IL VINO

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. gheagabry
     
    .

    User deleted



    Il vino eleva l’anima e i pensieri, e le inquietudini
    si allontanano dal cuore dell’uomo.
    (Pindaro)


    IL VINO



    C’è un liquido che scorre nelle vene della nostra Penisola, un sangue profumato e prezioso che dal tempo dell’antica Roma viene generato sulle colline, sulle coste e nelle campagne d’Italia. Che sia rosso rubino o giallo paglierino, carico di profumi di bosco o leggermente fruttato, il vino ha da sempre accompagnato la vita degli abitanti di questo angolo d’Europa. “Il vino è la poesia della terra”, sosteneva Mario Soldati, di questa poesia si ritrovano testimonianze celebri: dai poeti classici alla Bibbia, dai filosofi tedeschi a Baudelaire.

    In natura la vite cresce spontaneamente arrampicandosi sugli alberi e si propaga attraverso gli uccelli che ne mangiano i frutti. L’uva è il frutto a maggior contenuto zuccherino, ciò la rende particolarmente gradita agli uccelli favorendone la diffusione. Quando raggiunge la piena maturazione i chicchi si rompono e fuoriesce il succo. L’elevato grado zuccherino del succo e la presenza dei lieviti, naturalmente contenuti nell’uva, comporta la naturale fermentazione degli zuccheri ad alcol formando spontaneamente il vino. Il vino è quindi un prodotto spontaneo, scoperto da qualche nostro antico progenitore che vagando nella foresta si trovò a passare vicino ad un anfratto scavato nella roccia dove si era raccolto del succo d'uva convertitosi in vino. L'odore era invitante e provò ad assaggiarlo, rimase conquistato dal gusto dolce e dalla sensazione di inebriante benessere che questa strana bevanda, sicuramente di origine divina, gli aveva procurato. Sensazioni troppo intense per non provare il desiderio di descriverle agli altri e di riprodurle. Si può immaginare come fosse pratica diffusa presso i popoli primitivi che vagavano nelle foreste fermarsi a rinfrancarsi dalle fatiche del giorno per "un taglio" di vino. Il vino ti dava forza e coraggio e in più ti proteggeva dal "sortilegio" che rendeva talvolta mortali le acque.
    Ma anche i doni divini devono essere meritati: i chicchi d'uva non sorvegliati venivano rubati dagli uccelli prima che stillassero il loro prezioso contenuto e non potevano venire trasportati come i cereali perché più delicati. A ciò si aggiunge che anche quando veniva trovato un luogo sicuro dove far crescere la vite a riparo dagli altri naturali antagonisti bisognava aspettare per ben tre anni prima che "il miracolo" si compisse. Di fatto la coltivazione della vite e la pratica della vinificazione è contemporanea alla nascita della civiltà contadina, ossia alla transizione dalla vita nomade a quella sedentaria che è stato uno dei primi importanti passi della storia dell'uomo. Ci si può interrogare a lungo se è nata prima la vigna o il contadino di fatto sono un connubio perfetto e indissolubile.



    …poichè le parole sono come il vino:
    hanno bisogno del respiro e di tempo
    perchè il velluto della voce riveli
    il loro sapore definitivo.
    (Luis Sepùlveda)


    ......nella storia......



