SICILIA PARTE 6^

L’ANTICA DREPANUM OGGI DETTA TRAPANI..ERICE..SALEMI..MARSALA..

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.  
    .
    Avatar

    Senior Member

    Group
    Administrator
    Posts
    13,795

    Status
    Offline


    BUONGIORNO ISOLA FELICE ... BUON RISVEGLIO A TUTTI


    “... Lunedì ... saliamo verso ovest, nel nostro viaggio in terra siciliana e, dall’alto della nostra mongolfiera seguiamo la lunga striscia di asfalto che costeggia il mare ... la strada E931 ... da Agrigento ci porta fino a Sciacca, poi seguiamo la SS115 verso Marsala per poi arrivare alla meta del viaggio di oggi Trapani ... Buon risveglio amici miei ... la mongolfiera vi aspetta ... il nostro viaggio continua ...” ... e, come sempre, accompagno il risveglio con una carezza in dialetto siciliano ... No é facili spiegari cchi é l`amuri, veni a l`antrasatta, u senti `nto to cori. E` comu a `nventu cauru ca t`accarizza a peddi, é `nsensu di piaciri, u sangu ca ti ugghi. E c`é l`amuri di la mamma ca dassi a vita ppi so figghiu, Ppi idda è tuttu, è la so sciamma, `Nta lu munnu non c`è megghiu. S` `u talia si lu vasa, `nta lu pettu si lu strinci Quannu arriri, inchi la casa, ma su peni quannu chianci. E c`è puru chiddu ppi la terra, P` `o paisi unni criscisti. (Traduzione: Non è facile spiegare Che cos’è l’amore. Viene all’improvviso, lo senti nel cuore. E’ come un vento caldo Che t’accarezza la pelle, é un senso di piacere, il sangue che ti ribolle E c’è l’amore della mamma Che darebbe la vita per suo figlio Per lei è tutto, la sua fiamma, non c’è niente di meglio al mondo. Se lo guarda, se lo bacia se lo stringe al petto. Quando ride riempie la casa, ma sono pene quando piange. E c’è anche quello per la terra, il paese nel quale sei cresciuto. Per le strade, per la piazza, per la casa nella quale sei nato. Ah! l’amore è bello, sì, se è sincero. E se ce l’hai tienitelo caro perché se lo perdi io te l’assicuro da un momento all’altro ti ritrovi al buio!)

    (Claudio)



    L’ANTICA DREPANUM OGGI DETTA TRAPANI..ERICE..SALEMI..MARSALA..MERAVIGLIE SENZA FINE DELLA SICILIA..


    “Dopo le distruzioni e le ricostruzioni connesse con l'ultima guerra, la città si è imbiancata di vaste saline, sotto un cielo disegnato dalle pale di antichi mulini, in un paesaggio di mare animato dall'arcipelago delle Egadi…Note per la tradizionale mattanza (la pesca del tonno), le acque trapanesi godono del passaggio migratorio dei branchi di tonni …Trapani è l'antica Drépanum, un villaggio sicano il cui nome significa falce, dalla forma della stretta penisola che protende verso il mare….Secondo una leggenda, Cerere, dea fecondatrice della terra, smarrì la falce in questi luoghi mentre girovagava dolorosamente alla ricerca della figlia Proserpina, rapita dal dio Plutone.”



    “Nella notte dei tempi... si era insediato alle falde del monte Erice un villaggio dei Sicani..gli Elimi sarebbero giunti dall’Anatolia in due successive migrazioni, prima e dopo la conclusione della guerra di Troia (1184 a.C.)…I loro centri principali erano Segesta, Entella ed Erice, di cui l’antica Drepano divenne il porto.. altre località erano Alicia (Salemi) ed Jetas ( San Cipirello e San Giuseppe Jato)….Soltanto parecchio tempo dopo, con i Fenici, fu fondata la città….era nata Drepanon, nome derivante dal fiume (forse il torrente ora denominato Xitta) che sfociava in quel sito, assumeva casualmente nella lingua greca il significato di falce, corrispondente per pura coincidenza anche alla forma del luogo… Imprendibile roccaforte cartaginese durante la prima guerra punica (264-241 a.C.), Trapani dopo la battaglia delle Egadi passò sotto la dominazione romana……La presenza degli innumerevoli acquitrini, visibili fino a pochi decenni fa, era tale da precludere la formazione di un autentico nucleo di case….. ed è verosimile l’ipotesi, secondo la quale la topografia dei luoghi sarebbe stata in passato ben diversa da quella contemporanea e un vastissimo golfo di Trapani si sarebbe esteso, all’alba della civiltà, fino all’odierna frazione di Xitta…. la vecchia “falce” non era in quei tempi quella che oggi conosciamo terminante con la Torre di Ligny, ma si protendeva in una direzione opposta, con la punta rivolta non verso il mar Tirreno ma verso il Mediterraneo.”



    “A farla balzare sotto i riflettori di tutto il mondo è stato, nel 1998, nelle sue acque di una statua bronzea di circa due metri e mezzo chiamata Satiro danzante. Fino a quel momento, Mazara del Vallo, in provincia di Trapani, era una località marinara nota soprattutto per l’attività della pesca, avendo il porto peschereccio più grande d’Italia e uno dei più grandi del Mediterraneo…ora è anche e soprattutto la città del Satiro, opera di inestimabile valore artistico attribuita allo scultore greco Prassitele. ..E’ stata esposta in tutto il mondo (dal Museo nazionale di Tokio al Louvre di Parigi, passando per Montecitorio e numerose esposizioni internazionali) e oggi è ospitata all’interno del Museo del Satiro danzante nell’ex Chiesa di Sant’Egidio proprio nel centro cittadino…Mazara è l’unico comune italiano con una vera e propria casbah, ossia un quartiere arabo, ospitando la comunità magrebina più numerosa nel nostro Paese, da 25 anni immigrata nella città trapanese e che ha trovato impiego principalmente nella marineria…dista appena duecento chilometri da Tunisi - quindi rappresenta un facile approdo per la popolazione africana - ma l’insediamento di una comunità così numerosa in questa terra è certamente dovuto anche all’aspetto arabo che, nei secoli, la città ha conservato pressoché immutato…Il suo centro storico è fatto di cortili e viuzze tortuose in perfetto stile arabo e sopravvive, antistante la porta del Castello normanno, la Piazza Mokarta, intitolata al generale arabo sconfitto da Ruggero I…..la città reca numerosissime testimonianze della dominazione normanna: la Cattedrale del Santissimo Salvatore….l’arco normanno (che è ciò che rimane del poderoso castello, la chiesetta di San Nicolò Regale e la chiesa di Santa Maria delle Giummare…la città è devota a San Vito, la cui statua si trova in un punto del paese sotto il quale si dice alberghi un minaccioso vulcano sottomarino. La statua starebbe lì per fungere da “tappo”....”



    “Il viaggio verso Erice inizia da Trapani….Fino ad una settantina di anni fa, Erice non aveva nemmeno questo nome, essendo ancora conosciuta con il toponimo di Monte San Giuliano, così come l’avevano chiamata gli antichi conquistatori normanni…..Perfino adesso che vivono in un comune autonomo, almeno da un punto di vista amministrativo, gli ericini fanno fatica a sentirsi cosa altra rispetto agli abitanti della Valle, vale a dire i trapanesi. Perché?...Presto detto! A Erice c’è l’ospedale, ma non c’è il cimitero; la città di Trapani ha una squadra di calcio che gioca le proprie partite a Erice..un interscambio..come se fosse un’unica città….Erice può vantare come sue proprie e che internazionalmente le sono riconosciute….a cominciare dalla fama di “Città della scienza” che la cittadina si è guadagnata grazie alla creazione di un polo scientifico di eccellenza, ovvero il Centro internazionale di Cultura Scientifica Ettore Majorana….. in diversi periodi dell’anno, studiosi di tutto il mondo si trovano a dibattere, proprio sulla sommità ericina, di medicina, diritto, filosofia e tanto altro…..In primavera, invece, sono gli appassionati di automobilismo di tutto il mondo ad affollare le stradine rivestite d’acciottolato del piccolo borgo medievale per assistere alla storica Cronoscalata Monte Erice: una gara che coinvolge auto d’epoca, storiche, prototipi e macchine di produzione che partendo dalla vicina Valderice si inerpicano su per infiniti tornanti fino alla cima del monte regalando autentici brividi….Passeggiando dentro le mura di cinta, per le sue stradine tortuose e silenziose, la sensazione imbattendoci nelle tracce di un passato antico quanto glorioso (fatto di romani, fenici, arabi e normanni) è quella che un paese con così evidenti segni della sua storia non può non essere foriero di un sentimento identitario forte….A dominare su tutto c’è il Castello di Venere circondato dai giardini del Balio, il Duomo trecentesco con la torre campanaria in stile medievale, i suggestivi cortili e le numerose piccole e grandi botteghe artigiane che sono l’emblema più autentico della storia di questo piccolo centro.”



    “Marinella di Selinunte, compresa all’interno del territorio del comune di Castelvetrano, è una piccola frazione che si estende su un lungo litorale sabbioso nella parte più occidentale della Sicilia...Posta in un golfetto tra la foce dei fiumi Selino e Belice, oggi è un centro turistico-balneare con spiagge incontaminate e un mare limpido…La storia di Selinunte, nota nel mondo come uno dei siti archeologici più belli e rappresentativi della civiltà classica, risale al 650 a.C., anno della sua fondazione ad opera di coloni greci provenienti da Megara Iblea. Il nome (dal greco Selinos, dal latino Selinus) deriva da quello del prezzemolo selvatico che i coloni vi trovarono in abbondanza…Avamposto occidentale della cultura greca in Sicilia, l’immagine grandiosa che il luogo suscita è racchiusa all’interno del suo Parco Archeologico è costituito dall’Acropoli e dalla Collina Orientale. Fuori dalla città antica, invece, si trovano il Santuario della Malophoros e le due Necropoli di Manicalunga e Galera Bagliazzo…. durante gli scavi del 1871, vi fu ritrovata la Grande Tavola Selinuntina, testo dei culti della città…..camminando si percorre una strada, costeggiata da resti di colonne ed enormi blocchi di pietra,e si va verso la scogliera a picco sul mare….da qui è possibile ammirare l’intero parco archeologico immerso nella natura incontaminata.”



    “Il piccolo comune di Calatafimi Segesta, conosciuto da molti con il solo nome di Segesta per la zona del parco archeologico che ospita, è collocato tra morbide e ridenti colline nella provincia di Trapani….Il tempio di Segesta, uno dei monumenti più perfetti a noi giunti dall’antichità, si innalza in maestosa solitudine su un poggio circondato da un profondo vallone incorniciato dal Monte Bernardo e dal Monte Barbaro, sul quale si trova il teatro….eretto nel 430 a.C. è un elegante edificio dorico dalle proporzioni di una rara armonia mai portato a termine… non è mai stato scoperto a quale divinità fosse dedicato….. le 36 maestose colonne un effetto ottico indiscutibile… la bellissima vallata che lo circonda con la presenza di una piccola pineta gli offre una cornice unica…. “All’estremità di una valle lunga e larga, isolato in vetta a una collina e insieme cinto da rupi, domina lontano un’ampia distesa di terra, ma solo un breve tratto di mare. Il paese d’intorno è immerso in una fertilità malinconica, tutto coltivato, eppure quasi privo di abitazioni umane”. Con queste parole Goethe descrisse, nel 1787, il maestoso tempio dorico di Segesta.”



    “Lo chiamano il paese “fantasma”, forse per via di quel terremoto che 40 anni fa lo colpì violentemente, costringendo i suoi abitanti ad abbandonarlo per zone più sicure…E’ la terra degli “Elimi”, misterioso popolo che per più di un millennio si insediò in quella parte di Sicilia dominata dalla superba Segesta, ovvero Poggioreale..... La ricchezza di Poggioreale è certificata dall’origine del suo nome, derivante dal latino “Podus Riali” ovvero “Poggio degno di un Re” perché sorge su una collina da cui è godibile una splendida vista e un clima mite…Il suo fiore all’occhiello è sicuramente il centro storico, scelto dal regista Giuseppe Tornatore come set di due fra i suoi più celebri film: “Malena” e “L’uomo delle stelle”…. al di là della tragedia che l’ha colpito, Poggioreale rimane un luogo incantato e chiunque abbia fatto l’esperienza di passeggiare fra quei ruderi, non ha potuto fare a meno di respirare l’atmosfera magica che promana dalle sue antiche strade.”


    “E’ un viaggio indietro nel tempo attraverso atmosfere, arti e mestieri vecchi di un secolo quello che si fa attraversando Custonaci, piccolo centro agricolo situato su un ricco bacino marmifero a 300 metri sul livello del mare…La piccola città, il cui nome in greco vuol dire “piccola castagna”, è il primo polo marmifero della Sicilia: il suo territorio comprende circa duecento cave di marmo, le cui caratteristiche pregiate lo rendono da sempre molto ambito da artisti e architetti di tutto il mondo - per citarne solo alcuni esempi: il Kennedy Center di New York, la chiesa di San Pietro a Roma e la Metropolitana di Milano sono stati realizzati con tali marmi…il piccolo Borgo Scurati e rendersi conto che qui il tempo sembra essersi fermato…..piccole case, stalle, un forno per il pane, un recinto con le pecore, un frantoio e poi ancora la gente: contadini che arano, pescatori che intessono le reti, ragazzine che lavano i panni nelle pile, donne che ricamano al telaio, nonne che stirano col ferro a carbone. Il tutto all’interno di un paesaggio fatto di grotte naturali caratterizzate da spesse pareti rocciose….la Grotta Mangiapane risalente al paleolitico, poi il Golfo di Bonagia e quello del Cofano.”


    “Salemi….è una cittadina.. in una bella posizione …in mezzo a coltivazioni di vigne che caratterizzano tutto il trapanese…… conserva un centro storico di impronta islamica, caratterizzato da strette viuzze acciottolate che salgono verso il punto più alto, occupato dal castello Normanno edificato per volere di Ruggero d'Altavilla nel sito ove sorgeva una fortezza.. ha due torri quadrangolari e un'alta torre cilindrica.……Salemi ebbe un subitaneo momento di gloria quando, dopo l'arrivo di Garibaldi, venne simbolicamente dichiarata prima capitale d'Italia.”



    “…”Percorrendo la costa che da Trapani conduce fino a Marsala ci si imbatte in una laguna il cui aspetto ricorda una sorta di paradiso incontaminato fatto di paludi salmastre, giunchiglie, saline e mulini a vento….Qui è anche possibile ammirare splendide specie avicole come aironi, cavalieri d’Italia, avocette e fratini.”..Proprio nel cuore di questa laguna del comune di Marsala, nota come lo “Stagnone”, sorge l’isola di San Pantaleo, meglio conosciuta con l’antico nome di Mothia….Per molti anni, questo piccolo angolo di paradiso fu quasi del tutto dimenticato fino a quando, alla fine del secolo scorso, l’aristocratico inglese Giuseppe Whitaker, trasferitosi in Sicilia per produrre e commercializzare vino, rapito dalla bellezza dell’isoletta, la volle acquistare. Fu proprio durante gli scavi da lui avviati che venne alla luce l’antica città fenicia. Ancora oggi San Pantaleo è di proprietà della fondazione Whitaker…Il viaggio a Mozia è un autentico itinerario per i cinque sensi….un percorso dell’udito che si bea del silenzio che domina tutta l’isola, spezzato di tanto in tanto solo dallo sciabordio delle onde, dalle strida degli uccelli marini e dalle pale dei mulini a vento…Una visione straordinaria per la vista, eccitata da un susseguirsi caleidoscopico di colori - il verde della vegetazione, l’azzurro del mare che si mescola a quello del cielo, il rosso del palazzo ottocentesco dei Whitaker, che oggi ospita il museo dove sono conservati i preziosi reperti archeologici rinvenuti, il bianco delle montagne di sale…Per l’olfatto un continuo solletichio di aromi speziati delle uve e dal penetrante odore degli ulivi…Per il gusto che si inebria sorseggiando il prelibato vino delle cantine della famiglia Bonomo…Per il tatto che può saggiare la consistenza del sale, la cui coltivazione ed estrazione avvengono ancora coi metodi di una volta…..un mulino vecchio di 500 anni, che sopravvive solo grazie alla volontà dei suoi proprietari di mostrare, a quanti non hanno mai avuto l’occasione di assistervi, lo straordinario spettacolo della lavorazione del sale secondo il metodo tradizionale.”



    “Quando arrivi a Marsala non puoi non pensare alla storia, che da qui ha cambiato la nostra Italia. Chissà se l’undici maggio 1860, sbarcando qui, Garibaldi immaginava che questo avrebbe radicalmente trasformato non solo la nostra storia ma anche la toponomastica di questa cittadina…. posta sulla punta occidentale della Sicilia, rivela a chi la visita tutta questa storia, la sua storia… Passeggiando per il centro della città, che deve il suo nome all’antica dominazione araba che trasformò Lilibeo, come l’avevano chiamata i fondatori, scappati alla distruzione della vicina isola di Mozia ad opera dei siracusani, in Marsah-el-ali, ovvero porto di Ali, si ha la sensazione di passare attraverso centinaia di anni di vita…Strato su strato questa città ha saputo conservare un po’ tutto, dalle testimonianze della dominazione punica ai resti di antichi mosaici romani, dalle stupefacenti facciate di alcuni palazzi barocchi agli stretti passaggi di certi vicoli su cui si affacciano case di evidente architettura araba, e poi cimeli garibaldini, nei nomi delle vie e delle piazze ma anche ricordi veri, come la casa dove trascorse la prima notte sull’isola siciliana il grande generale, in via XI Maggio al numero civico 89.”



    “L'arcipelago delle Egadi comprende tre isole principali, Favignana (la maggiore), Levanzo (la minore) e Marettimo, e due grandi scogli, Maraone e Formica, che emergono dalle acque azzurre del Tirreno, a poche miglia da Trapani… acque limpide… coste affascinanti… i piccoli rilievi.. baie.. grotte e la tonnara (una delle poche superstiti in Sicilia)… "Egadi" significa "favorevole, propizio"…hanno origini molto antiche: sono tuttora visibili i segni delle culture dell'età dei metalli….Abitate sin dalla preistoria e conosciute anche in età classica, queste isole appartennero alla famiglia Pallavicini-Rusconi fino al XIX secolo, quando la proprietà della Tonnara passò ai Florio e poi ai Parodi….. Meta di viaggiatori, scrittori e pensatori antichi e contemporanei Favignana ha ispirato, con i suoi colori, la sua natura e le sue coste lussureggianti…..le acque dalle trasparenze verde azzurro.. la ricchezza delle grotte naturali lungo le coste…nell'interno del paese altri luoghi d'incanto: le cave di tufo e di arenaria, che mutano i loro colori in un gioco di luci ed ombre….Arroccato sopra il monte di Santa Caterina, che domina il porto di Favignana, sorge il Forte … da questo cocuzzolo un panorama unico sulla ottocentesca tonnara dei Florio….Aegusa (questo il nome antico di Favignana) … un'unica strada conduce placidamente dal porto verso il centro del paese ed è subito un immergersi negli aromi del Sud, nei colori della macchia mediterranea e nei sapori salmastri…..”



    “Scogliere bianche, grotte marine, fondali impagabili, un paesaggio montano mozzafiato e un cielo splendido…..l’isola di Marettimo, la più lontana e selvaggia isola del gruppo delle Egadi, parte del comune di Favignana..le cui origini si perdono indietro nei tempi e che la mitologia fa corrispondere alla mitica Itaca di Ulisse….Dal mare le scogliere sono spettacolari ..una gamma incredibile di colori assume l’acqua tra le innumerevoli e suggestive grotte…. le rocce della Cola Bianca, a sud, dietro punta Mugnone…. tra i fantastici riflessi azzurri e le trasparenze dell’acqua, domina il profilo dolomitico dell’isola….guardandola bene dal mare sembra una scaglia di dolomia, che pare essere stata lanciata per sbaglio o per scherzo a centinaia di chilometri dalla sua terra di origine, andando a fermarsi nel blu del mar Mediterraneo…”










    Erice



    Vi parlo un po' di Erice perchè avendo fatto il militare a Trapani (CAR) spesso con i commilitoni andavo sul monte da dove si ammirava un paesaggio mozzafiato con il mare di un blu intenso. Mi è rimasta sempre nel cuore


    Chiesa Matrice, vicino alla porta di Trapani, del XIV secolo.


    Erice fu dall'antichità un centro importante del culto reso alla dea della produttività, inizialmente come l'Astarté fenicia, quindi l'Aphrodite greca ed infine come la Venere romana.
    La città fu a lungo tempo un centro spiritoso, che contava numerose chiese, templi e conventi




    Al vertice della montagna, si trovano i resti del castello di Venere costruito nel XII dai Normanni alla posizione di un vecchio templio dedicato a Venere.



    Cuore del comune è il capoluogo che sorge sull'omonimo "monte". Fino agli anni '30 si chiamava 'Monte San Giuliano'. Un tempo era uno dei comuni più estesi della Sicilia, comprendeva infatti territori assai distanti dal capoluogo: Valderice, Custonaci, Buseto Palizzolo e San Vito Lo Capo. Diverse le frazioni che completano il territorio, alle falde della montagna madre (Casa Santa, Roccaforte, Rigaletta, Tangi, Ballata, Napola, Pizzolungo, ecc.) A Erice sono rimasti solo poco più di trecento abitanti, che si decuplicano nel periodo estivo. Artigianato caratteristico: ceramica. Dolce tipico: Genovese alla crema, dolce di pastafrolla con zucchero a velo sulla parte superiore(possibilità di gustare anche la variante con ricotta) e "Mustaccioli", antichi biscotti fatti nei conventi di clausura.


    Il Castello di Erice

    Secondo Tucidide, fu fondata dagli esuli troiani, che fuggendo nel Mar Mediterraneo avrebbero trovato il posto ideale per insediarvisi; sempre secondo la leggenda, i Troiani avrebbero poi dato vita al popolo degli Elimi. Fu contesa dai Siracusani e Cartaginesi sino alla conquista da parte dei Romani nel 244 a.C. Virgilio la cita nell'Eneide, con Enea che la tocca due volte: la prima per la morte del padre Anchise, un anno dopo per i giochi in suo onore. Virgilio nel canto V racconta che in un'epoca ancora più remota vi campeggia Ercole stesso nella famosa lotta col gigante Erice, precisamente nel luogo dove poi si sfidarono al cesto il giovane e presuntuoso Darete e l'anziano Entello. In antico, insieme a Segesta, che parrebbe di fondazione coeva, era la città più importante degli Elimi, in particolare era il centro in cui si celebravano i riti religiosi. Durante la prima guerra punica, il generale cartaginese Amilcare ne dispose la fortificazione, e di qui difese Lilibeo. In seguito trasferì parte degli ericini per la fondazione di Drepanon, l'odierna Trapani. I Romani vi veneravano la "Venere Ericina", la prima dea della mitologia romana a somiglianza della greca Afrodite. Scarse, o quasi nulle, sono le notizie della città e del santuario nel periodo bizantino, restando comunque economicamente attiva. Denominata Gebel-Hamed con l'occupazione araba dell'831, la rocca viene successivamente rinnovata nel periodo di stabilità normanna con la ristrutturazione delle antiche porte di età elimo-punica e l'apertura di tre porte (Trapani,Carmine e Spada) e la costruzione di un castello nell'area dell'antico santuario. Conseguentemente ripopolata la nuova cittadella Monte San Guliano, ribattezzata nel 1167 sempre dai normanni, acquista prestigio anche con la costruzione di nuovi edifici civili e religiosi. Da ricordare è anche la poco pacifica convivenza con i dominatori spagnoli, culminata con una rivolta popolare assai feroce. Nei secoli successivi si inseriscono nuovi ordini reigiosi che acquistanto sempre più potere nell'area trapanese con un carattere conservatore. Gli interventi urbanistici si rivedono nell'800 con l'edificazione di nuovi pallazzi signorili e la ristruttrazione della piazza centrale, dedicata successivamente ad Umberto I. La città tende comunque a conservare gelosamente il fascino di una cittadina medievale. A partite dal XVI secolo si svolge la rappresentazione del misteri in occasione del Venerdì Santo, emulando quella trapanese, in misura ridotta ma molto suggestiva. Sostituendo la rappresentazione scenica teatrale con statue in legno attorno all'800, i misteri vengono condotti a spalla, seguendo sempre il percorso originario. Nel 1934 Monte San Giuliano riprende il nome di "Erice". Dal 1957 si organizza ogni anno, nel periodo primaverile, una gara automobilistica di cronoscalata, denominata "Gara in salita di velocità Monte Erice", per la quale esistono anche un campionato italiano e un campionato europeo. Sui tornanti che partono da Valderice e raggiungono la vetta dell'omonimo monte, sfrecciano a tutte velocità vetture moderne, storiche, prototipi da competizione e vettura formula, cirocondati da sportivi e appassionati e, naturalalmente, da uno sfondo mozzafiato. Dal 1963 è sede del Centro di cultura scientifica Ettore Majorana, istituito per iniziativa del professor Antonino Zichichi, che richiama gli studiosi più qualificati del mondo per la trattazione scientifica di problemi che interessano diversi settori: dalla medicina al diritto, dalla storia all'astronomia, dalla filologia alla chimica. Per questo è dato attribuito l'appellativo "città della scienza". Nel 1990, a seguito della prima edizione dell'"Atelier Internazionale di Gastronomia Molecolare", di cui da allora regolarmente si tengono convegni annuali, si ebbe il formale riconoscimento della disciplina della gastronomia molecolare.


    Erice Rosone gotico



    Trapani

    (Tràpani in siciliano), città posta tra due mari, altresì conosciuta come città del sale e della vela, è un comune di 70.711 abitanti, capoluogo della omonima provincia. La sua conurbazione tuttavia raggiunge quasi i 100 mila abitanti perché una parte della città, la popolosa frazione di Casa Santa, fa capo al Comune di Erice. Di conseguenza costituisce la quinta area urbana siciliana per numero di abitanti. Ha sviluppato nel tempo una fiorente attività economica legata all'estrazione e al commercio del sale, giovandosi della sua posizione naturale, proiettata sul Mediterraneo, e del suo famoso porto che anticamente fungeva da sbocco commerciale per la più famosa Eryx (l'odierna Erice) sita sul monte che sovrasta Trapani. Altre fiorenti attività erano - e sono tuttora - la pesca (anticamente quella del tonno, con la mattanza), l'estrazione e il commercio del marmo, la lavorazione del corallo. Oggi la città vive prevalentemente di terziario, delle attività legate alla pesca, al commercio e al turismo.

