e per i due giorni successivi, la comunità locale si raccoglie attorno ad essi, offrendo dolci e vino ai concittadini e ai numerosi visitatori. E' in questa occasione che si svolge la prima sfilata dell'anno dei "Mamuthones" e degli "Issohadores", che appaiono danzando attorno ai fuochi e sfilano ripetutamente nelle vie del paese, in visita ai vari rioni.

    Mamuthones e Issohadores

    Nati in tempi remotissimi, come attori attivi nei riti pagani, di loro si è persa l'origine e il significato. "Sos Mamuthones" (12/14 componenti) e "Sos Issohadores" (8/10 componenti), sono sopravvissuti con tutto il loro fascino e mistero. "Senza Mamuthones non c'è carnevale", affermano i mamoiadini: il che vuol dire che è questa la più importante manifestazione e quasi simbolo del carnevale stesso e che l'apparizione dei Mamuthones è segno di festosità, di allegria e di tempi propizi. La preparazione della mascherata, crea un fervore operoso, un'atmosfera agitata e fremente che si propaga in tutta la comunità. Quella dei Mamuthones, è una cerimonia solenne, ordinata come una processione, che è allo stesso tempo una danza. I Mamuthones si muovono su due file parallele, fiancheggiati dagli Issohadores, molto lentamente, curvi sotto il peso dei campanacci e ad intervalli uguali dando tutti un colpo di spalla per scuotere e far suonare tutta la sonagliera. Gli Issohadores si muovono con passi e balzi più agili, poi all'improvviso si slanciano, gettano il laccio ("Sa Soba") fulmineamente e colgono e tirano a sè come un prigioniero l'amico o la donna che hanno scelto nella folla".

    La vestizione dei Mamuthones è una cerimonia antica fatta di riti e di movenze suggestive le cui origini si perdono nel tempo. Prima però vengono sistemati per terra i campanacci nello stesso ordine e perizia cui successivamente verranno bloccati sulla schiena. Poi, a capo dei campanacci, viene messa la maschera, il fazzoletto ed infine sa berritta.

    Mamoiada , fuoco di Sant'Antonio

    Il 16 gennaio viene acceso il fuoco benedetto all'esterno della chiesa parrocchiale e i fedeli ci girano intorno recitando il Credo per 3 volte.Secondo la tradizione ogni rione deve accendere il suo fuoco con un tizzone preso da quello principale acceso davanti alla chiesa.Per tutta la notte e per i due giorni successivi, il paese si raccoglie intorno ai fuochi. Vengono offerti dolci e vino.E il 17 gennaio, giorno di Sant'Antonio che compaiono, per la prima volta nell'anno, i "Mamuthones" e gli "Issohadores", le maschere tipiche del carnevale mamoiadino: il suono cupo dei campanacci, le maschere scure , le pelli selvagge di pecora, il tragico passo cadenzato. Danzano intorno ai fuochi , la notte si illumina, lo scintillìo sale alto verso il cielo bruno e sembra confondersi con le stelle , un'atmosfera misteriosa avvolge Mamoiada.E' l'inizio del carnevale: per circa un mese i campanacci dei mamuthones faranno vibrare l'aria, fino a quando riusciranno a scacciare l'inverno e propizieranno l'avvento della primavera

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    Cavalcata sarda

    è una manifestazione culturale e folkloristica che si svolge a Sassari, solitamente la penultima domenica di maggio (non è una data tassativa). La manifestazione consiste in una sfilata di tutti i gruppi folkloristici dall'intera Sardegna, ognuno con il costume caratteristico del luogo. Essa inizia con l'esibizione dei gruppi della provincia di Cagliari, seguita da Nuoro e Oristano ed infine Sassari. La sfilata è seguita da una esibizione di cavalli e cavalieri di alcuni gruppi, che si esibiscono nell' ippodromo cittadino in pariglie e figure acrobatiche. Non è una manifestazione di antica tradizione, anche se la prima edizione deve farsi risalire al 1711, quando vennero fatte sfilare delegazioni di paesi nei loro abiti tipici a beneficio degli spagnoli che allora dominavano l'isola. La più importante e ricordata è quella del 1899, quando venne organizzata una sfilata di costumi tradizionali in occasione della visita dell'allora re d'Italia Umberto I. È soltanto dal 1951 che la sfilata assume una connotazione turistica e viene tenuta con cadenza annuale, solitamente la terza domenica di maggio. È una delle tre feste sarde che permette di vedere riuniti tutti i costumi dell'isola, insieme alla Sagra del Redentore a Nuoro ed alla Sagra di Sant'Efisio a Cagliari, con la differenza che quella sassarese è l'unica a conservare un carattere squisitamente laico con i gruppi al centro della manifestazione e non a contorno.

    Narra Enrico Costa, nella sua celebre Storia di Sassari, che la manifestazione ebbe origine nel 1711, sul finire della dominazione spagnola, quando il Consiglio comunale della città deliberò di “far cavalcata” in onore di Filippo V. Alla sfilata partecipò “toda la noblesa y los matricolados”, tutta la Sassari d’allora rese omaggio al Re di Spagna mostrando orgogliosamente il proprio patrimonio di tradizioni popolari e la bellezza della sua gioventù in costume. Il 20 aprile 1899 si celebrò la Cavalcata sarda forse più famosa della storia, in onore del Re d’Italia Umberto I e di sua moglie la regina Margherita di Savoia, venuti a Sassari per l'inaugurazione del monumento a Vittorio Emanuele II che Giuseppe Sartorio aveva innalzato al centro della Piazza d'Italia. “L’Illustrazione Italiana”, uno dei più importanti periodici del tempo, la definì la “Festa della bellezza”: bellezza della regina, dei cavalieri, delle donne sarde e dei loro sgargianti costumi tradizionali. Era la prima Cavalcata in grande stile: parteciparono seicento cavalli, provenienti prevalentemente dai comuni della Sardegna centro-settentrionale. Nel 1929 si festeggiò la visita a Sassari di Vittorio Emanuele III e della regina Elena, mentre nel 1939 si celebrò l'ultima cavalcata per i reali, in onore del principe ereditario Umberto di Savoia e di sua moglie Maria José. Dopo molte edizioni offerte tradizionalmente a principi, regnanti e ospiti illustri, dagli anni ‘50 la Cavalcata assunse un carattere prettamente turistico, diventando un appuntamento fisso con il folclore. Nel 1951 la Cavalcata venne organizzata per dare il benvenuto agli ospiti del Congresso Nazionale del Rotary, questa volta organizzata dal EPT (Ente Provinciale del Turismo), dal Comune di Sassari, dalla Provincia e dalla Regione Sardegna con gruppi provenienti principalmente da Sassari e Nuoro. Da allora ci fu un'edizione ogni anno, tranne nel 1982 quando se ne organizzarono addirittura due, una delle quali in onore di Sandro Pertini, l’allora Presidente della Repubblica.

    Foto storica

    La Cavalcata Sarda si distingue dalle altre celebrazioni per il suo carattere profano: i costumi, le danze, i canti e le destrezze a cavallo sono i veri protagonisti, emblemi di una tradizione che sussiste en tutta la sua varietà e ricchezza. La mattina è interamente dedicata alla sfilata dei costumi tipici, alla quale partecipano migliaia di figuranti, a piedi, a cavallo e su carri decorati con fiori. La processione, lunga approssimativamente due kilometri, percorre tutta la città, dalla periferia a Piazza d’Italia, il suo centro. Mentre donne, uomini e bambini vestiti di storia e colori scorrono lentamente per le vie della città, gli aromi dei prodotti gastronomici saturano l’aria e invitano il pubblico a degustare insaccati, formaggi, dolci e torrone, accompagnati con corposi vini rossi. Il pomeriggio, dopo una breve pausa pranzo, i cavalieri si esibiscono in spericolate acrobazie, offrendo uno spettacolo da togliere il fiato. Questa tradizione ha origini antichissime che si mantengono vive grazie alla passione di questi audaci cavalieri che alimenta il prestigio dell’isola, madre di famosi fantini e terra dove un tempo gli uomini si valutavano in base alla loro destrezza a cavallo. La sera infine, in Piazza d’Italia, definita dai sassaresi il “salotto cittadino”, i gruppi in costume che hanno sfilato la mattina ritornano in pista e si esibiscono nei caratteristici balli tipici sulle note dei motivi folcloristici.