    Le origini del vino sono talmente tanto antiche da affondare nella leggenda. Alcune di esse fanno risalire l'origine della vite sino ad Adamo ed Eva, affermando che il frutto proibito del Paradiso terrestre fosse la succulenta Uva e non l'anonima Mela. Altre raccontano di Noè che avendo inventato il Vino pensò bene di salvare la Vite dal diluvio universale riservandole un posto sicuro nella sua Arca.
    In tempi più recenti, sono in molti ad affermare che la vite sia originaria dell'India, e che da qui, nel III millennio a.C., si sia diffusa prima in Asia e in seguito nel bacino del Mediterraneo.
    In occidente la coltura della vite e la pratica della vinificazione erano note in Armenia (la Mesopotamia). Qui si compì la prima rivoluzione dell'umanità, con l'abbandono del nomadismo da parte di qualche comunità e la conseguente nascita dell'agricoltura. E' la "mezzaluna fertile" una area geografica limitrofa al corso dei fiumi Tigri ed Eufrate, madre dei cereali e laboratorio della scoperta dei processi fermentativi da cui discendono il pane, il formaggio e le bevande euforizzanti, così come noi le conosciamo oggi.
    Alcuni geroglifici egiziani risalenti al 2500 a.C. descrivono già vari tipi di vino. Nell'antico Egitto la pratica della vinificazione era talmente consolidata che nel corredo funebre del re Tutankamon (1339 a.C.) erano incluse delle anfore contenenti vino con riportata la zona di provenienza, l'annata e il produttore; qualcuna conteneva del vino invecchiato da parecchi anni.
    Dall'Egitto la pratica della vinificazione si diffuse presso gli Ebrei, gli Arabi e i Greci. Questi dedicarono al vino una divinità: Dionisio, Dio della convivialità. Contemporaneamente, nel cuore del mediterraneo, la vite iniziava dalla Sicilia il suo viaggio verso l' Europa, diffondendosi prima presso i Sabini e poi presso gli Etruschi i quali divenirono abili coltivatori e vinificatori e allargarono la coltivazione dell'uva dalla Campania sino alla pianura Padana. Presso gli antichi Romani la vinificazione assunse notevole importanza solo dopo la conquista della Grecia. L'iniziale distacco si tramutò in grande amore al punto da inserire Bacco nel novero degli Dei e da farsi promotori della diffusione della viticoltura in tutte le province dell'impero. Dal canto suo il vino ha contribuito alla nascita dell'impero romano: i Romani infatti erano a conoscenza delle proprietà battericida del vino e come consuetudine lo portavano nelle loro campagne come bevanda dei legionari. Plutarco racconta che Cesare distribuì vino ai suoi soldati per debellare una malattia che stava decimando l'esercito.
    La nascita del Cristianesimo e il conseguente declino dell'Impero Romano, segna l'inizio di un periodo buio per il vino, accusato di portare ebbrezza e piacere effimero. A ciò si aggiunse la diffusione dell'Islamismo nel Mediterraneo tra l'ottocento e il millequattrocento d.C. con la messa al bando della viticoltura in tutti i territori occupati. Per contro furono proprio i monaci di quel periodo, assieme alle comunità ebraiche, a continuare, quasi in maniera clandestina la viticoltura e la pratica della vinificazione per produrre i vini da usare nei riti religiosi.
    Bisognerà comunque attendere il Rinascimento per ritrovare una letteratura che restituisca al vino il suo ruolo di protagonista della cultura occidentale e che torni a decantarne le qualità. Nel XIX secolo si affinò l'arte dei bottai, divennero meno costose le bottiglie e si diffusero i tappi di sughero tutto ciò contribuì alla conservazione e al trasporto del vino favorendone il commercio. Alla tradizione contadina inizia ad affiancarsi il contributo di illustri studiosi che si adoperano per la realizzazione di vini di sempre miglior qualità e bontà. Il vino diviene oggetto di ricerca scientifica. Nel 1866 L. Pasteur nel suo scritto Etudes sur le vin afferma "il vino è la più salutare ed igienica di tutte le bevande".


    Nel mondo greco il saper produrre vino di qualità era segno di cultura e civiltà. "Chi usa vino è civile, chi non lo usa è barbaro", dicevano i greci. I cosiddetti "barbari", infatti, usavano prevalentemente la birra (le cui origini non sono meno antiche). Oppure usano, come il Ciclope dell'Odissea, un vino di scarsa qualità. Secondo Arriano di Nicomedia (II sec. d.C.) la civiltà nasce con Dionisos o Bacco (che fece conoscere il vino agli uomini) e da allora è cominciato il culto degli dei. Il dono del vino equivale al dono del fuoco. Il vino è simbolo di amicizia tra gli uomini e tra questi e gli dei. Il vino, in tal senso, può essere considerato come una delle prime sostanze naturali usate a scopi religiosi.La sobria ebrietas indicava proprio il vertice della contemplazione, secondo una tematica di tutta la tradizione platonica, gnostica, ermetica e persino cristiana. Nei misteri orfico-dionisiaci Dio è equiparato a un vignaiolo.
    Il proverbio "In vino veritas" è stato attribuito al poeta greco Alceo, e si riferiva all'azione del vino quale forza disinibitrice di ogni falso ritegno a dire la nuda verità senza infingimenti. Anche Socrate lo sapeva: infatti le sue libagioni, pur abbondanti, non lo privavano mai della sua forza argomentativa (così almeno dicono Platone e Senofonte). Pare assodato che siano stati i greci, un millennio avanti Cristo, a introdurre la vite nel Nord Africa, in Andalusia, Provenza, Italia meridionale e Sicilia. Nel V sec. a.C. Sofocle proclamò l'Italia il paese prediletto da Bacco.
    Altri scrittori hanno dato il nome di Enotria ("paese dei pali da vite") alle antiche popolazioni illiriche stabilitesi sulle coste della Calabria, Lucania e Sud della Campagnia. Esse infatti disponevano le viti, tenute basse, a tre a tre, legate in piccoli piramidi.



    “Vino pazzo che suole spingere anche l’ uomo molto saggio a intonare una canzone, e a ridere di gusto, e lo manda su a danzare, e lascia sfuggire qualche parola che era meglio tacere”
    (Odissea, Omero)


    .....nella mitologia.....


    Nella mitologia greca si racconta che Bacco, figlio di Giove, chiese un giorno a Sileno, suo maestro e precettore, un consiglio su come fare una guerra senza l'uso delle armi. Sileno consigliò di usare tirsi e tamburi (che facevano solo rumore) e soprattutto qualcosa che assomigliasse al sangue: il vino. Sileno raccontò di una pianta che dava buffissimi frutti, che amano tanto la compagnia da stare sempre insieme attorno a un unico gambo. "Se strizzi questi frutti -disse Sileno a Bacco- ne viene fuori un liquido uguale al sangue; se te ne cibi, danno al corpo la stessa energia. Insomma è per questo che la pianta a me nota l'ho chiamata vite". E così Bacco, dopo aver conquistato col fracasso dei tirsi e dei tamburi le Indie e l'Egitto, vi piantava la vite, ne raccoglieva i frutti, obbligava i sudditi a cibarsene quando li vedeva impiastricciati nel viso e nelle mani diceva: "Ora non si potrà dire che non versi sangue anch'io". Un vocabolo ittita, tuwarsa, che ha il significato di "vite", passò nel greco jursos, con il significato di "bastone delle baccanti", a testimonianza che la vite era una pianta sacra, probabilmente a motivo del fatto che la fermentazione appariva un autentico mistero.