    « Nordica miscela d’acqua anice cielo mare Trapani
    ingabbiato di gru metalliche galleggianti
    e torbide scritture di pioggia grafomane in necrologie
    L’innocenza di quel sale bianco nello schifazzo
    sotto la vela tesa e sporca di vita vissuta, va
    Freddi astratti mulini delle saline
    tetti di tegole accovacciate sul sale virginale per difenderne la pura
    amarezza dal peccato dolcissimo... »
    (Il porto di Trapani invernale, F.T. Marinetti, 1928)

    Le origini

    Le origini di Trapani sono così antiche che affondano nella leggenda. La morfologia peculiare dell'area geografica e la vicinanza con Eryx ne fecero ben presto un topos letterario piuttosto ricercato. La mitologia vuole che la città di Trapani sia stata originata dalla falce caduta a Cerere mentre sul carro trainato da serpi alati correva per il mondo alla ricerca della figlia rapita dal dio Ade: la falce caduta in mare si mutò in una lingua di terra arcuata sulla quale sorse una città, per tale forma detta appunto Drepanon ("falce" in greco antico). Secondo un'altra tradizione mitologica Trapani sarebbe invece sorta dalla falce caduta dalle mani di Saturno dopo aver evirato il padre Urano, mentre per altri Trapani nacque dall'amore sorto tra il cielo e il mare. Per alcuni ricercatori, tra cui l'inglese Samuel Butler, la città dei Feaci - Scherie - descritta nell'Odissea di Omero sarebbe proprio l'odierna Trapani. Nell'Eneide, Virgilio racconta le avventure dell'eroe troiano Enea e, fra esse, quella che lo portò a Drepano (Trapani) in Sicilia, accolto da Aceste, figlio di Crimiso e di Egesta. Qui, morì Anchise e qui il pio eroe seppellì la salma del padre sul monte Erice tornandovi successivamente dopo la fuga da Didone e celebrando con giochi grandiosi la memoria del genitore, giochi, chiamati ludi novendiali, che potrebbero essersi svolti nella piana di Pizzolungo, alla periferia di Trapani. Questa narrazione accredita l'ipotesi che ai tempi di questi giochi esistesse già il piccolo borgo drepanitano. Al di là delle suggestioni mitologiche, è storicamente accertato che Trapani fu fondata dagli Elimi in una data sicuramente anteriore alla caduta di Troia (1260 a.C.). Dunque, gli Elimi, originari abitanti di Erice, fondarono in pianura un villaggio in prossimità del mare e delle terre coltivate per stabilire un centro di collegamento tra la vetta - in cui essi risiedevano e si rifugiavano per ripararsi da eventuali attacchi esterni - e il posto di lavoro, dove si dedicavano all'agricoltura e alla pesca dalla terraferma. Quando nel IX secolo a.C. i Fenici dalla vicina Cartagine si mossero verso le coste occidentali della Sicilia, trovarono già costruito dagli Elimi il borgo di Trapani e con questi ultimi lo abitarono pacificamente. Il piccolo villaggio di Trapani doveva sorgere su un promontorio, quasi un'isola, più o meno corrispondente all'attuale quartiere di San Pietro (o Casalicchio), diviso dall'entroterra paludoso mediante un canale navigabile che metteva in comunicazione il mare di Tramontana con quello di Mezzogiorno. Con la creazione della colonia fenicia il villaggio doveva contare meno di 500 abitanti. L'immigrazione dei Sicani prima (già insediati nella Sicilia occidentale), e dei Fenici e dei Cartaginesi poi, fece di Trapani una città-emporio per la sua felice posizione geografica.

    Saline (Trapani)



    MARSALA

    MarsalaCOA

    Il tramonto alle saline dello Stagnone


    il-tramonto-alle-saline

    il-tramonto-alle-saline



    La Riserva Naturale Regionale Orientata Isole dello Stagnone di Marsala tutela un'area di 2.012 ettari circa, con laguna marina, isole e saline costiere in parte ancora attive; si trova nel Comune di Marsala (TP). La riserva è composta dalle quattro isole (zona A) e dalla fascia costiera che comprende la salina Genna, la salina Ettore, la salina Infersa e la salina di S. Teodoro (zona B).

    Lo Stagnone di Marsala è una vasta area lagunare posta tra la città di Marsala e la Penisola di Birgi. Nell'area lagunare sono distinguibili due bacini, uno meridionale più aperto verso il mare ed uno settentrionale con più marcate caratteristiche lagunari. La profondità media è di circa un metro, con un massimo di tre metri nella parte meridionale ed un minimo di 20 - 30 centimetri in quella settentrionale. Il ricambio delle acque avviene attraverso due bocche: una a sud delimitata da Punta d'Alga e Punta dello Stagnone (1.400 m) e una a nord tra Torre S. Teodoro e Punta di Tramontana (450 m). Parte di questa zona umida era già stata trasformata in salina dai Fenici. Idrisi, noto viaggiatore arabo, ne riporta la prima testimonianza risalente al periodo normanno. Nel 1572 il porto di Trapani era il più importante per l'esportazione del sale, riciesto in tutta l'Europa. Le acque delle vasche di salina seguono il ciclo delle stagioni, tingendosi di mille colori, mentre il cielo si riempie del volo degli uccelli migratori e nidificanti. I mulini sono stati recentemente ristrutturati e riportati agli antichi spendori. L'Isola di San Pantaleo conserva i resti di Mozia, città fenicia fondata alla fine dell'VIII secolo a.C. Sull'isola si trova anche un piccolo ma ricco museo dedicato a Joseph Whitaker, illustre figura di imprenditore e studioso dei primi del Novecento, che effettuò numerosi scavi archeologici. All'interno del museo si può ammirare anche la splendida statua di giovane risalente al V secolo a.C., eccezionale esempio di arte greca. La macchia mediterranea di spettacolare bellezza riempie dei suoi profumi ogni angolo della riserva, insieme alla vegetazione alofila. Le praterie di posidonia ospitano sotto la superficie dell'acqua una infinita varietà di specie di animali.



    porta-sud

    Isola di Mozia (Mothia)/ San Pantaleo, Marsala

    il-cothon


    MARSALA

    ...Luogo ideale per far riaffiorare quella voglia di essere viaggiatori prima che turisti, Marsala offre infinite sensazioni e le emozioni. Ad accogliervi in questa punta estrema d’Italia - approdo mediterraneo di tante civiltà - è la splendidissima Lilybeo, l’araba Marsa Allah, che ha candidato all’UNESCO il suo patrimonio naturalistico e archeologico. Un binomio racchiuso nella Riserva naturale “Isola di Mozia e Laguna dello Stagnone”, con saline, mulini a vento, fenicotteri ed aironi: su queste meraviglie vigila la statua greca del Giovinetto custodito nel museo della fenicia isoletta. Il punto di partenza per un viaggio alla scoperta di Marsala è il cuore della città, dove porte e bastioni sono baluardi di suggestivi quartieri. Più in là Capo Boeo, l’area archeologica che ha portato alla luce la statua della Dea Iside e della Venere Callipigia. Numerosi gli itinerari lungo la “Strada del Vino - Terre d’Occidente”, cui se ne possono aggiungere altri: quello tra Fede e Tradizioni popolari, ad esempio, propone un percorso nuovo, tra Santuari e chiese che sono anche testimonianze artistiche e architettoniche di notevole rilievo. Marsala Tutto l’Anno, questo il progetto dell’Amministrazione Comunale, offre quindi un turismo di qualità, ora arricchito dalle eccezionali proposte degli albergatori locali. La novità 2009 è il pacchetto turistico Get One Night Free. Un motivo in più per visitare la città, cogliendo l’opportunità di una notte gratuita nelle strutture convenzionate. Per rendere più interessante il soggiorno, l’Assessorato comunale al Turismo organizza diversi appuntamenti: spiccano le Manifestazioni Garibaldine, che proiettano Marsala verso i 150 anni dall’Unità d’Italia..

    foto1

    foto3

    foto5



    TRAPANI - La storia -


    Stretta tra il mare ed il monte di Erice, l’antica Drepanon nasce intorno al suo porto: originariamente come villaggio sicano, poi come piccola città fortificata, in cui per secoli vissero pescatori, commercianti, artigiani di popolazioni diverse, come gli Elimi, che popolavano Erice, o come un piccolo gruppo di Ionici. Una piccola città di mare, fondata dai Fenici, che solcavano i mari del Mediterraneo e che di Trapani fecero un emporio commerciale. Dal IX secolo a.C. i Fenici, persa la loro indipendenza, si stabilirono nel Mediterraneo occidentale, fondando Cartagine e rafforzando Trapani, trasformando la città in un importante porto per il controllo dei vari scali commerciali. In questo periodo, la storia di Trapani è indissolubilmente legata a quella di Cartagine. La città assiste alle grandi battaglie navali tra Cartaginesi e Romani: quella del 249 a.C. che vide la sconfitta della flotta romana, quella delle Egadi del 241 a.C., che permise ai Romani di occupare Trapani. L’epoca romana penalizza notevolmente la città, che perde la propria autonomia politica, la proprietà delle terre e subisce nuove tasse ed imposizioni. Nel 395 la Sicilia, e Trapani con essa, passa all’Impero Romano d’Oriente. Sono anni difficili, anche per le numerose invasioni barbariche. La città rinasce con la dominazione degli Arabi, che a partire dall’827 iniziano l’occupazione della Sicilia.
    Gli Arabi chiamano Trapani Itrabinis, Tarabanis, Trapanesch e segnano profondamente la città con la loro presenza, nell’architettura, nell’agricoltura, nell’arte, nella lingua, nella cultura. Viene ampliato il porto, vengono costruiti nuovi quartieri, viene reintrodotta la piccola proprietà. Gli Arabi introducono anche nuove produzioni, costruiscono opere di ingegneria idraulica, rivoluzionano le tecniche di pesca e riportano il porto ai fasti di un tempo. Nel 1097 Trapani viene conquistata dal normanno Ruggero. E’ un altro periodo di grande prosperità per il territorio. Il porto ottiene la franchigia doganale, la città ospita i primi consolati delle principali potenze commerciali, genovesi, pisani, veneziani, fiorentini, amalfitani, catalani. Con i Normanni la religione cattolica romana diviene la religione ufficiale. Nel periodo svevo, a partire dal 1194, Trapani vede confermata l’importanza del suo porto. Con il regno di Carlo d’Angiò, Trapani vive un periodo difficile, a causa di una notevole pressione fiscale. I Vespri Siciliani del 1282, a cui partecipano numerosi notabili trapanesi, portano alla fine della dominazione angioina in Sicilia. Inizia così la dominazione aragonese. Con Giacomo II d’Aragona, la città conosce un nuovo assetto urbanistico. Carlo V dà un ulteriore incremento alle attività commerciali ed artigianali. La dominazione spagnola si conclude nel 1713. Dopo le brevi parentesi sabauda e austriaca, dalla seconda metà del Settecento inizia il regno borbonico, che governa la Sicilia fino al 1860. In questo periodo i trapanesi si dedicano al commercio e all’industria. Fiorente è l’attività marinara, così come le industrie del sale e le tonnare. Rimasta pressoché indifferente alla sollevazione del 1820, Trapani partecipò invece ai moti del 1848. Nel 1899 il re Umberto I conferisce alla città la medaglia d’oro per i fatti del 1848. La città dà il suo importante contributo per l’unità d’Italia e si conferma come centro importante nel settore agroalimentare, ma la lontananza geografica dai grandi mercati porta ad un inesorabile declino, che si accentua ancora di più nei primi del Novecento e durante la prima Guerra Mondiale. Particolarmente vivace resta invece l’attività culturale e politica. Nel ventennio fascista si assiste ad una leggera ripresa dell’economia del territorio. La Seconda Guerra Mondiale segna profondamente la città, con la distruzione dell’intero quartiere di San Pietro, il più antico di Trapani, e del Teatro Garibaldi, costruito nel 1849. Ben ventotto sono le incursioni aeree che la città subisce, collocandola al nono posto dei capoluoghi di provincia bombardati. Il 22 luglio del 1943 le truppe alleate giungono nella piazza di Trapani, trovando una popolazione in drammatiche condizioni di vita. Il difficile periodo della ricostruzione porta la città tra il 1950 ed il 1965 ad una ripresa delle attività industriali e commerciali. Il terremoto della Valle del Belice del gennaio del 1968 provoca ripercussioni e danni anche nella città di Trapani.



    “Trapani, città delle primitive e antichissimo soggiorno, giace sul mare che la circonda d’ogni lato, entrandosi se non per un ponte dalla parte di levante. Il porto è sul lato meridionale; porto tranquillo, senza movimento: quivi un gran numero di legni sverna sicuro da tutti i venti, rimanendovi cheto il mare mentre fuori imperversano i flutti. In questo porto si prende una quantità strabocchevole di pesce; vi si tende anco di grandi reti al tonno; si trae similmente dal mar di Trapani del corallo di prima qualità. Dinanzi la porta della città giace una salina”. Con queste parole Al’ Idris, geografo arabo alla corte di re Ruggero, racconta Trapani e la sua economia. La città nei secoli ha subito numerosi mutamenti, mantenendo comunque la sua caratteristica forma di falce. A tre metri sul livello del mare, occupa una superficie di circa 4.000 metri quadrati. La sua posizione è a 38° 4’ di latitudine boreale e a 30° 40’ di longitudine orientale. Conta 69.497 abitanti (dati del censimento dell’ottobre 2001). La città si caratterizzava per la presenza di quattro torri d’avvistamento: Torre Vecchia, Torre del Castello di Terra, Torre Pali, Torre di Porta Oscura o dell’Orologio. Durante le guerre puniche, il generale cartaginese Amilcare Barca costruì la quinta torre, il Castello della Colombaia. Le quattro torri racchiudevano la città all’interno di un quadrilatero murario. I confini erano segnati dalle attuali via Garibaldi, via XXX Gennaio, Via Torre Pali e via Torre Arsa. Le mura di levante terminavano con un fossato, seguito da un canale navigabile. Il centro urbano venne ampliato in epoca aragonese. All’originario rione “Casalicchio”, o di San Pietro, si affiancarono il rione “di mezzo” o di S. Nicola ed il quartiere “Palazzo”. In questo periodo vennero costruite la Rua Grande (l’attuale Corso Vittorio Emanuele) e la Rua Nova (l’attuale Via Garibaldi). Furono potenziate le difese, con la realizzazione di una cinta muraria rafforzata da bastioni. La città dispose di undici porte e numerosi nuovi bastioni di difesa. Nel 1671 venne eretta la Torre di Ligny, tuttora esistente, su ordine del viceré don Claudio Morando, principe di Ligny. All’interno di Torre di Ligny, nell’estrema punta della falce, vi è oggi il Museo della Preistoria. Nel 1862 il governo italiano, con Regio Decreto, privò la città della qualifica di Piazza d’Armi, che la obbligava a mantenere le fortificazioni. Vennero così abbattuti i bastioni e le mura e la città potè espandersi verso est: fu prosciugata e bonificata la zona della Marinella nella Salina del Collegio, fu riempito il canale navigabile, Rua Grande e Rua Nova assunsero i nomi attuali, furono lastricate strade e ne furono realizzate altre, come il lungomare, Piazza Marina e Via Fardella. Risale a questo periodo anche la costruzione del Palazzo delle Poste, della Provincia e della Capitaneria di Porto. Con l’esproprio dei beni ecclesiastici, la soppressione delle confraternite religiose, molte proprietà passarono al Comune, alla Provincia ed ai privati, divenendo sedi di uffici pubblici, scuole, istituti. Altri edifici vennero abbattuti, come il convento di Sant’Agostino e il monastero di Santa Chiara. I bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale determinarono un nuovo assetto urbanistico della città. Venne ricostruito il rione San Pietro, con la creazione di una nuova strada, Corso Italia. Ai tradizionali quartieri San Pietro, San Francesco, San Lorenzo, San Nicola, Maria Ausiliatrice, Sacro Cuore e Borgo Annunziata si aggiunsero i rioni Palma, San Giuliano (che ricade nel territorio del Comune di Erice) e Cappuccinelli.



    Saline di Trapani



    Visitare la città di Trapani è come immergersi in diverse epoche storiche. Ogni angolo si caratterizza per monumenti, chiese, palazzi, che raccontano la vita della città nei vari secoli. Il cuore pulsante di Trapani continua ad essere rappresentato dal porto, nel centro storico. Il porto di Trapani ha subito nel tempo diverse modifiche, fino all’ultima con i lavori, tuttora in corso, di rifacimento delle banchine e di adeguamento. L’estrema punta della città è caratterizzata da Torre di Ligny, sede oggi del Museo della Preistoria. Per raggiungerla si percorre una stretta via, circondata da entrambi i lati dal mare di un azzurro intenso, frequentato in estate da numerosi bagnanti. Poco distante vi è il porto peschereccio, con le barche dei pescatori che continuano a rinnovare una tradizione ed un lavoro che si tramanda da secoli, di padre in figlio. Nella zona del porto peschereccio si possono ammirare il Villino Nasi, recentemente recuperato alla fruizione della collettività e l’ex Lazzaretto, oggi sede della sezione locale della Lega Navale Italiana. Poco distante, in mezzo al mare, la Colombaia, uno dei simboli della città di Trapani. Addentrandosi verso il centro storico, si possono ammirare gli antichi palazzi, i monumenti, le chiese di diverse epoche. Gran parte del centro storico di Trapani è inserito nella zona a traffico limitato. L’accesso alle auto è vietato in numerose vie, che nel tempo hanno assunto il carattere di “salotto” della città: Corso Vittorio Emanuele, l’antica “Loggia”, via Torrearsa, Via Garibaldi. Qui è tutto un susseguirsi di palazzi storici e chiese di notevole pregio artistico: il Palazzo Cavarretta, la Cattedrale, Palazzo Riccio di Morana, Palazzo San Rocco, Palazzo Riccio di San Gioacchino, Palazzo Lucatelli, la Chiesa del Collegio. Poco distante si trova la Chiesa del Purgatorio, in cui sono conservati i sacri Gruppi dei Misteri di Trapani. Da Via Garibaldi, attraverso una scalinata sulla sinistra si raggiunge la Chiesa di San Domenico con l’annesso convento. Lungo la via Torrearsa si apre Piazza Sant’Agostino con la Chiesa caratterizzata dal prospetto impreziosito da un rosone e la Fontana di Saturno. Proseguendo si giunge in Piazza Scarlatti, nei pressi della quale si trova l’ex Chiesa di San Giacomo, sede attuale della Biblioteca Fardelliana. Percorrendo Corso Italia si arriva alla Chiesa di San Pietro, che custodisce il prezioso organo opera del palermitano Francesco La Grassa e ci si addentra nel cosiddetto Ghetto, via Della Giudecca e via degli Ebrei, fino al XV secolo abitato dalla comunità ebraica. La parte nord della città è caratterizza dalla Litoranea con la caratteristica Piazza del Mercato del Pesce. Il Lungomare si estende per alcuni chilometri ed è costeggiato dai resti delle antiche mura della città. Il confine tra la città vecchia e la città nuova è dato da Piazza Vittorio Emanuele. Poco distante, in Piazza Vittorio Veneto, si trova Palazzo d’Alì, sede del Municipio e, di fronte, il Palazzo delle Poste, in stile liberty. Proseguendo si giunge a Villa Margherita, il polmone verde della città, con giganteschi ficus risalenti all’Ottocento. Piazza Vittorio Emanuele è caratterizzata dalla statua di Vittorio Emanuele II, opera di Giovanni Duprè (1882) e da una grande vasca, costruita nel 1890 con al centro il gruppo scultoreo del Tritone realizzato nel 1950 dal maestro Domenico Li Muli.Superando Piazza Vittorio Emanuele si giunge in via Giovan Battista Fardella, la strada principale della città, ricca di esercizi commerciali e bar. Da qui si può raggiungere la parte nuova della città, Corso Piersanti Mattarella, che conduce fino al territorio del Comune di Erice, via Conte Agostino Pepoli, in cui si ergono la Basilica dell’Annunziata ed il Museo Regionale Pepoli.

    Villa Margherita a Trapani…

    Quando il caldo impazza, le soluzioni sono poche: un tuffo al mare o la visita ai freschi giardini che si possono trovare anche in città. Un esempio? Quelli di Villa Margherita, splendida costruzione storica che sorge nel centro di Trapani. Questi giardini offrono la possibilità di scoprire la natura attraverso l’orto botanico, ma anche cigni e uccelli variopinti ospitati nelle apposite voliere. Villa Margherita è inoltre un luogo culturale, col suo teatro all’aperto sede di concerti e rassegne musicali. Uno sguardo particolare meritano inoltre gli alberi secolari sotto cui trovare ristoro, come i ficus risalenti al 1800.

    Piazza Vittorio Emanuele - Fontana del Tritone -

    Ubicata al centro della città, ne divide la parte antica da quella di più recente costruzione. La Piazza si caratterizza per la statua di Vittorio Emanuele II, realizzata nel 1882 dal senese Giovanni Duprè. Di fronte è la Fontana del Tritone, realizzata nel 1890 in ricordo della costruzione dell’acquedotto “Dammusi”. Al centro della fontana il monumento bronzeo del Tritone, realizzato nel 1951 dal maestro trapanese Domenico Li Muli.



    Piazza Saturno - Fontana di Saturno -

    Fatta costruire nel 1342 dal Senato, la Fontana che si Trova nelle vicinanze del Palazzo Comunale e della Cattedfrale di San Lorenzo per ricordare l'avvenimento della costruzione dell'acqudotto. Alla fine nel 1982 sono stati eseguiti dei restauri della facciata che fa da sfondo alla Fontana.



    Piazza Garibaldi - Trapani -

    Alle spalle della Piazza sorge l’antico Grand Hotel, davanti vi è il porto. Al centro si erge il monumento a Giuseppe Garibaldi, realizzato nel 1890 da Leonardo Croce. La statua è in marmo, su un alto piedistallo davanti al quale è un leone di bronzo accovacciato e ruggente.



    Piazza Mercato - Mercato del Pesce -

    La piazza, un tempo fuori dalle mura, è tuttora adibita a mercato del pesce. L’attuale assetto venne creato nel 1874 da Giovanbattista Salotti, con un porticato ad archi a tutto sesto e, al centro una fontana di Venere Anadiomene.



    Un angolo di Trapani



    SALE.....SALE.....SALE.........LE SALINE!!





















    Trapani - Le saline al tramonto -

    TRAPANI, MUSEO DEL SALE

    Tramonto a Trapani

    Porticciolo di Castellamare Trapani



    IL MARSALA!!!

    Il Marsala è un vino liquoroso a Denominazione di Origine Controllata (DOC) prodotto in Sicilia, nel comune di Marsala e nell'intera provincia di Trapani, con esclusione dei comuni di Pantelleria, Favignana ed Alcamo.


    STORIA
    La versione più accreditata sulla nascita del Marsala come vino liquoroso è incentrata sulla figura del commerciante inglese John Woodhouse il quale nel 1773 approdò con la nave su cui viaggiava nel porto di Marsala.
    Secondo la tradizione, durante la sosta lui ed il resto dell’equipaggio ebbero modo di gustare il vino prodotto nella zona, che veniva invecchiato in botti di legno assumendo un gusto analogo ai vini spagnoli e portoghesi molto diffusi in quel periodo in Inghilterra.
    In realtà gli inglesi ben conoscevano i vini dell'agro marsalese, in quanto da decenni si fermavano nello specchio d'acqua antistante il porto di Marsala per caricare con l'ausilio di apposite barche a basso pescaggio, detti schifazzi, varie vettovaglie, acqua, viveri e, per l'appunto, i vini. È doveroso ricordare che all'epoca il mediterraneo era assai frequentato da imbarcazioni inglesi, spagnole e francesi, che si contendevano il predominio di Mare Nostrum: Malta diventò terra inglese nel 1800. Il metodo di invecchiamento utilizzato dalla gente del luogo, denominato in perpetuum, consisteva nel rabboccare le botti che contenevano una parte del vino consumato durante l’anno con il vino di nuova produzione, in maniera da conservarne le caratteristiche.
    Il vino così trattato piacque a tal punto che Woodhouse decise di imbarcarne una cinquantina di barili, addizionandolo però con acquavite di vino, al fine di elevarne il tenore alcolico e di preservarne le caratteristiche durante il lungo viaggio in mare.
    Quel vino siciliano poco costoso riscosse in Inghilterra un grande successo, tanto che Woodhouse decise di ritornare in Sicilia e di iniziarne la produzione e la commercializzazione, utilizzando per l’affinamento il metodo soleras.
    Il metodo soleras, già conosciuto in Portogallo ed in Spagna per la produzione rispettivamente del Porto e dello Sherry, consisteva nel disporre delle botti di rovere su alcune file sovrapposte, iniziando a riempire di vino solo le botti più in alto; dopo un anno una parte del vino veniva travasato nelle botti che si trovavano al livello inferiore, e quelle superiori venivano riempite con il nuovo vino, ed il procedimento si ripeteva di anno in anno; in tale maniera il vino che si trovava nelle botti alla base, pronto per il consumo, risultava composto da uve di annate diverse, e di anno in anno si arricchiva di particolari sapori. Nel 1833 l'imprenditore siciliano Vincenzo Florio, iniziò a Marsala la produzione di Marsala in concorrenza con le aziende inglesi, fondando le Cantine Florio.



    VINIFICAZIONE
    Il Marsala viene prodotto mediante vinificazione in bianco di uve da vitigni Grillo, Inzolia, Cataratto ed altri autorizzati dal disciplinare.
    Durante la fermentazione si effettuano i travasi che favoriscono l’ossidazione del vino; alla fine della fermentazione si procede all’aggiunta di alcol etilico di origine vitivinicola ovvero di acquavite di vino, al fine di elevare il tenore alcolico.
    Se non vengono effettuate altre aggiunte di componenti, se il vino è stato ottenuto utilizzando solo uve a bacca bianca, e se si sottopone ad un invecchiamento di almeno 5 anni il Marsala si definisce vergine.
    Se si effettua l’aggiunta della cosiddetta concia, miscele caratteristiche di ogni produttore, composte principalmente da mosto cotto, mosto concentrato o mistella (mosto al quale è stata bloccata la fermentazione mediante l’aggiunta di alcol) al fine di accrescere le componenti aromatiche e la dolcezza del prodotto finale, il Marsala si definisce conciato.



    CARATTERISTICHE
    La classificazione del Marsala si divide in 3 categorie:

    1. Colore
    2. Residuo Zuccherino
    3. Caratteristiche Produttive


    1. Per Colore i Marsala si distinguono in:

    • oro, prodotto da uve a bacca bianca, è vietata l’aggiunta di mosto cotto.
    • ambra, prodotto da uve a bacca bianca, con aggiunta di mosto cotto superiore all'1%.
    • rubino, prodotto da uve a bacca nera, con eventuale aggiunta massima del 30% di uve a bacca bianca; è vietata l’aggiunta di mosto cotto.


    2. Per il Residuo Zuccherino, che è alla base della distinzione fra Marsala, si distinguono in:

    • secco, con zuccheri inferiori a 40 gr. per litro
    • semisecco, con zuccheri superiori a 40 gr. per litro e inferiori a 100 gr. per litro
    • dolce, con zuccheri superiori a 100 gr. per litro


    3. Per Caratteristiche di Produzione, i Marsala si distinguono in:

    • Fine, Minimo 1 anno di invecchiemento, è conciato.
    • Superiore, minimo 2 anni di invecchiamento, è conciato.
    • Superiore Riserva, minimo 4 anni di invecchiamento, è conciato.
    • Vergine, minimo 5 anni di invecchiamento, non è conciato.
    • Vergine Riserva, minimo 10 anni di invecchiamento, non è conciato.