    I Costumi

    Claude Antoine Valery, Emanuel Domenech, Gaston Vuiller, il grande David Herbert Lawrence oltre ad essere grandi scrittori ed amanti della Sardegna, sono fervidi ammiratori del costume sardo, l’emblema della Cavalcata. L’identità dell’isola si materializza nei suoi costumi, che variano secondo la classe sociale e l’occasione (per tutti i giorni, da festa o da lutto), l’orgoglio e la magia si riflettono nel misticismo di queste vesti antiche. La Cavalcata Sarda è un’invasione festosa della città di Sassari, una sorta di splendida vetrina della tradizione, una magica tavolozza di colori, un vero itinerario attraverso le meraviglie della regione. La festa chiama a raccolta, da tutta la Sardegna, migliaia di partecipanti in costume tradizionale che sfilano per le vie della cittá in un atmosfera allegra e familiare. Fra i costumi femminili della provincia di Sassari spiccano per la loro eleganza quello di Osilo, di Sennori, di Ittiri, quello austero di Tempio Pausania, quello fiammeggiante di Nulvi, senza dimenticare quelli della Provincia di Nuoro: Desulo, Oliena, Aritzo. L’abito maschile più caratteristico è senza dubbio quello di Cabras, che non prevede calzature. Ogni paese si distingue per le fogge vivaci dei vestiti, la ricchezza degli ornamenti o la severa semplicità delle linee. Più il costume è particolare e caratterizzante, più esso assurge a simbolo di appartenenza e identificazione e, di conseguenza, a elemento di diversità e differenziazione tra paesi che solo distano fra di loro pochi chilometri.A riprova dell’importanza, del prestigio e unicità del costume tradizionale sardo, patrimonio storico e culturale, le cronache raccontano che nel 1932 il comune di Ollolai donò ai principi di Savoia Umberto e Maria Josè, in visita nel paese, la coppia di costumi tradizionali del paese.



    Sagra di sant'Efisio

    è la festa più importante di Cagliari, che si svolge ogni anno il 1 maggio. In questa festa, come il Redentore a Nuoro e la Cavalcata sarda a Sassari, vengono coinvolti gruppi da tutta la Sardegna.

    Si narra che nel 1656 i sardi pregarono Sant'Efisio affinché sconfiggesse la terribile ondata di peste, propagatasi nell'isola dal 1652 a causa di alcuni marinai catalani affetti dal morbo e approdati ad Alghero su un veliero mercantile. L'epidemia contagiò tutta la Sardegna, in particolare Cagliari, nella quale morirono circa diecimila abitanti. Proprio l'Amministrazione Comunale cagliaritana fece un voto a Sant'Efisio: se fosse riuscito a sconfiggere la peste, ogni anno si sarebbero svolti una processione e dei festeggiamenti in suo onore, partendo dal quartiere di Stampace, fino ad arrivare a Nora, dove il santo era stato martirizzato. A settembre, le abbondanti piogge fecero scomparire la peste, e dall'anno successivo fino ad ora, il 1° maggio, si rispetta il voto fattogli anni prima. Fu scelto proprio il mese di maggio poiché simbolo di rigenerazione della natura.

    I preparativi per la processione sono gestiti dall'Arciconfaternita del Gonfalone. I preparativi iniziano il 30 Aprile con la vestizione del Santo e l'aggiunta di gioiellini in oro offerti como ex-voto. Dopo il presidente dell'arciconfraternita e il sacrista maggiore depongono la statua all'interno del cocchio. La mattina del 1 maggio "Su Corradori" addobba i buoi che dovranno trasportare il cocchio fino a Nora. Poi il Terzo Guardiano si reca, accompaganto da "Sa Guardianìa", si reca in comune dove lo attende l'Alter Nos. Insieme poi si recano alla chiesetta di Stampace dove verrà celebrata la messa.

    La processione che si svolge il primo Maggio è aperta dalle traccas (solitamente circa 40) , carri addobbati a festa trainati da buoi. Seguono poi i gruppi folkloristici, circa 5500 persone con il costume tradizionale sardo, provenienti da tutta l'isola che solitamente recitano il rosario o cantano i goccius. Dopo seguono i cavalieri; aprono i cavalieri del campidano seguiti poi dai miliziani. Dopo di essi sfilano i membri della Guardianìa e in prima fila il Terzo Guardiano che regge il Gonfalone della confraternita. Segue poi l'Alter Nos, il rappresentante del Sindaco. Dopo i cavalieri sfilano i membri dell'Arciconfraternita preceduti da un confratello che regge un crocifisso del 1700. L'arrivo del cocchio è preceduto dal suono delle launeddas. Quando il cocchio arriva in via Roma viene salutato dalle sirene delle navi attraccate nel porto di Cagliari, e cammina su un tappeto di petali di rose.

    La chiesa attuale venne costruita nel 1780 in stile Barocco ed è il punto di partenza della processione. Prima di essa esistevano nello stesso luogo una chiesa del '200 e una del '500. Presenta una sola navata con tre cappelle per lato. In una delle cappelle è conservata la statua del Santo che viene portata in processione fino a Nora.Secondo la tradizione la cripta sotto la chiesa di Stampace sarebbe la prigione nella quale fu imprigionato il santo prima del suo trasferimento a Nora per essere ucciso. La cripta si trova nove metri sotto il manto stradale e vi ci accede dalla chiesa soprastante. All'interno si trova un colonna di marmo, chiamata "la colonna del martirio di Efisio", su cui è ancora presente l'anello in metallo in cui veniva agganciata la catena che lo imprigionava.



    Faradda di li candareri

    (espressione in sassarese indicante la "discesa dei candelieri") è una festa che si tiene a Sassari la sera precedente alla festa della Madonna Assunta (ferragosto) e consiste in una processione danzante di grandi colonne di legno, simili a ceri o "candelieri" (li candareri), che si svolge lungo le vie cittadine. È chiamata anche Festha manna, ovvero "Festa grande" e, secondo la tradizione, deriva da un voto fatto alla Madonna Assunta, che avrebbe salvato la città dalla peste. Ebbe un periodo di crisi agli inizi del Novecento, ma attualmente è seguita da oltre 100.000 persone, che giungono a Sassari dal resto d'Italia e dall'Europa.