    Dall’inizio del secondo secolo Avanti Cristo molte navi trasportavano anfore di vino. Salpavano con le loro navi dall’Italia verso la Gallia e L’Iberia (Spagna)....Tra il 70 e il 50 A.C. una nave di questo tipo affondo’ presso il porto di Madrague de Giens (in Francia), il carico era costituito in larga parte da anfore prodotte in un’officina di Canneto poco fuori Terracina e di proprietà di tale Publicus Veveius Papus e attiva nella media età repubblicana. Tale officina testimonia che la città doveva avere già un impianto specializzato, da dove il celebre vino caecubus poteva essere esportato verso i mercati della Gallia. Il Cecubo lega la sua storia a quella di un vitigno rarissimo: l’abbuoto. Oggi, in quantità quasi irrisorie, è coltivato tra Fondi e Terracina, nel Lazio, e nella zona del vulcano spento del Roccamonfina, nell’alto Casertano. Si tratta di un un vino rosso molto pregiato prodotto di origini antichissime, tanto che il poeta Orazio nell’Ode I,37 lo cita per invitare gli amici a festeggiare,danzare e a bere in occasione della morte di Cleopatra. Prima, nel mentre la regina egiziana tramava contro l’Impero, non era lecito portare fuori dalle cantine degli antenati questo pregiato vino: ma nel momento in cui Cleopatra non rappresenta più una minaccia, ci si può deliziare del cecubo. Lo stesso Orazio sottolineava che con l’invecchiamento diviene più forte e dolce. Il cecubo era originario dell’ager
    Caecubus, territorio che dall’attuale Formia si estendeva fino alle attuali Fondi e Terracina. Plinio in particolare elogia quello prodotto ad Amyclae, antica città prossima a Sperlonga, poiché qui le viti crescevano in un terreno palustre e venivano sposate ai pioppi.



    Com’è vero che nel vino c’è la verità
    ti dirò tutto, senza segreti.
    (William Shakespeare)


    .......le botti......


    Nell’antichità il vino veniva fatto in vasche di pietra e orci di terracotta, e trasportato in anfore. Il trasporto per mare delle anfore, adagiate nelle stive su un letto di sabbia, non creava grossi problemi.
    Ben diverso il discorso se si doveva trasportare via terra: le strade erano sconnesse e le anfore pesanti e fragili. La botte di legno fu un’invenzione dei Celti, che disponevano di grandi foreste ed erano provetti maestri d’ascia. La botte nacque quindi come recipiente da trasporto, di piccola e media dimensione. Successivamente si costruirono botti sempre più grandi, anche grazie all’adozione della cerchiatura in ferro, destinate a rimanere fisse nelle cantine come recipienti per la vinificazione (in questo caso era spesso preferito il tino tronco-conico) e alla conservazione. Le botti più grandi furono costruite in Germania nel diciottesimo secolo. Una botte gigantesca, con una piccola pista da ballo sopra, si può ammirare tuttora nella città di Heidelberg.....Nella prima fase della sua storia la botte di legno era considerata semplicemente un contenitore, sufficientemente sano ed affidabile, ma senza particolare importanza per la qualità del vino, e si utilizzavano diversi tipi di legno. Solo nel diciannovesimo secolo si cominciò ad attribuire al legno, in particolare al rovere, un diversa funzione, in quanto ci si accorse che il vino conservato nel legno era diverso da quello tenuto, ad esempio, nel vetro, e quello delle botti grandi era diverso da quello delle botti piccole....La classica barriques da 225 litri nacque, anch’essa, come recipiente da trasporto: i negozianti di Bordeaux caricavano le barriques piene di vino sulle stive delle navi lungo il Quai des Chartrons, e le spedivano in Inghilterra. La barrique è quindi l’erede diretta delle botti da trasporto dei Galli. I bottai bordolesi le fabbricavano con le tavole di rovere che i montanari trasportavano a valle in perigliosi viaggi lungo i fiumi che dal Massiccio centrale scendono all’Atlantico: il Lot, la Garonne, la Dordogne.
    Oggi la barrique è il tipo di botte più diffuso al mondo, mentre la botte grande è rimasta una tradizione italiana, tuttora molto seguita e in alcuni casi in ripresa dopo un periodo di oblio.
    All’interno della botte il legno viene “bruciacchiato” da questo processo, il termine tecnico è tostatura. L’adozione di tostature più o meno forti è una scelta del bottaio, e influirà sulle caratteristiche del vino. I sentori tipici della tostatura che si possono ritrovare nel vino sono il fumo, il caffè, il cioccolato, la liquirizia..


