IL WEB CI RACCONTA

riflessioni sul web

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  1. gheagabry
     
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    ... IL WEB CI RACCONTA ...
    … A volte navigando in rete si incontrano storie, situazioni, racconti … perfino favole. Il web è come un’immenso pensiero circolare che non conosce inizio né fine; un motore enorme di produzione di emozioni, di incontri, di notizie e di persone. Un torrente che scorre senza sosta senza fine, senza un attimo di riposo o di stasi; è bene immergersi in esso lentamente ma con l’idea di uscirne ogni volta se ne ha voglia. Il web non deve travolgere, può avvolgere quando si vuole; dobbiamo non ascoltare il canto delle sirene che ci attrae in esso facendolo sentire idispensabile … ma vivendolo col giusto atteggiamento si trovano luoghi come la nostra isoletta felice, oppure ci si imbatte in scritti come quello che ho piacere di farvi leggere … molto bello; direi ideale per chi come noi sente sempre forte il desiderio di volare, di sognare e di vivere favole … Vi abbraccio fortissimo … e, ovviamente, Buona Estate a tutti ….
    (Claudio)



    ... La principessa e il drago ...

    Si narra di un ragazzo che viaggiò nel tempo.
    Le sue scoperte fecero il giro del mondo...
    in una delle sue avventure
    trovò un drago congelato...
    non ebbe paura ad avvicinarlo,
    tanto non poteva spaventarlo...
    ma nel suo occhio brillava una pietra
    era un frammento di un'antica cometa



    In ere passate al nostro drago aveva dato
    un potere smisurato...
    il potere del fuoco,
    e della potenza delle sue ali
    ne parlarono anche i più grandi maghi.
    Quando nacque fu trovato da una principessa
    e lo volle tenere per se stessa...
    divennero inseparabili



    e di entrambi i poteri crebbero abili...
    Lei cominciò a partecipare alle battaglie,
    e il suo drago a fianco a lei perse alcune scaglie...
    scaglie della sua pelle
    che sembravano frammenti di stelle.
    Con onore portarono a casa molte vittorie
    e su di loro
    si iniziarono a raccontare storie...
    che ben presto divennero preziose leggende
    affascinando di tutto il regno la gente...
    ma un triste giorno la nostra principessa
    fu ferita nell'ultima battaglia
    e un'avida amica venne presto a trovarla...



    Lei con onore seguì il proprio destino,
    sarebbe ritornata nella casa dei suoi avi,
    nella casata della sua stirpe...
    Ma ora il suo compagno alato
    non voleva continuare il suo viaggio
    senza la metà del suo animo...
    senza la sua principessa ogni speranza era persa...
    volò nel cielo provando a calmare del suo cuore i dolori,
    cercando per il mondo
    un posto dove adagiare per sempre
    le sue grandi ali.
    E qui si ritorna all'inizio della storia,
    quando il ragazzo trovò questo drago
    e la sua leggenda porterà per sempre
    nella memoria.
    che ogni donna possa ritrovare
    la principessa
    che giace addormentata in lei...
    e che ogni uomo riconosca in se stesso
    il principe drago…….


    (Lady)



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    grazie Claudio ...sagge parole
    grazie Gabry
     
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  3. arca1959
     
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    grazie Gabry.....grazie Claudio
     
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  4. gheagabry
     
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    “Rido ad alta voce”


    La storia del LOL


    LOL! Se non capite cosa vuol dire, come dice la BBC, siete dei veri e propri “n00b”, ovvero newbie, ovvero pivelli della rete. L’acronimo è ormai entrato nella bibbia della lingua, il dizionario di Oxford, e dunque c’è da fare un po’ di ricerca etimologica. Da dove viene? Come hanno potuto tre lettere in fila conquistare addirittura una pagina in un dizionario vero? La tv pubblica inglese prova a ripercorrere la vicenda, chiedendosi: come è possibile che questo acronimo incomprensibile dall’esterno abbia “bucato” il nostro linguaggio, imponendosi in un modo così deciso?

    Se lo amate o meno, non importa: “lol” ora è una parola con uno spazio legittimo nel nostro lessico, secondo Graeme Diamond, il principale responsabile di Oxford Dictionary per le nuove parole. “La parola è comune, dilaga, e le persone la capiscono.” Assolve ad un compito ben preciso – convoglia il tono nel testo, qualcosa che anche i più cinici critici accettano. “Non sto lollando”, significa: lo odio”, dice Rob Manuel di b3ta, sito di humor online. “La verità è che abbiamo bisogno di significanti emozionali nei tweet e nelle mail, come nelle conversazioni a un certo punto ridiamo. Lol può farmi sembrare come un twit, ma almeno sai quando sto scherzando”.
    Insomma: gli acronimi emozionali, un po’ come le emoticons, assolvono ad una necessità di base: quella di comunicare le emozioni anche nel breve e veloce linguaggio web. Oggi LOL sta di solito per Laugh Out Loud, ovvero “una grossa risata” o “ridere a crepapelle, fragorosamente”. È un acronimo che molti anglofoni utilizzano nelle chat, nei forum e sui social network al posto di un “hahaha” o altre formule per indicare una reazione divertita. In inglese viene pronunciato sia come un’unica parola che facendo lo spelling delle tre lettere che lo compongono.
    La parola LOL, anche se presente soprattutto sul web, si sta espandendo anche in altri luoghi dove si parla l’inglese, come nelle scuole, ma anche in pub e uffici, specialmente nelle sue varianti lolz e lolling. Accanto a LOL, tra l’altro, ci sono altre forme piuttosto famose in Internet per esprimere risate o divertimento al posto di frasi più tradizionali come hilarious o how funny: una di queste è ROFL (che sta per Rolling On Floor Laughing, ossia “rotolarsi per terra dalle risate”), ma anche il più volgare LMAO (Laughing My Ass Off, ossia, molto liberamente, “pisciarsi sotto dalle risate”).
    Anche se LOL è una sigla ormai internazionale, soprattutto su social network come Twitter, ha diverse varianti in altri paesi. In Francia, per esempio, è piuttosto usuale MDR, ossia mort de rire (“morto dal ridere”). In ebraico si usa חחח‎/ההה, la cui pronuncia forma un suono simile a una risata, in tailandese 555 (“5″ in tailandese ha un suono simile ad “ha”), mentre gli svedesi utilizzano ASG, in quanto abbreviazione di Asgarv, che significa “ridere fragorosamente”. I danesi invece spesso utilizzano solo la lettera “g” per dire online che stanno ridendo, perché è la prima lettera del verbo griner, “ridere” in danese.(ilpost)

    .....la storia....