    TIPI
    I vini Marsala si classificano, a seconda delle caratteristiche e della durata dell’invecchiamento, in

    • Fine con invecchiamento minimo di un anno
    • Superiore con invecchiamento minimo di due anni
    • Superiore Riserva con invecchiamento minimo di quattro anni
    • Vergine e/o Soleras con invecchiamento minimo di cinque anni
    • Vergine e/o Soleras Stravecchio e Vergine e/o Soleras Riserva con invecchiamento minimo di dieci anni




    CURIOSITÀ
    Il disciplinare di produzione (DPR 2 aprile 1969) prevede la possibilità di aggiungere in etichetta alcune sigle derivanti dalle antiche denominazioni dei vari prodotti.
    Il Marsala Fine può riportare la sigla I.P. (Italia Particolare).
    Il Marsala Superiore può riportare le sigle S.O.M. (Superiore Old Marsala), L.P. (London Particular), G.D o Garibaldi Dolce. Quest'ultima denominazione risale ad una visita allo stabilimento Florio di Marsala che effettuò il Generale dei Due Mondi nel 1862, dopo l'unificazione dell'Italia. Egli, appassionato di buoni vini ma non particolarmente competente, fu particolarmente colpito da un vino molto dolce ancora in lavorazione e destinato a successivi tagli: in suo onore questo vino entrò in produzione e prese il nome di Garibaldi Dolce.
    Si narra che Woodhouse, dopo aver scoperto la bontà del vino autoprodotto dai marsalesi, prelevò un piccolo quantitativo che in Inghilterra non fu apprezzato poiché presentato come un vino povero e di basso rango. L'imprenditore (che ha anche avviato gli scavi archeologici a Marsala e a Mozia), successivamente, lo fece riassaporare agli inglesi, stavolta presentandolo come un grande prodotto. Gli Inglesi rimasero sbalorditi dalla bontà del Vino Marsala, finanziandone così la produzione.
    La produzione del Vino a Marsala avviò nel XIX e XX secolo un business miliardiario, tant'è che nacquero in Sicilia almeno duecento "bagli" (aziende vinicole) che esportarono il vino Marsala in tutto il mondo. Questo business che fece della Città Lilybetana una delle città più ricche dell'Isola, oggi si è molto affievolito anche a causa delle mode e a produrre vini Marsala oggi non sono più di una ventina di cantine.
    Un altro imprenditore inglese, Ingham, ha costruito nella seconda metà dell'Ottocento una residenza. Una villa con porticati bellissimi, marmi pregiati, verande con colonne, pregiati affreschi sui muri. La Villa Ingham è stata abbandonata per 60 anni (fino al 1940 era un deposito) e oggi è sul punto di crollare. Nonostante questo il suo fascino rimane innato. All'interno si trovavano innumerevoli documenti, bottiglie ed etichette della Florio degli anni 30-40-50: oggi pare non ci sia più nulla di questi arredi ed effetti di famiglia.
    Il vino Marsala è stato il primo vino DOC della storia vinicola italiana, tutelato nel suo disciplinare sin dal 1932 nientemeno che dal Parlamento che legiferava tutte le variazioni che si rendevano opportune.








    La lavorazione del corallo

    La pesca e la lavorazione del corallo hanno contribuito molto a far conoscere Trapani e il suo territorio. Tra XV e XVI secolo i pescatori trapanesi iniziarono a praticarle grazie all'abbondanza dei banchi corallini scoperti. La pesca iniziava nel mese di maggio e terminava a settembre; l'artigianato della lavorazione del corallo divenne quindi sistematico: i pescatori corallari, riuniti nella corporazione dei Pescatori della marina piccola del Palazzo, abitavano concentrati nella odierna via Corallari. Nella «Historia di Trapani» del 1591 si parla dell'attività dei corallini e corallari trapanesi: il bono magisterio si era già affermato da mezzo secolo come vera espressione d'arte. Le zone più ricche di corallo erano quelle antistanti il mare di Trapani lungo le coste settentrionali, ma i pescatori si avventuravano spesso fino alle coste dell'Africa. Arrivato in porto il corallo veniva venduto ai mercanti, ai fabbricanti di gioielli e agli artisti che, dopo un lungo e laborioso processo di lavorazione, lo trasformavano in vere e proprie opere d'arte. I corallari acquistarono fama in tutto il bacino del Mediterraneo con i loro prodotti: oggetti sacri e profani, capezzali e cornici, presepi nei quali il corallo è frammisto a oro, argento, smalti e pietre preziose. Una serie interminabile di capolavori di gusto grottesco e fantastico con reminiscenze gotiche nella miniatura locale più tardiva, frammista ad aspetti della decorazione scultorea di scuola gaginesca. Tra la fine del XVI secolo e i due secoli successivi vennero create opere di squisita fattura per sovrani, principi, cardinali e papi. Realizzazioni memorabili furono la Montagna di Corallo acquistata per una cifra altissima, nel 1570 a Trapani, per conto del Viceré di Sicilia Don Francesco Ferdinando Avalos de Aquino affinché fosse inviata a Filippo II di Spagna; e quella donata nel 1631 dal Senato di Palermo al Papa Urbano VIII. Si consolidò una rete di committenze prestigiose in tutta Europa e fu così possibile produrre opere sempre più ricche ed elaborate. La maggior parte di questi capolavori si trova oggi fuori dalla Sicilia nelle collezioni dei Doria, dei Conti di Schoenborn a Pommersfelden, dei Principi di Ligne, dei re di Spagna e dei Whitaker. Presso il Museo Pepoli si possono ammirare sculture, monili e altre opere dei maestri trapanesi realizzate in corallo. Oggi, tuttavia, la pesca è quasi del tutto scomparsa, mentre è limitata a qualche artigiano la lavorazione del corallo.



    ERICE itinerario archeologico

    Ci sono luoghi in Sicilia dove il mito si intreccia e dove l'archeologia testimonia la vita di antichi popoli e civiltà. In cima a Monte San Giuliano, in splendida posizione panoramica su Trapani, in silenzio tra le nuvole, impostando la città di Erice. Erice fu popolata dagli Elimi che costruirono il tempio dedicato al culto della dea della fertilità e dell'amore. I successivi dominatori diritto il tempio al loro Dio, così i Fenici, adorarono Tanit-Astarte, i Greci adoravano Afrodite ei Romani Venere Ericini. Sulle rovine del Tempio è ancora il Castello di Venere, fortificato durante la dominazione normanna, adiacente ai giardini del Balio dominati dalle torri medioevali. La città murata è ciclopiche di impianto Elimo (VII sec.aC) e sui vertici sono: il Castello Normanno, il Duomo o Matrice (1314), che conserva l'originale stile gotico quattordicesimo secolo, con la torre campanaria e le sue delicate bifore e il Quartiere Spagnolo. La vecchia città ha un impianto urbanistico tipico medievale con piazzette, strade strette e tortuose, in cui si affacciano bellissimi cortili fioriti. Erice accoglie più di sessanta chiese tra cui quelle di San Martino, San Cataldo, San Giuliano, San Giovanni Battista. Ogni estate, la musica eco medievale recuperato la memoria da artisti di fama internazionale proposte durante la Settimana di musica medievale e rinascimentale. Da visitare il Museo Cordici, nel cui atrio è l'Annunciazione di Antonello Gagini, sito in Piazza Umberto I. Erice, sede del Centro di cultura scientifica "Ettore Majorana", conserva intatto il fascino del consiglio di amministrazione guidato da vecchi negozi di artigianato medievale finemente decorato in ceramica in genere, colorati tappeti tessuti a mano, i dolci tradizionali a base di mandorle e frutta candita.

    400px-Erice-Chiesa-Madre-bjs-1


    Erice1



    Erice

    erice-di-notte

    ERICE..DI SERA

    Erice



    Partanna

    è un comune di 11.847 abitanti della provincia di Trapani, situato fra le valli del Modione, a ovest, e del Belice, a est. Incerta è l'etimologia del nome, che da alcuni è ritenuto di origine greca (da παρθένος, parthenos, "vergine"), da altri di origine araba (Barthamnah, "terra scura"). Il sito fu abitato fin dall'epoca paleolitica, come dimostrano i reperti di recente scoperti sul luogo e nel dicembre 2006 iniziarono i lavori per la cotruzione di un parco naturale. In epoche più vicine a noi vi si insediarono gli Elimi, i Greci, i Romani e, in parte, anche i Bizantini. Il nucleo dell'abitato, però, risale al Medioevo. La piazza principale, intitolata ai giudici Falcone e Borsellino, è il luogo di ritrovo per i partannesi. Adiacente alla piazza Falcone e Borsellino si trova la villa Rita Atria, ex villa Macallè. È un centro agricolo e commerciale, a 58 km a sud-est del capoluogo.



    In origine il Maniero non aveva l'aspetto che oggi presenta al visitatore in arrivo dall'autostrada A29 Palermo-Mazara del Vallo.Da quando il Gran Conte Ruggero il Normanno espugnò Partanna nel 1076 ponendo fine al locale dominio musulmano, la Fortezza è diventata residenza e simbolo del potere della Famiglia Grifeo. Circa nove secoli di storia durante i quali il Maniero non ha mai mutato il suo compito. Si è trasformato, allargato, è divenuto più complesso, ma ha sempre rappresentato la supremazia della Famiglia nella cittadina e nei territori circostanti. Come il qualsiasi altra, buona storia medievale. All'inizio della dominazione araba, il piccolo complesso urbano di allora (che ha dato origine all'attuale cittadina) fu dotato di due torri di guardia: una trasformata in campanile della chiesa del SS. Crocifisso (dove oggi si trovano i resti della Chiesa del Purgatorio) e l'altra inglobata nel castello edificato poco dopo. Le origini della struttura, come della cittadina, sono ben più antiche. Bisogna risalire alla preistoria, come testimoniano le tombe a grotticella dell'Età del Bronzo rinvenute nella Contrada Grotte. La roccaforte fu prima insediamento sicano nel X secolo a. C. Poi greca e romana. Oggi questa è fra le fortezze meglio conservate della Sicilia Occidentale. Ha pianta rettangolare a corpo triplo con cortile interno, coperture a tetto a falde con travi lignee e tegole, murature in conci di tufo, in pietra e taio, pavimenti in ceramica e terracotta. Una volta dominava l'intero abitato, ma il successivo sviluppo dell'area urbanizzata ne ha sminuito la collocazione primaria, in quanto gli edifici di abitazione hanno ricoperto altre aree a quote più elevate. Nella sua veste architettonica di oggi, fu edificato verso il 1400 avendo come base di partenza la struttura medievale del Castello. Il tutto è stato poi rimaneggiato nel XVII secolo. Nel XX secolo fu una delle rare costruzioni a resistere durante il terribile e distruttivo terremoto della Valle del Belice (1968). In quest'area geografica della Sicilia, il sisma ha letteralmente cancellato interi paesi. A Partanna, oltre a tantissime abitazioni, sono state rase al suolo o distrutte in parte, la chiesa del Carmine, quelle di San Nicolò, di San Francesco, il chiostro di San Benedetto, la Chiesa Madre e altre ancora. Il paese è stato ricostruito e oggi rimangono poche ferite nel territorio. La Chiesa del Carmine e la Chiesa Madre sono state restaurate, anche se sono visibili i segni lasciati dal terremoto, soprattutto nelle decorazioni artistiche. Tornando a descrivere il Castello, una volta che si è entrati nel cortile attraverso la cancellata del perimetro esterno, sul portale interno che immette nel salone centrale o "Sala del Trono", si può ammirare lo stemma dei Grifeo, opera di Francesco Laurana artista che ha vissuto dal 1420 al 1503. Laurana ha qui soggiornato nel 1468 ed è stato l'autore delle statue che ornavano la vasta area a giardino del Maniero, opere uniche scomparse ormai da tempo. Si trattava di 13 sculture, una raffigurante Giovanni I Grifeo, capostipite della Famiglia in Sicilia. Analizzando il lato Nord è da ammirare il portale bugnato di ispirazione manieristica. Fu commissionato dal Principe Domenico Grifeo nel 1658 proprio come scenario principale per il nascente Corso principale di Partanna, l'attuale via Vittorio Emanuele, che si sarebbe inoltrato nel cuore di Partanna, dallo stesso Castello alla Chiesa della Madonna delle Grazie. All'interno della cosiddetta "Sala del Trono" da ammirare è l'affresco (immagine a destra) che narra le origini siciliane della Famiglia Grifeo. Le figure e il testo che compare sullo scudo di Giovanni I Grifeo, raccontano le origini dell’intitolazione del Feudo: lo stesso Giovanni I salvò il Gran Conte Ruggero durante un duello contro il condottiero arabo Mogat. L’investitura ufficiale con il titolo di Barone fu confermata nel 1137 in favore di Giovanni II Grifeo ad opera di Re Ruggero II. Sempre nel Salone centrale, compare un piccolo sportello che si apre in un ambiente angusto che si vorrebbe identificare con la "Cella della monaca" dove, pare, vivesse rinchiusa per voto una religiosa appartenente alla Famiglia. In verità, la leggendaria Cella e quindi i resti della monaca o della sua presenza, non sono mai stati ritrovati. Nelle cantine si trovano delle enormi botti che servivano per la conservazione del vino e, fino a qualche anno fa, due carrozze. Sempre a livello dei sotterranei, vari ambienti e celle, una fossa scavata nella roccia per conservare il grano e un lungo cunicolo che passando sotto le mura della fortezza, porta verso l'esterno. il percorso sotterraneo è ancora da esplorare completamente. Nasconderà qualche segreto, o qualche cimelio di Famiglia? Lo sanno solo alla Soprintendenza regionale. Adesso il maniero è oggetto di un intervento di riqualificazione da parte della Regione Sicilia che ha intenzione di trasformarlo in un museo del vino e, per fortuna, con una parte importante dedicata all'archeologia. Partanna ne ha di storia da raccontare. Attendiamo da anni la conclusione dei lavori. L'ultimo momento di gloria risale al 1941 quando il Castello fu visitato dal Principe ereditario di Casa Savoia, Umberto.

    Chiesa Madre, o Matrice

    Organo ligneo con in cima lo Stemma Grifeo, Chiesa Madre

    Nel gennaio 1968 Partanna fu colpita duramente dal terremoto del Belice. Molti edifici storici subirono danni, come la Chiesa Madre, altri invece furono completamente distrutti, come la chiesa di San Nicola. Dopo il terremoto sorse un nuovo quartiere in contrada Camarro, che si trova ad un livello più basso rispetto alla città storica che si trova invece in collina.

    UNA DELLE TANTE CHIESE CADUTE DURANTE IL TERREMTO DEL BELICE 1968 DI QUESTA RIMASE IN PIEDI SOLO LA FACCIATA, SCATTATA IN DICEMBRE 2007



    Mazara del Vallo

    (Mazzara in siciliano) è un comune della provincia di Trapani, affacciato sul Mar Mediterraneo, alla foce del fiume Màzaro e distante meno di 200 km dalle coste tunisine del Nord Africa. In base alla rilevazione al 30-04-2009 (ISTAT[1]), la popolazione locale è stimata in 51.350 abitanti. Il vecchio "centro storico", un tempo racchiuso dentro le Mura normanne, include numerose chiese monumentali, alcune risalenti all'XI Secolo, e un quartiere a impianto urbanistico islamico tipico delle "medine", chiamato Casbah, di cui le viuzze strette sono una sorta di marchio di fabbrica. Le attività economiche che lo contraddistinguono principalmente sono la pesca, l'agricoltura e l'industria cantieristica e alimentare, in particolare quella del pesce. Mazara del Vallo è uno dei più importanti e noti porti pescherecci italiani, base di armamento di una flotta di circa 400 grandi motopescherecci d'altura (con circa 4.000 pescatori imbarcati), che rientrano ogni 50-60 giorni. A Mazara risiedono, spesso con le famiglie, circa 3.000 immigrati, provenienti in larga parte dal Maghreb, impiegati da oltre 25 anni nelle attività pescherecce, agricole e artigianali della città. Essi risiedono principalmente nel centro storico cittadino di matrice araba. Mazara è altresì salita alla ribalta delle cronache nel marzo 1998, quando un peschereccio locale, comandato dal capitano Francesco Adragna, ha recuperato, a circa 480 metri di profondità nelle acque dello Canale di Sicilia, una scultura bronzea di oltre 2 metri, risalente al periodo ellenistico, conosciuta con il nome di Satiro danzante. La statua, dopo essere stata restaurata ed essere stata per un breve periodo in mostra a Roma, presso Montecitorio, dopo essere tornata a Mazara del Vallo, è ripartita per essere esposta all'Expo 2005 ad Aichi, in Giappone, presso il Padiglione Italia, dal 25 marzo 2005 al 25 settembre 2005. Dalla metà di ottobre 2005 il Satiro danzante è nuovamente esposto a Mazara nell'omonimo museo in Piazza Plebiscito.



    ISOLE EGADI - FAVIGNANA







    Ha una superficie di 19 km2 e uno sviluppo costiero di 33 km frastagliati e ricchi di cavità e grotte. Anticamente il nome di Favignana era Aegusa termine che significa farfalla data la forma dell'isola. Il nome attuale deriva dal Favonio che è un vento caldo di ponente che ne determina il clima molto mite. Nonostante nell'antichità fosse ricca di vegetazione, oggi ne è povera a causa del disboscamento. L'altitudine massima dell'isola è quella del Monte Santa Caterina, di 314 metri s.l.m. e una collina alta 252 metri. Sul lato meridionale si trovano gli isolotti Galera e Galeotta (praticamente degli scogli).



    Favignana presenta alcune tracce preistoriche di insediamenti umani; è menzionata da Tucidide come sede di un insediamento fenicio. Vi si trovano i resti di un cimitero paleocristiano.

    Nel 1081 i Normanni vi realizzarono un villaggio e possenti fortificazioni, il forte San Giacomo (attualmente non visibile perché all'interno del carcere in paese) e quello di Santa Caterina (in cima alla montagna). Nel periodo angioino nacquero le due tonnare.

    Nel 1874 l'isola appartenne ai Florio che ne potenziarono le tonnare e vi costruirono una villa in stile liberty. Favignana è famosa per le sue cave di tufo (in realtà è impropriamente detto 'tufo' perché quella di Favignana è una calcarenite e non una roccia di origine vulcanica come è il vero tufo), per le grotte e per l'antica tradizione della pesca del tonno con la tonnara, di derivazione araba.

    La tonnara di Favignana è una delle ultime rimaste in attività in Italia, e ogni anno, nel mese di maggio, vi si svolge la Mattanza, la pesca dei tonni che attira molti turisti ed appassionati. La mattanza è attualmente un'attività prevalentemente folkloristica, inoltre a causa del ridotto numero di tonni pescati non è economicamente produttiva ed è destinata a finire nonostante le sovvenzioni per mantenerla attiva. Nel 2009 le reti non sono state calate e la mattanza non è avvenuta.



    Favignana fa parte della riserva naturale delle isole Egadi istituita nel 1991. L'isola è abbastanza brulla e ospita la tipica macchia mediterranea e la gariga. La vegetazione è quindi costituita da Oleastro, Lentisco, Carrubo, Euforbia e Sommacco. Vi sono alcuni interessanti endemismi quali il cavolo marino (Brassica macrocarpa), il fiorrancio marittimo (Calendula maritima), la finocchiella di Boccone (Seseli bocconi). Uno studio degli anni '60 sulla vegetazione delle Egadi riporta a Favignana circa 570 specie.[1]

    Nell'area est dell'isola vi sono molti giardini detti ipogei, curati e coltivati all'interno delle cave di tufo ormai dismesse.

    È una delle poche isole minori siciliane in cui sia presente una popolazione di rospo smeraldino siciliano (Bufo siculus).



     
    Top
    .
  2. tomiva57
     
    .

    User deleted


    Castelvetrano
    Da Wikipedia



    castelvetrano
    Panorama di Castelvetrano



    320px-Castelvetrano%2C_Chiesa_Madre_e_Torre_campanaria
    La Chiesa Madre




    Castelvetrano (Castedduvitranu in siciliano) è un comune italiano di 30.516 abitanti della provincia di Trapani in Sicilia.

    Storia


    Età medievale

    La città nacque probabilmente a causa di una trasformazione sociale avvenuta dopo la conquista normanna (1130). I contadini iniziarono a popolare i borghi: nacque quindi, come nel resto d'Italia e d'Europa, la borghesia. L'esistenza della città è documentata a partire dal dominio angioino.

    Il toponimo Castrum Veteranum era comunque usato già prima della nascita della città, forse per indicare un incrocio tra vie di comunicazione.

    Nel 1299 Castelvetrano viene concessa ai Tagliavia futuri principi della città, il cui cognome muterà nel tempo in Aragona e Pignatelli. Tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento, Castelvetrano divenne il centro dei possedimenti dei Tagliavia-Aragona, arricchendosi di numerose opere d'arte.


    Età moderna


    Nel 1522 il re di Spagna Carlo V elevò la città a contea, nel 1564 il figlio Filippo II la eresse a principato. Sotto il dominio spagnolo Castelvetrano conobbe nel Seicento un periodo di carestie ed epidemie.


    Età contemporanea

    Durante il Risorgimento Castelvetrano insorse due volte (1820 e 1848). Nel 1860 alcuni castelvetranesi si unirono ai Mille di Garibaldi.


    Monumenti e luoghi d'interesse


    Architetture religiose



    castelvetrano_esterno
    Chiesa della Santissima Trinità di Delia

    La chiesa venne ‘riscoperta’ da Patricolo nel 1880, che procedette ad un restauro radicale dell’edificio, afflitto da svariate superfetazioni. Nulla venne trovato degli originari schermi di finestra, tanto che scrisse "Nulla possiamo dire intorno alla chiusura delle finestre, non avendo trovato veruno avanzo; però molto probabilmente dovevano essere chiuse da lastre sottili a traforo di piombo o di marmo, come era uso praticare nei monumenti medioevali di Sicilia e fuori, ovvero da trafori di gesso simili a quelle delle chiese coeve di S. Giovanni degli Eeremiti e di S. Maria dell’Ammiraglio a Palermo….".


    Castelvetrano_interno
    Castelvetrano chiesa della S. Trinità di Delia, interno



    L’edificio presenta elementi peculiari alla architettura arabo-normanna del sec. XII: la pianta a croce greca con tre absidi è sormontata da una cupola rosata impostata direttamente su pennacchi. I nitidi rigorosi volumi sono accentuati dai forti incassi delle cornici che inquadrano le monofore a sesto acuto.

    Mentre nella Martorana le transenne, colorate e percorse da iscrizioni, dovevano contribuire a creare un impatto visivo vivace, sia all’interno che all’esterno dell’edificio, nelle strutture compatte del tipo di questa chiesa nonché di San Giovanni degli Eremiti, della Zisa, della Cuba, rigorose nei paramenti esterni, le transenne a minuti trafori ‘a giorno’ non hanno particolare risalto entro la scansione.

    Il corpus di transenne che decorano questa piccola chiesa attende ancora uno studio approfondito.

    STATO DI FATTO: Le transenne attualmente visibili, di stucco bianchissimo traforate ’a giorno’ con motivi geometrici, risalgono ai restauri degli ultimi decenni del XIX secolo. Pur essendo recenti attualmente alcune di esse sembrano minate da uno sgretolamento al quale non sono estranei degli insetti.





    chiesama
    Chiesa Madre-cinquecentesca chiesa madre a tre navate con presbiterio rialzato, le travi interne sono riccamente dipinte.







    castelvetrano-chiesa-purgatorio
    Chiesa del Purgatorio


    Altro





    250px-Castelvetrano%2C_Fontana_della_Ninfa
    Fontana della Ninfa


    Siti archeologici



    Sul territorio comunale di Castelvetrano si trova il parco archeologico di Selinunte.


    Eventi

    Nelle domeniche di Agosto si svolge il festival delle arti piriche, consistente in una gara/esibizione tra produttori di fuochi d'artificio.
    [modifica] Corteo Storico di Santa Rita
    Corteo storico di Santa Rita a Castelvetrano

    A Castelvetrano, la comunità parrocchiale della chiesa di Santa Maria della Salute coltiva da anni una devozione per la figura di Santa Rita da Cascia e per la spiritualità agostiniana, dovuta al fatto che dal 1628 nel sito dove attualmente sorge la chiesa era presente un convento di Eremiti Agostiniani, soppresso in seguito nel 1774 per mancanza di religiosi. La devozione ritiana nella città risale ai primi del Novecento. Una statua fu commissionata negli anni novanta: all'arrivo una moltitudine popolare accompagnò il simulacro.

    Il Corteo storico di Santa Rita nasce negli anni novanta. Andando avanti negli anni il corteo si è sempre più affrancato dalle caratteristiche di manifestazione religiosa per sviluppare spettacolarità e fedeltà storica: oggi il corteo è un evento teatrale. Il corteo storico rappresenta i momenti più significativi della vita della santa attraverso otto quadri viventi, che sfilano per le vie della città: Santa Rita bambina e suoi genitori, sposalizio di Santa Rita, uccisione del marito Paolo, S. Rita vedova e i due figli, ingresso miracoloso in monastero e i tre santi protettori, stimmatizzatone di S. Rita, miracolo dell'orto, morte di S. Rita.


    Efebocorto Film Festival

    Ogni anno dal Comune, dal Liceo Scientifico "M. Cipolla", e dalla fondazione Kepha ONLUS, viene organizzata una kermesse cinematografica riguardante cortometraggi prodotti da giovani filmakers e alunni di scuole superiori provenienti da tutta Europa. Il festival nasce nel 2003 come attività formativa per studenti del Liceo Scientifico, e ormai ha raggiunto popolarità in tutto l'ambiente europeo. Il festival si svolge nei luoghi simbolo di Castelvetrano, tra cui il Teatro Selinus e il Sistema delle Piazze, oltre all’Auditorium del Liceo Scientifico. Dalla settima edizione (2011), accoglie anche le scuole di cinema e le università. ECFF negli anni si è consolidato come un momento di primo piano nella cultura siciliana ed è diventato un appuntamento imperdibile per quei giovani sensibili al linguaggio cinematografico. La crescente partecipazione di appassionati provenienti da tutta Europa conferma, ancora una volta, l’attenzione che Efebocorto sta riscontrando fra i festival di settore.




    PzzaCastelvetrano
    la piazza


     
    Top
    .
  3. tomiva57
     
    .