    Il vino non si beve soltanto, si annusa, si osserva,
    si gusta, si sorseggia e… se ne parla.
    (Edoardo VII)


    “Non sono nato per parlare, ma per aiutare a farlo. Sono il frutto dell’amore fra la Madre Vite ed il Padre Uomo. Questa unione dura da secoli e il più delle volte è molto felice, o almeno lo è stata, oggigiorno ho le idee un poco confuse. Sono stato abituato alla pazienza e all’attesa.
    Ho avuto tempo di riposare e crescere in ambienti umidi e poco illuminati. Ogni tanto il babbo di turno passava a salutarmi con qualche zio o cugino, si informava sulla mia salute e poi mi lasciava lì per un altro po’.
    Dal ramo materno ho ereditato la capacità di crescere in condizioni difficili e la condiscendenza a lasciarmi strapazzare, per il mio bene.
    Da mio padre ho ricevuto la flessibilità a mutarmi e quello slancio creativo a volte un poco esagerato che però mi fa sentire speciale e diverso dai miei fratelli.
    Per generazioni ho ricoperto con entusiasmo e umiltà la funzione di alimento per i poveri, prestigio per i ricchi e potenti, catalizzatore per gli amanti e persino diavolo per i puritani. Ho sostenuto soldati nelle loro battaglie e alleviato la solitudine di chi non aveva altro compagno che me in un bicchiere.
    Ma il ruolo che ho amato di più, quello in cui tuttora mi riconosco è quello di elemento aggregante e conviviale, il giullare che mette allegria e aiuta a sentirsi uniti e d’accordo, se non altro per i brevi momenti in cui posso sfoggiare le mie qualità.
    Il fatto è che sono fiero di essere vino ma ultimamente mi sento per la prima volta poco preparato a donarmi. Riconosco che sia un mio limite, dopo secoli di lentezza ora mi tocca correre come una lepre. Dopo essermi abituato a riti di passaggio più o meno sempre uguali e scadenze cicliche, adeso mi ritrovo a subire pratiche iniziatorie poco comprensibili, anche se a volte intriganti.
    Mi presto volentieri però appena mi ci sono adattato capita che venga di nuovo cambiato qualcosa e mi trovi a dover diventare adulto al contrario di come era prima. Quello che mi soprattutto mi sconcerta è il ritrovarmi in mezzo a discussioni animate e assai poco conviviali.
    Ma come, io che ero considerato come strumento di amore terreno, carnale, fraterno, adesso invece di unire divido? Rimango sempre di madre certa, ma ho diversi padri che a volte mi usano come arma contundente contro qualche avversario e brandiscono il bicchiere come un giavellotto.
    E tutti parlano o scrivono su di me cose bellissime o umilianti e mai una volta che si trovino d’accordo.
    Meno male che ancora qualche coppia dagli occhi stellati mi utilizza al posto di tante parole, meno male che ancora ci sono occasioni in cui amici si sentono più vicini grazie a me, però non riesco a non sentirmi a disagio.
    Per questo mi sono forzato a parlare, non è nella mia natura e non si ripeterà. Preferisco tornare ad essere il silente compagno di sempre, figlio di Madre Vite e Padre Uomo”.
    (Nelle Nuvole, dal web)


    Anima mia, alla tua zolla detti da bere ogni saggezza,
    tutti i vini nuovi e anche tutti i forti vini della saggezza,
    vecchi di immemorabile vecchiezza.
    Anima mia, io ti innaffiai con ogni sole e notte e silenzio e anelito:
    - e così tu crescesti per me come una vite.
    Anima mia, ora sei traboccante di ricchezza e greve,
    una vite dalle gonfie mammelle e dai grappoli densi, bruni come l’oro: -
    - densa e compressa di felicità, in attesa per la tua sovrabbondanza,
    e vergognosa perfino del tuo aspettare.
    (Friedrich Nietzsche)




    .
     
    Top
    .
  2. arca1959
     
    .

    User deleted


    grazie Gabry
     
    Top
    .
  3. gheagabry
     
    .

    User deleted



    Il vino dei faraoni: per gli antichi egizi era una medicina






    Un vino da far risvegliare le mummie. Persino il più quotato Barolo d`annata impallidirebbe di fronte al rosso più vecchio del mondo: data, a occhio e croce, 3150 avanti Cristo.

    La scoperta si deve a un team di archeologi, archeochimici per la precisione, che ha scoperto le preziose gocce nella tomba del leggendario faraone Scorpione I. Un viatico per l`aldilà? Forse qualcosa di più, a leggere quanto è stato pubblicato su Pnas, la rivista dell`Accademia nazionale delle scienze degli Usa.

    La conferma è che gli antichi egizi sapevano curarsi col vino, le cui proprietà erano utilizzate nella farmacopea tradizionale. La sorpresa è che le precedenti datazioni vanno anticipate di qualche secolo: contenuto nelle suppellettili dell`arredo funebre del faraone, infatti, era custodito il frutto di una vendemmia di 5000 anni fa.