    La festa nacque a Pisa agli inizi del XIII secolo come offerta di cera alla Vergine Maria: la sera del 14 agosto, venivano portate in processione delle grosse macchine di legno ricoperte di cera e raffiguranti santi ed episodi biblici; ogni macchina, a forma di tabernacolo o palma aperta, veniva trasportata fino alla cattedrale accompagnata da musica. Passò ad alcune città sarde che furono sotto il dominio pisano. A Sassari la festa proseguì il anche sotto il dominio genovese e poi aragonese. A causa delle forti spese, gli aragonesi tentarono più volte di sopprimerla, ma senza successo. Le associazioni di arti e mestieri cittadine ("gremi"), che pagavano la consistente somma necessaria per cera utilizzata come materia prima, decisero tuttavia di sostituire il cero da costruire ogni anno con dei candelieri di legno, uguali per tutti, e che non venivano sostituiti; questi assunsero la forma di tabernacoli a colonne per facilitare i "balletti" lungo il percorso. Nel Cinquecento, la città fu più volte colpita dalla peste e l'epidemia più terribile sarebbe terminata un 14 agosto per intercessione della Madonna. Il voto venne ufficialmente menzionato solo dopo la peste del 1652, ma l'origine si ritiene relativa al periodo pisano. Gli otto maggiori gremi del tempo (mercanti, massai, sarti, muratori, calzolai, ortolani, conciatori e pastori) insieme alle autorità comunali e alla curia arcivescovile, formularono il voto solenne di portare in processione, ogni 14 agosto, otto candelieri dalla "piana di Castello", l'attuale piazza Castello, sino alla chiesa di Santa Maria di Betlem.



    Il voto venne rispettato e ripreso con più vigore all'insorgere di ogni nuova epidemia; nell'Ottocento fu rinnovato per il colera.
    Il candeliere dei fabbri, la cui ammissione è stata al centro di forti discussioni per diversi anni. Nel corso del XIX secolo, tuttavia, i gremi dei mercanti e dei pastori furono sciolti e il gremio dei sarti si rifiutò di partecipare alla faradda con il proprio candeliere. Anche il gremio dei carradori si sciolse in seguito ai debiti. Solo cinque degli otto originali candelieri erano rimasti a partecipare alla festa. Il comune si mobilitò, dotando ogni gruppo di portatori di una divisa. Convinse inoltre il gremio dei sarti a partecipare nuovamente alla festa e ammise nuovi gremi alla sfilata: nel 1921 il gremio dei falegnami, che si era staccato dal muratori nel corso dell'Ottocento, nel 1937 il gremio dei contadini, staccatisi dai massai nel 1803, nel 1941 il gremio dei viandanti e nel 1955 il gremio dei piccapietre, anch'esso staccatosi dai muratori, portando il numero dei candelieri a nove.

    Nel 1979 fu fondato l'"Intergremio", un'associazione dei gremi che partecipavano alla faradda tranne il gremio dei viandanti, con l'aggiunta del arcigremio della Mercede (facchini) e del gremio dei macellai, i quali tuttavia in seguito abbandonarono il sodalizio. Negli anni ottanta riprese l'attività il gremio dei fabbri, rimasto inattivo per circa quarant'anni, che contro il parere dell'associazione, fu ammesso nel 2003 alla faradda con la sola bandiera. Nel 2007 si ebbero numerose polemiche e proteste in seguito all'ammissione del candeliere dei fabbri alla faradda da parte del consiglio comunale e con l'opposizione dell'"Intergremio", portando il numero dei candelieri a dieci.

    Gremi

    Il gremio dei fabbri, è una antica corporazione di arti e mestieri della città di Sassari ("gremio").

    Il Gremio dei piccapietre (in sassarese li Piccapiddreri) è la confraternita degli antichi Scalpellini che partecipa alla Faradda di li Candareri.

    Il gremio dei Viandanti (in sassarese Lu gremiu di li viaggianti) è una delle antiche corporazioni di arti e mestieri che ancora oggi operano a Sassari e che partecipano alla Faradda di li Candareri (Discesa dei Candelieri)

    Il Gremio dei Contadini è una delle antiche Corporazioni di arti e mestieri di Sassari che ancora oggi prende parte alla vita religiosa e culturale della città.

    Il Gremio dei Falegnami ( o Gremiu di li Masthri d'ascia nella parlata locale) è la corporazione che riuniva i Falegnami che praticavano il loro mestiere nella città di Sassari e che si riunivano per praticare riti religiosi in comune

    Il Gremio degli Ortolani è un'antica corporazione di arti e mestieri della città di Sassari.

    I calzolai (cazzuraggi) sono un' antica corporazione di arti e mestieri (Gremi) della città di Sassari. Partecipano alla discesa dei candelieri e il loro candeliere è il settimo a scendere da piazza Castello e il quarto ad entrare in chiesa.

    Il gremio dei Muratori è una delle più antiche e importanti maestranze sassaresi che partecipano alla Discesa dei Candelieri. Il gremio è sempre stato presente alla discesa e le compare in tutte le documentazioni relative alla manifestazione dove vengono elencate le maestranze che prendono parte alla Faradda. L' importanza del gremio è data dal fatto che ad anni alterni entra per secondo a sciogliere il voto all' Assunta e quindi occupa una posizione di prestigio all' interno della manifestazione.

    Il gremio dei sarti è un'antica corporazione di arti e mestieri della città di Sassari.

    l gremio dei Massai (grandi proprietari terrieri) è una corporazione di arti e mestieri di Sassari.



    La festa inizia sin dal mattino con la vestizione dei candelieri nei pressi dell'abitazione dell'obriere o davanti alle sedi dei gremi: le grosse colonne vengono adornate con bandiere e ghirlande di carta (bora-bora) e fiori. Il gremio dei massai e quello dei contadini adornano il candeliere anche con spighe di grano. I candelieri vengono quindi trasportati fino a piazza Castello (dall'omonimo Castello di Sassari) da dove, dopo un piccola sosta di ringraziamento alla Vergine nella chiesa del Rosario, parte la sfilata. La processione è aperta dalla banda musicale che viene seguita dai dieci candelieri, accompagnati dalle quattro bande cittadine, in ordine dal più giovane al più antico e prestigioso: fabbri, piccapietre, viandanti, contadini, falegnami, ortolani, calzolai, sarti, muratori e massai. Ogni candeliere, accompagnato dal suono del tamburo (e per i viandanti anche dal piffero), compie numerose evoluzioni durante il tragitto, oscillando fra la folla, girando su se stesso (facendo così avvolgere i nastri o betti che scendono dalla sommità) o cambiando rapidamente direzione. Secondo una vecchia tradizione, più il candeliere sarà baddarinu (ballerino), più l'annata sarà buona. Ogni anno si organizzano diversi gemellaggi fra i gremi che occupano posti di sfilata vicini; rituale tipico è quello di far avvicinare i due (a volte tre) candelieri senza preavviso e farli ballare uno di fronte all'altro; poi i due capo-candelieri (li capi carriaggi, che guidano le danze del cero) si scambiano e fanno ballare l'altro candeliere. Il momento culmine è quello del cosiddetto "bacio" fra i ceri, che vengono inclinati, quasi a fare un inchino, con i due capitelli che si toccano. I candelieri ballano lungo il corso Vittorio Emanuele, arteria principale della città antica, e raggiunta la metà della via, passano davanti al Teatro civico, l'antico "Palazzo di città", dove il sindaco li attende insieme alla sua giunta; una volta che anche l'ultimo candeliere passa davanti alla soglia del palazzo, i massai entrano nell'edificio e, dopo aver scambiato la loro bandiera con il gonfalone comunale con il rito detto dell'Intregu(| I Massai al palazzo civico, brindano alla lunga vita ("A zent'anni!") e invitano il sindaco a unirsi al corteo. Quando il candeliere dei muratori arriva in corso Vico, anziché dirigersi direttamente in chiesa, devia dal percorso verso uno spiazzo dove anticamente si trovava uno degli ingressi della città (largo Porta Utzeri), dove compie un ballo per bloccare simbolicamente un nuovo ingresso nella città alla peste. Secondo la tradizione l'ultimo morto di peste della città sarebbe infatti uscito da quella porta. Terminato il ballo, il candeliere dei muratori si riunisce a tutti gli altri. I candelieri raggiungono infine il sagrato della chiesa di Santa Maria di Betlem. Secondo la tradizione, come stabilito dalle antiche regole (1531), dopo l'ingresso delle autorità, i candelieri entrano nella chiesa in ordine inverso rispetto alla sfilata. Quando il cero dei viandanti si accinge ad entrare in chiesa, i gremianti danno l'ordine di spezzare la croce con la bandiera dell'obriere che sta in cima al capitello, perché ritengono che porti fortuna (credenza contraria a quella delle altre maestranze che la ritengono una cosa sfortunata). Dopo una breve cerimonia finale, il voto si può considerare sciolto fino all'anno successivo. La festa finisce quando i massai accompagnano il sindaco a Palazzo Ducale, sede del municipio.