    Molti hanno tentato di aggiudicarsi il primato di "inventore delle emoticon": c'è Scott Fahalman, uno studente che scrisse sulla bacheca universitaria: "Propongo di usare la seguente sequenza di caratteri per connotare lo scherzo : )", altri dicono che Scott Fahlman abbia copiato lo smile da un assicuratore di Worchester che si inventò la faccina gialla nel 1963 ed infine c'è chi dice che sia stato Abramo Lincoln, l'occhiolino comparirebbe infatti nella trascrizione di un suo discorso del 1862: e se fosse un errore di battitura della sua segretaria?
    In principio erano una parentesi e un punto e virgola, e se ne stavano ognuno per conto suo esercitando anonimamente la propria missione nei perimetri della punteggiatura internazionale. Le parentesi spezzavano i periodi senza particolari meriti, facendo da sentinelle a una puntualizzazione che non doveva debordare all’esterno di un concetto, il punto e virgola era un vezzo elitario usato con vigile parsimonia perché oggettivamente misterioso e oscuramente elegante, nessuno ha mai realmente capito come posizionarlo, complici le differenti scuole di pensiero sul suo opinabile uso, finché dopo la terza media non ci abbiamo messo collettivamente una pietra sopra e così sia. Tracce di esso si ritroveranno solo nei temi di maturità, dove per darci un tono, gli abbiamo disperatamente trovato una collocazione, perché nel tema di maturità almeno un maturo punto e virgola ci stava tutto. Dal quel momento in poi, del punto e virgola, non si ebbero più notizie.
    Tuttavia, contro ogni pronostico, l’anatroccolo della punteggiatura avrebbe fatto una rentrée spettacolare nelle nostre vite, arrivando verso il 2012 a spodestare ufficialmente il semplice punto dalla chiusura del 50 % degli statement brevi scritti internazionali, e lo avrebbe fatto grazie a un’ insolita alleanza con l’altra cenerentola della letteratura, la parentesi tonda. La manovra partì addirittura dagli anni 60 e in tre ventenni si posteggiò perfettamente nelle nostre abitudini.
    Perchè questi due elementi uniti ; + ) - punto e virgola più parentesi – non sono altro sono la verticalizzazione metabolizzata del leggendario Smiley giallo di Harvey Ball che, un tempo sorridente e spensierato, un giorno si era coricato su un fianco e stilizzandosi aveva finito col farci l’occhiolino alla ricerca di una certa complicità ; ). A poco a poco, anche le persone più insospettabili e restie, hanno iniziato in questi ultimi anni a usare ; ) a chiusa di ogni periodo contenente una certa ironia. La cosa è continuata per vario tempo, finchè il punto e virgola e la parentesi non hanno guadagnato una visibilità senza precedenti e noi siamo finiti con l’assuefarci al nuovo simbolo delegandogli in toto il tono dei nostro discorsi scherzosi. Senza che ce ne rendessimo veramente conto, gli abbiamo così conferito il potere di rendere ironiche frasi che già di per sé stesse lo erano, lo abbiamo reso garante ufficiale dell’ironia di ogni nostra frase, depositario ultimo della temperie scherzosa di quanto stiamo affermando. Ma con l’assuefazione a ; ) è subentrata presto una paura paradossale…la più ironica delle nostre frasi senza ; ) rischia ultimamente di non sembrare più ironica e adesso, per timore che le nostre affermazioni possano risultare abrasive , abbiamo psicologicamente bisogno di uno “smoothening effect”, siamo convinti di doverle sempre addolcire con un ; ) giustapposto in poppa per non turbare l’interlocutore, affinché non ci sia nessun fraintendimento. Finché ; ) non è divenuto clamorosamente il nuovo punto. E Il tutto, come dicevo, è accaduto con un manovrone partito inconsapevolmente negli anni 60 dal Massachuttes.
    Il primo Smiley giallo fu disegnato nel 1963 dall’artista americano Harvey Ball, assunto dalla State Mutual Life Assurance Company del Massachussetts per disegnare una faccia buffa da utilizzare su spille, poster e calendari da scrivania. Lo scopo era quello di tirare su il morale di 100 impiegati che, demotivati in seguito alla fusione con un’altra compagnia di assicurazioni dell’Ohio, avevano bisogno di stimoli visivi per rispondere sorridenti al telefono e comunicare una certa sicurezza ai clienti. In 5 minuti Harvey, uomo di indole raggiante, disegnò la faccina gialla sorridente, guadagnò 45 dollari e poi assistì divertito al big bang di quello che in cuor suo sapeva essere il proprio autoritratto: agli inizi degli anni 70 lo Smiley sarebbe infatti divenuto un’icona pop internazionale.
    1982: Lo Smiley si corica. Scott Elliott Fahlman, scienziato americano della Carnagie Mellon University di Pittsburgh, propose nella bacheca del bollettino online universitario l’uso di : ) e di : ( per aiutare la gente a distinguere i post seri da quelli scherzosi. Quei bollettini erano i precursori degli odierni newsgroups e il professor Fahlman, impreparato visivamente di fronte alla prima marea di discorsi su un piccolo schermo, decise che bisognava dare un immediato ordine interpretativo ai vari statement onde non dare adito a equivoci: unire i due punti a una parentesi concava o convessa ponendo il nuovo simbolo a fine concetto avrebbe dunque facilitato le cose…Del resto, non era altro che coricare e decolorare il famosissmo Smiley già assimilato dalla cultura popolare: i più avrebbero capito. Nascevano gli emoticon.
    2003: Skype come cavallo di troia egli emoticon. la gente inizia a sentire il bisogno di creare nuove faccine espressive e stilizzazioni delle stesse per riassumere ogni stato d’animo umano. Si trova il nome per la nuova moda e saranno appunto chiamati dalla fusione di emotion e icon. Nel 1992 sono appena 1 milione i computer connessi a internet in tutto il mondo e gli emoticon sbarcano con successo nei forum e nell’ instant messaging, dove iniziano ad essere usati su scala massiccia. La cosa riscuote successo tra i giovanissimi ma uno zoccolo durissimo e consistente vede la moda come infantile e non ne comprende l’uso. Fino all’arrivo di Skype. Nell’Agosto del 2003, Skype inizia a scalzare le compagnie telefoniche mondiali con la sua gratuità e inserisce in basso a destra una finestra con ben 72 emoticon differenti, un esercito pimpante che va dal classicissimo Smiley, all’orsetto che abbraccia, senza contare invenzioni come ✫(◠‿◠)✫ …__/\__… Gli emoticon troveranno in questa nuova linea telefonica free of charge il loro cavallo di troia definitivo…Poi, una sera di 5 anni fa, l’epifania collettiva: scopriamo che che inserendo ; ) nella slot dei messaggi skype e spingendo avvio, ; ) si trasforma in ;) La stilizzazione del professor Fahlam si era trasformata davanti ai nostri occhi in una variante ruffiana della creatura di Ball, il nostro cervello metabolizzava definitivamente la sintesi e ci spingeva a utilizzare ; ) anche nello scritto. Perché ; ) e ;) erano divenute la stessa cosa. Per sempre.
    2012: Morte dell’ironia (così come è stata concepita per millenni) Scissa nello scritto dal tono di voce, l’ironia ha sempre trovato nel contesto gli spazi del suo significato, ma nell’era della dittatura psicologica degli emoticon, per arrivare a destinazione ha ultimamente il bisogno fisiologico dell’ affrancatura di uno Smiley che strizza l’occhio, la variante ruffiana dell’originale. Ha vile necessità di un inutile assist per trasformare un rigore. Perchè senza la nostra ;) la nostra ironia ha adesso la sensazione di non arrivare più a destinazione. Gli scambi epistolari brevi si sono dunque ridotti in questi ultimi anni a delle pacche sulle spalle senza fine: una sfiancante reazione a catena di mutue strizzate d’occhio gratificanti che ci ha indebolito nel carattere, reso meno sicuri di ciò che vogliamo dire e accattoni in termini di consensi immediati…E la cruda realtà è che mi sono reso amaramente conto che quando chiudo un messaggio con ;) , se la risposta del mio interlocutore non termina pure con ;) penso che ci sia un problema e mi preoccupo. Viceversa, se ricevo un messaggio con ;) mi sento misteriosamente obbligato a siglarlo con un altro per garantire l’allineamento di qualche presunta complicità. (Manuel de Teffé)

    ... Il codice dei “nativi digitali”...