    {google left} A cosa serviva il vino conservato al fresco di una piramide? Il nettare dei faraoni era lasciato in dote al morto come medicina per l`oltretomba. Gli esperti dell`Università della Pennsylvania guidati da Patrick McGovern hanno infatti appurato che all`interno del liquido erano presenti residui chimici di erbe, resine e altre sostanze naturali. I primi sciroppi contro infiammazioni e febbri si facevano, quindi, con miscele di additivi naturali e bevande alcoliche come vino e birra. La spiegazione è scientifica: i medici dell`antico egitto avevano compreso che l`alcol è in grado di rompere e disciogliere le molecole degli alcaloidi vegetali meglio dell`acqua. Intuizioni enologiche che erano già nero su bianco: in diversi papiri, in colonne di geroglifici, si tramandava l`uso di questi preparati naturali per il trattamento di diversi disturbi.

    La coltivazione della vite arrivò sulle sponde del Nilo dal Giordano e già a partire dalle prime dinastie dei faraoni egizi furono utilizzati come farmaci, diventati poi base per l`uso medicinale nel mondo greco-romano. Ma il lavoro degli archeologi non è finito qui. Tramite analisi biomelocolari e prendendo spunto dalle "ricette" dei medici egizi hanno recuperato mortai, erbe da pestare e ampolle di succo di vite. Sono convinti che la farmacia delle piramidi contenga ancora molti segreti: il vino dei faraoni non farà resuscitare i morti, ma potrebbe rinfrancare lo "spirito" e il corpo dei vivi.


    dal web
     
    Top
    .
  4.  
    .
    Avatar

    Senior Member

    Group
    moderatori
    Posts
    43,236

    Status
    Offline
    grazie Gabry
     
    Top
    .
  5. gheagabry
     
    .

    User deleted




    .

    bicchiere-di-vino



    "È inutile - mi perseguita struggente
    La dolcezza di quel viso.
    Lo sfavillio del suo sguardo splendente -
    E quel seno, terrestre paradiso..." Qui c'è un amore martellante, che non può essere strappato dall'anima...buona poesia! by Silvana La Porta


    VOGLIO UNA COPPA PIENA SINO ALL'ORLO



    Voglio una coppa piena sino all'orlo

    E dentro annegarci l'anima:

    Riempitela d'una droga capace

    Di bandire la Donna dalla mente.

    E non voglio dell'acqua poetica, che scaldi

    I sensi al desiderio lussurioso,

    Ma una sorsata profonda

    Tracannata dalle onde del Lete,

    Per liberare con un incanto il mio

    Petto disperato dall'immagine

    Più bella che gli occhi miei festanti

    Videro, intossicandone la mente.

    È inutile - mi perseguita struggente

    La dolcezza di quel viso.

    Lo sfavillio del suo sguardo splendente -

    E quel seno, terrestre paradiso.

    Mai più felice sarà la vista mia,

    Ché ha perso il visibile ogni sapore:

    Perduto è il piacere della poesia,

    L'ammirazione per il classico nitore.

    Sapesse lei come batte il mio cuore,

    Con un sorriso ne lenirebbe la pena,

    E sollevato ne sentirei la dolcezza,

    La gioia, mescolata col dolore.

    Come un toscano perduto in Lapponia,

    Tra le nevi, pensa al suo dolce Arno,

    Così sarà lei per me in eterno

    L'aura della mia memoria.



    John Keats



    .
     
    Top
    .
  6. arca1959
     
    .

    User deleted


    grazie Gabry
     
    Top
    .
  7.  
    .
    Avatar


    Group
    moderatori
    Posts
    19,944
    Location
    Zagreb(Cro) Altamura(It)

    Status
    Offline
    grazie gabry
     
    Top
    .
  8. gheagabry
     
    .

    User deleted


    "Prosit" era l’esclamazione pronunciata dai Romani nell’atto di alzare le coppe prima del brindisi,
    formula augurale e amicale al contempo.




    L’IDROMELE

    E’ probabilmente la bevanda idroalcolica più antica della cultura mediterranea e nord Europa. In Omero è conosciuta con il nome di ambrosia, bevanda simbolo del simposio degli dei radunati sull’Olimpo, immagine questa che denuncia la preziosità del prodotto stesso.

    Plinio localizzava il centro principale di produzione nella Frigia, regione costiera occidentale dell’attuale Turchia, paragonando l’idromele al vino per composizione alcolica e per gusto. Il termine deriva dalla crasi di Hydor e méli, vocaboli greci equivalenti ad acqua e miele. Il termine quindi porta già in sé il riferimento al processo lavorativo necessario per la produzione della bevanda, ovvero la fermentazione del miele mescolato ad acqua. Si trattava probabilmente di una bevanda di ampia diffusione nella civiltà indoeuropea.
    Non a caso il legame necessario istituito con l’ape, animale sacro in molte culture nordiche, nonché l’associazione del miele al latte in tutta la letteratura geografica greca, che faceva di questo abbinamento la dieta tipica degli Sciti e delle popolazioni nord europee, indicando che l’idromele doveva costituire una sorta di bevanda nazionale per un intero emisfero geografico e culturale.