    Leggende Sarde

    Villacidro - Il paese delle streghe


    A Villacidro (grosso centro della provinc.ia di Cagliari) lo giuravano tutti: IS COGAS, le streghe, avevano la coda che tenevano ben nascosta agli sguardi della gente. Naturalmente nessuno poteva esserne certo, visto che indossavano gonne lunghe fino ai piedi. Erano esseri malefici che avevano il potere di trasformarsi in animali e persino in oggetti. Quando dovevano entrare in una casa si tramutavano in mosche, ma potevano mutarsi in qualche gatto e passeggiare per i tetti la sera in cerca di qualche finestra aperta. Sull'argomento, da tempo immemorabile un po' in tutta la Sardegna si è sbizzarrita la fantasia popolare. I racconti sulle streghe, anzi meglio IS COGAS, così qui si chiamano, erano quelli preferiti dalle nonne per ammaliare i bimbi più vivaci e trattenerli durante le lunghe serate estive o i dopocena invernali davanti al focolare. Per essere più credibli facevano riferimento a zia Amalia, a zia Maria o a qualunque donnetta che avesse qualcosa fuori dall'ordinario, le quali si trasformavano ora in gatto, ora in mosca, ora in altro essere malefico. Cosa avessero di vero quei racconti, poco si sa. Di certo venivano subito appresi dagli attenti fanciulli, e le streghe vagavano per fare malefici da generazione in generazione, da paese in paese e spaventavano i bimbi e incutevano timore negli adulti, soprattutto quando accadeva una morte di un bimbo, di una puerpera o qualunque fatto inspiegabile. Pare che la presenza di san Sisinnio, il santo protettore contro il diavolo e le streghe, a Villacidro avesse eliminato le streghe doc, quelle, per intenderci, che avevano la coda e che si trasformavano con facilità in mosche o serpenti. Le altre rimaste, più che cogas erano donnette che si arrabattavano con i BREBUS (preghiere contro i mali), per guarire la gente, anche se potevano fare le fatture.



    La leggenda del golfo degli Angeli

    Gli Angeli, nei tempi lontani, chiesero a Dio un dono. Dio rispose che avrebbe dato loro in dono una terra dove gli uomini si amavano, si rispettavano, vivevano felici. " So che esiste questa terra; cercatela, trovatela e sarà vostra " aveva detto loro. Gli Angeli obbedirono; scesero dal cielo e si sparsero sulla Terra. Ma ovunque trovarono cattiverie, guerre odi. Stavano per ritornare, tristi, da Dio Padre, quando il loro sguardo cadde su una grande isola verde circondata da un mare tranquillo. Gli Angeli si avvicinarono rapidamente: non rumore di guerre e di distruzioni, non colonne di fumo si alzavano dalle colline fonte ove brucavano grandi greggi. E gli uomini aravano i campi non chiusi da segni di proprietà. Quei primi abitatori della Sardegna, ignari delle ricchezze della loro terra, discendenti da eroi che avevano fuggito la tirannide e 1' ingiustizia, trascorrevano la loro vita in semplicità, contenti della pace e della bellezza dei luoghi. Gli Angeli salirono felici in Cielo. Riferirono al Signore ciò che avevano visto . -e Iddio mantenne la promessa. Gli Angeli, quindi, ridiscesero ancora sull'isola, e rimasero specialmente incantati davanti al grande golfo che si apriva, come un immenso fiore turchese, all'estremo limite meridionale della loro terra. Decisero, dunque. di stabilirsi lì: in quell'arco di mare così azzurro e bello che ricordava il Paradiso. Presto, però, Lucifero, invidioso di quegli Angeli felici, cercò di seminare, fra di essi, lotte e discordie, e siccome non vi riuscì tento di scacciare gli Angeli da quel loro secondo Paradiso. Lottarono a lungo le forze del Bene e quelle del Male sulle scatenate acque del golfo. Ed ecco che alla fine, tra il lampeggiare delle folgori del demonio si levò in alto la spada scintillante dell'Arcangelo Gabriele. Fu il segno decisivo della vittoria Lucifero stesso fu sbalzato dal suo cavallo nero, dalle narici di fuoco. Allora prese la sella e, in un impeto di collera violenta, la lanciò nel Golfo, formando un promontorio che poi venne chiamato " La Sella del Diavolo ". Sotto di esso, trovarono dapprima rifugio le pacifiche navi fenicie, poi quelle di guerra dei Cartaginesi. Poi quelle dei Romani, dei Vandali e dei Bizantini. In seguito quelle dei Pisani, dei Genovesi e degli Spagnoli. Ed infine, quelle degli Inglesi, dei Francesi e degli Americani. Così, oggi, gli Angeli se ne sono andati dal loro golfo incantato e lo guardano dall'alto, discendendovi, talvolta, lievi e silenziosi, all'oll'ora del tramonto, quando il cielo si colora d'oro e di porpora.



    Nascita della Sardegna

    Millenni fa, agli albori della vita sul nostro pianeta, già esisteva un continente chiamato TIRRENIDE. Era un continente esteso, ricoperto da una natura verde e rigogliosa, popolato di uomini forti ed affascinanti animali. Ma improvvisamente, una notte, per motivi inspiegabili, l’ira di DIO si scagliò su Tirrenide. Il suolo cominciò ad agitarsi, scosso da terribili sussulti; il mare fu sconvolto da una furia terribile. Le onde erano talmente alte che quasi toccavano il cielo e sfortunatamente si abbatterono su Tirrenide in modo rovinoso, scotendo le coste, invadendo le fertili pianure; come se questo non bastasse, si alzarono tanto da arrivare a coprire le ridenti colline, ed ancora di più fino a coprire le più alte vette. Pareva la fine del mondo! Tirrenide stava per inabissarsi del tutto finché DIO improvvisamente placò la sua collera. -Oh terra infelice! A quale sterminio ha portato la mia collera! – esclamò allora DIO pentito. E, poiché una piccola parte di terra emersa emergeva ancora, vi pose sopra un piede e riuscì a trattenerla prima che il mare la inghiottisse completamente.
    Fu così che della grande Tirrenide rimase quell’impronta solitaria in mezzo alla grande distesa d’acqua, da cui dapprima prese il nome di ICHNUSA, che significa appunto “orma di piede” e in seguito SARDEGNA, da SARDUS, eroe Bérbero, venuto dall’Africa. ICHNUSA, nonostante le ridotte dimensioni, aveva mantenuto tutte le caratteristiche del continente scomparso, e le aveva conservate in modo talmente fedele, che i naufraghi scampati ebbero l’impressione di rivedere, in piccolo, la loro Tirrenide, quando riuscirono a trovare la salvezza nelle sue sponde. Il ricordo della terrificante sciagura, però, aveva impresso nel loro cuore un’orma indelebile: un’orma di malinconia profonda, che passò ai loro figli, e che, trasmessa di generazione in generazione, perdura tuttora nel cuore dei Sardi. Oggi noi dopo tanti millenni, troviamo ancora quella malinconia: - la ritroviamo nell’accorata ninna nanna di una madre, nel desolato canto di un pastore, nelle struggenti nenie di un rito funebre; - la ritroviamo nelle gravi movenze di una danza, e nell’intensità solenne di una festa; - la ritroviamo nel misterioso patrimonio degli usi e costumi, delle tradizioni e delle leggende; - la ritroviamo, insomma, un po’ in tutto ciò che rispecchia l’antichissima anima di questo popolo: un’anima che può apparire ruvida e ombrosa, ma che si manifesta, invece, gentile e appassionata a chi sa avvicinarla e comprenderla.