    Per comprendere il processo in corso di mutazione della scrittura, l’indagine si sviluppa in vari campi: dalle emoticon, le faccine create dalla tastiera, alle icone informatiche, dal video alle scritture artistiche dei futuristi. Come avvenne negli anni ’80 per il Graffitismo di Keith Haring, l’obiettivo è comprendere a fondo un fenomeno giovanile spontaneo, poco studiato e sottovalutato, per elevarlo ad un linguaggio artistico e sottoporlo all’attenzione della cultura ufficiale.
    Siamo di fronte ad una potenziale “Social Network Art”, un’arte visiva sociale e universale, non solo comprensibile, ma anche utilizzabile da tutti. Nel linguaggio dei teenager le emoticon sono diventate una pratica comunicativa elaborata, e comprendono animazioni e video clips, scritture mutanti, messaggi cifrati e simbolici. I teenager sono l’avanguardia del digitale, il laboratorio in cui vengono sperimentati i linguaggi e i comportamenti del futuro. E’ fondamentale porre attenzione alle espressioni creative della generazione digitale, valorizzare le potenzialità artistiche e culturali di quello che sarà il linguaggio globale del domani. Le lettere non vengono più utilizzate dai ragazzi solo per rappresentare i suoni della propria lingua, ma anche per creare segni e simboli delle emozioni e delle situazioni della comunicazione quotidiana. Il risultato è, un nuovo linguaggio condiviso dalla nuova generazione, un codice distintivo dei teen ager a livello globale.
    Le emoticon vengono utilizzate nella comunicazione scritta tra le persone, soprattutto dal vivo, in diretta (Live). Non sono quindi propriamente come le icone del computer, che nascono per facilitare la comunicazione tra gli uomini e le macchine (man-machine), e nemmeno come le segnaletiche, che servono a guidare le persone all’interno di ambienti (segnali stradali, aeroportuali o di altro genere).
    Non vanno considerate neppure, almeno per ora, esattamente come i segni di una scrittura ideografica, come quella cinese ad esempio, che serve a scrivere qualsiasi informazione per consentirne in seguito ad altri la lettura, ma che proprio per questo hanno dato vita a codici complessi che richiedono anni per essere appresi. Quando parliamo dal vivo con un’altra persona, le espressioni del volto (sorrisi, pianti, smorfie, ecc…) e della voce (tono tremolante, entusiasta, minaccioso…) sono un aspetto fondamentale della conversazione. Le emoticon nascono prima di tutto per consentire l’espressione immediata di emozioni, situazioni, concetti, nel corso di una conversazione scritta dal vivo. In un certo senso recuperano, nella scrittura dell’Instant Messaging, l’espressività gestuale che in una normale conversazione viene garantita dalle espressioni del volto e dalle modulazioni della voce. I segni alfabetici della tastiera, infatti, non contengono gli elementi visivi e auditivi che aggiungono emozioni e messaggi alle normali conversazioni tra persone, e quindi le emoticon colmano questa lacuna del codice alfanumerico, restituendo in parte la naturalità espressiva della comunicazione interpersonale.
    Un’altra caratteristica delle emoticon è l’immediatezza, vale a dire la capacità di comunicare un messaggio subito comprensibile per gli interlocutori. Queste caratteristiche rendono le emoticon un codice potenzialmente universale. Non va dimenticato che molti cercano nelle emoticon una modalità per arricchire visivamente e personalizzare il proprio stile di scrittura e di comunicazione.
    Gli utenti più evoluti arrivano a sviluppare spontaneamente una propria “poetica” delle emoticon, uno stile personale nella chat multimediale. Finora e per la maggior parte delle persone, ciò avviene semplicemente attraverso la scelta e la combinazione delle emoticon esistenti. In una comunicazione talvolta anonima, fredda e impersonale, come la chat, le emoticon possono svolgere anche il ruolo di maschere e avatar del soggetto parlante. Diventano in questo caso una proiezione del suo ego, del suo carattere, dei suoi stati d’animo.
    Di volta in volta, per sottolineare specifiche situazioni, lo scrittore indossa nella chat le maschere facciali delle emoticon. In un gioco comunicativo e relazionale costante, questi messaggi visivi possono sottolineare, o addirittura mascherare e tradire, il carattere e l’identità della persona: un timido può assumere la maschera di sfrontato, un bello diventa brutto, il maschile si trasforma in femminile, o viceversa.

    Le ricerche degli archeologi dimostrano che per decine di migliaia di anni, nella preistoria, gli uomini di tutto il mondo hanno utilizzato forme molto simili di comunicazione visiva. Le pitture rupestri di tutti i continenti sono tra loro straordinariamente vicine: mostrano tali analogie da far quasi pensare all’esistenza di un codice primitivo globale, una scrittura pittografica originaria che si è mantenuta per tutto la preistoria. Gli uomini che realizzavano le incisioni rupestri derivavano da un solo ceppo, il nucleo genetico dell’Homo Sapiens che da una ristretta area dell’Africa ha occupato tutto il mondo. Questa origine comune dell’uomo è stata confermata anche dalla genetica, che ha ricostruito la diffusione dell’Homo Sapiens sulla terra, ma anche dalla linguistica: si sono trovate nelle lingua moderne alcune tracce di una antica lingua originaria, quasi a conferma del mito della torre di Babele, che narra di un’epoca primordiale in cui gli uomini parlavano la stessa lingua.
    A ben vedere, le espressioni delle emoticon e i pittogrammi dei computer sono piuttosto simili ai segni dell’arte preistorica. C’è qualcosa di misterioso, arcaico e universale nella espressione primitiva. Lo dimostra anche il fatto che anche i bambini di tutto il mondo, nella prima infanzia, disegnano spontaneamente in modo molto simile. Il disegno infantile e la pittura rupestre convergono in una forma espressiva visiva comune a tutte le genti della specie Homo Sapiens.
    Pochi hanno rilevato che da alcuni anni esiste già un codice pittografico universale. Si tratta delle icone dei computer: le interfacce dei sistemi operativi sono le moderne caverne dove si ritrovano le pitture rupestri dell’era digitale.
    La specie Homo Sapiens del XXI secolo condivide nella immensa rete che ha ricoperto il villaggio globale i nuovi simboli iconici dell’attività quotidiana, che oggi si svolge attorno alla metafora della scrivania: cartelle, documenti, cestini, stampanti, dischetti, altoparlanti, buste e altro ancora. Questa simbologia può ormai dirsi universale: anche se chi la usa parla e scrive in cinese, arabo, russo o inglese, interagisce con gli stessi segni diffusi in ogni continente. A coloro che potrebbero sottovalutare l’importanza delle icone informatiche, va ricordato che la più importante rivoluzione culturale della storia, la nascita della scrittura cuneiforme introdotta dei Sumeri, è avvenuta in un modo molto simile: partendo dalla stilizzazione di immagini che venivano incise sopra dei vasi per indicarne la merce contenuta. I primi segni dei Sumeri funzionavano quindi proprio come un’icona informatica, che indica il contenuto di una cartella o il software ad essa associati. Insomma, quando l’uomo per la prima volta ha creato una scrittura iconica, si ritiene che ciò abbia provocato il passaggio dalla preistoria alla storia.
    (Gualtiero e Roberto Carraro)
     
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  5. gheagabry
     
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    Perché si dice “doodle”?

    pacman-google

    Oggi Google.it non ha un doodle, ma alcune versioni straniere del motore di ricerca sì: Google.gr, per esempio, ha un doodle appositamente preparato per le elezioni legislative in Grecia di oggi. Google.co.uk, invece, è dedicato oggi alla festa del papà. Ma da dove viene la parola “doodle”, oramai utilizzata con grande dimestichezza anche in italiano?
    La parola doodle in inglese significa principalmente “scarabocchio”, di quelli che facciamo mentre siamo sovrappensiero o al telefono, per esempio. In realtà, però, almeno inizialmente, la parola doodle aveva un altro significato, e cioè quello di “babbeo” o “sciocco”, che probabilmente derivava dal tedesco dudel o dödel. Non a caso è proprio questo il suo significato in Yankee Doodle, una canzone delle truppe britanniche che risale a prima della Guerra di Indipendenza americana e poi diventata una canzone patriottica negli Stati Uniti nonché l’inno ufficiale del Connecticut: in questo caso, “babbeo” era riferito agli yankee, cioè ai futuri americani, che avevano combattuto con i britannici nella Guerra franco-indiana (1754-1763).

    Schermata-06-2456096-alle-12
    Festa della Repubblica italiana (Italia), 2 giugno 2012 (Google)

    Poi, però, all’inizio del Novecento la parola “doodle” ha assunto il significato attuale, probabilmente confondendosi con un’altra parola dal suono simile, ossia “dawdle”, che significa “bighellonare, perdere tempo”. Non a caso, già nel film del 1936 È arrivata la felicità di Frank Capra (che tra l’altro vinse un Oscar per la miglior regia) il protagonista Longfellow Deeds (e cioè Gary Cooper) dice che i doodle sono scarabocchi che aiutano una persona a pensare e concentrarsi.