    IL VINO



    La vite è una pianta rampicante della famiglia delle vitacee del genere vitis vinifera che cresceva spontanea in Europa già nel Pliocene, come dimostrano alcuni ritrovamenti archeologici datati al 300.000 a.C.
    La scoperta di alcuni semi di vite coltivata risalenti all’anno 8.000 a.C. in Georgia e una giara contenente del vino a Firuz Tepe, in Iran, databile 7.000 anni fa, testimoniano l’antichità di questa bevanda ottenuta dal succo d’uva fermentato.
    Dal Caucasi la vite si diffuse in Persia, poi passò alla Siria e alla Mesopotamia, giunse successivamente in Egitto e attraverso Creta arrivò in Grecia.
    Le prime attestazioni documentate dall’attività vitivinicola appartengono alla civiltà egiziana e giungono a noi attraverso un affresco tombale conservato a Luxor, che riproduce in dettaglio ogni fase del processo produttivo, dalla vendemmia alla vinificazione, mostrando anche la fase della commercializzazione attraverso apposite anfore.
    Le prime testimonianze scritte sono, invece, rintracciabili nella Genesi quando Noè, terminato il diluvio, approda a terra, pianta la vite e si ubriaca con il suo vino.
    Nella Bibbia il vino è citato ben 450 volte e compare nel Codice di Hammurabi, il primo codice scritto della storia, che prevede pene severissime per l’adulterazione dei vini.

    La trasformazione nel gusto e soprattutto i piacevoli effetti nel corpo e nello spirito ne fanno una bevanda molto particolare; le conseguenze inebrianti dell’alcol connotano il vino con un’aura mistica, magica, religiosa fino al punto di associare a questa bevanda un dio. Si tratta di Dionisio, figlio di Giove e della principessa Semele.
    Il vino diventa così il tramite tra il mondo terreno e l’aldilà, il nettare capace di mettere in contatto con il soprannaturale; l’unica bevanda la cui assunzione rende simili agli dei, offrendo così l’illusione dell’eternità.
    I vini della Grecia antica, secondo quanto ci testimonia Esiodo, erano dolci e di elevato tenore alcolico e mai bevuti assoluti ma sempre diluiti
    Venivano spesso aromatizzati con vari ingredienti, tra questi l’acqua di mare, la resina, il miele e varie spezie, tutti additivi utili e necessari per mitigare la precoce acetificazione alla quale il vino era facile preda.
    Tra le bevande rituali a base di vino invece si può menzionare il Ciceone (dal greco Kykeon) associato ai misteri elusini, riti iniziatici collegati al centro di Eleusi, in Attica, a pochi kilometri da Atene, collegati al culto di Demetra e Persefone, divinità afferenti alla sfera agricola, bevanda i cui ingredienti comprendevano un vino robusto come base orzo, miele, formaggio, menta e segale cornuta (alla quale si venivano associati potenziali effetti allucinogeni).
    Nell’Odissea, il Ciceone è anche la pozione magica offerta dalla maga Circe, come dono di ospitalità, ai compagni di Ulisse che vengono trasformati in porci.



    IL VINO NELL’ANTICA ROMA

    Fulcro della produzione e del mercato enoico nell’area di influenza romana era senz’altro l’italia, che con il suo territorio costituiva la principale produttrice di vino dell’Impero, almeno fino alla crisi del III sec. a.C.
    Plinio lo sottolinea esplicitamente: “da dove potremmo iniziare se non dalle viti, per le quali la supremazia dell’Italia è incontestabile,tanto che solo con le sue vigne sembra aver vinto tutte le altre genti, persino quelle che producono profumi; e d’altronde cosa si può preferire alla vista di una vigna fiorita?”
    Il territorio italiano concentrava sia la produzione dei vini più prestigiosi, prodotti per lo più nell’area attorno a Pompei, vero centro d’eccellenza per il mercato del vino dell’epoca, sia il primato per la quantità di vino prodotto.
    Sempre Plinio ci informa, infatti, che degli 80 vini più richiesti della sua epoca, i 2/3 erano prodotti in Italia; di questi i più costosi e rari erano il Cecubo e il Falerno, come conferma Petronio, che nel corso del sontuoso Satyricon (cap 34) fa giungere sulla tavola il famoso Falerno Opimiano, ovvero il vino ottenuto con la vendemmia effettuata sotto il consolato di Opimio (121 a.C.), e quindi vecchio di ben 200 anni.
    E che quell’annata fosse stata veramente eccezionale , ce lo ricorda di nuova Plinio, che paragona quei vini conservati per più di 2 secoli ad una specie di miele amaro da poter bere solo tagliato con vini più giovani.

    L’importanza della viticoltura per la struttura sociale ed economica romana trovava riflesso in una scienza enologica complessa e strutturata. In primo luogo l’opera letteraria di carattere scientifico georgico divenne un vero e proprio genere, come attestano i lavori di Catone, Varrone, Columella ; genere alimentato da numerosi autori, a noi pervenuti solo in minima parte.
    L’insieme di queste testimonianze riportano l’immagine di un quadro ampelografico ricchissimo. Plinio parla di ben 185 qualità di vitigni conosciuti; una produzione distinta per aree geografiche, e di conseguenza un panorama vitivinicolo complesso, di proporzioni internazionali.
    Nei georgici romani a noi noti è dato cogliere una serie di riferimenti a cognizioni di tipo enologico tutt’altro che banali o rudimentali.
    Catone, ad esempio, descrive le particolari cure da riservare alla vigna di questo tipo.
    Plinio distingue chiaramente le qualità visive, olfattive e gustative di un vino, e sottolinea che “i vini dolci sono meno profumanti, mentre più il vino è leggero più ha profumo”.
    Raffinatezze queste che trovavano riscontro in pratiche enologiche consolidate nei secoli e tramandate ai Romani dai Greci e dai popoli orientali.