    User deleted


    san_vito_lo_capo


    San Vito lo Capo


    mappa_san_vito_lo_capo


    Storia

    Il paese di San Vito è nato attorno all'attuale Santuario, frutto di numerosi interventi edilizi susseguitisi nei secoli. La prima "fabbrica", realizzata intorno all'anno 300, è stata una piccola cappella dedicata a San Vito Martire, patrono del paese.
    La leggenda narra che il giovane Vito, patrizio mazarese figlio di un alto funzionario di Roma, sia dovuto fuggire dalla sua città natale assieme alla nutrice Crescenzia e all'istitutore Modesto, che lo avevano convertito al cristianesimo, per sottrarsi alle persecuzioni ordinate da Diocleziano.
    Dopo alcuni giorni di navigazione verso nord, una tempesta costrinse la nave di Vito ad approdare in un golfo protetto dal vento da un capo roccioso ben conosciuto dai naviganti del tempo (Egitarso o Egitallo il suo nome) e qui i tre avrebbero cercato di convertire gli abitanti del villaggio Conturrana, che sorgeva a circa tre chilometri dal mare, sotto un'alta rocca.

    santovito

    Vito, Modesto e Crescenzia non riuscirono a convertire alla loro fede gli abitanti del villaggio, e anzi da questi furono scacciati e minacciati; una enorme frana, che seppellì il villaggio ed i suoi abitanti, fu il castigo di Dio per gli infedeli. A poche centinaia di metri dalla frana, oggi chiamata contrada Valanga, sorge la cappella dedicata a Santa Crescenzia, costruita dagli ericini nel XVI secolo: la tradizione vuole che qui si trovassero Vito e la sua nutrice quando l'ira divina distrusse il villaggio.


    Il Santuario

    - Chiesa fortezza dedicata a San Vito.
    santuario


    Il Santuario si affaccia sull’ omonima piazza del centro abitato, simbolo indiscusso di San Vito Lo Capo, è sicuramente il monumento più interessante del paese.

    La leggenda narra che la chiesa - fortezza sia stata costruita intorno al 1.450 per proteggere, con le sue spesse mura, la piccola chiesetta dove viveva un eremita in odore di santità.
    Dopo diversi interventi edilizi, la fortezza che cingeva la chiesa assunse le sue dimensioni attuali: 104 metri di base, 16 di altezza, mura dello spessore da un massimo di due metri e mezzo a un minimo di venti centimetri.
    La Torre, invece, è più recente, essendo stata costruita intorno al 1.600, cioè subito dopo le altre torri di guardia che si trovano lungo la costa, costruite su progetto dell'architetto fiorentino Camilliani, incaricato dal viceré Colonna di pianificare le difese costiere dell'isola contro i corsari.
    Entrando dentro il Santuario si può ammirare l'antico abside, dove si trova una splendida statua in marmo raffigurante il Santo giovinetto, risalente alla fine del 1.500 e attribuita al famoso scultore Gagini; molto pregevole anche il bell'altare della cappella restaurato intorno al 1780 con marmi della zona.
    L'esterno del Santuario è stato restaurato all'inizio del 1998.

    cripta_santuario_sanvito
    Cripta del Santuario

    Cappella di Santa Crescenzia

    Questa piccola cappella si trova sulla strada provinciale, poco prima di entrare in paese, risale al XVI secolo e fu costruita dagli abitanti della vicina Erice.
    La leggenda vuole che, proprio in questo punto, la Santa si girò per guardare la frana che stava seppellendo il paese infedele di Conturrana.
    Un'antica usanza vuole che si getti un piccolo sasso al suo interno per scacciare la paura.
    Vi consigliamo una sosta per ammirarne tutto il fascino.







    Il faro

    faro_sanvitolocapo

    Simbolo inconfondifile di San Vito Lo Capo




    Il faro è uno dei simboli di San Vito lo Capo, assieme al Santuario e alla spiaggia. Di notte la sua luce arriva fino a oltre venti miglia marine, e per questo è uno dei più importanti della Sicilia ; una luce rossa segnala la secca rocciosa che dalla costa si estende per un paio di miglia in direzione nord. La sua presenza nei secoli passati avrebbe evitato decine di naufragi sulle rocce appuntite contro cui si sono frantumate navi romane, fenicie, arabe, normanne. Una passeggiata fin sotto l’altissima torre – 43 metri sul livello de mare – regala emozioni fortissime, e la notte è bellissimo seguire il fascio di luce bianca sciabolare in senso orario disegnando merletti sui monti dell’entroterra e lanciando candidi messaggi verso il mare aperto.

    La costruzione del faro si deve al Regno Borbonico che negli anni 1800-1850 edificò numerosi fuochi lungo le coste del Regno delle Due Sicilie, sia per la navigazione d’altura che per quella costiera. Tra questi il faro di Capo San Vito la cui costruzione ebbe inizio nel 1854 e l’accensione della prima luce, con luce bianca fissa e rossa a splendori, il 1 agosto 1859. Le spese di costruzione furono: lire 60.231 per le opere edili, lire 31.050 per la lanterna poligonale della Ditta Lapaut, l’ottica e l’impianto illuminante e lire 142 per gli arredi. Vi erano destinati due guardiani del faro il cui costo annuo , nel 1887, era per le paghe di lire 1.250 più lire 100 per lo straordinario.

    Il costo annuo dell’olio vegetale per alimentare il fuoco all’interno dell’ottica era di lire 802.40 al prezzo unitario al kg di lire 1.73, mentre il costo orario di accensione della sorgente luminosa era di lire 0.35
    Nel Portolano “Guida del Pilota” per le coste e porti del Regno delle Due Sicilie autore P.L. Cavalcante, edito nel 1846 quale riferimento per identificare il Capo San Vito vi sono scritte tre torri, di cui due cilindriche e la terza, quadrata, grande, chiamata del Roccazzo posta sull’estremità a mare del Capo chiamata Punta di Malasorte.
    In un documento edito dal Regio Genio Civile, nel 1873, si legge “ Faro di terzo ordine costituito da una torre a base circolare che venuta dal largo apparisce elevarsi sopra un caseggiato poligonale coperto con un terrazzo”. Le pareti sono bianche. In sito salubre: provvisto d’acqua a sufficienza.

    Dista dall’abitato più prossimo 1 km. E’ posto in lat. 38° 10’30 N e long. 10°23’E. La torre è alta mt. 39.60, è provvista di impianto lenticolare a luce fissa variata da splendori di 2m in 2m a luce rossa. La portata è di 16 miglia ed è visibile per 228° (tra 225° e 93°) nella zona mare compresa tra Punta Carini e la rada di Trapani.
    In un documento nautico del 1864 si legge “Sopra questo Capo di San Vito vi è una lanterna a luce fissa variata da lampi rossi ogni due minuti; la sua altezza sul livello del mare e di 120 piedi ed è visibile a 20 miglia di distanza”. Sulla “Guida per i porgitori della Sicilia” autore E. Persano, edito nel 1880 si legge: “Se la nave si trovasse in posizione di rilevare il Capo per Mezzoggiorno-
    Scirocco, il faro si vedrebbe fra due torri, quella verso libeccio è detta d’ Agra, quella verso greco di Sereno”.

    SanVitoSIC2


    Durante il vasto programma di ammodernamento e potenziamento dei fari del Regno, il faro di San Vito nel 1892, a cura del Regio Genio Civile, venne dotato di un moderno apparecchio lenticolare del diametro di mt.1 a tre lenti anulari per splendori rossi.
    La sorgente luminosa, ad olio vegetale, venne sostituita nel 1887 a petrolio a tre lucignoli per una portata di mgl. 18.5 per la luce bianca e di mgl. 14 per la luce rossa.
    In quell’ anno l’edificio alla base della torre venne ampliato con la costruzione, lato mare dei locali per l’abitazione del terzo guardiano del faro e per le necessità connesse con i rifornimenti ed i magazzini.
    Una sorgente luminosa ad incandescenza a vapori di petrolio venne posta in opera nel 1919 e contestualmente fu modificata la caratteristica in luce a lampi bianchi, con periodo di un secondo dei lampi e 19 secondi di eclisse, con portata luminosa di 29 miglia nautiche e geografiche di 18 miglia; venne posto in opera uno schermo per oscurare la luce da 0° a 36°.

    Con il progredire della tecnica ed a seguito dell’imponente piano di ammodernamento realizzato dal servizio Fari della Regia Marina, nel 1936 venne sostituita la vetusta ottica, l’antiquato e poco affidabile carro mobile, il congegno ad orologeria e venne potenziata la sorgente luminosa con un impianto ad incandescenza a vapori di petrolio. Solo nel 1938 la sorgente luminosa principale fu alimentata ad energia elettrica ed il fuoco provvisto di una lampada da 1000 watt lasciando in opera quale riserva l’impianto ad incandescenza V. P..
    Nel settembre del 1960 il FIR (fanale indipendente di riserva) con sorgente luminosa ad incandescenza a V.P. venne modificato con l’impiego del gas acetilene in bombole. A cura del Genio Civile nel 1964 sono stati eseguiti lavori alle strutture architettoniche sia della torre che dell’annesso immobile, nel contempo l’Ufficio Tecnico dei Fari della Marina pose in opera una nuova lanterna cilindrica del diametro di tre metri, una ottica rotante da 375 mm. di distanza focale- della Ditta Weule, l’orologeria a peso motore, e quale sorgente luminosa una lampada alogena da 1000w/120v. Con i nuovi impianti ed il nuovo fuoco si ottenne una portata luminosa 25,6 miglia. Oggi il faro di Capo San Vito in posizione di lat. 38° 11’ 18” N e long. 12° 44’ 00 E nelle sue vesti architettoniche è rimasto immutato, il fuoco è alto 38.20 mt. dal suolo e 43 mt. dal livello del mare, con portata geografica di 18.2 miglia.

    L’ottica, di 375 mm. di distanza focale, si compone di tre pannelli con asse a 120° fra loro e lo sviluppo di ciascun pannello è pari a 1964 cmq. Per la parte diottrica a 8182 cmq. catadriottica.
    La vita nel faro non è stata mai agevole, i fanalisti e le loro famiglie, lontani dal centro abitato, erano soggetti ad innumerevoli disagi; l’acqua raccolta nelle cisterne era quella piovana, l’illuminazione era fornita da lumi a petrolio, ed il riscaldamento da bracieri in metallo posti al centro della stanza. L’acqua di rete venne collegata nel 1944 e l’energia elettrica nel 1938.
    Oggi non occorre più trasportare i viveri ed i materiali per il faro a spalla per uno scosceso sentiero.
    Certamente la difficile vita del solitario fanalista è un lontano ricordo.




    cofano_crescenza

    Il passaggio di Vito e Crescenzia, che dopo aver abbandonato il Capo Egitarso subirono le più crudeli persecuzioni, provocò comunque grande emozione tra le genti della zona, e intorno al 300 (Vito morì nel 299 a 22 anni) venne costruita la prima cappella a lui dedicata. Nei secoli la cappella subì diversi interventi, venne ingrandita e abbellita, anche perché erano sempre più numerosi i pellegrini che venivano qui per venerare San Vito Martire. Tutto intorno ad essa ancora non esisteva nulla, e i pellegrini erano costretti a dormire nelle tende o all'addiaccio. La fabbrica primitiva, che poi avrebbe lasciato il posto all'attuale santuario, nacque attorno alla chiesa come fortezza - alloggio per dare ospitalità ai pellegrini, e per difenderli dai banditi e dai corsari barbareschi. Tale realizzazione risale alla fine del 1.400, e si deve anche questa alla fede (e alle finanze) degli ericini. La torre quadrata della chiesa - santuario - fortezza venne realizzata circa 150 anni dopo, intorno al 1600.

    La fortezza disponeva di eleganti alloggi per i nobili e modeste stanze per la povera gente, di stalle e perfino di un pozzo detto "di Santo Vito"; la fama della chiesa e dei miracoli accreditati al Martire San Vito e alla Santa Crescenzia, le punizioni "divine" (tempeste, naufragi) che colpirono diversi corsari che avevano avuto l'ardire di saccheggiare la chiesa e rapinare i fedeli, richiamavano sempre più gente attorno al santuario, e così all'inizio del 1700 furono costruite le prime case a ridosso dell'edificio. E' probabile che dapprima si trattasse solo di capanne per i fedeli in transito, poi qualche famiglia decise di fermarsi, magari per offrire - dietro compenso - vitto e alloggio ai pellegrini; alla fine del '700 attorno alla chiesa esisteva già un piccolo nucleo di abitazioni.

    Nasceva così il paese, ma dovevano passare ancora molti decenni perché San Vito e le sue contrade divenissero nuclei abitati nel vero senso della parola.
    Oggi fanno parte dello stesso comune le frazioni di Macari e Castelluzzo.

    Il porto

    porto

    Un riparo sicuro per i diportisti

    Il porto di San Vito lo Capo è uno dei più sicuri dell'intera Sicilia. Già la sua posizione, all'interno di un golfo chiuso a ponente dalla punta del faro, a levante dalla punta di Solanto, con due estese secche rocciose che frangono i marosi, è una garanzia, e bene lo sapevano romani, fenici, arabi, normanni, spagnoli, che qui venivano a calare le ancore per sfuggire alle tempeste. La costruzione di due moli, uno a ponente e l'altro a levante, entrambi forniti di banchine, ha fatto il resto.
    Nello specchio d'acqua portuale (oltre 72mila metri quadrati di mare cristallino) sono stati realizzati quattro pontili galleggianti in grado di ospitare quasi 500 barche, ed i fondali profondi fino a otto metri consentono l'attracco anche agli yachts più grossi.



    fonte: sanvitoweb.com
    foto: sanvitoweb.com
    - vulcanoconsult.it/
    - blogtaormina.it
    - unc.edu/


     
    Top
    .
  4. tomiva57
     
    .

    User deleted


    Sambuca-di-Sicilia-

    Sambuca di Sicilia

    Per riuscire a leggere la geografia storico-culturale dell'odierna Sambuca di Sicilia (Ieri Zabut), occorre distinguere alcuni momenti storici tenendo altresì presente quello preistorico.

    PREISTORIA

    Il periodo preistorico, meglio sarebbe dire, protostorico, nel territorio sambucese, è caratterizzato dalla presenza degli Elimi che fondarono Elima ed Entella, e dei Sicani che spinsero i primi verso la parte Nord-Ovest dell'isola. Basamenta di capanne preistoriche di quest'epoca si trovano nelle adiacenze della zona archeologica di Adranone. Si tratta di resti costituiti da massi di pietra calcarea e di utensili primitivi. Si presume risalgano al periodo anteriore al VII secolo a.C., al tempo cioè in cui ha inizio la penetrazione greca in Sicilia.

    Greci e Punici

    Con la penetrazione fenicia il territorio sambucese si affaccia alla storia.
    Nella zona archeologica di Adranone le alterne vicende tra coloni greci e commercianti e colonizzatori cartaginesi si rivelarono intersecate attraverso i ricchi e numerosi reperti sino ad oggi portati alla luce. Adranone scompare dalla storia con la sua distruzione avvenuta con l'ultima guerra servile nel 103/105 a.C. ad opera degli eserciti romani.

    Gli Adragnini in Adragna

    Distrutta Adranone gli abitanti supestiti fondano una nuova città più a valle cui danno nome di Adragnus (oggi Adragna) per ricordare la loro città di origine. Adragnus originariamente fu un borgo rurale pressoché ignorato dai Romani. Nel periodo paleocristiano fu evangelizzato e divenne una comunità cristiana. Vi sorsero successivamente sul finire del primo millennio, delle imponenti chiese. Si ha notizia certa di tre luoghi di culto dedicati a San Vito martire, a San Nicolò di Bari e alla Madonna Bambina.
    Un ruolo importante lo ebbe la presenza di San Vito di Lilibeo.
    Il santo della Sicilia occidentale che convertiva sia uomini che animali. Non è blasfemo ricordare che San Vito, oltre che predicare il nuovo Verbo, aveva il dono di trascinarsi appresso i fedeli amici dell'uomo: i cani.
    Il culto verso questa divinità era tanto caro agli schiavi. "Il sacrario dei suoi templi era affollato di cani" (J. Berard: "Storia delle Colonie greche dell'Italia meridionale"), ci cui Adrano era protettore. Di tali espressioni di culto, i cittadini di Adrano saranno stati memori quando si convertirono al Cristianesimo. Con molta probabilità, molto verosimilmente, preferirono sostituire Adrano con un martire cristiano conterraneo, san Vito di Mazara.
    Ancora tutt'oggi il culto di san Vito ha profonde radici nella Chiesa Lilibea.
    La tradizione vuole che, Vito di Mazara, giovinetto cristiano, era tanto bello e possedeva, per la sua santità, un tale fascino che si trascinava appresso tutti i cani che stavano a guardia dei templi pagani e lo servivano difendendolo dai nemici che cristiani non erano.
    Data la prossimità di Mazara al territorio di Adranone, molto presumibilmente, San Vito, in una delle sue numerose peregrinazioni, si è spinto sino ad Adranone, considerato che là esisteva un culto particolare verso il dio pagano dei cani, ed ha operato il prodigio di trascinarsi dietro quella turba di devoti animali, contribuendo alla conversione dei cittadini di Adranone al Cristianesimo emergente.
    Nel periodo saraceno questa comunità restò chiusa e limitata ai rapporti con gli arabi che, costruita Zabut più a Sud nel cuore della vallata, pretesero dai cristiani di Adragnus il pagamento della "Gesia", un tributo che veniva fatto pagare ai cristiani per potere professare senza noie la propria fede con atti liturgici e culto pubblico.

    Zabut - 830 d.C.

    Zabut, l'odierna Sambuca, fu fondata dagli Arabi intorno all'830, qualche anno dopo il loro sbarco in Sicilia.
    Circa l'etmologia del nome "Zabut" esistono varie interpretazioni. Leonardo Sciascia scompone l'attuale nome Sambuca in as-Sabuqah e lo interpreta "luogo remoto".
    Il salotto sambucese della metà dell'800 fu indeciso tra due interpretazioni: Sambuca, da Zabut, strumento musicale a corde di forma triangolare e macchina da guerra da "sambukie". Infine, Vincenzo Navarro l'animatore del "salotto", decretò che "Sambuca", "Zabut", non è altro che un'"arpetta". Il Navarro, però, commise l'errore di mettere insieme due sinonimi per ridare un nome ad una cittadina fino allora chiamata "La Sambuca" e da allora sino al 1928 Sambuca Zabut; nel '28 infatti Mussolini cancellò Zabut e la specificò regionalmente aggiungendo "...di Sicilia". L'interpretazione più storicamente ed etmologicamente perfetta ci sembra sia quella che ricaviamo dal documento di Guglielmo II, detto "Il Buono", datato 1185 con il quale si donava alla Chiesa di Monreale la "Chabuta seu Zabut".
    Appare chiaro che "Chabuta" - spendida - in questo documento vuole essere una specie di esplicitazione di Zabut o Zabùt, un'esplicitazione di Chabuta. Il che è avvalorato dalla congiunzione disgiuntiva latina "seu", ovvero.
    Ma perchè Zabut? La tradizione popolare e la leggenda indicano quale fondatore di Sambuca l'Emiro Al-Zabut, un seguace dell'ascetico conquistatore maghrebino Ibn Mankud l'"Ardente guerriero della fede", signore indipendente delle Kabyle di Trapani, Marsala e Sciacca che guidò le truppe d'assalto dell'Afrfriyqal alla conquista di Castrogiovanni, Val di Noto e, dopo lungo assedio, alla presa di Siracusa, allora capitale bizantina dell'isola.
    Secondo questi dati l'Emiro AL-Zabut partecipò come giovane guerriero alla conquista della testa di ponte di Mazara ed ebbe ruolo di rilievo nei combattimenti di Girgenti e Castrogiovanni, guadagnandosi per il suo valore l'appellativo "Al-Chabut" - lo splendido - che trasmise alle terre da lui conquistate.
    Zabut fu abitata da popolazione islamica fino al tredicesimo secolo fino a quando si ribellò alle operazioni di consolidamento imperiale ordinate da Federico II che costruì il Castello di Giuliana da usarsi come quartiere generale per la soluzione della "questione saracena" in Sicilia, voluta dal Papa. Zabut resistette per due anni. La resistenza fu stroncata nel 1225 e la strage fu totale.
    Sambuca conserva ancora le tracce di questa sua matrice islamica nel "quartiere arabo", costruito da un impianto urbano che si sviluppò attorno a sette "Vicoli saraceni", trasformati in un museo vivente di storia arabo-sicula e nella fortezza di Mazzallakkar sulle sponde del lago Arancio che viene sommersa ogni qualvolta s'innalza il livello del Lago. La cultura, le tradizioni popolari, i modi di esprimersi degli abitanti di sambuca testimoniano di questa origine storica. La cittadina-fortezza di Zabut, dopo l'eccidio e la deportazione dei superstiti saraceni, fu lentamente ricostruita. Gli arabi convertitisi al Cristianesimo per paura o per convinzione e i cristiani di Adragnus convissero insieme pacificamente.

    Gli Adragnini a Zabut - 1411

    Distrutta nell'autunno del 1411, sul finire dellla lunga guerra di successione al Regno di Sicilia, la cui protagonista fu una donna, Bianca di Navarra, gli Adragnini si trasferirono nella fortezza di Zabut, risparmiata alla distruzione per l'eroica resistenza opposta all'assedio dei seguaci del Barone di Modica e per l'imponenza delle sue fortificazioni.
    Avviene così che il primitivo impianto urbano della parte settentrionale di Zabut, costituito da un'acropoli e da un quartiere di viuzze, incomincia ad ampliarsi verso le propaggini della collina.

    254_1358_sitoarcheologicodimonteadranone

    Dal XV al XIX secolo, La Sambuca conosce alterne vicende: prosperità e pestilenze, benessere e miseria, splendore e terremoti. Nonostante tutto La Sambuca progredisce. Sorgono nuovi quartieri, si allarga la cinta delle mura, vengono costruiti palazzi baronali e signorili, chiese, monasteri, conventi. Da baronia la Terra della Sambuca viene promossa con privilegio di Filippo II - Madrid 15 novembre 1570 - a Marchesato. Il quale, il 16 settembre 1666, passa, a causa di un matrimonio, ai Beccadelli di Bologna assurti successivamente al rango di Principi con il Principato di Camporale.
    Il titolo viene a tutt'oggi detenuto dagli eredi. Tra i Principi Marchesi della Sambuca, i più celebri furono Don Pietro - 1695/1781 - e il figlio Don Giuseppe - 1726/1813.
    L'800 si presenta nella Sambuca ricco di fermenti culturali. Si forma in quegli anni una classe medio-borghese illuminata, che con Vincenzo Navarro - 1800/1867 - trova l'animatore più qualificato essendo ad un tempo medico, letterato, poeta e patriota.

    Centro storico, monumenti e chiese di Sambuca di Sicilia

    Il centro storico di Sambuca, con i suoi caratteristici quartieri, edifici, e importanti istituzioni culturali, offre diverse attrazioni. I sette "vicoli saraceni", vicoli ciechi, viuzze strette e cortili, tutti diversi l'uno dall'altro, ricordano la necessità, tipica nelle città arabe, di contrastare il sole e la violenza del vento proveniente dal deserto. Qui si percepisce ancora l' atmosfera della Zabuth araba. Sulla sommità del colle, nell'area del castello, non più esistente, è stato ricavato un belvedere da cui si domina un magnifico panorama. Nella Chiesa di S.Calogero ha sede l'Istituzione Gianbecchina, dove vengono esposte permanentemente 40 delle 190 opere che il Maestro, considerato una delle migliori espressioni del novecento italiano, ha donato al suo paese natale. L'ex monastero di S. Caterina oltre ad ospitare l'Antiquarium archeologico, è sede dell'originalissima "Mostra permanente delle Sculture Tessili" di Sylvie Clavel. Il Teatro Comunale, costruito nella metà dell'ottocento con classica forma a ferro di cavallo e cupola schiacciata, testimonia la vivacità culturale di Sambuca da allora fino ai nostri giorni. La Chiesa del Carmine, d’impianto cinquecentesco, ospita la statua della Madonna dell’Udienza, opera in marmo del Gagini , cui è dedicata una sontuosa celebrazione.

    Sambuca di Sicilia sorge su un colle pianeggiante in prossimità della Riserva Naturale Orientata Monte Genuardo e Santa Maria del Bosco (a nord) e del Lago Arancio (a sud): due autentiche attrazioni per gli amanti della natura e della quiete. Sul monte Adranone, a nord del paese, si trova un sito archeologico di rilevante interesse, i cui reperti sono custoditi nell’ Antiquarium allestito nell’ ex-monastero di S. Caterina. Sebbene il sito archeologico riporta al VI sec. ac. i primi insediamenti, Sambuca di Sicilia sorse in età araba, fondata dall'emiro al-Zabuth che le diede il proprio nome (fino al 1920 il paese si chiamò “Sambuca Zabut”), e il tipico assetto urbano islamico. Il centro storico, ricco di caratteristici quartieri “saraceni” e pregevoli chiese ed edifici, è sede di importanti istituzioni culturali e museali. La Festa della Madonna dell'Udienza e La Sagra del frumento costituiscono le manifestazioni più tradizionali e caratteristiche del luogo.