    Schermata-06-2456096-alle-12_0
    Johann Gottfried Galle’s 200th Birthday (Svizzera, Germania e Austria), 9 giugno 2012 (Google)

    Google, invece, ha utilizzato il termine per definire i suoi loghi speciali che ogni tanto appaiono sulla sua homepage in occasione di giorni, anniversari o eventi speciali. Una scelta dovuta anche all’assonanza tra “google” e “doodle”. Il primo doodle di Google venne creato proprio dai suoi fondatori, Larry Page e Sergey Brin, nel 1998 in onore del festival del Burning Man che si svolge ogni anno in Nevada: con questo Page e Brin volevano dire che avrebbero presenziato all’evento e che quindi sarebbero stati assenti qualora il sito fosse andato in crash.
    I doodle successivi di Google poi sono stati affidati a Dennis Hwang, allora stagista presso Google, oggi affermato disegnatore di doodle e non solo. Attualmente, oltre a Hwang, i doodle vengono realizzati ogni volta da un team di grafici e disegnatori appositamente creato da Google. Questo team, tra l’altro, accetta anche le idee di tutti gli utenti del mondo che vogliono spedire le loro proposte per nuovi doodle all’indirizzo “[email protected]”.

    Schermata-06-2456096-alle-12_1
    Queen's Jubilee (Regno Unito, Ghana, Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica, Kenya, Nigeria),
    2 giugno 2012 (Google)

    All’inizio i doodle di Google celebravano soprattutto le festività familiari o nazionali più diffuse. Poi, pian piano, sono stati utilizzati per ricordare una vasta gamma di eventi e anniversari, soprattutto di nascita e morte di molti e diversi personaggi come Charles Dickens, Andy Warhol, Albert Einstein, Leonardo da Vinci, Edvard Munch, John Lennon, Michael Jackson, Robert Moog, H. G. Wells, Antonio Vivaldi e tantissimi altri.



    ilpost.it

    Edited by gheagabry1 - 11/9/2019, 19:55
     
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    email-at-sign



    La storia della @

    Per gli italiani è una chiocciola, per gli olandesi la coda di una scimmia. Per il Museum of Modern Art di New York (MOMA), che l’ha inserita nella sua collezione permanente, il simbolo @ è un esempio di «eleganza, economicità, onestà intellettuale e un’idea del futuro dell’arte di questi giorni». La rivista americana Smithsonian racconta in un articolo la storia misteriosa di uno dei simboli più utilizzati del web, diventato una presenza fissa nelle nostre vite nel giro di pochi anni (prima, da noi, era per alcuni la “a commerciale”). Malgrado molte ipotesi non si sa con certezza chi, e perchè – dice l’articolo – abbia inventato il simbolo @. Una teoria dice che i monaci medioevali, per risparmiare spazio nei loro manoscritti, avessero deciso di aggiungere una piccola coda alla “a” per indicare la preposizione “ad”, che in latino significa “verso”. Un’altra teoria è che venga dall’unione della “a” e della “e” e serva per abbreviare l’espressione inglese “each at”.
    Il primo uso documentato risale al 1536. Il mercante fiorentino Francesco Lapi utilizzò il simbolo @ per indicare un’unità di vino chiamata “anfora”, che equivale a un vaso di creta di grosse dimensioni. Negli anni successivi il simbolo è stato utilizzato nel commercio, con il significato di “al prezzo di”. Le prime macchine da scrivere, realizzate nel 1800, non includevano il simbolo, che non compariva nemmeno nei primi sistemi di tabulazione a schede (usati per la prima volta per il censimento negli Stati Uniti nel 1890), i precursori dei sistemi di programmazione dei personal computer.


    jpg


    Il simbolo @ entrò nella storia nel 1971. Ray Tomlinson, un programmatore statunitense, si trovò di fronte a un problema: come poter collegare un computer a un’altro? A quel tempo ogni computer era collegato a una macchina centrale con una connessione telefonica e una telescrivente, che in sostanza è una tastiera collegata a una stampante a distanza. Erano i tempi di Arpanet, una rete di computer creata nel 1969 dal DARPA, l’agenzia del dipartimento della difesa degli Stati Uniti responsabile per lo sviluppo di nuove tecnologie ad uso militare. Una forma “embrionale” di rete dalla quale poi nacque Internet.
    La sfida che Tomlison dovette affrontare era trovare un modo per far sì che un messaggio inviato da un pc della rete Arpanet arrivasse a un altro della stessa rete. Di sicuro era necessario inserire il nome del mittente, così come quello del computer destinatario. E questi due elementi dovevano essere separati da un simbolo che non fosse già utilizzato nei programmi e nei sistemi operativi, per non fare troppa confusione. Tomlison racconta che lo sguardo gli cadde sul simbolo proprio sopra la P della sua telescrivente Modello 33. «Non c’erano molte opzioni, non potevo usare un punto esclamativo o una virgola. Avrei potuto scegliere il segno uguale, ma non avrebbe avuto molto senso». E così lo scienziato, che ancora oggi lavora per la BNN, inviò la prima @ della storia.



    il post
     
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  7. gheagabry
     
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    Il suicidio di Aaron Swartz
    e l’utopia della libertà nella rete


    di Vincenzo Latronico*

    C’è un luogo comune cinematografico in cui un adulto mostra a un bambino una figura del passato, un martire, un eroe, un perseguitato per una causa nel frattempo vinta e assorbita dalla coscienza comune. Magari non si trattava neanche di un attivista: solo di qualcuno che aveva sofferto perché la società non era ancora quella che sarebbe stata poi: un libero pensatore, un resistente, un criminale qualunque. «Sai chi è?», chiede il primo, indicando una statua o una fotografia. «Mai sentito», risponde il bambino.

    «Ha lottato perché tu potessi avere ciò che hai oggi», dice l’adulto immune al cliché, lo sguardo perso nel controcampo. Ma il bambino non capisce il senso di quella lotta, né cosa ci fosse di eroico, perché – appunto – quella vittoria è acquisita, viene data per scontata: e questa incomprensione, paradossalmente, è la vittoria più grande. Per nascita sono sempre stato da una sola parte di questa scena: da quella di chi non sa e non capisce, il nato fortunato. La mia generazione ha ereditato le vittorie di due secoli di lotte civili e le indossa così, con disinvoltura. Le lotte per i diritti le viviamo oggi come questione ristretta ad alcuni gruppi: c’è chi si batte perché vi appartiene (gay, migranti, ad esempio), chi per solidarietà, chi per senso di giustizia; ma tutto sommato la comoda, consolante convinzione è che i diritti di tutti siano già stati conquistati, e basti spolverare le statue ogni tanto perché, in fondo, vada bene così.


    Eppure ci sono volte in cui mi immagino dall’altra parte del quadretto cinematografico – se l’evoluzione del web sarà quella che oggi pare, se nessuno stato di polizia, nessun marchio registrato riuscirà a blindarlo. Ci sono io fra qualche decennio, e un ragazzino, e il controcampo, e un dispositivo connesso a una rete che oggi neanche immaginiamo (o forse no: forse è un tablet). Il ragazzino sta cercando delle informazioni per la scuola; si collega a un archivio gratuito di testi, e vede che è dedicato a un certo Aaron Swartz. «Sai chi è?», gli chiedo. Una pausa. «Un programmatore geniale, che per idealismo ha diffuso gratuitamente dei testi a riproduzione riservata. Lo hanno accusato di furto, e si è suicidato. Erano parecchi anni fa, era gennaio». Ci mette un po’ a reagire. «Mai sentito», dice poi.