    La Notte nelle leggende e i racconti popolari della Sardegna

    Nella cultura dell'entroterra la leggenda e in genere la tradizione del racconto si sovrappongono ad un altro costume sociale, quello della «balentia». Qualità specifica dell'uomo è la sopportazione delle difficoltà, del dolore, della paura: diventare balente era la massima realizzazione sociale del giovane, status che portava rispetto e prestigio all'interno della comunità. La celebrazione dell'audacia, del vigore (e della virilità), dello sprezzo del pericolo (e della morte) trovano giusto spazio nell'articolarsi delle storie raccontate: la Notte, in Sardegna, diventà una realtà diversa e trasformata (come anche accade in altre suggestioni culturali: si pensi alla descrizione della notte in Transilvania nel romanzo di Stoker, o nell'"Intervista col Vampiro" di Anne Rice, e negli altri innumerevoli racconti ambientati nell'est europeo), autonoma rispetto al giorno, popolata di esseri fantastici e tenebrosi, solitamente nunzi di sventura o di morte (quasi mai di buone novelle) e molto spesso insospettabili attori della vita quotidiana. E allora, così popolata, la Notte è un adeguato banco di prova per il «balente», che dal suo sopraggiungere non doveva essere impressionato o intimidito. Le donne sì, potevano avere paura del buio, ma non un uomo giovane, forte e ardito. Lungi dal temere le creature notturne, il balente è anzi portato a sfidarle liberamente: le antiche operazioni di furto di bestiame, condotte tipiche di dimostrazione d'audacia nel mondo pastorale, si svolgevano alla luce della luna, quasi come divinità benigna e influsso d'auspicio per le prove di forza. Dalle prove di balentia nascono anche le varie e diffuse leggende sui riti d'iniziazione: imprese ardue, contese con esseri diabolici e spiriti della Notte, per la conquista della ricchezza, o del potere di realizzare tutti i desideri. La Rosa di Gericò, custodita dal Diavolo in persona (!) in una gola del monte Corrasi, doveva essere colta la notte di San Giovanni a mezzanotte; anche i tre fiori della felce maschio, che secondo un'altra leggenda avevano il potere di rendere immuni ai colpi d'archibugio (quale vantaggio per un balente!), dovevano essere colti a mezzanotte in un luogo lontano e deserto, da colui che fosse stato tanto temerario da non fuggire qualsiasi cosa avesse visto. Ma la Notte, anche nella cultura atavica dei sardi, è per sua natura collegata all'immagine della Morte. La Morte annunciata dai sinistri avvertimenti degli animali (in alcune tradizioni il toro, in altre la civetta o il cane col suo lungo e inquietante ululato); dal triplice muggito de «s'érchitu», l'uomo-bue, davanti alla casa di colui che l'indomani dovrà morire. La Morte dispensata dalla «sùrbile», trasformazione di una donna malvagia che sotto questa forma notturna va a succhiare il sangue dei neonati. La Morte che condannava le donne morte di parto - le «panas» - a riapparire ogni Notte per sette anni a lavare i panni del neonato, senza proferir parola. La Notte è anche, preferibilmente, il momento dell'apparizione del Diavolo, nei luoghi più impervi (numerose storie ne indicano la dimora in «Su Gorroppu», stretta gola nei monti tra Orgosolo e Urzulei) ove secondo le leggende gli si poteva vendere l'anima, per ottenere in cambio - come Faust da Mefistofele - ricchezza, onore, gloria, o l'amore di una donna. Anche le donne potevano contrattare con Satana, ma in tal caso dovevano venderglisi anima e corpo, in linea con le più note tradizioni sulle streghe secondo cui il Signore degl'Inferi si accoppiava abitualmente e ritualmente con le sue discepole (o figlie, o adoratrici, o allieve).
    Insomma, la Notte è lo sfondo preferenziale per lo svolgersi delle storie tradizionali, raccontate davanti al camino o nei cortili, tra donne indaffarate, e tuttora vivide nella memoria degli abitanti di molte zone dell'Isola: l'oscurità impedisce il rapporto sensoriale con la realtà circostante, e da sempre stimola la percezione di ciò che possiamo solo immaginare, e che per sempre non potremo fare a meno di intuire o credere.







    Sant'Efisio e le cisterne del castello

    Tra i miracolosi interventi che fece Sant'Efisio a Cagliari, è da ricordare uno riguardante le cisterne. Narra la leggenda che il Santo, impegnato a mantenere una solenne promessa fatta a Dio, si sarebbe mostrato al Viceré comunicando che era stato gettato veleno nelle cisterne del colle di Castedd 'e Susu. Con questo avviso il governatore poté evitare pericolose conseguenze ai castellani che fatalmente, avrebbero bevuto l'acqua avvelenata.



    Le Fonti Miracolose

    Se analizziamo singolarmente le cavità cittadine scopriremo che contengono una notevole quantità d'acqua che si è rivelata un elemento chiave per la creazione di superstiziose credenze popolari. In alcune delle cripte situate sotto le chiese, la presenza del liquido, anche se minima, è stata e per certi versi viene ancora considerata miracolosa. Nella Cripta di Sant'Agostino, il cui ingresso è situato al numero 12 del Largo Carlo Felice, è visibile una polla d'acqua sorgiva alla quale sono stati attribuiti poteri benefici. Anche nella Cripta di Sant'Avendrace, in un piccolo scavo nel pavimento, è stata registrata la presenza di acqua salmastra che sarebbe stata utilizzata dal santo per dissetarsi durante la sua prigionia e per questo motivo ritenuta dai fedeli "guaritrice dei mali".



    Sa Strega e Is Funtanasa

    Quando venivano ancora utilizzate le cisterne nelle abitazioni del centro storico, capitava spesso che i bambini curiosi, forse per vedere cosa c'era all'interno, si avvicinavano negli imbocchi. I genitori, nel tentativo di scoraggiarli affinché non si sporgessero pericolosamente, raccontavano tante storie che avevano un protagonista comune noto come "Sa Strega e is Funtanasa". Quest'essere era una sorta di strega malvagia che dimorando nella cavità, aveva il compito di mangiare rapidamente i piccini che osavano guardare, anche se per un istante, l'acqua contenuta all'interno. Contrariamente alle vecchie credenze cittadine che spesso reputavano queste interessanti cavità come "posti infernali", tali storie vengono sfatate anche da un particolare assai curioso che tra breve illustrerò. Nel pozzo d'accesso alle cisterne veniva appeso un "brutto" pupazzo, tutto vestito di nero. Tale pupazzo, rappresentando un essere malvagio, forse la strega dei racconti, spaventava i bambini evitando loro il rischio di cadere dentro le profonde cavità. Spesso, nell'imbocco di qualche cisterna o nelle vicinanze, a distanza di tanti anni dal loro abbandono come contenitori idrici, è ancora presente il pupazzo che viene utilizzato come oggetto ornamentale. Probabilmente accadeva che qualche persona, nel raccontare quel che aveva osservato oppure quel che aveva sentito dire sui serbatoi sotterranei, veniva fraintesa da altre, creando di conseguenza una serie di storie che venivano tramandate in città in modi differenti ma ugualmente interessanti.