    LE CHIESE

    michele
    CHIESA DI SAN MICHELE


    2689-02-16-09-2918-sm
    CHIESA DI SAN CALOGERO


    san-giuseppe
    CHIESA DI SAN GIUSEPPE

    CHIESA DI SANTA CATERINA


    800px-Sambuca-de-sicilia-chiesa-del-carmine

    CHIESA E CONVENTO DEL CARMINE

    Oggi Santuario della Madonna dell'Udienza, riportata allo stato attuale da una serie di interventi, fu fatta costruire nel 1530 dal Marchese della Sambuca, Don Salvatore Bardi Mastrantonio, e dedicata a S. Antonio Abate. Un suo successore, invece, Don Vincenzo Bardi Mastrantonio, fu il fondatore del Convento dei Carmelitani, costruito in adiacenza alla chiesa, opportunamente ampliata intorno al 1615. Così ampliata la Chiesa venne dedicata alla Madonna Annunziata. Successivamente nel 1633 venne modificata: furono costruite le due navate laterali minori restando come navata centrale il corpo primitivo della chiesa.
    All'inizio dei 1900 si iniziarono i lavori che dovevano portare la chiesa allo stato attuale nel 1928, anno in cui fu completato anche il frontespizio, opera monumentale dell'artigianato locale sotto la guida di scalpellini e scultori palermitani tra i quali Salvatore Affronti. Nel 1981 il pittore Tommaso Montana e il giovane Enzo Maniscalco restaurarono l'abside del Santuario con molta abilità e senso artistico non comune.
    Nell'interno si possono ammirare: la statua marmorea della Madonna dell'Udienza attribuita ad Antonello Gagini. (1478-1536); La statua marmorea di S. Anna con la Madonna fanciulla di scuola gaginiana; un Crocefisso ligneo, proveniente dall'ex Convento di S. Maria di Gesù (Sec. XVII); un fercolo ligneo,, opera monumentale e artistica che riproduce un trono regale culminante in una corona sorretta da colonnine scanalate sormontate da capitelli: doratura di fine fattura classica. Il fercolo serve per portare in processione, sulle spalle di cento uomini detti «I nudi», la statua della Madonna dell'Udienza, Patrona e Protettrice di Sambuca, la terza domenica di maggio. Nel 1982 il fercolo fu restaurato da Tommaso Montana ed Enzo Maniscalco.
    In questa chiesa sono anche dei monumenti funebri eretti in onore di uomini illustri e di patrizi sambucesi. Tra essi ricordiamo quello della famiglia Navarro, opera del Gallori, degli Oddo e dei Planeta.
    Il Convento dei Carmelitani, forma un impianto unitario con la chiesa, costruito su un poggio di pietra tufacea, visibile dalla Via S. Croce (lato est), il Convento comprendeva i corpi bassi che si aprivano nella. Via P. Caruso, un ammezzato, un primo e un secondo piano del Convento: quest'ultimo corrispondeva al primo piano di Via P. Caruso.
    I primi frati che abitarono il Convento furono i frati di S. Elia, che abitarono in locali adiacenti alla Chiesa di S. Lucia, abbandonato perché angusto e fatiscente.
    Gli ultimi frati lasciarono il Convento nel 1866. Parte del Convento oggi è di proprietà del Comune. Degno di nota è il chiostro che racchiude, attraverso arcate che poggiano su colonne tufacee monolitiche, l'area del giardinetto su cui si affacciavano le celle dei frati.


    purgatorio

    CHIESA DEL PURGATORIO



    jpg

    CHIESA MADRE O MATRICE

    L'escursione verso il nord della città ci porta nella Piazza Baldi Centellis, chiamata così in ricordo dei primi marchesi della Sambuca, ma principalmente a memoria di Donna Giulia, marchesa, e della sorella Maria che nella prima metà del 600 finanziarono la costruzione del monumentale tempio, la Matrice, che domina questa piazza.
    La Chiesa occupa una parte dell'antico Castello di Zabut e tutta la parte della primitiva Chiesa di S. Pietro Apostolo costruita intorno al 1420.
    La nuova costruzione del 600 è quella che possiamo ammirare oggi anche se gravemente danneggiata dal terremoto del 1968. Si tratta di una chiesa a tre navate, divise da colonnati che sorreggono archi a tutto sesto. Di forma a croce romana, nel punto in cui il transetto si interseca con la navata centrale s'innalza la cupola di ispirazione. rinascimentale. I muri, le colonne, le volte reali, le basamenta ciclopiche di pietra tufacea dura conferiscono al tempio un rigore e un'armonia claustrale che conquista il visitatore. Il campanile, che culmina a guglia piramidale, coperta da quadrelli di ceramica policrome e sorretta da enormi ma armoniose foglie d'acanto scolpite nella dura pietra del tufo, è un raro gioiello che non è facile trovare nell'architettura d'epoca della Sicilia occidentale. Opera di artigianato locale che lavorò sotto la guida di ingegneri palermitani, la Matrice è ricca di stili compositi: il portale di rozzo stile arabo-normanno proviene di sicuro da una delle chiese della distrutta Adragnus; mentre tutto l'ornato del portale della fiancata destra che si affaccia sulla Piazza Baldi Centellis è ispirata a motivi rinascimentali commisti a delicati influssi barocchi.
    Nell'interno sono da ammirare un trittico ligneo della Crocifissione con i Santi Giovanni Evangelista e Maria di Magdata sullo sfondo di una grande pala lignea raffigurante in bassorilievo l'«Albero dei Martiri» con al posto dei frutti reliquiari; L'opera proviene dalla scuola trapanese del 600; una tela raffigurante i Tre Santi incoronati della Scuola del Novelli; un affresco staccato dalla parete di una cappella della Chiesa di S. Giorgio, attribuito al sambucese Turano; un'acquasantiera di scuola gaginiana; la grande pala dell'altare maggiore raffigurante l'Assunzione di ispirazione tintorettiana ed altre tele delle scuole siciliane del 700.


    jpg
    CHIESA DEL ROSARIO


    concezione
    CHIESA DELLA CONCEZIONE

    Situata all'angolo tra Via G. Marconi, già Via del Popolo, e Via Concezione, è a pochi passi dal Corso Umberto all'altezza della Chiesa di San Giuseppe.
    La sua fondazione risale agli inizi- del '600. Il portale di puro stile arabo-normanno proviene dalla distrutta Chiesa di S. Nicolò esistente in Adragnus.
    A seguito del terremoto del 1968 subì gravi danni. Venne consolidata e restaurata in fasi successive tra il 1974 e il 1984.
    La pitturazione dell'intera chiesa è stata ripresa come in originale dal decoratore Tommaso Montana.


    image
    CHIESA DI GESÚ E MARIA


    collegio-maria
    CHIESA DEL COLLEGIO DI MARIA

    • CHIESA DI SANTA LUCIA

    • CHIESA DEI VASSALLI



    I PALAZZI

    • PALAZZO MANGIARACINA

    • PALAZZO DEI BARONI ODDO

    • PALAZZO PLANETA

    • PALAZZO GIACONE CATALANOTTO

    • PALAZZO FIORE

    • PALAZZO CAMPISI


    251px-Sambuca-de-sicilia-palazzo-chiacco

    PALAZZO CIACCIO

    Dirimpetto alla fiancata sinistra della Chiesa del Carmine sorge - sempre sul Corso Umberto - l'imponente Palazzo della famiglia Cuccio-Si tratta di un massiccio edificio fatto costruire,, in, stile rinascimentale fiorentino alla fine dell'800 dal. Cav. Antonino Ciaccio, proprietario finanziatore, progettista e direttore dei lavori.
    L'isolato, delimitato dal Corso Umberto, dalle Vie fratelli Costanza, Notar Ganci e Roma, s'impone al visitatore per la monumentalità, il calore della pietra, l'armonia delle linee.


    jpg

    PALAZZO DEI MARCHESI BECCADELLI

    Sempre sul Corso, tra Vicolo Beccadelli e Via Pietro Caruso, sulla destra, è un impianto massiccio che originariamente - come ricorda l'Abate Amico - costituì la dimora dei Marchesi della Sambuca. La realizzazione dovette avvenire in un arco di tempo molto lungo e su preesistenti fabbricati che si articolavano nell'ambito di un intero isolato delimitato dalle Vie Beccadelli, Baglio Grande, P. Caruso e dalla Via Grande o Corso Umberto. Nell'isolato si comprendevano: la Chiesa di S. Sebastiano e l'Ospedale Pietro Caruso (1500) di cui oggi si possono ammirare solo gli imponenti frontespizi, alcuni fabbricati di antica struttura ma manomessi da esigenze logistiche attraverso i secoli, e poi il massiccio beccadelliano che va sino all'angolo del vicolo omonimo. Interessanti lo scalone catalano nell'interno del cortile, il monumentale balcone centrale sormontato dallo stemma della famiglia.

    251px-Sambuca-de-sicilia-palazzo-dell-arpa

    PALAZZO DELL'ARPA - MUNICIPIO

    Proseguendo il percorso della Via Grande ci si imbatte in un doppio arco «trionfale», sovrastato da tre eleganti balconi. I due archi sono separati da un portale che a sua volta sopporta uno spaccato quadrangolare delimitato da una .cornice sbalzata. Entro questa cornice nel 1938 fu collocata dai fascismo locale, secondo le disposizioni di quello nazionale, la lapide contro le sanzioni antifasciste con enfatiche righe che esaltavano la politica autarchica del Duce. Al suo posto oggi è un orologio, dono di Francesco Riggio, illustre direttore di orchestra in terra di America dove emigrò in giovanissima età.
    Il Palazzo di fattura secentesca fu costruito, sull'impianto della Porta da cui si accedeva alla città-fortezza di Zabut, dalla famiglia Oddo e ceduta successivamente ai Giurati del tempo perché fosse sede della municipalità. Restaurato internamente sul finire degli anni '60, ospita oggi l'Amministrazione attiva, il Consiglio municipale, gli uffici amministrativi.
    Nel Palazzo comunale si conservano opere di arte moderna di artisti contemporanei. Ricordiamo le opere degli illustri concittadini:Gianbecchiina l'autore di un affresco dal tema drammatico: il terremoto del 1968 Nino Maggio, autore di una scultura lignea; Nino Ciaccio, autore di opere che riproducono luoghi architettonici di «Sambuca scomparsa»; ed altri come Francesco Marino: emigrati; Andrea Carisi (grafico): Mafia; Ignazio Navarro, Vincenzo Sciamé.>




    PALAZZO NAVARRO

    PALAZZO TRUNCALI PANITTERI


    sambuck02

    • TERRAZZO BELVEDERE O CALVARIO


    La Piazza Baldi Centelles immette, attraverso una comoda scalinata, in quella parte dell'ex Castello di Zabut che costituiva l'acropoli fortificata.
    Nel secondo 800 furono demolite le strutture che ancora rimanevano e fu ricavato un grande terrazzo per celebrarvi la Crocifissione del Venerdì Santo. Per,questo fu chiamato Calvario.
    Il «calvario», però, fu adibito a questo scopo solo per poco tempo. Subito dopo la prima guerra mondiale il Cristo Morto fu celebrato all'interno della Chiesa Madre. Il Calvario fu battezzato «Belvedere». Vi si può ammirare uno stupendo panorama che sconfina oltre le terre sambucesi sino alle terre sveve di Giuliana di Caltabellotta di Chiusa Sclafani, nello sfondo le montagne delle Rose e la catena interna dei Monti Sicani.


    IMG_6-300x210

    TEATRO COMUNALE L'IDEA


    Da qui inizia l'impianto urbano più monumentale di tutta la cittadina. A destra subito dopo la Villetta comunale si trova il Teatro Comunale, gioiello dell'artigianato locale della prima metà dell'800.
    Il Teatro fu costruito tra il 1848 e il 1851 a spese di un gruppo di borghesi, aperto agli influssi artistici, letterario e patriottici, ma creatore anche di iniziative promozionali autonome.
    Difatti sono sorti pressoché contemporaneamente i grandi teatri siciliani come il Massimo e il Politeama di Palermo, il Bellini di Catania e il Regina Margherita nella vicina Girgenti. Il Teatro comunale ha la forma classica a ferro di cavallo con volta a cupola schiacciata, tre ordini di palchi, la platea, un ampio palcoscenico.
    Passato in proprietà al Comune il 2 febbraio 1886, nel corso degli anni fu sottoposto ad importanti restauri. Il primo avvenne sul finire dell'800. Il secondo di recente, agli inizi degli anni '70, essendo stato danneggiato dagli eventi sismici del gennaio 1968. Dopo questo restauro è stato arredato e aperto alla pubblica fruizione.


    VECCHIO ACQUEDOTTO

    jpg

    Si tratta di una fuga di archi, fatti costruire, sullo stile degli antichi acquedotti romani, in pietra tufacea dura dai Giurati del Tempo (la data del contratto per la costruzione è del 23 giugno 1633) per consentire l'approvvigionamento idrico dell'abitato.
    Il terremoto del gennaio del 1968 ha danneggiato l'intera struttura con il crollo di alcune arcate.
    Restano importanti elementi per potere effettuare il restauro e la ricostruzione degli elementi andati in rovina.


    Sito_archeologico_di_monte_adranone

    L'ANTICO CENTRO GRECO-PUNICO DI MONTE ADRANONE



    Monte Adranone è tra i più occidentali siti archeologici del territorio agrigentino, a circa 1000 m s.l.m., a settentrione del moderno abitato di Sambuca di Sicilia, nella Valle del Belice, al confine tra il territorio provinciale di Trapani e di Palermo.
    La storia dell'antico centro di Monte Adranone indubbiamente colonia selinuntina - si svolge pertanto in un particolare contesto derivante dal contatto tra l'area sicana ellenizzata e l'area elimo punica, con una decisa preminenza della componente punica a partire dagli inizi del IV sec. a.C., ovvia conseguenza del consolidarsi del predominio cartaginese nella Sicilia occidentale, dalla caduta di Selinunte alla morte di Dionisio I.
    Quanto all'identificazione del sito, si è propensi a riconoscere l'Adranon citata da Diodoro (XXIIIA2) in relazione a vicende della prima guerra punica: identificazione già proposta dal Cluverio e ripresa dall'Holm, anche in considerazione di dati toponomastici essenziali (il sito domina le balze di una contrada collinare denominata Adragna) sembra ormai prendere sostegno dai dati archeologici emersi dagli scavi sistematici che hanno finora univocamente dimostrato una generale e violenta distruzione della città intorno alla metà del III sec. a.C. con sporadiche presenze - forse di guarnigioni di controllo - nel corso della seconda guerra punica.
    Gli scavi regolari risalgono al 1968 e da allora annuali campagne sistematiche hanno portato alla luce la necropoli, la poderosa cinta muraria e vasti settori della città e dell'area suburbana.
    La città si estendeva su un territorio ondulato pressoché triangolare culminante a NE con l'area sacra dell'Acropoli e degradava a terrazzi verso SW in direzione della profonda insellatura che distingue le due colline su cui si sviluppa l'intero abitato e che forse coincideva con un asse stradale fondamentale della città stessa.
    La necropoli si estendeva a sud dell'abitato, nella zona che attualmente corrisponde all'area di ingresso della zona archeologica e dell'antiquarium, e da essa, pertanto, si inizia la visita della città antica.


    LE FORTIFICAZIONI É L'AREA MONUMENTALE EXTRA URBANA

    sambucfor02

    Il perimetro della città, è di oltre 6 km. Per un tratto del lato orientale viene definito dallo strapiombo roccioso, mentre per il resto è costituito da una imponente cinta muraria costruita in blocchi di pietra marnosa locale e conservata in alcuni tratti per circa m 6 di altezza.
    L'impianto originario delle fortificazioni si pone tra la fine del VI e l'inizio del V sec. a.C., ma ebbe una consistente ricostruzione nel IV sec. con l'aggiunta di torrioni e contrafforti in relazione alla ricostruzione punica della città, mentre agli inizi del III sec. a.C. è da riportare un ulteriore rafforzamento del sistema difensivo con la costruzione di un propugnacolo avanzato a protezione dell'ingresso meridionale della città che dovette servire all'estrema difesa della città stessa nel corso della prima guerra punica.
    Un altro accesso alla città è stato individuato sul lato nord. In area esterna alla città, a Est del muro a propugnacolo avanzato è un interessante complesso monumentale extra-urbano di impianto precedente al baluardo esterno sopra descritto, che rivela una complessa e articolata stratigrafia archeologica ed edilizia, che si può cosi riassumere: in un'area già occupata da capanne indigene a pianta curvilinea di cui restano avanzi affioranti nei livelli più tardi sorse già nel V sec. a.C. un quartiere extra-urbano di abitazioni orientate pressoché est-ovest, quartiere che agli inizi del IV sec. a.C. si accrebbe e si potenziò con la costruzione di un sacello e di un complesso di ambienti di servizio ad esso pertinenti. Intorno alla metà del IV sec. a.C. la zona subì una radicale trasformazione con la costruzione di un imponente edificio relativo a un plesso artigianale a pianta rettangolare - la cosiddetta fattoria - che si sovrappone alle abitazioni del V-IV secolo, rispettando, tuttavia, l'area del Santuario.

    jpg

    IL SANTUARIO

    Il Santuario è costituito da un temenos, o recinto sacro, che un muro di pietrelle a secco definisce in forma di trapezio rettangolare (m 9.30 est-ovest e m 11 nord-est). L'ingresso, a sud, introduce in un'area rusticamente lastricata al centro della quale è il sacello: questo è a pianta rettangolare (m 6 est ovest x m 3.50 nord-sud) con ingresso sul lato meridionale.
    La tecnica di costruzione è in piccoli conci di marna, con pareti perimetrali serrate agli spigoli da conci in tufo arenario. L'interno del sacello è bipartito e una parete trasversale definisce a ovest un piccolo adyton cui si accede da una angusta porta lievemente rastremata verso l'interno.
    Le fragili ma interessanti strutture interne (temporaneamente interrate) consistono in una piattaforma circolare in pietra di marna per un altare rotondo al centro del vano e in una panchina di pietrame a secco addossata lungo le quattro pareti.
    Analoga panchina si può osservare all'esterno, lungo la fronte del sacello. All'esterno del sacello, appoggiato al tratto orientale della fronte è un botros quadrangolare con foro comunicante verso l'interno, mentre dirimpetto allo stesso tratto di fronte è un altro altare in pietra, di forma quadrata.
    Sia all'interno che all'esterno del sacello al momento dello scavo si raccolsero numerose deposizioni votive, offerte religiosamente deposte dai fedeli sopra le panchine, ma anche nascoste, quasi stratificate tra le pietre componenti le panchine stesse, talora sepolte tra il lastricato del pavimento.
    Una delle ultime deposizioni collocate sulla panchina interna è una interessante testa di Demetra con polos, in pietra tenera, opera locale che ibridamente ricorda modelli greci e punico-ellenistici. Da una fossa votiva nell'area del temenos provengono invece numerose terrecotte votive, trà cui i pregevoli busti di divinità dal volto giovanile attribuiti a Persefone.
    A sud del santuario vi sono resti di strutture contemporanee che - anche per il tipo di materiale rinvenuto negli strati d'uso - si ritiene fossero in stretta connessione con l'attività cultuale del santuario stesso.
    Su di esse, verso la metà del IV sec. a.C. vennero impostate le fondazioni di un articolato complesso artigianale o fattoria. Si tratta di un grandioso edificio a pianta rettangolare (m 57.50 nord-est sud-ovest x m 38.50 nordest/sud-est) con un vasto cortile al centro, intorno al quale si dispone regolarmente, sulle quatto ali dell'edificio, la serie di circa trenta ambienti principali, molti dei quali con ripartizioni interne.
    Tra gli ambienti più significativi: nell'ala NO, all'angolo ovest, due ambienti contigui con vaschette di lavorazione con avanzi di tritume di cava e gesso (impasto normalmente usato per intonaci e pavimenti); nell'ala sud-ovest, un laboratorio di scalpellino con piattaforma di lavorazione che conservava in sito un blocco di pietra appena sbozzato e tre capitelli finiti di raffinata fattura, destinati a qualche importante costruzione e mai messi in opera; infine, un frantoio con la macina in sito con solco e beccuccio per versare il liquido spremuto in un pithos interrato.
    Al momento dello scavo, presso il frantoio si rinvennero cumuli di olive carbonizzate: sembra evidente che il complesso venne distrutto mentre le attività erano in pieno fervore.



    fonte:comune.sambucadisicilia.ag.it- & consorziodeitempli.ag.it
    foto: agrigentoierieoggi.it
    - virtualsicily.it
    - siciliano.it
    - calabriaonline.com
    - borghitalia.it
    - panoramio.com
    - albopretorio.name
    - mondimedievali.net
    - agrigentoflash.it
    - viaggiscoop.it

     
    Top
    .
  5. tomiva57
     
    .

    User deleted


    3465_santa_margherita_di_belice_cattedrale_e_palazzo_cuto


    Santa Margherita di Belice

    Fondata nel 1572 dal Barone Antonio Corbera, antenato dello scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa, sorge nella zona sud-occidentale della Sicilia, tra i fiumi Belìce, Senore e Carboj, alla confluenza delle province di Palermo, Trapani e Agrigento. Confina, con i comuni di Salaparuta (TP), Contessa Entellina (PA), Sambuca di Sicilia, Menfi e Montevago (AG).

    Nel suo territorio si trovano testimonianze di insediamenti sicani, greci, romani e arabi. Nel 1610 il Re Filippo III autorizzò il barone Girolamo Corbera, nipote del fondatore, a dare al paese il nome di Santa Margherita. I Principi Filangeri, succeduti ai baroni Corbera, diedero impulso al paese con la costruzione di diversi edifici e facendone aumentare la popolazione. Tra i Filangeri di Santa Margherita di Belìce si annoverano tre vicerè di Sicilia: Alessandro I, Alessandro II e Nicolò I che nel 1812 ospitò nel Palazzo di Santa Margherita, per circa tre mesi, il Re Ferdinando, la regina Maria Carolina (la Donnafugata) e il principe Leopoldo di Borbone.

    Dall'ultima principessa Filangeri, Giovanna e dal principe Lucio Mastrogiovanni Tasca d'Almerita nacque Giuseppe. Furono i ricordi di Santa Margherita che Giuseppe Tomasi definì "Il Paradiso Terrestre e Perduto della mia infanzia" a ispirarlo per la stesura de "I Racconti" e de "Il Gattopardo". Questi scritti contengono tante descrizioni dell'ambiente e dei personaggi che furono mete di gite deliziose nella sua infanzia: Misilbesi, Dragonara e Madonna delle Grazie.

    Santa Margherita rappresenta nel mondo tomasiano la Sicilia del feudo: legato però al felice ricordo dell'infanzia e dell'amatissima madre, Beatrice Tasca Filangeri di Cutò, alla cui famiglia apparteneva l'enorme palazzo in cui Giuseppe trascorreva l'estate e su cui ricalcò in gran parte la casa di Donnafugata del Gattopardo. Oggi, ricco di innumerevoli stanze e cortili, di uno spazio teatrale, di un ombroso giardino, è sede ufficiale del Parco.

    Le attrattive principali sono legate al palazzo del Gattopardo, al meraviglioso Parco del Gattopardo Cutò di Filangeri, con le sue fontane e le sue rare essenze arboree, alla Villa Comunale con un pittoresco belvedere, alla Chiesa Madre o SS.Rosario, rifatta nel '700 e ornata di stucchi del Sesta e di dipinti del Meli. La città, che ha conquistato attori, registi, scrittori e poeti di fama internazionale, nonostante è stata seriamente distrutta dal terremoto del 1968, conserva ancora il suo misterioso fascino.

    Santa Margherita è un centro prevalentemente agricolo. La vitivinicoltura rappresenta il settore produttivo trainante per l'economia margheritese. Altra coltura tipica della zona, è quella dell'olivo. Ma di certo è il ficodindia che trova a Santa Margherita di Belìce il suo habitat naturale. In questa area soleggiata, dalla natura rigogliosa, dove scorre il fiume Belìce, la coltivazione del ficodindia è una tradizione secolare.



    Museo del Gattopoardo


    museo_gatt

    Sono passati 50 anni e la bellezza de “Il Gattopardo” rimane intatta. Cinquanta anni dopo, una copia autentica dell'originale manoscritto e del dattiloscritto del Principe, è stato donato da Gioacchino Lanza Tomasi, ed esposto nelle sale del nuovo museo di Santa Margherita di Belìce. Sono quelle pagine il vero punto di attrazione di tutto il Parco del Gattopardo che ospita già un piccolo museo delle cere dove è rappresentata una scena del “Gattopardo” viscontiano.

    Ma ai visitatori non mancheranno le attrattive. Tutto il museo infatti, ruota attorno alla figura ed alle opere di Tomasi di Lampedusa. All'interno di teche sono esposte le lettere, gli appunti, la documentazione e le foto d'epoca dello scrittore, postazioni multimediali fanno rivivere i saggi critici e i film dedicati all'opera, si potranno vedere e ascoltare le interviste a Claudia Cardinale e Alain Delon, indimenticabili interpreti del film di Luchino Visconti, così come lo stesso manoscritto, la sua stesura, le correzioni apportate. Pagina dopo pagina, bozze e correzioni, fino alla stesura finale. Insomma, entrare nel museo sarà come fare un tuffo nel passato, ritornare negli anni '50, rivivere quei tempi e tuffarsi nell'atmosfera che portò lo scrittore a scrivere il suo capolavoro.


    museo_gat2
    museo delle cere

    Giuseppe Tomasi di Lampedusa nasce a Palermo il 23 dicembre del 1896. Visse un’esistenza fatta di viaggi all’estero, lunghi soggiorni nel palazzo paterno di Palermo e nella grande casa di campagna di Santa Margherita di Belìce. Fu proprio qui che Tomasi di Lampedusa, nel piccolo teatro della sua grande casa, assistette per la prima volta all’Amleto messo in scena da una compagnia di attori girovaghi. E fu sempre a Santa Margherita di Belìce che imparò a leggere e scrivere, sia in italiano, che in francese. Ma per il grande scrittore siciliano, autore di uno dei libri più letti nel mondo, fu importante la partecipazione al congresso letterario di San Pellegrino del 1954, al seguito del cugino poeta Lucio Piccolo. In quell’occasione, Tomasi di Lampedusa, solitamente schivo al quale, come lui stesso ebbe a dire“piaceva stare più con le cose che con le persone” conobbe, fra gli altri, Eugenio Montale, Maria Bellonci e Giorgio Bassani e fu subito dopo che cominciò a scrivere il Gattopardo. Sull'origine del “Gattopardo” si sa veramente poco. Dal ’54 al ’57 Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ripercorrendo sul filo della memoria la sua infanzia e la storia della sua antica e nobile famiglia, diede vita ad una delle più grandi scritture del ‘900 che come accade spesso ebbe un inizio editoriale travagliato. Nel 1956 venne rifiutato da Mondadori e un anno dopo, nel 1957 anche Elio Vittorini rifiutò di pubblicare il romanzo nella collana Einaudi "I Gettoni". Nello stesso anno Giuseppe Tomasi di Lampedusa muore di cancro senza godere del successo del suo romanzo, pubblicato l'anno dopo dalla Feltrinelli e curato da Giorgio Bassani.

    RINASCE IL GATTOPARDO


    Un museo costruito attorno ad un romanzo. Per farne conoscere i personaggi, la vita e scoprirlo, pagina dopo pagina. Il manoscritto originale de “Il Gattopardo” del principe Giuseppe Tomasi, duca di Palma e principe di Lampedusa, è tra i “pezzi” che si possono ammirare nel nuovo Museo del Gattopardo, a Santa Margherita di Belìce. Per la prima volta non è un museo ad ospitare un'opera, ma è la struttura museale che verrà costruita attorno ad un romanzo, “Il Gattopardo”, per far conoscere ai visitatori, i luoghi descritti in quelle pagine, la vita e le opere del grande scrittore siciliano.

    GIUSEPPE TOMASI DI LAMPEDUSA RECITA IL SUO RACCONTO “LIGHEA”

    Oltre agli elementi visivi, la grande attrattiva del Museo è data dalla possibilità di ascoltare, per la prima volta, la voce dello scrittore. A seguire, ed accompagnare il cammino del visitatore sarà infatti lo stesso Tomasi di Lampedusa, perché in tutte le sale del museo,si ascolterà lo scrittore che recita un suo racconto “Lighea”. Una registrazione unica, nata per gioco una mattina del 1956, quando ancora Giuseppe Tomasi non era famoso, ma già scriveva i suoi racconti. Quel giorno, a Gioacchino Lanza Tomasi, figlio adottivo dello scrittore,Tomasi di Lampedusa aveva regalato un registratore a nastro nuovo di zecca. E allora, per provarne il corretto funzionamento, ebbe l'idea di registrare la voce del padre adottivo, non immaginando che quella registrazione sarebbe rimasta l'unico documento audio del grande scrittore siciliano. Con in mano il Grunding e un nastro, Gioacchino e la fidanzata Mirella Radice si recarono nel palazzo di via Butera a Palermo dove abitava Giuseppe Tomasi di Lampedusa e gli chiesero di recitare uno dei suoi racconti. Quello stesso racconto, “Lighea” che i visitatori ascolteranno dalla voce di chi l'ha scritto e che nessuno, finora ha mai sentito.

    Il Museo della Memoria

    museo_mem

    museo mem"Vi era anche la Chiesa,
    che poi era il Duomo di Santa Margherita.
    (…) La chiesa stessa grande e bella,
    ricordo, in stile Impero
    con grandi brutti affreschi
    incastonati tra gli stucchi bianchi del soffitto…"


    È questa la descrizione che Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Ricordi d'infanzia in I Racconti, (Milano, Feltrinelli, 1993) fa della chiesa attigua al complesso monumentale del palazzo Filangeri di Cutò di Santa Margherita di Belìce.