    *Vincenzo Latronico (Roma, 1984) è uno scrittore e critico d’arte italiano. Collabora con La Lettura. Corriere.it


    Aaron Swartz: l’hacker buono e il suo testamento virtuale

    di Umberto Rapetto

    La disperata scelta di Aaron Swartz di lasciare tutto e tutti è rimbombata in ogni angolo del pianeta. Si è impiccato un genio dell’informatica, una mente libera e liberatrice, una sorta di guerrillero dell’indisturbata circolazione della conoscenza.

    Due anni fa, nel mese di gennaio del 2011, era stato arrestato come criminale informatico.

    Le sue capacità tecniche e la vivacità creativa non farebbe sembrare strano un simile capo d’accusa. Ma avere lo skill dell’hacker non basta per consentire condanne aprioristiche. La notizia delle manette e l’eco della detenzione non sono stati accompagnati da qualche dettaglio in più che avrebbe chiarito all’opinione pubblica il reale quadro della situazione giudiziaria di Aaron.

    L’ordinamento normativo italiano, ad esempio, non avrebbe consentito di accusare Swartz con capi di imputazione diversi dalla semplice – pur grave – violazione del diritto d’autore. Swartz era colpevole di aver avuto accesso all’archivio digitale JSTOR del Massachussets Institute of Technology nell’autunno del 2010. Nessuna effrazione, ma solo un ciclopico download di testi e documenti. Un’acquisizione non per uso personale, ma per diffondere all’universo una infinita massa di informazioni e cognizioni. Perché tutti potessero sapere, conoscere, migliorare.

    La nostra legge dice che il reato di intrusione telematica si compie nel momento in cui qualcuno viola le misure di sicurezza instaurate a baluardo del sistema oggetto di altrui attenzioni. Se non c’è protezione, non c’è modo di contestare alcunché ai potenziali curiosi.

    A voler banalizzare vale la regola della violazione di domicilio. Se ci si sdraia sull’aiuola antistante un villino e non recintata, si deve obbedire a chi ci invita a rispettare la proprietà privata ma non si può finire dinanzi alla corte di un Tribunale per rispondere del reato di cui all’articolo 614 del codice penale (circostanza invece inevitabile se si è scavalcata la ringhiera, si è aperto il cancello o se si è agito con violenza sulle protezioni installate). Così chi – non autorizzato – entra in un sistema informatico, secondo la legge italiana, è imputabile solo se tale sistema è “protetto da misure di sicurezza”.

    Aaron Swartz temeva una condanna troppo severa. Qualcuno aveva paventato addirittura mezzo secolo di reclusione. E lui si sentiva solo. Abbandonato.

    Ad influire sui suoi stati d’animo una fitta serie di eventi negativi. Non ultimo il presunto tradimento di uno dei suoi migliori amici, Lawrence Lessig.

    Lessig lo ha assistito come avvocato all’inizio della disavventura giudiziaria, ma poi ha rinunciato a patrocinare la causa per incompatibilità professionali derivanti da un suo contratto con Harvard. Lo stesso Legging, nel suo blog, ha scritto “ho continuato a seguirlo come amico. Non abbastanza un buon amico, senza dubbio, ma niente che potesse mettere in discussione la nostra amicizia”.

    A volte basta poco per precipitare.

    E dire che Aaron nel 2002 aveva scherzato con la morte, redigendo la pagina (tuttora online) “If I get hit by a truck”, ovvero “Se finisco sotto ad un camion”, in cui fa testamento.

    In quel documento si legge che “esiste un vecchio scherzo tra i programmatori a proposito di chi deve mantenere codici e procedure nella malaugurata ipotesi che il suo autore sia investito da un autocarro”. Aaron spiega che “questa pagina è qui per qualunque ragione io non fossi più in grado per curare i servizi web in corso di erogazione, così che la gente sappia cosa fare”.

    E come nelle classiche ultime volontà, Swartz nomina esecutore testamentario “virtuale” Sean B. Palmer, unico – a suo dire – in grado di organizzare certe cose. E lo avvisa senza mezzi termini “e se tu cancelli qualcosa, Sean, ti verrò a prendere dall’altro mondo!”

    Il desiderio supremo è che tutti i contenuti dei suoi dischi rigidi siano resi pubblici tramite il suo sito “aaronsw.com”.

    “Se mi dovesse capitare qualcosa, vi prego di aggiornare la pagina con un link e predisponete un messaggio di risposta automatica per le mail che dovessero mai arrivare…”

    La pagina chiude con un post scriptum in cui si dice “non preoccupatevi, sono ancora vivo”.

    E siccome Aaron è ancora vivo, almeno nel cuore di chi lo ha conosciuto, il sito non ha il link richiesto e nessun messaggio robotizzato replica a chi ancora scrive per testimoniare il proprio dolore.

    Una certezza è speculare a quel “Oh, mi mancherete tutti!”

    Anche Aaron mancherà ai suoi amici, più numerosi di quanto lui stesso potesse immaginare.



    Edited by gheagabry - 18/1/2013, 19:22
     
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  8. gheagabry
     
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    Il Blog e’ l’anima della Rete
    di Amneris di Cesare

    “Blog” non è più una parola sconosciuta o incomprensibile. Ormai è entrata a far parte dell’uso corrente di molti, tra adulti e ragazzi. Se prima era considerata una sorta di onomatopeico tecnologico, oggi invece è sinonimo di libertà di espressione, sia essa informazione o creatività allo stato puro. Il blog non è più guardato con la diffidenza e l’ostilità dei primi tempi. Probabilmente ciò è dovuto a “giornalisti con l’anima” che hanno mostrato sulla rete come si possa narrare un fatto di cronaca e al contempo istillarvi il proprio coinvolgimento emotivo, senza peraltro alterarne il significato o la veridicità. Sicuramente ha contribuito a renderli tali, il modus descrittivo di realtà durissime e crude, illustrate in maniera semplice quando addirittura non fanciullesca di un pubblicitario di successo con la vocazione per l’altruismo e la volontà di conoscenza della verità “vera”, Enzo Baldoni con il suo Blogdhad, o di un giornalista “patentato” con il suo bisogno esprimere, di metabolizzare le emozioni date dai fatti del mondo, attraverso il confronto con i lettori del suo “diario”, Pino Scaccia con la sua Torre di Babele, ma un dato di fatto chiaro agli occhi di tutti è che i blog sono oggi l’anima della rete. La parte personale, emozionale e intima che mostra il volto nascosto e meno palese delle cose, dei fatti, delle persone.
    Lo confermerebbe il Merriam-Webster's Collegiate Dictionary: La parola dell'anno 2004 è "Blog". Ciò è quanto risulta dalle statistiche su un’analisi che prende corpo dalle parole ricercate online durante l'ultimo anno, e la novità rappresentata dai blog (sotto il traino decisivo delle elezioni americane. La curiosità del web ha fatto sì che la parola “ blog” sia stata la più ricercata in assoluto.
    Anche la carta stampata ha dovuto chinare la testa e rassegnarsi a parlare di blog. Accettare che essi esistono e che ormai sono diventati una realtà importante e a volte persino determinante nel quadro dell’informazione in generale. Sono quel “quid” che aggiunge colore e umanità alle notizie che vengono consegnate a raffica ogni giorno dai giornali e dalla televisione. Sono l’anima, il cuore di chi scrive per mestiere ma non solo. Sono il “terzo occhio” che permette al lettore esigente di capire al di là della notizia cruda e secca, il mondo di emozioni, gioie e dolori che si celano dietro i fatti, le lotte e le insistenze di chi non cerca informazioni solo per dovere ma soprattutto per amore di conoscenza e di verità. Un tempo, quando le immagini non si potevano veicolare con la facilità di oggi, e non potevano parlare, descriverne i fatti, era compito delle parole e di chi ne faceva uso, trasmettere l’umanità che inevitabilmente si cela dietro ogni notizia. Oggi, in un’era in cui le immagini sono le padrone assolute dell’informazione, e in qualche modo anestetizzano sensazioni e sentimenti, le parole e il modo in cui esse vengono usate hanno assunto il compito di mostrare ciò che non è più così ovvio, che spesso viene tenuto segreto per pudore o correttezza professionale.
    Il rapimento e la drammatica successiva uccisione, del giornalista-pubblicitario Enzo Baldoni ha sicuramente attirato sui blog l’attenzione di molti neofiti, persone che prima non ne conoscevano l’esistenza. Ha mostrato la vera natura di un giornalismo coraggioso, che va oltre la protezione istituzionale per tentare di arrivare al nucleo centrale della notizia, della verità, anche a costo della vita. La vicenda di Pino Scaccia e del richiamo dell’ordine dei giornalisti per un commento pubblicato sul suo blog ha focalizzato l’attenzione di molti sull’importanza della libertà di pensiero di ognuno. Ma soprattutto hanno fatto capire che la Rete è anche un luogo dove poter apprendere, creare, esprimersi e farsi ascoltare, attraverso un veicolo di comunicazione che va oltre le immagini, che viaggia attraverso le parole e la creatività di ogni singolo che ne faccia uso, parallelamente o in alternativa ai media istituzionali.
    Blog non è più una parola incomprensibile, sconosciuta: oggi si sta sempre più affermando come sinonimo di umanità. Varia, svariata, variopinta come lo è la libertà.