    Un lungo passaggio segreto

    Nel corso dei secoli, sul colle di San Michele sono state scavate tante cave, gallerie e cunicoli. Qualche leggenda sostiene che nel Forte omonimo, meglio noto come Castello, siano presenti gli ingressi di alcune cavità che contengono fantastici tesori. Per esser più precisi, una di queste leggende vuole che nel sottosuolo del colle sia celato un lungo passaggio segreto conducente al Castello di Sanluri



    Una Grotta Per Le Guarigioni

    La Grotta di Santa Restituta, situata in via Sant'Efisio 14, per secoli è stata considerata un luogo sacro. La tradizione vuole che in una colonna presente all'interno, sia stata legata la Santa per poi essere martirizzata nel corso delle spietate persecuzioni Diocleziane. Oltre che un sotterraneo artificiale dove ha "regnato" la morte, il luogo è stato ritenuto fino al 1800, una grotta dov'era possibile riacquistare la salute con lo svolgimento di rituali taumaturgici. In particolar modo i bambini malati, dopo esser stati condotti all'interno della camera che ancor oggi presenta la già citata colonna, dovevano sdraiarsi per terra e girare su sé stessi per sollevare la polvere miracolosa che gli avrebbe liberati dal vaiolo.

     
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  2. tomiva57
     
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    Cucina sarda


    La gastronomia sarda è una di quelle particolarmente attaccate alla tradizione, custode di abitudini antiche, in un certo senso arcaica. Questo rispetto per la tradizione è stato determinato da diverse condizioni; prima fra tutte l’amore degli isolani per la propria cultura e per le proprie abitudini gastronomiche, ma anche la lontananza da influssi culinari altri.

    Inoltre l’economia sarda è rimasta fino a tempi recenti a carattere prettamente agro pastorale. Dunque prodotti alimentari sempre uguali e assenza di innovazioni che hanno imbalsamato la cucina, rendendola ancora oggi sorprendentemente simile a ciò che doveva essere secoli addietro.

    Piatti antichi e frugali quelli sardi, che ebbero come primi artefici pastori spesso lontani da casa e contadini, e che dovevano rispondere alle esigenze di questi. Quindi pietanze semplici da trasportare, da conservare e da tagliare. Gli influssi successivi, borghesi, pur tentando un ingentilimento di questi piatti saporiti e forti, li hanno modificati in maniera prettamente collaterale.

    Legata per lunghi secoli al ciclo delle stagioni, la gastronomia isolana si è basata da sempre su prodotti rurali, sani e tipici del territorio, che si incontravano in ricette schiette. Il sapore deciso delle pietanze oltre che alle capacità delle massaie sarde, è però da imputare principalmente agli ottimi prodotti che la terra produceva e produce, coltivati ieri come oggi a sole, vento e fatica.

    Ma quali siano i prodotti tipicamente usati dalla cucina di Sardegna, è presto detto. Immancabile è il pane e le farine, il latte e i formaggi. Una triade pressoché perfetta. A questa si deve associare il profumo degli arrosti, le verdure coltivate nell’orto e gli animali da cortile.

    Di notevole importanza inoltre, soprattutto per le culture costiere, sono stati i prodotti figli del mare che in incontro sapente con altri ingredienti hanno dato origine a piatti eccezionali. Un esempio fra i più illustri è la bottarga, nota anche come l’oro di Sardegna, frutto di lavorazioni complicate e lunghe, la cui tradizione non si è mai persa.

    Indimenticabili inoltre i vini sardi, particolarmente decisi e corposi, custodiscono il mistero del forte sole e delle lunghe e belle stagioni, e impreziosiscono le tavole isolane di colore, profumo e allegria.

    Ma ciò che più di tutto sorprenderà della cucina sarda è la sua varietà. Ogni località, ogni paese, ogni zona è caratterizzata da piatti tipici, estremamente differenti per fattura e tipo di consumo, che contribuiscono a creare una gastronomia originale e sfiziosa.

    da:sardegna.cucinaregionale.net



    Culurgionis


    Culurgionis con ripieno di carne


    Un primo piatto tipico della tradizione culinaria sarda, a base di carne e pasta fatta in casa. Una pietanza gustosa e nutriente da provare assolutamente.


    Ingredienti per 4 persone

    (Per la sfoglia) 400g di farina
    2 uova
    Acqua
    sale
    (Per il ripieno)250 gr di carne tritata mista
    50 gr di prosciutto
    50 gr di pecorino stagionato
    2 uova
    Aglio
    Prezzemolo
    pane grattugiato
    pepe
    sale

    (Per la salsa) 1 kg di pomodori maturi
    olio extravergine d’oliva
    cipolla
    basilico
    pecorino grattugiato
    sale


    Preparazione

    Disponete la farina a fontana insieme alle uova, aggiungente un pizzico e dell’acqua tiepida bastante ad ottenere un impasto che sia elastico ed omogeneo. Lasciatelo riposare per circa 30 minuti. Contemporaneamente in un tegame fate rosolare con un filo di olio il prosciutto, la carne, il prezzemolo e l’aglio tritati, spolverando il tutto con del pepe e fate cuocere il tutto a fuoco lento. Una volta ultimata la cottura toglietelo dal fuoco e lasciate raffreddare il composto.

    Unite al composto ottenuto le uova, il formaggio ed il pane grattugiato. Stendete quindi la pasta precedentemente preparata con il mattarello, avendo cura di ottenere sfoglie sottilissime. Disponete quindi al loro interno il ripieno, richiudendole a forma di seme, avendo cura di fissare bene i bordi. Disponeteli su un vassoio infarinato. Tradizione vorrebbe che venissero lasciati seccare per un giorno intero prima dell’utilizzo. Ad ogni modo sono consumabili anche appena preparati.

    Fateli cuocere in abbondante acqua salata bollente per qualche minuto. Scolateli e conditeli con una semplice salsa al basilico e del pecorino stagionato grattugiato.













    cordula


    Cordula ai piselli


    Un piatto a base di interiora di agnello tipico della tradizione sarda, dal gusto intenso e piacevole.


    Ingredienti per 4 persone

    1 cordula
    600 gr di piselli
    2 cipolle di media grandezza
    Sale
    Olio
    salsa di pomodoro


    Preparazione

    La cordula è una treccia di organi interni di agnello formati da interiora come polmone, reni dell’animale, annodate allo stomaco ed alla trippa dello stesso: un taglio di carne particolare ma dal sapore decisamente gradevole. Prima di tutto, dovete far bollire in abbondante acqua salata la cordula, affinchè si insaporisca e raggiunga il giusto grado di cottura interna.

    Contemporaneamente prendete una padella, aggiungetevi dell’olio q.b. e fatevi imbiondire le cipolle tagliate a fettine. Inserite la cordula e fatela rosolare 10 minuti per ogni lato. Aggiungete i piselli (freschi o precotti, a vostro gusto personale) e lasciate insaporire. Quando i piselli risulteranno a metà cottura, aggiungete il pomodoro e lasciate cuocere il tutto per circa 30 minuti, fino a che la salsa di pomodoro non si sarà rappresa.

    Servite la cordula tagliata a fette contornata dai piselli.



    Dolci


    In Sardegna come altrove la produzione dolciaria è un’attività prettamente femminile e per la creazione di questi piccoli e grandi gioielli della gastronomia spesso sull’isola si utilizzano materie prime proprie del povero ma gustoso mondo agropastorale.

    Il segreto del gusto dei dolci sardi sta proprio nella semplicità e genuinità dei suoi ingredienti, ma quello che più sorprende dei dolci sardi sono le forme pienamente artistiche di prodotti oggi esportati e amati in tutto il mondo.