    La costruzione fu voluta dal nobile Alessandro Filangeri I sul finire del600, l'esterno presentava una facciata barocca, culminata in alto da intagli e dalla statua di S. Rosalia alla quale era dedicata la chiesa; all'interno vi erano numerose decorazioni di stucco e affreschi, l'altare centrale delimitato da due alte colonne scanalate racchiudevano la nicchia con la statua lignea del SS. Crocifisso del XIII sec., che ora si trova nella nuova Chiesa Madre. Un tempo costituiva un luogo di incontro e di riferimento delle attività religiose del paese, ma poi fu rovinosamente distrutta dagli eventi sismici del 1968, che la ridussero ad un cumulo di macerie. Ai danni del sisma si sono aggiunti i ripetuti atti di vandalismo che hanno peggiorato le precarie condizioni decorative.

    Oggi l'edificio è stato ricostruito ed è stato realizzato al suo interno il museo, grazie ad un finanziamento del Parco Culturale Terre Sicane.

    Il museo, soprattutto nei confronti dei giovani e di chi non può essere a conoscenza di quei fatti tragici, che cambiarono la vita a migliaia di persone, mira a far riflettere sul valore della memoria, una memoria formativa che ci aiuta a capire come eravamo e come siamo.

    Al suo interno diversi fotogrammi, citazioni letterarie ed opere pittoriche guidano il visitatore in una affascinante scoperta dei paesi della Valle del Belìce: Gibellina, Montevago, Salaparuta, Poggioreale, Santa Margherita di Belìce, Santa Ninfa, Sambuca di Sicilia e Vita, prima e dopo quella tragica notte del 15 gennaio 1968.

    Dalle immagini di quei luoghi di straordinaria bellezza, che in pochi secondi furono distrutti e rovinati dalla forza della natura, si evidenzia la fragilità delle cose umane, si racconta il dolore, l'emergenza, la solidarietà, la rabbia, ma anche la protesta di chi vuole con forza una rinascita ed un futuro.

    Lo spazio espositivo ospita un materiale fotografico vario, proveniente in gran parte da archivi e collezioni private. All'interno è possibile visionare, oltre alla produzione di fotografie, anche immagini video-audio, raccolte di quotidiani, riviste dell'epoca ed album di foto.

    Completa la visita una sala multimediale, in cui vengono proiettati dei video, attraverso i quali si racconta la storia della Valle del Belìce e dei suoi paesi prima e dopo il 1968 fino ai nostri giorni.


    La Villa Comunale

    "Nei pomeriggi autunnali piovosi la passeggiata si limitava alla Villa Comunale. Questa era posta al limite settentrionale del paese, proprio sul dirupo che contemplava la grande vallata che è forse l'asse principale est-ovest della Sicilia …

    3464_santa_margherita_di_belice_villa_comunale_belvedere

    ...Era stata donata al Comune da mio nonno ed era di una malinconia senza limiti: un viale abbastanza lungo e bordato da cipressi giovani e da vecchi lecci affluiva in un piazzale...ed a sinistra una sorta di chiosco tempietto con cupola sferica dal quale si poteva guardare il panorama. E ne valeva la pena...”

    (da “I ricordi d’Infanzia” di G. Tomasi di Lampedusa)

    La Villa Comunale si trova all’ingresso del paese ed è l'altra zona a verde di cui il paese dispone. Si sviluppa su un'area a forma allungata con un viale che la percorre interamente. All'estremità del viale si trovano: il tempietto a pianta circolare del "Café House", fatto costruire nella seconda metà del 1800 e la statua di Flora posta su un basamento nel piazzale antistante il tempietto.

    Il Parco della Rimembranza

    jpg

    Quest’area faceva parte di un vasto appezzamento prima appartenente alla Chiesa e al Convento dei Padri Riformati (XVIII sec.). Il terreno successivamente espropriato divenne proprietà del comune che in una parte edificò il Parco.

    Questo sito mantiene il nome originario “Selva”, che presuppone la sua appartenenza a quella vasta zona “del bosco della baronia”. Nel 1921 si sentì la necessità di dare una sistemata all’area attraverso l’edificazione di un muretto che chiude gli spazi e di un tracciato di vialetti in terra battuta che segue tutt’intorno i bordi esterni del giardino e ne asseconda con semplicità la forma geometrica. Al suo interno poi si trova un piazzale circolare dove si trova il monumento ai caduti.


    La festa del SS. Crocifisso

    crocifisso

    La comunità di Santa Margherita di Belìce ogni anno, nella prima domenica di maggio, pratica in onore del SS. Crocifisso riconosciuto e ritenuto ormai legittimo patrono del paese, una delle più importanti e solenni celebrazioni religiose.

    Il rituale che ogni anno si ripete sempre con maggior fervore, costituisce un momento in cui le occupazioni quotidiane lasciano il posto alla celebrazione di feste comunitarie come questa, attraverso cui il gruppo sociale manifesta la propria partecipazione all’avvenimento, riaffermando la propria religiosità collettiva. Ad opera di un comitato costituito da un gruppo di cittadini margheritesi, che coinvolge la città in un clima di festa, ogni anno nella prima settimana di maggio si alternano alle celebrazioni religiose momenti di folklore, sport e spettacolo.

    La "Scinnuta di la Cruci" è un momento di partecipazione straordinaria dei fedeli che si raccolgono all’interno della Chiesa Madre. Dopo la recita dei Vespri del SS. Crocifisso, il popolo invoca il canto in onore della Croce che viene calata per essere baciata dai fedeli. Di antica tradizione è la solenne processione che la domenica, per le vie del paese, si avvia all'alba concludendosi con spettacolari giochi pirotecnici.

    Ad essere portato in spalla, dalla omonima Confraternita, è Gesù Crocifisso, statua risalente alla seconda metà del XIV sec, danneggiata dal sisma del gennaio '68, restaurata prima nel 1969 poi nel 1977 e dinanzi alla quale nel maggio del '93, durante la visita pastorale ad Agrigento, di Sua Santità Giovanni Paolo II, celebrò messa e lanciò dalla Valle dei Templi di Agrigento, il famoso anatema contro la Mafia

    Il territorio di Santa Margherita di Belìce è ricco di prodotti tipici: dal vino, al formaggio e alla vastedda della valle del Belìce, all'olio d'oliva. Il frutto tipico del nostro territorio è però il ficodindia prodotto di grande eccellenza e qualità. Qui di seguito i link utili per avere maggiori dettagli e informazioni su questi prodotti. Tali beni possono essere acquistati sia nei negozi di prodotti tipici del territorio, sia nelle aziende agricole che fanno vendita diretta.

    Il ficodindia

    ficod

    Il ficodindia, trova a Santa Margherita di Belìce il suo habitat naturale. In tale area ha trovato l'ambiente pedologico vocazionale per eccellenza per svilupparsi e produrre. In questa area soleggiata, dalla natura rigogliosa, dove scorre il fiume Belìce, la coltivazione del ficodindia è una tradizione secolare.

    Tipico frutto di origine messicana, il ficodindia si è diffuso in Italia grazie ai colonizzatori spagnoli poco più di cinque secoli fa. La coltivazione del ficodindia nei comuni delle Terre Sicane vanta tradizioni antichissime, soprattutto a Santa Margherita di Belìce le particolari condizioni pedo-climatiche risultano favorevoli alla produzione di frutti di altissima qualità e dal sapore molto gradevole.

    Dal gusto esotico e dalla forma ovoidale, il ficodindia matura nei mesi autunnali (Ottobre-Novembre). Per il suo contenuto di zuccheri e di aminoacidi è particolarmente apprezzato oltre che per la sua bontà anche per le sue proprietà diuretiche e toniche. Il ficodindia favorisce, infatti, la diuresi e per questo è indicato dai medici per le terapie delle funzioni renali.
    Il panorama varietale è ristretto a tre cultivars con gusti sensibilmente diversi tra loro: la gialla detta Sulfarina; la rossa detta Sanguigna; la bianca chiamata anche Muscaredda.

    Nel mese di Ottobre a Santa Margherita di Belìce si svolge la Sagra del Ficodindia, suggestiva vetrina attraverso la quale i produttori locali possono far conoscere il loro prodotto che si presenta come una delle principali risorse del comparto agricolo del territorio.

    Il ficodindia è ottimo fresco, ma può anche essere utilizzato per dolci, gelati, succhi e persino per farne frittelle con le bucce.

    La vastedda

    vastedda

    La vastedda della Valle del Belìce è un formaggio fresco a pasta filata prodotto dal latte ovino intero ad acidità naturale di fermentazione. E' facilmente riconoscibile grazie alla forma piccola di circa500 grammi, simile ad una focaccina, dal colore avorio e al sapore delicato leggermente acidulo. Il suo nome evoca il pane per i siciliani. Questo pregiatissimo formaggio si ottiene dal latte della pecora Valle del Belìce; una razza ovina che conta circa 60 mila capi, ottenuta da una selezione nel corso dei secoli, ed allevata nell'omonima valle.

    La storia

    L'origine di questo formaggio, che senza dubbio è quello più tipico della zona, è legata ad un antico racconto che narra di un pastore che dopo aver munto il latte, lo caseificio a pecorino; ma a causa di un forte vento caldo, la temperatura si mantenne alta e la pasta messa nei canestri, prima della salatura, divenne acida. Il casaro tagliò a fette il formaggio inacidito e lo mise nel "piddiaturi" con acqua calda; rimestandolo con la "viria" ottenne un pastone che cominciò a filare. Il casaro, tolta la pasta dalla parte liquida, la pose in piatti da cucina.

    Da qui nacque la vastedda. La pastorizia, così anche la viticoltura, ebbero un notevole sviluppo in questo comprensorio con l'avvento degli Aragonesi (che regnarono in Sicilia tra 1282 fino al XVIII secolo) ed in particolare con il Re Federico II, il Vecchio. Rispetto al governo di Carlo D'Angiò, gli Aragonesi si dimostrarono benevoli verso i contadini ed i pastori favorendo così lo sviluppo di queste attività. Il documento più antico, ritrovato, che attiene alla vendita di formaggio prodotto nella Valle del Belìce, risale alla metà del XV secolo. Una seconda vendita di formaggio, testimoniata in un successivo documento, riguarda 200 quintali di "caci intriczari odoriferi" al prezzo di 10 tari al quintale.

    Nel 1497 nella Valle del Belìce fu prodotta una “grandissima quantità di formaggi e cacicavalli”, al punto che lo stesso viceré ordinò la vendita del formaggio a minuto” .. .per il bene della povera gente”, come risulta dai documenti di archivio ritrovati che citano il pecorino fresco e stagionato, la ricotta, il caciocavallo e la vastedda.

    La preparazione

    II latte si coagula in 20 minuti con caglio di agnello, alla temperatura di 35° C. circa. La cagliata viene rotta in grumi e si lascia rassodare. La fuma, dopo circa 24 ore di sosta, raggiunge l'ottimale acidificazione, viene tagliata manualmente a listarelle e trattata con la scotta salata rimanente dalla produzione della Ricotta o con acqua calda a 90° C. La pasta, già filata nel "piddiaturi", viene travasata sul "tavuleri" per la fase di lavorazione manuale fuori dell'acqua. Ultimata la lavorazione, le porzioni di pasta, modellate pazientemente a mano, vengono poste nei piatti e rivoltate una o due volte, assumono la forma di una focaccina. La Vastedda della Valle del Belìce, al pari di altri prodotti caseari freschi, è un eccellente fonte di principi nutritivi, soprattutto di proteine, vitamine liposolubili ed anche sali minerali, nonostante sia un formaggio a pasta filata. Il suo contenuto proteico è importante ed in particolare il rapporto tra grasso e proteine è inferiore a 1, differentemente da quanto avviene nel latte: la particolare tecnica di lavorazione causa infatti un parziale allontanamento del grasso nella scotta o nell'acqua di filatura proprio durante il processo di filatura.



    L'olio

    olio Altra coltura tipica della zona, è quella dell'olivo. Il territorio di Santa Margherita di Belìce, rappresenta una tappa fondamentale nella storia dell'olivicoltura. Basti pensare che nel passato l'olio veniva considerato uno dei beni necessari alla vita dell'uomo.

    Ancora oggi l'olivicoltura rappresenta un settore di primaria importanza nell'economia del nostro territorio specie se si considera che il prodotto che se ne ottiene è considerato tra i migliori in Italia.

    Le varietà maggiormente coltivate sono la "Biancolilla", la "Cerasuola", la "Giarraffa" e la "Nocellara del Belìce"; da quest'ultima si ricava un olio corposo ma allo stesso tempo, indispensabile componente della dieta mediterranea.

    L' olio extravergine di oliva, purissimo e naturale, è una vera e propria spremuta di olive accuratamente selezionate. Le olive vengono raccolte dagli alberi manualmente e la lavorazione avviene entro poche ore dal raccolto. La spremitura viene effettuata a freddo, lasciando decantare l’olio naturalmente per esaltarne le caratteristiche organolettiche. L’olio viene successivamente imbottigliato, senza l’aggiunta di conservanti.



    Il vino vino

    La vitivinicoltura rappresenta il settore produttivo trainante per l'economia margheritese. Nel corso dei secoli la vite ed il vino sono stati sempre una presenza costante di questo territorio.

    Il panorama varietale, costituito sino a pochi decenni fa da pochi vitigni (Catarratti, Trebbiano, Inzolia, Grillo, Nerello Mascalese, Sangiovese), ha subito un radicale rinnovamento grazie alla valorizzazione di alcune varietà autoctone come il Grecanico ed il Nero d'Avola e l'introduzione di alcuni vitigni di pregio come lo Chardonnay, il Merlot, il Cabernet S. ed il Syrah.

    Il forte processo di rinnovamento, concretizzatosi con la localizzazione in aree viticole particolarmente vocate, la modifica degli impianti, delle tecniche di produzione e di trasformazione ed il rispetto del Disciplinare DOC "Santa Margherita di Belìce", ha determinato un deciso innalzamento della qualità delle produzioni enologiche.

    Oggi, i vini prodotti con uve selezionate e raccolte con il giusto tenore zuccherino e di acidità, sono ricercati ed apprezzati dai consumatori di tutto il mondo.




    fonte:comune.santamargheritadibelice.ag.it/
    foto: placesonline.com
    - comune.santamargheritadibelice.ag.it
     
    Top
    .
  6. tomiva57
     
    .

    User deleted


    SEGESTA

    Segesta


    « Aegesta Siciliae urbis ubi calidae aquae. »

    (Strabone 1,6)


    Si chiamava Segesta un'antica città, non più abitata, fondata dagli Elimi e situata nella parte nord-occidentale della Sicilia.

    La vecchia città sorge sul Monte Barbaro, nel comune di Calatafimi Segesta, a una decina di chilometri da Alcamo e da Castellammare del Golfo.

    Di particolare bellezza sono il tempio, in stile dorico, e il teatro, in parte scavato nella roccia della collina.


    Storia


    La fondazione


    La data della fondazione non è conosciuta, ma da documenti risulta che la città era abitata nel IV secolo a.C. Lo storico greco Tucidide narra che i profughi troiani, attraversando il Mar Mediterraneo, giunsero fino in Sicilia, e fondarono Segesta, chiamata Aegesta, ed Erice. Questi profughi presero il nome di Elimi.

    Secondo il mito, Segesta sarebbe stata fondata da Aceste (che ne fu il primo re), figlio della nobile troiana Egesta e del dio fluviale Crimiso.

    Virgilio riporta la leggenda secondo cui Segesta sarebbe stata fondata da Enea per far riposare i vecchi e le donne, dopo che queste avevano incendiato le navi poco prima di riprendere il viaggio.

    Guerre

    Fin dalla loro fondazione, Segesta e Selinunte furono in guerra fra loro per motivi di confine. Il primo scontro avvenne nel 580 a.C. e Segesta ne uscì vittoriosa. Nel 415 a.C. Segesta chiese aiuto ad Atene

    perché intervenisse contro l'intraprendenza selinuntina supportata da Siracusa. Gli ateniesi presero come pretesto la richiesta di Segesta e decisero una grande spedizione in Sicilia, assediarono Siracusa ma ne risultarono disastrosamente sconfitti. Gli scontri si conclusero nel 409 a.C., quando Selinunte fu assediata e distrutta dai cartaginesi, invocati anche questa volta dai segestani.

    Nel 307 a.C. molti segestani furono barbaramente uccisi o venduti come schiavi dal tiranno siracusano Agàtocle per non aver a lui fornito i richiesti aiuti economici. Agàtocle, dopo la feroce repressione, cambiò il nome della città in Diceopoli (città giusta).

    Nel 276 a.C. la città si consegnò alla potente armata di Pirro, ritornando sotto l'influenza punica alla dipartita dell'epirota.


    Nella prima guerra punica, nel 260 a.C. si alleò a Roma che ne ebbe grande rispetto perché, secondo la tradizione, entrambe le città avevano origini comuni (discendendo tutt'e due dai fuggiaschi di Troia). I romani la difesero dal tentativo di riconquista cartaginese. Le fu, quindi, garantito lo stato di città libera, con esenzione dalle imposizioni di tributi, al contrario delle altre città siciliane (civitas libera ac immunis).

    La rivolta degli schiavi

    Fu nel 104 a.C. che da Segesta iniziarono le rivolte degli schiavi in Sicilia, le cosiddette guerre servili, guidate da Atenione. Queste rivolte furono soffocate nel sangue dai Romani nel 99 a.C.

    La caduta della città

    Segesta fu distrutta dai Vandali nel V secolo, e mai più ricostruita nelle dimensioni del periodo precedente.

    Ciononostante, vi rimase un piccolo insediamento e, dopo la cacciata degli Arabi, i Normanni vi costruirono un castello. Questo, ampliato in epoca sveva, fu il centro di un borgo medievale. Se ne perse poi quasi il nome fino al 1574, quando lo storico domenicano Tommaso Fazello, artefice dell'identificazione di diverse città antiche della Sicilia, ne localizzò il sito.

    310px-Segesta%2C_Tempio_greco_%282%29

    Tempio di Segesta

    Il tempio di Segesta è un tempio greco dell'antica città di Segesta sito nell'area archeologica di Calatafimi Segesta, comune italiano della provincia di Trapani in Sicilia.


    Il tempio, a volte denominato "Tempio Grande", è stato costruito durante l'ultimo trentennio del V secolo a.C., sulla cima di una collina a ovest della città, fuori dalle sue mura. Si tratta di un grande tempio periptero esastilo (ossia con sei colonne sul lato più corto, non scanalate). Sul lato lungo presenta invece quattordici colonne (in totale 36 quindi). L'attuale stato di conservazione presenta l'intero colonnato della peristasi completo di tutta la trabeazione. Nonostante gli elementi costruttivi e le proporzioni della costruzione si riferiscano con chiarezza al periodo classico dell'architettura greca, il tempio presenta aspetti peculiari sui quali la storiografia non esprime pareri unanimi.

    Il primo elemento di dibattito è costituito proprio dalla sua natura di espressione artistica pienamente ellenica, aggiornata alle maggiori espressioni dell'arte della madrepatria ed in particolare dell'Attica, ma realizzata in una città degli Elimi, una popolazione di origine incerta, ma stanziata in Sicilia molto prima dell'arrivo dei coloni greci nella vicina Selinunte, con la quale Segesta fu perennemente in conflitto. Gli storici ipotizzano che, grazie agli scambi commerciali, la città elima abbia raggiunto nel corso del V secolo a.C. un alto grado di ellenizzazione, tale da poter consapevolmente importare un sofisticato modello artistico come il tempio dorico periptero che grazie alla canonizzazione di dimensioni e proporzioni si prestava ad una larga diffusione. Inoltre è probabile che il progettista e le maestranze impiegate fossero greche, provenienti da una delle vicine città.

    800px-Tempio_di_Segesta_particolare_2

    Il secondo aspetto che ha sempre colpito molto gli storici è l'assenza di vestigia della cella all'interno del colonnato, che invece è uno dei meglio conservati del mondo greco. Questo ha fatto pensare ad un tempio ipetro o meglio ad un luogo sacro privo di copertura e di cella e legato a riti indigeni. In alternativa si è pensato ad una cella interamente a struttura lignea, come tutta la copertura, e quindi andata persa.

    Negli anni '80 sono state trovate tracce della fondazione della cella, interrate all'interno del tempio, insieme a tracce di costruzioni precedenti (il che farebbe pensare che il tempio fosse stato costruito su un luogo sacro ancora più antico). Pertanto l'ipotesi prevalente è che il tempio non sia mai stato terminato, a causa probabilmente di avvenimenti bellici che coinvolsero a lungo la città e che la cella e la copertura non siano mai state realizzate.

    Tale ipotesi è avvalorata anche dalla mancanza di scanalature delle colonne e dalla presenza, soprattutto sui blocchi del crepidoma, di "bugne" cioè di protuberanze destinate e proteggere il blocco durante la messa in opera che sarebbero state scalpellate via in fase di rifinitura.

    Il tempio quindi avrebbe dovuto avere un'ampia cella preceduta da un pronaos distilo in antis ed un simmetrico opistodomo sul retro. Il colonnato, con interassi uguali su tutti i lati, presenta la canonica doppia contrazione degli intercolumni terminali per risolvere il conflitto angolare oltre ad altri tipici accorgimenti ottici come la curvatura delle linee orizzontali e alla concezione decorativa del fregio che perde, almeno in parte la sua dipendenza dal colonnato. Tali caratteristiche mostrano una derivazione dai modelli evolutivi attici della fine del V secolo a.C. ed in particolare dal tempio degli Ateniesi a Delo, ai quali rimandano anche gli elementi decorativi.

    Gli unici aspetti riferibili ancora allo stile severo sono le proporzioni allungate con 6x14 colonne in luogo delle canoniche 6x13 (doppio quadrato) e le grandi dimensioni in un'epoca in cui i templi divenivano più piccoli.

    Nel XVIII secolo il tempio fu oggetto di un primo restauro da parte dell'architetto Chenchi. Fu visitato da Goethe e divenne una delle mete del Grand Tour e una della cause della riscoperta dell'architettura greca e del dorico che fu alle radici del neoclassicismo.


    800px-Particolare_Tempio_di_Segesta


    310px-Segesta%2C_Teatro_greco_%282%29


    Teatro di Segesta

    Il teatro, che può datarsi intorno alla metà del IV secolo a.C., (o al II a.C) è posto alla sommità del Monte Barbaro, opposta a quella del tempio, a circa 440 metri di altezza. Sebbene Segesta fosse una città non greca, il teatro è di canone ellenico. Sette cunei dividono i posti degli spettatori. Le separazioni sono fatte in travertino. La divisione orizzontale del teatro (diazoma) permetteva lo spostamento degli spettatori da una sezione all'altra del teatro.

    La zona superiore è semidistrutta, e assai poco rimane anche della scena, che secondo gli studiosi sarebbe stata decorata da colonne e pilastri.

    La cavea ha un diametro di 63,60 m. Il teatro poteva ospitare oltre 4.000 persone. Restaurato, viene periodicamente utilizzato per rappresentazioni teatrali


    310px-Teatro_di_Segesta_lato_sinistro


    rovine_tempio_segesta_N

    Altri scavi

    Delle altre componenti della città si conoscono le mura con l’articolata Porta di Valle, alcuni quartieri residenziali e alcuni monumenti pertinenti Segesta medievale (mura, castello, moschea e borgo sommitale).

    Della città ellenistico-romana sono l’agorà ed un edificio abitativo di grande pregio definito la “casa del navarca” per le decorazioni a prora di nave scolpite sui fianchi di un elegante peristilio.




    fonte- foto: wikipedia.org
    foto:stilus.nl
    - guidasicilia.it

     
    Top
    .
  7. tomiva57
     
    .

    User deleted


    jpg

    Calatafimi


    Calatafimi Segesta è un comune italiano di 7.055 abitanti della provincia di Trapani in Sicilia.

    Situato fra le colline dell'agro segestano, il paese, più conosciuto con l'originario nome di Calatafimi, ha assunto la denominazione attuale dal 1997.

    Il paese si è sviluppato nel IX secolo intorno al Qal’at Fîmî, il castello di Eufemio (in arabo), di cui restano alcune tracce, in prossimità dei resti della città elima di Segesta. Il borgo fece parte del regio demanio fino a quando, nel 1336 Federico III di Aragona la concesse in feudo al figlio Guglielmo. Dagli Aragona venne ceduto ai Peralta. Portata in dote matrimoniale come baronia da Donna Violante de Prades a Bernardo Cabrera, Calatafimi appartenne alla Contea di Modica, insieme ad Alcamo, dal 1420 al 1802, quando fu incamerata nel demanio del Regno delle Due Sicilie ai Cabrera (dal 1407) ed in seguito agli Enriquez (dal 1565 fino al 1741 ed infine ai duchi d'Alba, per poi essere annessa al Regno di Sardegna in seguito alla spedizione dei Mille, che proprio nel vicino colle di Pianto Romano affrontò, il 15 maggio 1860 in una celebre battaglia le truppe borboniche. Sul luogo dove avvenne lo scontro venne eretto un grande mausoleo, dove si conservano le spoglie dei caduti. Il mausoleo conosciuto come sacrario di Pianto Romano, fu progettato dal celebre architetto Ernesto Basile.

    Il centro storico si espanse a partire dal XV-XVI secolo nei "quartieri spagnoli" che si presentano anch'essi nella loro topografia originale.

    Nel 1997 assume la denominazione attuale grazie a una legge regionale presentata dall'allora sindaco e presidente dell'Assemblea Regionale Siciliana Nicola Cristaldi.

    Monumenti e luoghi d'interesse

    Oltre all'area archeologica di Segesta ed al mausoleo di Pianto Romano, vi è il centro storico, alla cui sommità sorge il castello Eufemio, tipico esempio di architettura normanno-sveva e le chiese

    ChiesadelSS.CrocifissoCalatafimi1

    del Santissimo Crocifisso, (opera di Giovanni Biagio Amico)


    1306401585824-1 la chiesa del Carmine,

    madonnagiubino

    della Madonna del Giubino
    ,


    sanmichele

    di San Michele,

    sangiuliano

    di San Giuliano,

    via%20garibaldi

    della Madonna del Soccorso,

    ChiesadellaSS.Trinita1

    e la chiesa della Santissima Trinità


    4mini

    il palazzo Zuaro,


    la fontana "di li cannoli" .

    Al loro interno le chiese preservano numerose statue marmoree della scuola di Antonello Gagini e svariate tele. Di ottima fattura sono gli affreschi neoclassici della chiesa della Madonna del Giubino.


    centro%20storico%20Calatafimi

    Il centro storico è costituito da una serie di vicoli (con archi a sesto acuto e a tutto sesto) cortili e scalinate che si intersecano vicendevolmente fra loro, ed è attualmente disabitato e in stato di abbandono, a causa del terremoto che nel 1968 colpì la Valle del Belice.