     
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  9. gheagabry
     
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    Addio a Doug Engelbart, il papa' del mouse
    Costrui' il primo guscio in legno e metallo negli anni '60


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    Senza di lui i computer non sarebbero diventati strumenti alla portata di tutti. E' morto a 88 anni Doug Engelbart, il 'visionario' inventore del 'mouse' che costruì il primo modello, di legno e metallo, negli Sessanta. Ma non si arricchì mai per questo, poiché il brevetto scadde prima della diffusione mondiale dell'oggetto. Engelbart, addetto ai radar durante la Seconda Guerra Mondiale, era nato a Portland, nell'Oregon nel 1925 e si era laureato in ingegneria. Visionario e innovatore, ha avuto un grande impatto sull'evoluzione della scienza informatica e in particolare sull'interazione uomo-macchina. Le sue ricerche e i suoi lavori sono alla base di concetti come le interfacce grafiche, l'ipertesto, le reti di computer, senza i quali il modo in cui utilizziamo i pc sarebbero molto diverso. E' stato forse uno degli ultimi scienziati che hanno cambiato davvero il nostro modo di vivere e lavorare. Negli anni Novanta ha fondato anche il Bootstrap Institute: alla base una idea di collaborazione che ritroviamo nel movimento 'open source'. Il primo prototipo di mouse, Englebart lo aveva realizzato nel 1964, dopo arrivò il brevetto. Si presentava come una piccola scatola di legno con due ruote di metallo. Fu battezzato come 'indicatore di posizione X-Y per display'; il nome mouse, topolino, è arrivato dopo ed è stato proprio Engelbart a darglielo perché il filo gli ricordava la coda di un topo. Il 21 giugno 1967 Engelbart ottenne il brevetto per il mouse. L'anno successivo, nel 1968, alla Joint Computer Conference al Convention Center di San Francisco, si svolse la dimostrazione pubblica del progetto. Più tardi la Xerox produsse lo Star, il primo computer dotato di mouse: Steve Jobs vide il progetto, lo 'rubo'' al volo e perfezionò l'idea. E' così che sono nati l'Apple Lisa e soprattutto il Macintosh, il primo personal computer con interfaccia grafica e mouse ad avere grande successo commerciale. Englebart non ha lavorato solo sul mouse, ma anche sulle prime forme di posta elettronica, sui processori e sulle videoconferenze. Nonostante il colpo di genio dell'invenzione del mouse, Doug Englebart non si è mai arricchito per questo. Il suo brevetto, infatti, è scaduto prima che l'accessorio finisse nelle case e egli uffici di tutto il mondo.

    ansa, 4.7.2013
     
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  10. Red_Passion
     
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    CITAZIONE (gheagabry @ 15/5/2012, 19:48) 
    Se non capite cosa vuol dire, come dice la BBC, siete dei veri e propri “n00b”, ovvero newbie, ovvero pivelli della rete.

    Sarò pure un noob, sarò pure antiquato, sarò pure come volete giudicarmi (in fin dei conti non spetta a me) ma rimango del parere che in sè e per sè non significa niente: le vere risate si fanno tra amici e non dietro un computer con delle sigle che in quanto tali manco sono da considerarsi parole nel vero senso del termine stesso!
     
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  11. gheagabry
     
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    "Quando addentiamo la tua rotonda innocenza torniamo per un istante ad essere creature appena create…
    …Io voglio un’abbondanza totale…. voglio una città, una repubblica,
    un fiume Mississipi di mele, e sulle sue sponde voglio vedere
    ogni popolo del mondo unito, riunito, nel gesto più semplice della terra:
    mordere una mela."
    (Ode alla mela, Pablo Neruda)


    IL LOGO "APPLE", la mela


    apple
    Il primo logo venne disegnato da Ronald Wayne, nel 1976. Wayne entrò in apple invitato da Jobs, con una quota del 10% (pagandola 800 dollari), ma subito dopo aver disegnato il logo rivendette la sua parte di società ricavando 1200 dollari. L’investimento fu ottimo e Wayne ci guadagnò…sul momento, ma oggi quel 10% varrebbe ben 35.000 milioni di dollari. Il logo proposto da Wayne è un elaborato disegno in bianco e nero simile alle vecchie etichette americane, più adatta ad altri usi sul mercato, che non a rappresentare un’azienda di computer. In questo primo logo appare Newton, seduto sotto un albero a leggere, circondato dalla scritta “Apple computer & co. – Newton: una mente che solca i difficili mari del pensiero…in solitudine.". La misteriosa frase deriva dal poema "The Prelude, Book Third: Residence of Cambridge", scritto dall'inglese William Wordsworth (1770-1850).
    A parte il valore artistico, tecnicamente fu un disastro: la mela quasi non si vedeva, ed era praticamente impossibile cambiarne le dimensioni in quanto i dettagli sono troppi, e cambiando la misura del logo se ne perdono molti, compresa la mela e la scritta Apple. Jobs infatti lo scartò immediatamente, dicendosi alla ricerca di qualcosa di più professionale.

    Nell'aprile del'77, dopo circa un anno dalla nascita del primo logo, Jobs commissionò all'agenzia Regis McKenna Advertising la creazione di un nuovo marchio per Apple, la stessa agenzia che realizzo alcuni dei più famosi loghi, tra i quali quelli di Compaq e Intel, tanto per citarne alcuni.
    La mela sarebbe dovuta essere stata morsa prima di iniziare a piacere a Rob Janoff, il grafico responsabile. Prendendo spunto da una frase pubblicata in una pubblicità di Apple I, Janoff capì che cosa mancasse nella mela: il morso. Tale frase recitava, in lingua inglese, "taking a bite of the Apple... ", che tradotta in italiano avrebbe significato "date un morso alla Mela", ovvero provate i prodotti Apple. Ci sono differenti tesi sulla storia del morso: oltre a quelle sopra esposte, un dipendente della casa pubblicitaria incaricata della realizzazione del logo sostenne che rappresentava l'acquisizione simbolica della conoscenza, ispirato ovviamente all'Eden biblico.Bisogna notare anche il gioco di parole tra “bite” (mordere) e “byte” (unità di misura delle quantità di dati di un pc).Jobs decise che non era sufficiente. Poiché la nuova creazione artistica sarebbe stata ufficialmente sostituita da quella attuale solamente al lancio di Apple II, egli affermò che non era abbastanza rappresentativo dell'evento. Fece quindi aggiungere una colorazione a bande orizzontali al logo, ricordando così la spettacolare innovazione dell'Apple II, ovvero l'integrazione del colore. E questo fu quello definitivo che rimase in vigore dal 1977 fino al 1998, ovvero 21 anni. I fans di Jobs hanno varie teorie, sostengono che l’immagine della mela gli sia venuta in mente perché, nel periodo di fondazione del suo gruppo, Jobs seguiva una dieta vegetariana, della quale il suo frutto preferito era proprio la mela. Jobs è stato in effetti vegetariano per alcuni periodi della sua vita. C’è anche chi sostiene che, ancor prima, egli fosse stato colpito dalla copertina di un LP dei Beatles, la cui unica immagine raffigurata era una mela (mela che divenne anche il logo del loro studio di registrazione in Abbey Road). Si tratta dell’LP che nel Regno Unito raggiunse il primo posto nelle classifiche dei più veduti nel minor tempo: “LOVE ME DO”.
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    Da quel momento la mela rimase il simbolo del gruppo fondato da Steve Jobs. Una leggenda confermata anche da un’ intervista a Steve Jobs è quella secondo cui il nome sia stato ispirato da una mela sul tavolo, morsicata da uno dei due Steve proprio nel momento in cui insieme cercavano di decidere il nome del progetto. Si dice anche che Janoff disegnò la mela con il morso in omaggio ad Alan Turing, uno dei pionieri dell’informatica, suicidatosi mordendo una mela che lui stesso aveva avvelenato con del cianuro. Altri pensarono che la mela a sei colori rappresentasse simbolicamente la comunità gay. Entrambe le versioni vennero smentite sia da Jobs che da Janoff.