    Il vino romano, come quello antico in generale, era un vino trattato, quasi conciato, perché l’assenza delle moderne tecniche di cantina, rese possibili da uno sviluppo tecnologico proprio della civiltà moderna, rendeva quella bevanda estremamente instabile, facile preda dell’acetificazione e di altri processi deteriorativi.
    Che la conservazione del vino fosse il nodo principale dell’enologia antica ce lo confermano, ancora una volta, le parole di Plinio: “E’ necessario parlare dei procedimenti da utilizzare con il vino, dato che i Greci stabilirono delle tecniche precipue a questo riguardo e ne fecero un’arte, come Eufronio, Aristomaco, Commiade e Icesio. In Africa si attenua l’acidità con il gesso e in altre parti con la calce. In Grecia si arricchisce un vino poco acido con argilla, marmo, sale o acqua di mare; in Italia invece con pece crapulana, oppure si è soliti conciare il vino con resina o mosto nelle province confinanti. …..E certo il mosto è utilizzato come additivo correttivo: viene cotto per dolcificare un vino, in proporzione al suo corpo, anche se con un tale procedimento non dura più di un anno…”
    E’ evidente che esisteva una complessa scienza enologica finalizzata alla conservazione del vino, con scuole regionali e usi tradizionali.
    Si trattava di pratiche volte alla conservazione del prodotto per massimizzare il profitto dell’azienda agricola, e che indubbiamente attribuiva al prodotto stesso un profilo gustativo del tutto peculiare e probabilmente molto lontano dallo stile di un vino moderno.
    Si può infatti immaginare quali caratteristiche olfattive e organolettiche potessero evere i vini trattati con la pix corticata, come attestato da Columella, quelli conservati nei doli impeciati e addizionati di resine, come testimoniato da Catone e da Plinio, o ancora quelli addizionati di sale o acqua marina, tratto questo tipico dei vini greci. Non a caso, con vinum graecum si era soliti definire in ambiente romano un vino trattato con acqua di mare come attestato da Plinio e Columella.
    La discrasia che separa il vino antico da quello moderno, non è rinvenibile solo nelle pratiche di cantina sopra riportate.
    Si tratta, come sottolineato, di tecniche tutt’altro che ingenue, che affondavano la loro validità nei secoli di pratica e di tradizione.

    Per quanto concerne i vini dolci il più diffuso era il passum, come testimoniano concordemente Plinio e Columella, prodotto introducendo uva appassita al sole nel vino base, con il quale rimaneva a contatto affinché rilasciasse il suo contenuto zuccherino, tecnica ancora oggi usata a Pantelleria per produrre lo Zibibbo.
    Appare opportuno ricordare che la spumantizzazione non è prerogativa dell’età moderna e contemporanea, ma era pratica già diffusa a Roma. Qui i vini frizzanti, ottenuti con una rifermentazione in bottiglia, erano definiti bullulae.
    A Pompei è stata rinvenuta una cella vinaria realizzata con anfore della capacità di 200-300 litri, inserite in un cunicolo di terracotta nel quale si faceva circolare continuamente acqua fredda. Ciò costituisce la testimonianza tangibile di una delle prime cantine termo condizionate della storia, luoghi ideali per la produzione dei vini con la spuma.
    Questi vini potevano essere ottenuti anche dal “protropum”, cioè dal mosto fiore, prima della pigiatura.
    Fra le varie testimonianze relative alle bullulae, si può ricordare Virgilio (“….e Cesare si presentò con una coppad’oro colma e senza indugiare un istante vuotò il calice spumeggiante; poi bevvero gli altri notabili…”), Properzio(“…la tua mensa sia bagnata più abbondantemente e spumeggi più dolcemente col Falerno versato in un calice d’oro…”) e Lucano, il quale sembra accennare ad un Falerno spumantizzato con la rifermentazione ottenuta mediante l’aggiunta di mosto di uve appassite di una varietà denominata Meroe, originaria dell’Etiopia.
    Anche Plinio affermava che nel suo calice “..c’è un vino che è veramente eccellente, l’aigleucos, naturalmente dolce con effervescenti presenze”.
    I vini spumanti erano infatti denominati “aigleucos” e “acinatici”.
    I primi erano prodotti partendo dal mosto edulcorato con miele e propoli, la cui fermentazione, fondamentale per la presa di spuma, era impedita o ritardata immergendo le anfore in acqua fredda.
    Gli autori romani usavano termini vari per definire questo genere di vini, definizioni che faceva sempre riferimento alla caratteristica tattile della spuma, come “spumans”, “spumescens”, “saliens” e “titillans”.