    56840_centro_storico_via_dei_mille_calatafimi-segesta

    Battle_of_Calatafimi

    Nella cittadina sono dislocati tre piccoli musei: il museo civico-archeologico di Segesta, il museo dell'epopea garibaldina e il museo etnoantropologico.


    jpg

    Nelle vicinanze dell'abitato si trovano il bosco Angimbè e la pineta di Santa Maria.

    CALA_04_BOSCAGIM_001




    fonte:wikipedia.org
    foto:wikipedia.org
    - mw2.google.com
    - weagoo.com
    - trapaniplus.it
    - proloco-calatafimisegesta.it
    - itinerariocalatafimisegesta.com
    - vieniatrapani.com
    - placesonline.com
    - panoramio.com
    - turismo.trapani.it

     
    Top
    .
  8. tomiva57
     
    .

    User deleted


    54054197%5B2%5D

    Mausoleo di Pianto Romano



    Il visitatore a Calatafimi troverà i luoghi e le memorie di una delle imprese più famose dell'Epopea Garibaldina, la battaglia di Pianto Romano, 15 maggio 1860. qui troverà una cultura ricca di tradizioni, le cui radici affondano in tempi remoti.

    Chi volesse in poco tempo ripercorrere la storia di Calatafimi dovrebbe portarsi in cima al centro urbano, nella sua parte più elevata (m. 338 s.l.m.), là dove si trovano i resti dell'antico Castello da cui il centro abitato ha preso il nome.Calatafimi è infatti un nome di origine araba, e significa secondo la più recenti interpretazioni "Castello Phimes"; cioè castello (in arabo "Kalat") della famiglia Phimes, che , come scrive Cicerone (Verr.,2,3,92 -93),aveva grandi proprietà nel territorio segestano.



    castello_veduta_aerea%5B1%5D


    IL CASTELLO DEI PHIMES - Questo Castello dovette essere nella sua remota origine uno dei siti fortificati posti a difesa ed a controllo delle vie di accesso a Segesta. di esso si hanno documenti scritti solo a partire dalla metà del XII secolo, quando il viaggiatore e geografo arabo Edrisi lo descrive come un castello antico, primitivo con un borgo popolato. Nella prima metà del XIII secolo è uno dei castelli imperiali utilizzati dalle truppe di Federico II nella lotta contro i ribelli musulmani, che sembra avessero il loro caposaldo nel vicino villaggio di Calatabarbaro in cima all'acropoli nord di Segesta. (Un'eco vaga di questa vicenda permane ancora nella tradizione popolare locale, che tramanda la leggenda di una guerra tra un fratello di nome Calatafimi ed una sorella di nome Segesta arroccati nei loro castelli). Fu poi il castello dei feudatari di Calatafimi, e dei governatori che in alcuni periodi l'amministrarono per conto della Corona. Nel 1282, durante la rivolta del Vespro, in esso probabilmente dimorava il suo feudatario, il provenzale Guglielmo Porcelet, che, amatodai suoi sudditi,fu risparmiato dai rivoltosi e rimandato incolume assieme ai familiari in Provenza. Fu poi presidio militare e prigione fino al 1868, anno nel quale venne abbandonato, ed in cui iniziò il suo lento degrado. Una parte della sua struttura fu parzialmente demolita nel 1953 per consentire la costruzione di un grande serbatoio per l'acquedotto civico. Delle tre torri di questo castello, che viene raffigurato, almeno fin dal XVI secolo, nello stemma del Comune, sopravvivono oggi solo i ruderi delle due torri collocate all'estremità nord e sud della facciata principale, che guarda verso il centro urbano. Nella cortina muraria che le univa, vicino alla torre sud, a sinistra di chi guarda volgendo le spalle all'abitato, si apriva la porta del castello. Della terza torre, che si ergeva sull'angolo sud-ovest, là dove si incontrano due grandi muraglioni a scarpata, non c'è più traccia. La porta immetteva in un vestibolo caratterizzato da due archi; da esso si accedeva alla corte. Sul lato sinistro del vestibolo e della corte si aprono le porte anguste di alcune piccole celle sulle cui pareti si possono scorgere ancora i graffiti incisi dai detenuti. Sullo stesso lato delle celle si ergeva un altro piano, che forse costituiva la residenza signorile. Ampie cisterne per l'acqua piovana, la cui volta è in parte crollata, si trovano allineate lungo il lato ovest, sotto la corte.

    0+(2)+(FILEminimizer)

    Su questo colle, che ha un'indubbia posizione strategica, venne piazzata la maggior parte delle truppe borboniche, dopo il loro arrivo a Calatafimi nella notte fra il 12 ed il 13 Maggio 1860. Queste truppe, comandate dal generale Francesco Landi, erano state inviate dal governo borbonico per fermare Garibaldi e i suoi Mille, sbarcati a Marsala l'11 Maggio 1860, nella loro avanzata su Palermo. A metà di questo colle, sul lato occidentale, a controllo della via di accesso al paese venne posizionato uno dei quattro cannoni di cui erano forniti i soldati borbonici.

    0+(5)+(FILEminimizer)



    fonte& foto. http://calatafimisegesta.blogspot.it/
     
    Top
    .
  9. tomiva57
     
    .

    User deleted


    Alcamo-citt%C3%A0


    Alcamo

    Alcamo (Àrcamu in siciliano) è un comune italiano di 45.985 abitanti della provincia di Trapani in Sicilia.

    Alcamo è situata al confine con la provincia di Palermo, a una distanza di circa 50 km sia da Palermo che da Trapani. Sorge ai piedi del Monte Bonifato.

    Il territorio comunale oggi si estende su una superficie di 130,79 km².

    A nord è bagnata dal mar Tirreno, confina ad est con i comuni di Balestrate e Partinico, a sud con quello di Camporeale e ad ovest con quelli di Calatafimi Segesta e Castellammare del Golfo.

    La sua più importante frazione è Alcamo Marina, che dista circa 6 km dal centro cittadino.



    alcamo

    Alcamo si trova al centro del Golfo di Castellammare, a 258 metri s.l.m. ed è situata alle pendici del Monte Bonifato, complesso calcareo che raggiunge gli 825 metri s.l.m., e che al di sopra dei 500 metri ospita la Riserva naturale del Monte Bonifato.

    Vi sono discordanze riguardo all'etimologia del toponimo "Alcamo". Un'ipotesi lo farebbe derivare dal nome del condottiero musulmano che avrebbe fondato la cittadina nell'828 e che si sarebbe chiamato al-Qāmūq (in arabo: القاموق). Un'altra ipotesi collega il nome attuale alla parola araba al-qama, che significherebbe "terra fangosa" o "terra fertile". Il significato reale del termine è dunque incerto.

    Prime testimonianze

    Sebbene una leggenda la voglia sorta sulle rovine di un insediamento romano noto col nome di Longaricum (nello stendardo le due collinette rappresenterebbero rispettivamente Longaricum e Alcamo), la prima testimonianza sull'esistenza di Alcamo risale al 1154 grazie ad un passo del Libro di Ruggero II, scritto dal geografo berbero Idrisi per ordine del re normanno al fine di ottenere una raccolta di carte geografiche. Lo scrittore descrive, da più di un miglio arabo di distanza, la posizione di Alcamo dal castello di Calatubo (tutt'oggi visibile all'interno del territorio comunale) e la definisce manzil ovvero "casale o gruppo di case" con terre fertili e un fiorente mercato. Un diario del 1185 di un pellegrino andaluso conferma l'origine araba della cittadina; quest'ultimo, in viaggio da Palermo a Trapani, si fermò ad Alcamo che definì beleda: paese con moschee e mercato.


    770-11-57-32-9728
    il municipio

    Età medievale

    La città ha subìto il succedersi di diverse dominazioni: agli Arabi succedettero dapprima i Normanni e poi gli Svevi, in questo periodo l'attuale centro storico era abitato da musulmani e diviso nei quattro casali di S. Vito, S. Leonardo, S. Ippolito e S. Nicolò. Una serie di rivolte dei saraceni tra il 1221 e il 1243 indusse l'imperatore Federico II di Svevia a deportare la popolazione araba da Alcamo e i casali divennero gradualmente cristiani. La città passò quindi nelle mani di diversi feudatari, dapprima i Ventimiglia, di cui rimangono i resti dell'omonimo castello sulla cima del Monte Bonifato, poi i Conti di Modica, il cui castello è tutt'oggi presente in ottime condizioni allorché restaurato in tempi recenti. Il castello risalirebbe al XIV-XV secolo ad opera della famiglia Peralta e fu successivamente completato dai feudatari Enrico e Federico Chiaramonte. Fu in possesso dei Cabrera Conti di Modica fino al 1812, in seguito,durante il regno d'Italia fu adibito a carcere fino agli anni sessanta, soggiornò nel 1535 l'Imperatore Carlo V. La struttura del castello è a forma romboidale con 4 torri delle quali 2 quadrate presenti agli angoli e 2 circolari unite da cortine. Nelle varie torri era presente una stanza di tortura per i prigionieri, locali per le sentinelle ed alloggi per i sovrani di passaggio. Una delle caratteristiche peculiari del castello è data dalle spesse mura che lo delimitano, le quali un tempo difendevano egregiamente l'edificio dagli attacchi nemici.

    Intorno al 1500, per un periodo la città si trovo sotto la giurisdizione del capitano di giustizia Ferdinando Vega, che combatté le incursioni dei pirati turchi. Il centro abitato viene cinto da mura difensive merlate che comunicavano con l'esterno attraverso quattro porte: Porta Palermo alla fine dell'attuale via Rossotti, Porta Corleone alla fine dell'attuale via Comm. Navarra, Porta di Gesù posta di fronte alla chiesa Santa Maria di Gesù attigua al convento dei Francescani, e Porta Trapani posta all'inizio di via Comm. Navarra. Nel 1535, in onore dell'imperatore Carlo V di passaggio per Alcamo, di ritorno dalla Tunisia, fu chiusa la vecchia Porta Trapani e ne furono aperte altre quattro: Porta stella, Porta Nuova e le nuove Porta Trapani e Porta Palermo poste all'ingresso e alla fine dell'attuale corso VI Aprile che venne chiamato Corso Imperiale.

    Nel XVI secolo si ha una svolta in senso culturale per la città di Alcamo, la quale ebbe alcune scuole e dei dotti insegnanti, tra cui il poeta ed erudito Sebastiano Bagolino (1562-1604). In questo periodo avvenne anche l'apparizione della Madonna ad alcune popolane e il ritrovamento dell'immagine della Madonna, poi venerata col titolo di Maria Santissima dei Miracoli (1547). Tra il 1574 e il 1575, mentre fiorivano l'architettura e la scultura, la popolazione alcamese venne decimata dalla peste. In quel periodo i cadaveri degli appestati furono sepolti nel cimitero di S. Ippolito. Il XVII secolo per Alcamo fu ancora contrassegnato da pestilenze e moti popolari. Però questo fu un periodo d'oro per le arti, con la costruzione della Chiesa Madre, su progetto degli architetti Angelo Italia e Giuseppe Diamante, il cui interno fu decorato anche con 38 splendidi affreschi del pittore fiammingo Guglielmo Borremans (1699). Di quel periodo furono anche la ristrutturazione della chiesa di S. Oliva, la ricostruzione della chiesa di SS. Paolo e Bartolomeo, il completamento della monumentale chiesa del Collegio e della chiesa di San Francesco di Paola. Inoltre nel 1667 Mariano Ballo fece costruire un teatro, il teatro Ferrigno, in seguito ribattezzato cine-teatro Euro, e dopo i recenti restauri, teatro Cielo d'Alcamo.

    La città, dopo le epidemie ebbe un ripopolamento solo nel XVIII secolo, nel 1798 la popolazione era già di 13.000 abitanti. Nel 1787 viene descritta in maniera positiva negli appunti di viaggio di Goethe.

    Con l'avvento del XIX secolo Alcamo diventò demanio regio, e in rappresentanza della città furono membri del parlamento siciliano gli arcipreti Stefano Triolo Galifi e Giuseppe Virgilio e il barone Felice Pastore. Nel 1820 una rivolta diede luogo ad assassinî e saccheggi, alla liberazione di delinquenti dal carcere e all'incendio degli archivi comunali. Nel 1829 l'ennesima epidemia, questa volta di colera, decimò buona parte della popolazione. Nel 1843 venne iniziata la costruzione dell'attuale palazzo comunale, su un terreno che apparteneva al barone Felice Pastore. Durante il Risorgimento molti cittadini alcamesi hanno una partecipazione attiva.

    Età moderna

    Il 1812, il 1820, il 1848 e il 1860 sono gli anni nei quali Alcamo, insieme alle altre città siciliane più patriottiche, porta avanti gli ideali dell'Italia unita, guidata dalle famiglie Romano, Fazio e Triolo di Sant'Anna. Stefano e Giuseppe Triolo il 6 aprile 1860 fanno sventolare la bandiera tricolore sul palazzo del Comune, costituendo delle squadre di volontari che si recheranno in aiuto a Garibaldi nella battaglia di Calatafimi, il quale poi emanerà ad Alcamo alcuni decreti dittatoriali per conto di Vittorio Emanuele II. Sarà Francesco Crispi, poco tempo dopo, a preparare la costituzione per le terre liberate.

    Alla fine del secolo, nel 1897, venne inaugurata l'illuminazione pubblica. Tra le figure cittadine più importanti di questo periodo va ricordato il sacerdote Giuseppe Rizzo, fondatore della Cassa Rurale e Artigiana. Negli anni successivi, durante la prima guerra mondiale, morirono quattrocento cittadini alcamesi e il periodo seguente fu caratterizzato da miserie e stenti causati dall'inflazione monetaria e dal brigantaggio. Nel 1918 l'epidemia influenzale chiamata "spagnola" causò la morte di circa cinquecento persone. Con il fascismo, i cittadini chiesero allo stato l'elezione della città a capoluogo di provincia, ma la richiesta venne rigettata. Durante la seconda guerra mondiale gli alcamesi morti o dispersi in battaglia furono 213.

    Il 21 luglio 1943 gli americani entrarono ad Alcamo senza incontrare resistenza. Il 18 dicembre 1944 il disagio economico e sociale portò la popolazione ad insorgere occupando il palazzo Comunale e incendiandone gli archivi. A partire dagli anni sessanta il tessuto urbanistico si è notevolmente ampliato,in particolare ai piedi del monte Bonifato con la costruzione del viale Europa, oggi,una delle principali "arterie" della città.

    Alcamo è stata teatro di una sanguinosa guerra di mafia tra la fine degli anni ottanta e gli inizi dei Novanta. Il conflitto vide contrapposti il clan dei Greco (legato alla storica famiglia Rimi) e la mafia emergente dei corleonesi, il cui referente per il mandamento alcamese (uno dei quattro della provincia di Trapani) era il boss Vincenzo Milazzo. Il piano di Totò Riina era quello di eliminare gli esponenti della vecchia mafia e mettere al comando solo suoi uomini fidati. Proprio per questo la famiglia Greco rappresentava un ostacolo. La causa che scatenò il conflitto fu un avvicinamento di alcuni membri di Cosa Nostra al rivale clan Greco. La guerra insanguinò la città per circa un quinquennio e provocò decine di vittime. La nuova mafia dei corleonesi prevalse, ma il costo da pagare fu altissimo, poiché perirono tantissimi affiliati di quest'ultima.



    Teatro-Euro

    teatro


    Architetture civili


    1316075961863-1

    Casa De Ballis, con torre cinquecentesca

    Architetture religiose

    Alcamo_166-10-14-31-7635

    La Basilica Santa Maria Assunta, detta anche Chiesa Madre, è una realizzazione seicentesca intitolata all'Assunta; sul posto esisteva un luogo di culto del XIV secolo del quale sono visibili il portale e l'elegante campanile. Sorge nel pieno centro cittadino a due passi da piazza Ciullo. L'interno, tripartito, è affrescato da Guglielmo Borremans nelle cappelle laterali sono presenti opere di Antonello Gagini. Dal 2010 è stato sapientemente allestito un Museo della Basilica con moltissime opere provenienti dalle chiese alcamesi.

    prospetto%20chiesa

    Nella seicentesca Chiesa di San Francesco sono conservate un'ancona in marmo, ritenuta probabile opera di Domenico Gagini, e due sculture riproducenti la Maddalena e San Marco attribuite ad Antonello Gagini.

    ALCA_CHIESFRAN_001

    La Badia Nuova, nota anche come San Francesco di Paola, custodisce una pittura di Pietro Novelli e figurazioni allegoriche di Giacomo Serpotta.
    La Chiesa di Sant'Oliva (XVIII secolo) custodisce una pittura del Novelli (altare maggiore) e lavori dei Gagini.

    Facciatawcol

    La Chiesa dei Santissimi Paolo e Bartolomeo, dai caratteristici tratti barocchi, accoglie una pregevole Madonna del Miele, di antichissima fattura (1300 circa).

    facciata%20chiesa%20alcamo

    La Chiesa di Santa Maria di Gesù, che ospita le spoglie del beato Arcangelo Piacentini da Calatafimi.


    Architetture militari


    330px-Castello_di_Alcamo_0024
    Castello dei Conti di Modica


    calatubo
    Castello di Calatubo

    552_alcamo_castello_dei_ventimiglia
    Castello Ventimiglia


    Aree naturali



    parco600_1

    Riserva naturale Bosco di Alcamo



    foto: lagazzettatrapanese.it
    - sicilia.indettaglio.it
    - wateronline.info
    - .paesionline.it - weagoo.com
    - fotografieitalia.it
    - foto-sicilia.it
    - sanfrancescodipaolaalcamo.it
    - turismo.trapani.it
    - parrocchie.it
    - .ofmsicilia.it - alqamah.it
    - vieniatrapani.com

     
    Top
    .
  10. tomiva57
     
    .

    User deleted


    marinella2

    Selinunte



    Selinunte (in greco antico Σελινοῦς, traslitterato in Selinûs, in latino: Selinus) era una antica città greca sita sulla costa sud-occidentale della Sicilia. I ruderi della città si trovano sul territorio del comune di Castelvetrano, nella parte meridionale della provincia di Trapani. Tutto il terreno interessato forma oggi un parco archeologico della dimensione di circa 40 ettari.

    Nel sito archeologico, sull'acropoli vi sono alcuni templi insieme ad altre costruzioni secondarie, mentre altri templi si trovano su di una collina poco lontana.
    Molti edifici sono rovinati in seguito a sismi avvenuti in epoca medievale; tuttavia alcuni interventi di anastilosi hanno permesso di ricostruire quasi completamente il Tempio E (il cosiddetto tempio di Hera), e di rialzare in gran parte uno dei lati lunghi del Tempio C.

    Le sculture trovate negli scavi di Selinunte si trovano soprattutto nel Museo Nazionale Archeologico di Palermo. Fa eccezione l'opera più famosa, l'Efebo di Selinunte, che oggi è esposto al Museo Comunale di Castelvetrano.




    Selinunte (in greco antico Σελινοῦς, traslitterato in Selinûs, in latino: Selinus) era una antica città greca sita sulla costa sud-occidentale della Sicilia. I ruderi della città si trovano sul territorio del comune di Castelvetrano, nella parte meridionale della provincia di Trapani. Tutto il terreno interessato forma oggi un parco archeologico della dimensione di circa 40 ettari.

    Nel sito archeologico, sull'acropoli vi sono alcuni templi insieme ad altre costruzioni secondarie, mentre altri templi si trovano su di una collina poco lontana.
    Molti edifici sono rovinati in seguito a sismi avvenuti in epoca medievale; tuttavia alcuni interventi di anastilosi hanno permesso di ricostruire quasi completamente il Tempio E (il cosiddetto tempio di Hera), e di rialzare in gran parte uno dei lati lunghi del Tempio C.

    Le sculture trovate negli scavi di Selinunte si trovano soprattutto nel Museo Nazionale Archeologico di Palermo. Fa eccezione l'opera più famosa, l'Efebo di Selinunte, che oggi è esposto al Museo Comunale di Castelvetrano.

    jpg

    Selinunte viene detta da Diodoro (XIII, 44) città ricca e popolosa. Ciò è confermato dall'estensione del suo abitato, dalla vastità delle sue necropoli, e anche da alcune epigrafi. La cifra di 23.600 persone tramandataci a proposito della distruzione di Selinunte non sembra una cifra fantasiosa; eppure pone il problema della sua reale comprensione ed entità: che cosa si intendeva per 23.600 persone? Che cosa comprende questa cifra, e che cosa esclude? Si tratta di soli cittadini? O di soli cittadini maschi? Comprende anche le donne? I bambini? Gli schiavi? Gli stranieri? Gli abitanti delle campagne? Il problema è reale: difatti, non sarebbe altrimenti possibile capire come sia stato possibile che Ermocrate, dopo pochi mesi dalla distruzione di Selinunte, abbia messo su un esercito di 6.000 uomini – per quanto possa averlo incrementato con altri fuoriusciti – quando i profughi sopravvissuti erano stati appena 2.600. Purtroppo il limite delle fonti antiche è dato proprio dal fatto che esse parlano generalmente di cittadini, e non di popolazione; come pure disattendono al rapporto fra territorio agricolo e area cittadina, rapporto per altro cangiante anche da zona a zona e da un'epoca all'altra. Per quanto possa essere verosimile che sotto il numero di 23.600 siano da intendersi "cittadini maschi adulti", purtroppo bisogna rassegnarsi al fatto che qualsiasi valutazione sulla reale consistenza numerica della popolazione di una città greca antica avrà sempre e necessariamente un carattere fluttuante e ipotetico.

    Selinunte_Acropolis


    La città è in riva al mare, fra due fiumi (il Modione-Selino ad W, e il Cottone a E), posta sopra due alture unite da un istmo: la parte di città a S ospita l'acropoli (caratterizzata dall'incrocio di due strade principali e da numerosi templi: A, B, C, D, O); quella a N ospita l'abitato (di schema ippodameo) contemporaneo all'acropoli, e due necropoli (in località Galera-Bagliazzo e Manuzza). Altre importanti vestigia vi sono ai lati della città sulle alture oltre i fiumi: a E abbiamo tre templi (E, F, G) ed una necropoli (località Buffa) situata a N dell'attuale villaggio Marinella; ad W vi sono gli insediamenti più antichi di Selinunte: il santuario della Malophòros e la necropoli arcaica (in località Pipio, Manicalunga, Timpone Nero). I due porti che la città aveva si trovano in corrispondenza delle foci dei fiumi.




    Il parco archeologico di Selinunte


    Veduta dell'acropoli di Selinunte dalla collina orientale

    Il parco archeologico di Selinunte ha un'estensione di circa 40 ettari ed è divisibile nelle seguenti aree:

    La collina Gàggera (a W, con il santuario della Malophòros)
    L'acropoli (al centro, con templi e fortificazioni)
    La collina Manuzza (a N, con l'abitato antico)
    La collina orientale (ad E, con altri templi)
    Le necropoli.



    L'acropoli



    260px-Selinunte-Akropolis-bjs-2
    Acropoli di Selinunte: ruderi dei Templi O e A in primo piano e sullo sfondo fila di colonne del Tempio C

    L'Acropoli è un altopiano calcareo che a Sud è a strapiombo sul mare, mentre a Nord si restringe fino a m 140. L'insediamento, di forma grossomodo trapezoidale, fu ampliato verso N alla fine del VI secolo a.C. con un formidabile muraglione a gradini (h. m 11 ca.), e circondato da mura – più volte restaurate e modificate – formate da cortine in blocchi squadrati con un riempimento di pietrame (emplècton), e scandite da 5 torri e 4 porte. A Nord, l'acropoli presenta delle fortificazioni (vedi sotto) con contromuro e torri, databili all'inizio del IV sec. a.C.

    Presso l'ingresso all'acropoli vi è la cd. Torre di Polluce che fu costruita nel XVI secolo contro i corsari, sui resti di una torre o faro antico.

    800px-Selionte_Acropole
    Strada sull'acropoli

    L' impianto urbano è suddiviso in quartieri da due strade principali (la. m 9) che si incrociano ad angolo retto (quella N-S lu. m 425; quella E-W lu. m 338), intersecate a loro volta – ogni m 32 – da altre vie minori (la. m 5). Questa sistemazione urbanistica – che riproduce quella più antica – risale però al IV sec. a.C., cioè alla Selinunte punica.

    Ai primi anni della colonia, invece, sono da attribuire diverse are e piccoli santuari innalzati sull'acropoli, sostituiti circa cinquant'anni più tardi da templi più grandi e duraturi; il primo di essi sembra sia stato il cd. mègaron nei pressi dei Templi B e C.

    Ancora incerta resta la localizzazione dell'agorà (che invece altri studiosi ipotizzano che si trovasse a N nell'area del centro abitato).

    Davanti al Tempio O si è rinvenuta un'area sacrificale punica – posteriore alla conquista del 409 a.C. – caratterizzata da ambienti costruiti con muretti a secco, all'interno dei quali erano depositati vasi contenenti ceneri, e anfore a siluro di tipo cartaginese.

    Sulla collina dell'acropoli sono stati rinvenuti i resti di numerosi templi di ordine dorico.

    Tanit_symbol
    Tempio A : mosaico col simbolo di Tanit

    Il Tempio O ed il Tempio A – di cui restano pochi avanzi: il basamento, qualche rocchio e l'ara – furono costruiti tra il 490 ed il 460 a.C., hanno una struttura pressoché identica tra loro, simile a quella del Tempio E sulla collina orientale. Presentano un peristilio (lu. m 40,20; la. m 16,20) di 6 x 14 colonne (h. m 6,23). L'interno è caratterizzato da un pronao in antis, da una cella con adyton, e da un opistodomo in antis separato dalla cella; la cella era di un gradino più alta del pronao, e l'adyton era di un gradino più alto della cella. Nel muro tra pronao e cella del Tempio A vi erano due scale a chiocciola che portavano alla galleria (o piano) superiore. Il pronao del Tempio A ha un pavimento a mosaico dove sono rappresentati la figura simbolica della dea fenicia Tanit, un caduceo, il sole, una corona e una testa bovina: esso testimonia il riutilizzo dell'ambiente in epoca punica come luogo religioso o come abitazione. Il Tempio O era dedicato a Poseidon, piuttosto che non ad Atena (Moscati); il Tempio A ai Dioscuri, piuttosto che non ad Apollo (Moscati).
    A m 34 ad E del Tempio A vi sono i resti dell'ingresso monumentale all'area: si tratta di un propileo con pianta a forma di T, consistente in un corpo avanzato rettangolare (di m 13 x 5,60) con peristilio di 5 x 12 colonne, e in un altro corpo pure rettangolare (di m 6,78 x 7,25).

    Superata la strada E-W si entra nella seconda area sacra, posta a N della precedente. Prima di giungere al Tempio C, a S di esso, vi è un Sacello (Mègaron) (lu. m 17,65; la. m 5,50), che risale al 580-570 a.C., avente la struttura arcaica del mègaron, forse destinato a conservare le offerte dei fedeli. Privo di pronao, ha l'entrata ad E che dà direttamente nella cella (al centro della quale vi sono due basi per le colonne lignee che sostenevano il tetto), racchiusa in fondo da un adyton quadrato, al quale venne aggiunto in epoca successiva un terzo ambiente. Il sacello era forse dedicato a Demetra Tesmofòros (Coarelli-Torelli).