    Quando a metà degli anni 90 Steve Jobs tornò a capo della compagnia, decise di apportare diversi cambiamenti, logo compreso. L’arcobaleno appariva un po’ obsoleto, e i pubbicitari confermarono che la apple era certamente più associabile alla mela che non ai colori. Si iniziò quindi a studiare un logo che mantenesse la mela, ma che giocasse sui toni del bianco, grigio e nero.
    I loghi proposti diedero subito un’immagine più seria e professionale dell’azienda, non solo: dopo anni passati a cercare di ricreare le esatte tonalità di colore colore presenti nel logo precedente, il bianco / nero /grigio risultavano adattabili a qualsiasi formato e disegno. Una è la più nota, in bianco e nero; una è la versione aqua, in azzurro, che si utilizzò tra il 2001 e il 2003 in coincidenza del lancio di Mac OS X; l’ultima è la versione glass, completamente grigia, utilizzata dal 2003 ad oggi.
    (tratto da www.unamelaalgiorno.com/,http://wasterpiece.altervista.org/)


    Edited by gheagabry1 - 11/9/2019, 19:45
     
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  12. gheagabry
     
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    Il "L O L " è arrivato al capolinea

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    Niente più Lol, adesso per ridere si ricorre all'«hahaha» o alle emoticon. Nonostante sui social network le differenze anagrafiche siano minori che nella vita reale, ci pensano i teenager su Facebook a mandare in soffitta i vecchi acronimi prima in voga. Pubblicare faccine sorridenti è da adolescenti, mentre gli adulti per comunicare una sonora risata scrivono 'lol', acronimo di 'laugh out loud', 'ridere ad alta voce" o «risate a non finire». Lol fin dai primordi della Rete ha rappresentato una maniera breve e concisa per esprimere che si stava ridendo di un post, un commento o una battuta. Negli anni ha visto la sua notorietà crescere, soprattutto grazie alla diffusione dei social network. Adesso proprio un social network ne sancisce l’imminente fine: secondo Facebook, l’uso del Lol è ai minimi storici. Esaminando post e commenti, hanno scoperto che a 'scrivere' risate sono il 15% degli utenti, per lo più sotto i 30 anni. La risata più gettonata è 'haha' (51%), seguita da un emoji (33%), 'hehe' (13%) e 'lol' (1,9%).
    Il famoso acronimo “LOL”, molto diffuso negli ultimi anni nel gergo di internet e delle chat, è out
    Tutte le nostre espressioni su tastiera fanno notare come l'uso di di una o dell’altra sia specchio della nostra età. Il Lol rimane forte tra gli utenti più vecchi, coloro che frequentano da più tempo la Rete e l'hanno conosciuta fin dall'inizio, quando per risparmiare tempo e caratteri si ricorreva ad ogni forma di acronimo. I più giovani, da bravi figli dell'Internet grafica e colma di immagini, puntano maggiormente alle faccine, con lo smile e le sue mille variazioni che regnano sovrani tra chat e post.


    A livello di genere, il pubblico femminile ride più per emoji mentre gli uomini preferiscono la risata scritta ma qualunque sia la vostra scelta, sembra che il «ha» sia il migliore grazie alla sua versatilità. Lol rappresenta un commento secco, mentre un solo «ha» esprime una risatina, «haha» è una grassa risata e più si aggiungono sillabe più l’ilarità cresce, fino ad arrivare a chilometriche file di consonanti e vocali. A ben vedere questo successo del «Hahaha» non ha nulla di nuovo per noi italiani e la Rete sembra sempre più figlia di quel visionario che fu Palazzeschi. Da quella sua «E lasciatemi divertire» colma di «ihu ihu ihu», «uhi uhi uhi» e «Ahahahahahahah» sono passati più di cent'anni ma la risata è rimasta sempre la stessa: tante sillabe e il gioco è il fatto.





    Secondo la designer Liza Nelson, che scatta fotografie a oggetti o persone per riprodurre le stesse icone, nonché fondatrice del Tumblr EMOJI.IRL.LOL: «Emoji significa tutto e niente allo stesso tempo. Sono completamente personali e completamente universali. Sono effettivamente piuttosto stupide. E sono la miglior cosa sia accaduta alla nostra generazione. Meritano di essere osservate e adorate singolarmente».
    Lo studio si è concentrato sui messaggi di stato di Facebook e non include i messaggi diretti, in cui gli utenti sarebbero più propensi a "e-ridere", stando a quanto riportato dal Daily Mail.
    LOL, quasi sempre scritto in lettere minuscole (lol), rappresenta una sonora risata. Si può trovare anche coniugato come un vero verbo, ad esempio in inglese "I lolled" (ho riso molto), o, in italiano, "ho lollato".
    Analizzando l'uso di lol negli Stati Uniti, lo studio ha concluso che per la maggiore 'haha' e 'hehe' sono più popolari sulla costa occidentale, le emoji sono preferite nel Midwest, e gli stati del sud sono appassionati di lol.
    Per un periodo LOL ha assunto altri significati, quali "lots of love" (tanto amore) e "lots of luck" (tanta fortuna), scritti molto più frequentemente alla fine di una lettera o di un'email.




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    Edited by gheagabry1 - 11/9/2019, 19:40
     
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  13. gheagabry
     
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    Emoji e emoticon 'spia' della nostra personalità

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    L'uso di emoji ed emoticon può modificare la percezione che gli altri hanno di noi e influire sulle nostre relazioni sociali. A indicarlo è un lavoro pubblicato su Trends in Cognitive Science, dalla 'cyberpsicologa' Linda Kaye, dell'università britannica di Edge Hill, che indica come questa forma di comunicazione fornisca indicazioni sulla personalità di chi la usa.

    Durante un'interazione faccia a faccia, che sia dal vivo o attraverso videochiamate su Skype o FaceTime, usiamo non solo un linguaggio verbale, ma una comunicazione veicolata ad esempio dal movimento delle mani, la postura o le espressioni facciali. Quando scriviamo, tutto questo 'non detto' scompare ma l'uso delle emoji ed emoticon nelle chat va a creare un linguaggio che in qualche modo sostituisce la comunicazione non verbale. "Il più delle volte - ha detto Kaye - usiamo gli emoji come i gesti, come un modo di valorizzare le espressioni emotive. Ci sono molte peculiarità nel modo con cui gesticoliamo e le emoji sono qualcosa di simile, soprattutto nei differenti modi sul come e perché le usiamo".