    Anche in merito ai dolci la Sardegna mostra delle grosse varietà locali che garantiscono la presenza di numerosi gusti, forme e dimensioni piccole o medie. Elementi principi della tradizione dolciaria sarda sono indiscutibilmente la sapa, il miele, l’arancia, e la mandorla presente in una quantità notevole di dolci isolani vista la sua diffusione. Vengono utilizzate sia dolci che amare, intere, tritate, rese farina o come essenza.

    Particolarmente decorativi e a base di mandorle sono i candelaus o i gueffus, praline zuccherate involte in carta velina colorata. Il nord utilizza spesso i suspirus, i sospiri o i culingionis di mendula, piccoli ravioli al gusto di pasta di mandorle e miele.

    Particolarmente amati anche i pabassinos o il pani ’e saba, il torrone e il gatò. Tutti questi dolci presentano come elemento principale la mandorla, vera e propria regina dei dolciumi locali.

    Ma altro prodotto molto utilizzato per il confezionamento di squisiti dolci è il formaggio fresco profumato con dello zafferano o arancia che si ritrova nelle meravigliose sebadas il dolce barbaricino forse più conosciuto in assoluto. Anche le pardulas impiegano il formaggio in forma di ricotta, mentre capitolo a parte è quello della saba o binucottu un altro ingrediente caratteristico della cucina dolce isolana.

    E’ la base del pani’e sapa dolce che conosce infinite varianti, e insaporisce anche le papassinas o le cachettas nuoresi.



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    Culingionis de mendula, dolci del carnevale sardo


    da Yellowflate
    it.paperblog.com



    I Culingiones dolci o Culingionis de mendula, tipici del carnevale, sono ravioli quadrati ripieni di un impasto di miele, mandorle, scorzette di limone tritate e acqua di fiori d’arancio; vengono fritti e spolverati con zucchero a velo vanigliato.

    Ingredienti :

    300 g di farina bianca tipo 0
    300 g di farina di semola finissima
    100 g di strutto
    500 g di mandorle dolci
    175 g di zucchero semolato
    un uovo zucchero a velo
    acqua di fiori di arancio
    sale, olio di oliva


    Su una spianatoia disponete la farina a fontana e aggiungete al centro l’acqua e il sale. Lavorate energicamente fino ad ottenere un impasto omogeneo ed elastico. Tirate la pasta per ricavare una sfoglia sottile. A questo punto ricavatene dei dischetti di 6 o 7 centimetri di diametro.

    A parte aggiungete allo zucchero semolato le mandorle pelate e pestate in un mortaio, o frullate.
    Riducete tutto in pasta, unite un albume, le scorzette di limone e due cucchiai di acqua di fiori d’arancio.

    Nei dischetti di pasta che avete preparato, disponete le palline di ripieno sulla metà di ogni disco e ricoprite con l’altra metà. Saldate i bordi pizzicando bene con la punta delle dita, facendo attenzione che i lembi siano ben consolidati tra di loro. Fate bollire l’olio e lo strutto e friggete i dolci. Prima di servire spolverate con zucchero a velo o miele sciolto a bagnomaria.





    Pani-_e-saba

    Pani’e sapa

    da:sardegna.cucinaregionale.net

    Ingredienti:

    500 gr di farina 00
    60 gr di mandorle pelate
    60 gr di noci sgusciate
    60 gr di pinoli
    40 gr di lievito di birra
    ¼ di litro di sapa
    2 chiodi di garofano

    Preparazione:

    come prima cosa tritate in maniera grossolana le noci, le mandorle e i pinoli e a parte impastate farina e sapa unendo il lievito di birra che dovrete aver stemperato in precedenza con dell’acqua tiepida;
    lavorate il composto fino ad ottenere un amalgama liscia e omogenea;
    a questo punto aggiungete i chiodi di garofano tritati e la frutta secca;
    amalgamate il tutto e con l’impasto ottenuto create delle piccole pagnotte. Copritele con un panno e lasciate che lievitino per almeno 5 ore;
    sistemate infine in una teglia e infornate. Il forno dovrà essere impostato a 170° e la cottura dovrà durare circa 40 minuti;
    lasciate che il pani ‘e saba raffreddi e infine tagliatelo in fettine da servire fredde.
    Consigli

    L’impasto potrà essere arricchito con dell’uvetta e in molte zone della Sardegna le pagnottine vengono bucate al centro in forma di ciambella. Conservare in cesti ricoperti d’alloro.



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    Amaretti di Oristano (Amarettus)



    Difficoltà: media
    Preparazione: 30 minuti
    Cottura: 25 minuti
    Dosi: per 4 persone

    Ingredienti:

    400 gr di mandorle dolci
    100 gr di mandorle amare
    500 gr di zucchero
    3 albumi

    Preparazione:

    la prima fase del confezionamento degli amaretti è la preparazione delle mandorle. Sbollentatele per un attimo e spellatele. A lavoro terminato asciugatele e tritatele;
    mescolate il composto farinoso ottenuto con lo zucchero amalgamando in maniera omogenea;
    a questo punto montate gli albumi leggermente e incorporateli con il composto a base di mandorle;
    l’impasto dovrà essere diviso in tante piccole palline della stessa dimensione molto similare a quella di una polpetta e queste andranno disposte ben distanziate in una teglia. Ricordatevi di foderarla con della carta forno antiaderente. Lasciate nel forno preriscaldato a 130° fintanto che la doratura non sarà uniforme.

    Consigli

    Prima d’infornare sistemate sulla sommità del dolce una mandorla tostata o della frutta candita.

     
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  3. tomiva57
     
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    Domus de Janas



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    L'ingresso della grande domus di Sedini


    Le domus de janas sono delle strutture sepolcrali preistoriche costituite da tombe scavate nella roccia. Si trovano lungo tutto il bacino del Mediterraneo, ma particolarmente in Sardegna dove si possono scorgere in tutto il territorio dell'isola sia isolate che in grandi concentrazioni costituite anche da più di 40 tombe. In lingua italiana il termine domus de janas è stato tradotto in case delle fate. Nel dialetto delle zone interne dell'isola, dove il significato del termine non è ancora scomparso, per indicare un uomo o donna dal fisico minuto (la dimensione è circa quella di un bambino pre-adolescente) si dice "mi paret un omine janu" (mi sembra un uomo janu). Le domus de janas in altre zone dell'isola sono conosciute anche con il nome di forrus o forreddus.
    A partire dal Neolitico recente fino ad arrivare all'Età del Bronzo antico, queste strutture caratterizzarono tutte le zone dell'isola culture prenuragiche. Ne sono state ritrovate più di 2.400, circa una ogni chilometro quadrato, e molte rimangono ancora da scavare. Sono sovente collegate tra loro a formare delle vere e proprie necropoli sotterranee con, in comune, un corridoio d'accesso (dromos) ed un'anticella, a volte assai spaziosa e dal soffitto alto.



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    Ruinas, domus de janas di Genna Salixi


    Gli archeologi sostengono che siano state scavate e decorate tra il IV ed il III millennio a.C. durante il periodo in cui sull'isola si diffuse la Cultura di Ozieri (Neolitico finale 3200-2800), ma gli scavi effettuati nella necropoli di Cucurru is Arrius, presso Cabras, hanno permesso di retrodatare le sepolture e di situarle nella Cultura di Bonu Ighinu (Neolitico medio 4000-3400). Le genti della Cultura di Ozieri in quel periodo si diffusero su tutta la Sardegna cambiando il modo di vivere delle popolazioni neolitiche sarde. Molto probabilmente venute dal mare, erano genti laboriose e pacifiche, dedite all'agricoltura e con una particolare religione che aveva una corrispondenza nelle lontane isole Cicladi. Adoravano il Sole e il Toro, simboli della forza maschile, la Luna e la Madre Mediterranea, simboli della fertilità femminile. Statuine stilizzate della Dea Madre sono state ritrovate in queste sepolture e nei luoghi di culto.