    800px-Koldewey-Sicilien-vol2-table07b
    Pianta del Tempio B (in alto a sin.) con altare quadrato (da Koldewey, 1899)

    Alla sua destra vi è il Tempio B, di epoca ellenistica, piccolo (lu. m 8,40; la. m 4,60) e in cattive condizioni. Consisteva in una edicola prostila di 4 colonne cui si accedeva per una scala di 9 gradini, con pronao e cella. Nel 1824 mostrava ancora chiare tracce degli intonaci policromi. Costruito probabilmente intorno al 250 a.C., poco tempo prima che Selinunte venisse definitivamente evacuata, rappresenta il solo edificio religioso che attesta la modesta rinascita della città dopo la sua distruzione. Oscura resta la sua destinazione: in passato si era creduto trattarsi dell'heroon (tempio sede di un culto eroico) di Empedocle, bonificatore delle paludi selinuntine[8], ipotesi non più sostenibile per la cronologia dell'edificio; oggi si pensa più ad un culto punico fortemente ellenizzato, come quelli di Demetra o di Asclepio-Eshmun.

    Tempio C


    800px-Selinunte-pjt3
    Tempio C

    Il Tempio C è il più antico in quest'area, e risale al 550 a.C. Nel 1925-27 sono state ricomposte e rialzate sul lato N numerose colonne (per la precisione 14 colonne su 17) con parte della trabeazione. Presenta un peristilio (lu. m 63,70; la. m 24) di 6 x 17 colonne (h. m 8,62). È caratterizzato a E dall'ingresso preceduto da una scalinata di 8 gradini, un vestibolo con una seconda fila di colonne, quindi il pronao, la cella e l'adyton collegati in un insieme stretto e lungo (carattere arcaico); ha sostanzialmente la stessa planimetria del Tempio F sulla collina orientale. Mostra in diversi elementi una certa inesperienza e lo sforzo di giungere alla perfezione tecnica del tempio dorico: p.e. le colonne sono tozze e massicce, alcune di esse sono ancora monolitiche, manca l'èntasis (rigonfiamento della colonna), vi sono variazioni nel numero delle scanalature, oscillazioni nelle misure degli intercolumni, le colonne angolari hanno un diametro maggiore delle altre, ecc. Nel tempio sono stati rinvenuti: dalla decorazione della cornice alcuni frammenti di terrecotte policrome (rosso, bruno, porpora); dalla decorazione del frontone un gigantesco gorgoneion fittile (h. m 2,50); dalla facciata tre metope che rappresentano: Perseo, alla presenza di Atena, in atto di decapitare Gorgone che stringe a sé Pegaso; Eracle, catturati i Cèrcopi (folletti-ladri), li porta via sospesi a una pertica a testa in giù; la quadriga di Apollo vista frontalmente (il dio era affiancato dalle figure di Helios e Selene: lacunose), che sono tutte al Museo Archeologico di Palermo. Il Tempio C – che probabilmente aveva anche una funzione di archivio: infatti vi furono ritrovati centinaia di sigilli – era dedicato ad Apollo (rinvenimento dell'iscrizione IG XIV, 269), piuttosto che non ad Eracle (Guido).
    A E del Tempio C vi è il suo grande altare rettangolare (lu. m 20,40; la. m 8) di cui restano le fondazioni e qualche gradino, e poi l'area dell'Agorà ellenistica; poco oltre i resti delle case, la terrazza è limitata da un portico dorico (lu. m 57; la. m 2,80) che si affaccia su di un imponente tratto del muro di sostegno dell'acropoli.


    Tempio D

    Segue il Tempio D, che si data al 540 a.C. e si affaccia col suo fronte W direttamente sulla strada N-S. Presenta un peristilio (lu. m 56; la. m 24) di 6 x 13 colonne (h. m 7,51). È caratterizzato da un pronao in antis, una cella allungata conclusa con l'adyton. È più progredito del Tempio C (le colonne sono lievemente inclinate, più slanciate e con èntasis; il vestibolo è sostituito da un pronao distilo in antis), ma mostra ancora incertezza nelle misure fra gli intercolumni e nei diametri delle colonne, come pure nel numero delle scanalature. Come già il Tempio C, mostra nel pavimento del peristilio e della cella molte cavità circolari o quadrate di cui si ignora la funzione. Il Tempio D era dedicato ad Atena (come attesterebbe l'iscrizione dedicatoria IG XIV, 269), piuttosto che non ad Afrodite (TCI). Il grande altare esterno, non in asse col tempio ma posto obliquamente presso il suo angolo SW, fa supporre che l'attuale Tempio D occupi il luogo di uno precedente.


    800px-Palermo-Museo-Archeologico-bjs-14
    Europa sul toro : metopa dal Tempio Y

    A E del Tempio D vi è il basamento di un tempietto arcaico, il Tempio Y, detto anche "Tempio delle piccole metope", preceduto da un altare quadrato. Le metope rinvenutevi (h. cm. 84), databili al 570 a.C., rappresentano: una sfinge di profilo accosciata, la triade delfica (Latona, Artemide, Apollo) in un rigido schema frontale, il ratto di Europa al di sopra del mare; altre due metope databili a ca. il 560 a.C., reimpiegate nelle fortificazioni ermocratee, mostrano la quadriga di Demetra e Kore (oppure Helios e Selene? Apollo?), e una cerimonia eleusina con Demetra, Kore ed Ecate con la spiga di grano (le Moire?), sono tutte conservate al Museo Archeologico di Palermo.
    Intorno ai Templi C e D vi sono le rovine di un villaggio bizantino di V sec. d.C., costruito con materiale di recupero. Il fatto che alcune case risultavano sepolte dal crollo delle colonne del Tempio C, ha dimostrato che il terremoto che ha portato al crollo dei templi selinuntini deve essere avvenuto in epoca altomedievale.

    Verso N l'acropoli presenta due quartieri della città (uno a W ed l'altro ad E della grande strada N-S), ricostruiti da Ermocrate dopo il 409 a.C.: le case sono modeste, edificate con materiali di recupero; alcune di esse mostrano delle croci incise, segno che furono adoperate come edifici cristiani o da parte di cristiani.

    A N, prima di raggiungere l'abitato, vi sono le grandiose fortificazioni a difesa dell'acropoli. Si articolano come una lunga galleria (originariamente coperta), parallela al tratto delle mura N, con numerosi passaggi chiusi ad arco, seguita da un profondo fossato difensivo varcato da un ponticello, e con tre torri semicircolari ad W, N e ad E. Girando all'esterno della torre N – con un deposito di artiglieria alla base – si entra nella trincea rettilinea E-W con passaggi in entrambe le pareti. Le fortificazioni, attribuibili solo in piccola parte alla città antica, sono da riferire sostanzialmente alle ricostruzioni di Ermocrate e a interventi successivi (IV-III sec. a.C.). Infatti vi furono reimpiegati degli elementi architettonici, che dimostrano che alcuni dei templi erano stati abbattuti già nel 409 a.C.


    La collina Manuzza (con l'abitato)

    A N dell'acropoli, sulla collina di Manuzza, la strada moderna (strada 6) traccia il confine di un'area di forma grossomodo trapezoidale in cui si presume si dovesse trovare anche l'agorà. Tutta l'area era occupata dall'abitato di schema ippodameo – riconosciuto con fotografie aeree – lievemente divaricato rispetto all'asse dell'acropoli, ma con isolati allungati di m 190 x 32 rigorosamente orientati N-S, che originariamente era cinto da un muro difensivo. Nell'area non sono stati fatti ancora degli scavi sistematici, ma solo dei saggi i quali hanno comunque confermato che il luogo era abitato fin dalla fondazione di Selinunte (VII sec. a.C.), e che dunque non si tratta di una fase successiva di espansione della città. Dopo la distruzione di Selinunte, quest'area della città non fu più riabitata; i profughi tornati al seguito di Ermocrate, si insediarono unicamente sull'acropoli, in quanto era più facilmente difendibile.

    Sulla collina Manuzza nel 1985 è stata rinvenuta una costruzione in tufo, probabilmente un edificio pubblico risalente al V secolo a.C.

    A N infine, oltre l'abitato, stanno due necropoli: quella di Manuzza e quella più antica (VII-VI sec. a.C.) in località Galera-Bagliazzo.

    800px-Selinunte-East-Hill-bjs-1
    La collina orientale di Selinunte


    La collina orientale


    Sulla collina orientale vi sono tre templi che, benché disposti lungo lo stesso asse N-S, tuttavia non sembra avessero un unico recinto sacro (tèmenos), come dimostrerebbe il muro di separazione esistente fra il Tempio E ed il Tempio F. Questo complesso sacro ha fortissime analogie con le pendici occidentali dell'acropoli Caria di Megara Nisea, madrepatria di Selinunte, elemento prezioso, forse indispensabile, per un discorso corretto sull'attribuzione dei culti praticati nei vari templi.


    800px-Sicily_Selinunte_Temple_E_%28Hera%29
    Il Tempio E, chiamato anche Tempio di Hera.

    800px-Selinunte_Panoramic_View_1
    Tempio E (Tempio di Hera) - Veduta del suo interno

    800px-Selinunte-TempleE-bjs-1
    Resti di stucchi antichi sulle colonne del Tempio E

    Il Tempio E, il più recente dei tre, risale al 460-450 sec. a.C. e ha una pianta molto simile a quella dei Templi A e O dell'Acropoli. Il suo attuale aspetto lo si deve all'anastilosi (ricomposizione e reinnalzamento delle sue colonne) effettuata – tra polemiche – tra il 1956 ed il 1959. Presenta un peristilio (lu. m 67,82; la. m 25,33) di 6 x 15 colonne (h. m 10,19) con numerose tracce superstiti dell'originario stucco che le ricopriva. È un tempio caratterizzato da diverse scalinate che determinano un sistema di rialzamenti successivi: una prima di 10 gradini conduceva all'ingresso sul lato E; dopo il pronao in antis un'altra di 6 gradini conduceva nella cella; e per finire un'ultima di 6 gradini dava accesso – in fondo alla cella – all'adyton; dietro l'adyton, separato da esso, vi era l'opistodomo in antis. Un fregio dorico alla sommità delle pareti della cella era costituito da metope figurate, i cui personaggi avevano il corpo in arenaria locale mentre la testa e le parti nude dei corpi femminili erano in marmo pario; si sono conservate quattro metope intere raffiguranti (in stile severo): Eracle che uccide l'amazzone Antiope; le nozze di Zeus con Hera; Atteone che viene dilaniato dai cani di Artemide; Atena che uccide il gigante Encèlado; inoltre una quinta lacunosa: Apollo e Dafne (?); tutte conservate al Museo Archeologico di Palermo. Recenti sondaggi effettuati intorno e al di sotto del Tempio E hanno rivelato che esso è stato preceduto da altri due edifici sacri, di cui uno fu distrutto da un incendio nel 510 a.C. Il Tempio E era dedicato a Hera, come attesterebbe l'iscrizione di una stele votiva (IG XIV, 271); invece alcuni studiosi (Coarelli-Torelli), in base a confronti, deducono che debba trattarsi piuttosto di un tempio di Afrodite.


    310px-Templioselinunte
    Collina orientale: il Tempio F in primo piano e il Tempio E ricostruito sullo sfondo



    Il Tempio F
    , il più antico ma anche il più piccolo dei tre, fu costruito fra il 550 e il 540 a.C. su modello del Tempio C. È fra i templi quello che maggiormente ha subito spoliazioni. Presenta un peristilio (lu. m 61,83; la. m 24,43) di 6 x 14 colonne (h. m 9,11) caratterizzato da chiusure in muratura (h. m 4,70) tra gli intercolumni, con finte porte dipinte composte da lesene e architravi, mentre l'ingresso vero e proprio era a E. Non si conosce il motivo di questo apprestamento, veramente insolito per un tempio greco: si è pensato che fosse suggerito dalla necessità di proteggere i doni votivi; oppure di impedire ai profani la visione di riti particolari (misteri dionisiaci?) che venivano svolti al suo interno. L'interno è caratterizzato da un vestibolo delimitato da un secondo ordine di colonne, dal pronao, cella e adyton collegati in un insieme stretto e lungo (carattere arcaico). Dalla facciata E abbiamo due metope tardo arcaiche (datate al 500 a.C.) rinvenute durante gli scavi nel 1823, che rappresentano Atena e Dioniso in atto di colpire a morte due Giganti, oggi conservate nel Museo Archeologico Regionale di Palermo. Il Tempio F era dedicato forse ad Atena (Maiuri, Moscati), forse a Diòniso (Coarelli-Torelli).


    220px-Crupi%2C_Giovanni_%281849-1925%29_-_n._0275_-_Selinunte_-_Rovine
    Il Tempio G in una vecchia foto di G. Crupi (ante 1925)



    800px-Selinunte-pjt1
    Tempio G : "lu fusu di la vecchia"

    Il Tempio G è il più grande di Selinunte (lu. m 113,34; la. m 54,05; h. m 30 ca.) e uno dei maggiori del mondo greco. La sua costruzione, pur protraendosi dal 530 al 409 a.C. (si notano variazioni di stile durante il lungo periodo costruttivo: dall'arcaico sul lato E al classico sul lato W), rimase tuttavia incompiuta, come risulta dall'assenza di scanalature in alcune colonne, e dall'esistenza di rocchi di colonne delle stesse dimensioni a km 10 di distanza, in fase di estrazione, nelle Cave di Cusa (vedi sotto). Tra il cumulo terrificante delle sue rovine, si riconosce un peristilio di 8 x 17 colonne (h. m 16,27; diam. m 3,41) di cui sta in piedi una sola – ricomposta nel 1832 – (chiamata "lu fusu di la vecchia"). L'interno comprendeva: un pronao prostilo a 4 colonne con due profonde ante terminanti a pilastro, e tre porte di accesso alla ampia cella; una cella molto larga divisa in tre navate, di cui quella mediana probabilmente "ipetrale" (cioè a cielo aperto) caratterizzata da due file di 10 colonne più sottili che sostenevano una seconda fila di colonne ("galleria"), e da due scale laterali che portavano ai sottotetti; in fondo alla navata centrale vi è l'adyton separato dalle pareti della cella (soluzione tipica ed originale), all'interno del quale fu ritrovato il torso di un gigante ferito o morente e l'importantissima iscrizione chiamata "Grande Tavola Selinuntina" (vedi più sotto); e infine un opistodomo in antis non comunicante con la cella. Fra le rovine, di particolare interesse risultano: alcune colonne rifinite che mostrano tracce dello stucco colorato; i blocchi delle trabeazioni che presentano scanalature laterali a ferro di cavallo entro le quali venivano passate le funi per il loro sollevamento. Il Tempio G – che probabilmente aveva anche la funzione di tesoro della città – dall'iscrizione rinvenutavi sembra che fosse dedicato ad Apollo; oggi, in base a studi recenti, si propende ad attribuirlo a Zeus.
    Ai piedi della collina, alla foce del fiume Cottone vi è il porto E; esteso per m. 600 circa verso l'interno e guarnito probabilmente da un molo o da una diga che si protendeva dall'acropoli, subì nel IV-III sec. a.C. delle trasformazioni: infatti fu allargato e fiancheggiato da banchine (orientate N-S) e da depositi. Dei due porti di Selinunte – attualmente insabbiati – il porto W, posto alla foce del fiume Selino-Modione, era quello principale.

    I quartieri extra moenia, collegati alle attività emporiche, commerciali e portuali, erano sistemati invece su grossi terrazzamenti lungo le pendici della collina.

    A N dell'attuale villaggio Marinella, infine, si trova una necropoli in località Buffa.




    La collina occidentale Gàggera (col santuario della Malophòros)


    Sulla collina occidentale vi si giunge per un sentiero che parte dall'acropoli ed attraversa il fiume Modione.


    800px-Selinunte_malophoros4
    Megaron della Malophòros


    800px-Selinunte_malophoros3
    Tempio di Hekate


    640px-Selinunte_malophoros
    lunga canaletta



    In contrada Gàggera si incontrano i resti del più antico santuario selinuntino dedicato alla dea della fertilità, il Santuario di Dèmetra Malophòros, scavato a più riprese fra il 1874 ed il 1915. Costruzione complessa, molto rimaneggiata ed altrettanto danneggiata, fu eretta nel VI sec. a.C. sul declivio sabbioso della collina; serviva probabilmente da stazione dei cortei funebri che proseguivano poi per la necropoli di Manicalunga.

    Agli inizi il luogo, sicuramente privo di qualsiasi costruzione, prevedeva pratiche cultuali all'aperto intorno a qualche ara; solo in seguito all'erezione del tempio e dell'alto muro di recinzione (tèmenos), esso fu trasformato in santuario.

    Questo consiste in un recinto quadrangolare (m 60 x 50) al quale si accede sul lato E attraverso un propileo quadrato in antis – costruito nel V sec. a.C. – preceduto da una piccola gradinata e da una struttura circolare; all'esterno del muro di recinzione, il propileo è affiancato dai resti di un lungo porticato (stoà) fornito di sedili per i pellegrini, davanti al quale si evidenziano diversi altari o donarii. All'interno del temenos, invece, al centro, vi è il grande altare (lu. m 16,30; la. m 3,15), rinvenuto colmo di ceneri, di ossa animali e di altri resti di sacrifici; esso mostra un'aggiunta verso SW, mentre i resti di un precedente altare arcaico sono visibili presso la sua estremità NW, ed un pozzo quadrato è posto in direzione del tempio. Tra l'altare ed il tempio vi è inoltre un canale in pietra che, provenendo da N, attraversa tutta l'area portando al santuario acqua da una vicina sorgente. Subito oltre il canale vi è il vero e proprio Tempio di Demetra a forma di mègaron, (lu. m 20,40; la. m 9,52), privo di basamento e di colonne, con pronao, cella e adyton con nicchia voltata nella parete di fondo; un ambiente di servizio rettangolare si appoggia al lato N del pronao. Il mègaron ebbe una fase più antica, riconoscibile però solo a livello di fondazione. A S del tempio vi sono una struttura quadrata e una struttura rettangolare a ridosso del muro di cinta, di non chiara funzione; a N del tempio, un'altra struttura a due vani, comunicante sia con l'interno che con l'esterno del recinto sacro, costituisce forse un ingresso secondario al tèmenos, rimaneggiato in epoca tarda. Del muro di recinzione, il lato S fu periodicamente rinforzato per trattenere le spinte del terreno sabbioso. A S del propileo, addossato al muro di cinta, vi è un recinto dedicato ad Ecate[10]: di forma quadrata, il sacello è posto nell'angolo E presso un ingresso al recinto, mentre nell'angolo S vi è un piccolo spazio quadrato pavimentato a lastre, di ignota destinazione. A m 15 in direzione N, un altro recinto quadrangolare (m 17 di lato) è dedicato a Zeus Meilìchios e Pasikràteia (Zeus "dolce come il miele" e Persefone): molto rimaneggiato – tanto che non sempre è facile comprenderne le varie strutture – fu eretto alla fine del IV sec. a.C. È costituito da: un recinto circondato su due lati da colonne di tipo diverso, attribuibili ad un porticato rifatto in epoca ellenistica; un piccolo tempio prostilo in antis (lu. m 5,22; la. m 3,02) posto in fondo al recinto, con colonne monolitiche di tipo dorico, ma trabeazione di tipo ionico; due altari al centro dell'area. All'esterno, ad W, erano state collocate dai fedeli diverse piccole stele coronate dalle immagini della coppia divina (due volti: uno maschile e l'altro femminile) rese con pochi tratti incisi: rinvenute insieme a ceneri e resti di offerte, testimoniano il convergere del culto greco di divinità ctonie con la religiosità punica.

    Moltissimi sono i reperti provenienti dal santuario della Malophòros (tutti conservati al Museo di Palermo): arule scolpite con scene mitologiche; circa 12.000 figurine votive di offerenti maschili e femminili in terracotta (alcune delle quali ricavate dalla stessa matrice), databili tra il VII e il V sec. a.C.; grandi busti-incensieri che raffigurano Demetra e forse Tanit; una grande quantità di ceramica corinzia (del primo corinzio e del tardo proto-corinzio); un bassorilievo raffigurante il ratto di Persefone da parte di Ade proviene dalla zona dell'ingresso al recinto. I materiali cristiani rinvenuti (soprattutto lucerne col monogramma XP), provano la presenza dal III al V sec. d.C. di una comunità religiosa cristiana nell'area del santuario.

    Ad W del santuario della Malophòros vi è la necropoli più vasta di Selinunte, quella in località Pipio, Manicalunga e Timpone Nero. Nelle numerosissime tombe a cassa con copertura a lastre di tufo, si sono rinvenuti soprattutto vasi attici di VI e V sec. a.C.; ma non mancano tombe di VII sec. a.C., e neppure tombe non elleniche. In generale le necropoli di Selinunte sono per l'85% a inumazione, e non presentano corredi particolarmente ricchi.

    Procedendo lungo le pendici della collina della Gàggera, poco oltre si raggiunge la sorgente da cui si approvvigionava di acqua il Santuario della Malophòros; a m 50 a valle di essa, vi è un edificio già creduto un tempio (il cd. Tempio M), in realtà si tratta di una fontana monumentale. Di forma rettangolare (lu. m 26,80; la. m 10,85; h. m 8), costruita con blocchi squadrati, era formata da una cisterna (cd. "cella"), un bacino chiuso protetto da un portico a colonne (cd. "pronao"), e una gradinata di accesso a quattro gradini (cd. "altare") con vasta area lastricata antistante. L'edificio, che aveva forme doriche, si data alla metà del VI sec. a.C. principalmente per le terrecotte architettoniche rinvenutevi. I frammenti di metope con Amazzonomachia, invece, seppure rinvenuti nei paraggi, non sono pertinenti all'edificio, che aveva metope lisce e di misura minore.

    Un altro mègaron è stato scoperto di recente a poche centinaia di metri dal santuario della Malophòros, in direzione NE.

    Le necropoli

    Attorno a Selinunte possono essere individuate alcune aree adibite a necropoli.

    Buffa (fine del VII e VI secolo a.C.): a nord della collina orientale. Caratteristica del sito una fossa votiva triangolare (m 25 x 18 x 32) con terrecotte, vasi e resti di animali di probabili sacrifici.
    Galera Bagliazzo (dal VI secolo a.C.): a nord est della collina Mannuzza. Qui, nelle tombe scavate nel tufo, non sempre singole, sono stati rinvenuti suppellettili di vari stili. Nel 1882 è stata portata alla luce la statua denominata Efebo di Selinunte oggi nel Museo Civico di Castelvetrano.
    Pipio Bresciana e Manicalunga Timpone Nero (VI - V secolo a.C.): a ovest della collina Gaggera è la più estesa necropoli di Selinunte. Non è ancora chiaro, vista la lontananza dal centro della città, se fosse effettivamente la necropoli della città o piuttosto quella di un'area suburbana. Oltre al rito dell'inumazione sono state trovate anfore e pithoi che testimoniano anche del rito della cremazione. I sarcofagi sono in terracotta o in tufo. Sono presenti anche camere coperte.


    Le cave di Cusa

    800px-Rocche-di-Cusa-bjs-1
    Cave di Cusa : due rocchi di colonna destinati al Tempio G, ancora attaccati al banco roccioso

    Le Cave (o Rocche) di Cusa, caratterizzate da banchi di calcarenite, si trovano presso Campobello di Mazara, a 13 km da Selinunte. Si tratta delle cave di pietra da cui veniva estratto il materiale per le costruzioni selinuntine. L'elemento più significativo che vi si nota è la brusca interruzione dei lavori di estrazione, di lavorazione e di trasporto dei rocchi di colonna, dovuta alla minaccia che incombeva sulla città nel 409 a.C. per l'improvviso sopraggiungere dell'esercito cartaginese. La repentina fuga dei cavatori, degli scalpellini e degli operai addetti, ha fatto sì che oggi noi possiamo non solo riconoscere ma anche seguire tutte le varie fasi di lavorazione: dalle prime profonde incisioni circolari, fino ai rocchi finiti che attendevano soltanto di essere trasportati via. Oltre a rocchi di colonne, nelle cave è possibile riconoscere anche qualche capitello, come pure incisioni rettangolari per ricavare dei blocchi squadrati, tutti destinati ai templi di Selinunte. Alcune gigantesche colonne – sicuramente destinate al Tempio G – si notano nella zona W delle Rocche di Cusa, allo stato ancora di primo abbozzo. Dei rocchi già estratti, alcuni erano pronti per essere trasportati via; altri, già in viaggio alla volta di Selinunte, furono abbandonati e si riconoscono lungo la strada.



    fonte:wikipedia.org
    foto: wikipedia.org
    - guesthotel.net
    - dreamsicilyvillas.com



    4621-07-41-26-9854


    Marinella di Selinunte


    Marinella di Selinunte si estende su un lungo litorale sabbioso nella parte più occidentale della Sicilia, posta all’interno di un golfo tra la foce del fiume Selino, nei pressi dell’ Acropoli di Selinunte e la foce del fiume Belice. Marinella di Selinunte è un centro turistico-balneare con spiagge incontaminate e un mare limpido e invitante. A est di Marinella si allunga per 5 km una splendida spiaggia che arriva fino al promontorio di Porto Palo di Menfi. Le spiagge, attrezzate con lidi e ristoranti aperti sino a tardi, nascono all’interno di luoghi meravigliosi: sotto l’acropoli, sovrastati dal tempio di Era, all’interno della riserva naturale incontaminata, o nei pressi del particolare porticciolo turistico.


    spiaggia-pineta_marinella


    La spiaggia di Marinella di Selinunte è tra le spiagge più particolari e meglio tenute presenti nella Valle del Belice. Dalla collina si può ammirare un’incantevole paesaggio naturalistico che fa di questa terra un posto davvero magico. Tutto il litorale è in ottimo stato e assolutamente incontaminato, con sabbia fine e dorata e si estende per circa 6Km.

    All’interno è situata la Riserva Naturale del Belice con enormi bellezze dal punto di vista di flora e fauna. Qui c’è ogni comfort: si può godere di ogni servizio di balneazione e c’è possibilità di fare merenda o pranzare sulla spiaggia, vicini al mare, gustando la tipica cucina marinara che non ha eguali. Vicino alla spiaggia di Marinella di Selinunte si trova anche la spiaggia di Triscina, un’altra meravigliosa spiaggia e area balneare molto importante, celebre per il suo litorale ampio, arioso e limpido. La spiaggia di Marinella di Selinunte è il posto perfetto per chi ama il mare, e vuole vivere in tranquillità. Il litorale è particolarmente adatto a chi viaggia in famiglia e con bambini e a chi vuole dedicare parte delle sue ferie ad un piacevole relax al mare, ma è anche attrezzato per le attività sportive come Wind Surf, sci d’acqua e moto scooter d’acqua.



    Riserva-Naturale-Foce-del-Fiume-Belice



    image3



    fonte: vacanzesiciliane.net
    - belladimora.eu
    foto:fotografieitalia.it
    - belladimora.eu
    - vacanzesiciliane.net
    - selindream.it/
     
    Top
    .
9 replies since 16/8/2011, 11:06   3695 views
  Share  
.