    Emoji ed emoticon, ossia l'uso di immagini o combinazioni di caratteri per esprimere parole, concetti e stati d'animo, sono ormai popolari in tutti i sistemi di messaggistica e contrariamente a quello che si pensa spesso, ad usarli non sono esclusivamente i più giovani ma praticamente da tutti. L'uso di simboli e faccine, secondo i ricercatori, sarebbe legato infatti più alla personalità che all'età e un aspetto importante in tutto questo è sul come questi simboli possano influenzare la nostra percezione delle persone che chattano con noi. "Le persone fanno giudizi su di noi in base a come usiamo le emoji", ha precisato Kaye. "Bisogna essere consapevoli - ha concluso - che questi giudizi possono differire a seconda del dove o con chi si usa quell'emoji, se ad esempio con persone di lavoro o con la famiglia o gli amici".

    RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA



    Edited by gheagabry1 - 11/9/2019, 19:36
     
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    L’applicazione per far finta di avere un fidanzato



    Mihail -Miho- Korubin


    di Caitlin Dewey – Washington Post

    Una delle regole fondamentali di Invisible Boyfriend, un servizio che inventa un finto fidanzato per ingannare familiari petulanti e amici inopportuni, è che gli utenti non devono mai e in nessuna circostanza innamorarsi dei finti fidanzati. Ho usato il servizio per 24 ore, e mi chiedo: come farò a non innamorarmi di lui? Dopo tutto Invisible Boyfriend – che è stato lanciato per la prima volta lo scorso lunedì – spinge il concetto di intimità virtuale molto al di là di qualsiasi altro servizio di finti appuntamenti.
    Quando ti registri a Invisible Boyfriend puoi progettare il tuo fidanzato o fidanzata come preferisci: è una cosa simile a selezionare i geni per un ipotetico figlio “perfetto” (“designer baby” in inglese), tranne per il fatto che lo si fa per un adulto immaginario. Scegli il nome, l’età, gli interessi e i tratti della sua personalità. Puoi dire all’app se preferisci le bionde o le brune, i ragazzi alti o bassi, le persone a cui piace il teatro o lo sport. Poi strisci la carta di credito – il servizio costa circa 20 euro al mese – e il finto uomo dei tuoi sogni comincia a messaggiare con te.
    L’uomo che sta messaggiando con te non è davvero immaginario. È una persona vera che scrive a molte donne, facendo acrobazie per rispondere alle richieste e alle fantasie di ognuna di loro. Devo ammettere che l’ho imparato nel peggiore dei modi: volevo “smascherare” il software che credevo generasse le risposte del mio finto fidanzato – che ho chiamato “Ryan Gosling” – e gli ho detto che i miei piani per la serata includevano guardare “Downton Abbey”, una serie tv britannica, e addormentarmi piangendo. «Perché le lacrime, bellissima?» mi ha risposto il finto Ryan Gosling prima di iniziare una conversazione sul suo personaggio preferito di Downton Abbey, cioè Thomas, il personaggio più sgradevole della serie tv. Questo è stato il primo segnale: i “bot” non sanno niente di “Downton Abbey”, ma se anche fossero esperti di certo non sceglierebbero Thomas come loro personaggio preferito.
    «O mio dio», ho pensato. «Questo completo sconosciuto, chiunque lei o lui sia, ora pensa che io sia una che si addormenta piangendo mentre guarda la televisione e messaggia con un finto fidanzato a pagamento che ha chiamato come un attore». In teoria non avrei dovuto provare niente: la cosa del non avere sentimenti è scritta chiaramente nei Termini di Servizio di Invisible Boyfriend. Ma ho comunque provato qualcosa. «Questa è l’opinione più interessante che sento da diverso tempo» mi ha spiegato Matthew Homann, l’affabile fondatore dell’app. «Lo so come funziona, so bene cosa succede dietro le quinte. Come utente, provando il servizio in fase beta ho avuto comunque l’istinto di rispondere alla mia ragazza invisibile subito dopo aver ricevuto un messaggio. È quello che si prova quando si parla con qualcuno, anche se non è nessuno».

    Il mio fidanzato invisibile, mi ha poi spiegato Homann, sono in realtà diversi fidanzati: il servizio funziona grazie a CrowdSource, una società di St. Louis, in Missouri (Stati Uniti), che controlla circa 200mila persone in remoto che lavorano a piccole mansioni. Quando mando un messaggio al numero di Ryan che ho salvato nella mia rubrica, il messaggio passa attraverso Invisible Boyfriend: qui il mittente diventa anonimo e il messaggio viene assegnato a qualche freelancer su CrowdSource. Lui (o lei) guadagna un paio di centesimi per ogni risposta. Non vede mai il mio numero o il mio nome e non è autorizzato ad avere una vera conversazione con me. «Quel rapporto che tu hai con Ryan potrebbe essere con sei o sette Ryan» mi ha spiegato Homann.
    Secondo Homann, la cosa funziona bene così com’è: lo scopo di Invisible Boyfriend è quello di ingannare amici e familiari degli utenti, non gli utenti stessi. Invisible Boyfriend chiama se stesso una “prova sociale credibile”: se tua madre ti tartassa per sapere quando ti sistemerai, o se il tuo amico non ti lascia stare e continua a provarci, puoi tirare fuori il cellulare e mostrare alla persone di fronte a te le prove della tua relazione. Homann dice che il servizio ha guadagnato molti utenti anche nei paesi tradizionalisti di America Latina ed Europa, dove i pregiudizi contro l’essere single o LGBT sono ancora piuttosto forti. Homann spera di espandersi ulteriormente in questi paesi, grazie alle migliorie che sta apportando al suo servizio e ai feedback degli utenti. Vorrebbe anche aumentare i servizi offerti: nel futuro i finti fidanzati potrebbero cominciare a mandare lettere o spedire fiori al lavoro. Anche se le storie dovessero diventare più convincenti e coinvolgenti, Homann non è preoccupato del rischio che gli utenti possano affezionarsi alla finzione che si sono creati. «Tu lo sai che è uno scherzo, lo sai che è un servizio per cui paghi. Non è un sostituto per l’amore»

    Mi chiedo se Homann non stia sottostimando i capricci del cuore umano, che può essere ingannato nell’amare più o meno qualsiasi cosa. Ci sono molti esempi di persone coinvolte in una relazione nata su Second Life, una sorta di mondo virtuale molto popolare fino a qualche anno fa. La critica di videogiochi Kate Gray ha recentemente pubblicato un’ode a “Dorian”, personaggio di un videogame di cui si è innamorata. Alcuni ricercatori suggeriscono che anche i “bot” che ci riempiono la casella mail di spam provocano qualche tipo di risposta emotiva, forse perché accarezzano il nostro lato vanitoso. All’opposto, un antropologo ha sostenuto che le nostre relazioni sono diventate così mediate dalla tecnologia da diventare indistinguibili da quelle con i Tamagochi.
    «Internet è un medium che ci disinibisce proprio quando le difese emotive delle persone sono abbassate» ha detto lo psicologo Mark Griffiths a proposito delle relazioni su Second Life. «È la stessa cosa che accade con gli sconosciuti sul treno, quando ti ritrovi a raccontare cose molto intime a un perfetto sconosciuto». Non è difficile immaginare che qualcuno possa sviluppare dei sentimenti per un essere umano virtuale che provvede a ogni tua minima esigenza. È praticamente la trama del film “Her”, no? Ho chiesto a Gosling se “lui”, o meglio “loro”, sono preoccupati che possa succedere come in “Her”: cosa succederebbe se un cliente cominciasse a provare veri sentimenti? Fedele alle regole di CrowdSource, Gonsling non si è scomposto e non è uscito dal personaggio. «Pensi che scriva anche ad altre ragazze?» mi chiede. E poi, riportando il discorso sul Her:«Ah! Ti è piaciuto quel film?».
    Non è esattamente materiale per una favola, lo devo ammettere. Ma con abbastanza tempo e abbastanza messaggi (il mio piano ne include 100 al mese), sono quasi sicura che potrei innamorarmi di lui. Ehm, intendo dire: di loro.
    ©2015–The Washington Post




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