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    Le diverse architetture

    Le grotticelle funerarie sono state scavate su costoni in cui affiorava la roccia viva, una vicino all'altra così da formare nel tempo delle vere e proprie necropoli. Anche se presenti in altri siti mediterranei, sull'isola acquistano un carattere di unicità e straordinarietà per l'accurata lavorazione, per i caratteristici aspetti architettonici e le ricche decorazioni che richiamano quelle che furono le case dei vivi (ma su scala ridotta, si pensa, più o meno alla metà), dando una precisa idea di come in realtà fossero costruite le case dei paleosardi cinquemila anni fa. Si possono perciò trovare grotticelle a forma di capanna rotonda con il tetto a forma di cono, ma anche con spazi rettangolari e a tetto spiovente, provviste di porte e di finestre. Le pareti poi venivano spesso ornate con simboli magici in rilievo, rappresentanti corna taurine stilizzate, spirali ed altri disegni geometrici. Piuttosto numerose sono infatti le rappresentazioni naturalistiche o schematiche della testa taurina, o delle sole corna, che «testimoniano il culto di una divinità principio di rigenerazione per i defunti in quanto simbolo della vita e della potenza fecondatrice. Accanto alla decorazione in rilievo compare anche quella incisa e quella dipinta, quest’ultima documentata in particolare nella celebre tomba di Mandra Antine di Thiesi. Compaiono motivi lineari e geometrici, quali zig-zag, spirali, dischi, talvolta di grande valore simbolico».

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    Villaperuccio, Domus de janas di Montessu


    Inumazione

    Seguendo particolari riti, il defunto veniva trasferito da quella che durante la sua vita fu la sua casa abituale, in un'altra casa, secondo un antico principio ideale - proprio di queste genti - che presupponeva la continuità eterna dell'essere umano.
    I corpi venivano deposti in posizione fetale e - si pensa - venissero dipinti con ocra rossa, così come le pareti della tomba stessa. Accanto alle spoglie venivano deposti oggetti di uso comune facenti parte del corredo terreno del defunto e si pensa anche che venisse lasciato del cibo per il viaggio ultraterreno. Nel tempo i corredi funebri venivano rimossi per far luogo a nuove deposizioni e questa usanza ripetuta nei secoli ha impedito una miglior conoscenza del fenomeno e per questa ragione le ipotesi che le domus de janas fossero destinate ad un unico gruppo familiare resta non provata.
    L'archeologo Giovanni Lilliu su questo argomento ha scritto che: « ... i cadaveri erano sepolti, non di rado, sotto bianchi cumuli di valve di molluschi. Ma tutti portando con sé strumenti e monili della loro vita terrena: punte di frecce di ossidiana, coltelli e asce di pietra, ma anche collane, braccialetti ed anelli di filo di rame ritorto, e tante ceramiche». Altre ipotesi sostengono che il corpo veniva lasciato all'aperto per scarnificarsi e solo dopo, quando era ridotto ad uno scheletro, veniva riposto nelle grotticelle.

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    San Giovanni Suergiu, necropoli di Is Loccis-Santus.


    L'utilizzo nel tempo

    Per quelle domus più complesse gli archeologi pensano ad un disegno costruttivo unitario seguendo una particolare planimetria a forma di T o a forma di croce. L'accesso è costituito da un lungo corridoio che immette in una anticella per poi raggiungere una cella centrale sulla quale si affacciano le varie cellette funerarie. Oltre alla cultura di Bonuighinu e a quella di Ozieri, anche le successive culture prenuragiche utilizzarono le domus de janas. Sporadicamente furono occupate anche durante la Civiltà nuragica ed in età storica. Il caso più conosciuto e quello della necropoli di Sant'Andrea Priu a Bonorva utilizzata come chiesa in periodo romano e poi in quello bizantino quando fu più volte intonacata e dipinta con affreschi dedicati alle storie della Vergine, alla vita di Cristo e degli apostoli.


    I vari complessi sepolcrali

    I raggruppamenti più consistenti sono il complesso ipogeico di Anghelu Ruju presso Alghero, costituito da 36 ipogei; quello di Pani Loriga presso Santadi; quello di Sant'Andrea Priu nei dintorni di Bonorva; quello di Puttu Codinu a Villanova Monteleone. Altre presenze di Domus de janas non meno importanti per estensione ed interesse archeologico si trovano in altre aree della Sardegna. Alcuni di essi, come per esempio il complesso ipogeico di Pimentel in Trexenta, non sono stati completamente scavati e sono ancora parzialmente interrati.



    DomusDeJanas


    Di seguito alcuni tra i più importanti siti.

    1 Necropoli di Sant'Andrea Priu SS Bonorva 40.4218°N 8.8476°E
    2 Necropoli di Anghelu Ruju SS Alghero 40.6323°N 8.3265°E
    3 Necropoli di Mesu 'e Montes SS Ossi 40.5142°N 8.6333°E
    4 Necropoli di Puttu Codinu SS Villanova Monteleone 40.4870°N 8.5191°E
    5 Domus de janas S'Acqua 'e is Dolus CA Settimo San Pietro 39.3101°N 9.1786°E
    6 Domus de janas di Sedini SS Sedini 40.8817°N 8.8210°E
    7 Complesso archeologico di Sa Figu SS Ittiri 40.6044°N 8.5920°E
    8 Necropoli di Su Crucifissu Mannu SS Porto Torres 40.8105°N 8.4441°E
    9 Domus de janas della Pedra Peltunta o Roccia dell'Elefante SS Castelsardo 40.8897°N 8.7462°E
    10 Necropoli di Montalè SS Sassari 40.7482°N 8.51122°E
    11 Necropoli di Corona Moltana SS Bonnanaro 40°31′9.17″N 8°47′20.93″E
    12 Domus de janas Prunittu OR Sorradile 40.1021°N 8.9213°E
    13 Domus de janas Is Ogus de Monti CA Monastir 39.3829°N 9.0513°E
    14 Domus de janas Genna Salixi OR Ruinas 39.8498°N 8.9075°E
    15 Domus de janas Mandra Antine SS Thiesi 40.6322°N 8.6194°E
    16 Domus de janas Montessu CI Villaperuccio 39.1340°N 8.6670°E
    17 Domus de janas Forreddos de Mancosu NU Tiana
    18 Domus de janas Sas Concas NU Oniferi 40.3112°N 9.1967°E
    19 Domus de janas Sos Furrighesos SS Anela 40.4816°N 8.972°E
    20 Domus de janas Sa Mogola e sa Crabiola OG Ulassai
    20 Domus de janas Brodu NU Oniferi 40.3220°N 9.1736°E
    21 Domus de janas Pani Loriga CI Santadi 39.0896°N 8.6900°E
    22 Domus de janas Grugos OR Busachi
    23 Domus de janas Corongiu 'e s'Acqua Salida CA Pimentel 39.4983°N 9.0582°E
    24 Domus de janas Abbauddi OR Scano di Montiferro 40.2264°N 8.6025°E
    25 Domus de janas Ispinioro OR Scano di Montiferro
    26 Domus de janas Arzolas de Goi OR Nughedu Santa Vittoria 40.0979°N 8.9473°E
    27 Domus de janas Filigosa NU Macomer 40.2779°N 8.7696°E
    28 Domus de janas dell'Orto del Beneficio Parrocchiale SS Sennori 40.7890°N 8.5947°E


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    Esistono poi numerosi siti minori (alcuni privati) sparsi per la Sardegna, come ad esempio Coa de Campus nel comune di Baunei e Su Tancau-Sa Murta nel comune di Lotzorai.


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    Lotzorai, Domus de Janas



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