    Per quanto concerne il servizio dei vini, sommelier ante litteram, nel mondo romano erano gli haustores(dal verbo haurio ovvero bere, gustare, assaporare).
    Si trattava di veri e propri assaggiatori, che classificavano con appropriata terminologia i vini, distinguendoli per colore (album, il bianco, purpureum il rosso, e halveolum il rosato), per corpo e struttura (fugiens per poco alcolico, asper per acido, generosum et pingue per generoso e ricco, validum et firmum per facile).
    Il loro servizio veniva prestato nel corso del convivio, diretto e orchestrato dal magister bibendi, ovvero il re del banchetto, il simposiarca per i greci, al quale tra l’altro spettava la responsabilità delle proporzioni con le quali mescolare il vino nell’acqua (solitamente da 2 a 5 parti di acqua per 1 di vino).
    Sempre al magister bibendi, spettava stabilire il numero delle coppe da bere. Il brindisi era un uso consolidato e veniva praticato per auspicare o celebrare prodezze amatorie, successi militari, la salute di uno degli astanti o degli assenti. Nel brindisi alla donna amata era in uso vuotare tante coppe, una dietro l’altra, quante erano le letter che componevano il suo nome.
    Marziale fa riferimento a questa convinzione quando ricorda con amarezza: “Sette calici a Giustina, a Levina se ne bevi, cinque a Licia, a Ida tre. Col Falerno che versai numerai ogni amica, vien nessuna; dunque, o sonno, vieni a me”.

    Per quanto riguarda l’abbinamento del vino al cibo, in diretta continuità con il mondo greco, i romani usavano criteri completamente opposti a quelli seguiti dall’uso moderno.
    In primo luogo, come per i Greci era il simposio il luogo e l’occasione adatta al consumo di vino, così per i Romani lo era il convivio.
    Questi si ripartiva in 3 fasi: gustatio, ovvero l’antipasto, in occasione del quale erano serviti uova, olive, pane, ecc; coena o primae mensae, ovvero il momento riservato alle carni; ed infine le secundae mensae, caratterizzate da frutta e dolci.

    In ogni caso, a differenza dei nostri palati, il dolce e il salato si confondevano vicendevolmente in tutti i momenti del convivio, dando luogo ad abbinamenti assurdi per il consumatore moderno.
    Si pensi all’immagine della gustatio, nel convivio di Trimalcione, descritto da Petronio nel Satyricon, dove vengono serviti indifferentemente piatti dolci e salati, pietanze a base di carne accanto a frutta e miele, tutti accompagnati da muslum, il vino mielato.
    Evidentemente i trattamenti correttivi a cui il vino era sistematicamente sottoposto, dovevano renderlo particolarmente adatto ad abbinamenti che oggi definiremo di tipo agrodolce, che è poi una costante della culinaria antica, medievale, e premoderna in generale.




    IL VINO NEL MEDIOEVO

    Con la secolarizzazione del cristianesimo il vino, divenuto ormai elemento essenziale della liturgia eucaristica, acquistò nuova funzione sociale culturale. Dal momento che, quella stessa liturgia, almeno fino al XV secolo, prevedeva che tutti i fedeli bevessero il vino consacrato, era precipua esigenza delle istituzioni ecclesiastiche provvedere al suo approvvigionamento.
    Furono soprattutto i monaci a curare e a diffondere la coltivazione della vite e la successiva preparazione della bevanda.
    La produzione vitivinicola passò così dalle aziende romane agli ordini monastici, le uniche istituzioni capaci di tramandare le tradizioni vitivinicole antiche e di adibire a vigna il territorio di propria pertinenza
    In questo si distinsero i Benedettini e i Cistercensi.

    A partire dall’alto Medioevo comunque si registrarono 2 grandi mutamenti nei processi produttivi: l’uso della botte in legno, di origine celtica, molto più adatta al trasporto e capace di produrre effetti positivi sull’invecchiamento e la conservazione; e la collocazione delle cantine dal sottotetto, come in uso nelle aziende agricole romane, alle cantine ipogee, luoghi che consentivano la corretta protezione dalla luce e dagli sbalzi di temperature (ancora oggi sono le cantine ipogee ad essere ritenute le più adatte alla conservazione del vino).
    Bisogna tuttavia ricordare che, con il crollo dell’Impero Romano e con i conseguenti mutamenti socio-politici, la vitivinicoltura subì una drastica riduzione.
    Una vera e propria rinascita enologica la si può osservare solo tra il 650 e l’850 a.C., e in particolare con il regno di Carlo Magno, il quale incoraggiò la vitivinicoltura e la produzione di vino emanando apposite leggi.
    Tra queste si può ricordare quella che concedeva ai viticoltori la possibilità di poter vendere vino al dettaglio collocando una frasca, quale insegna, sopra l’ingresso della cantina domestica, modalità in uso fino al secolo scorso nelle campagne romane, dove si era soliti allestire una “fraschetta”, ovvero una decorazione di rami d’alloro sopra il locale adibito a vendita e mescita del vino nuovo.

    Per quanto concerne il gusto, vini nobili e raffinati erano ritenuti i bianchi, probabilmente perché la “vinificazione in bianco” implicava un processo produttivo più attento, frutto di un’accurata selezione della materia prima.
    Il vino rosso manteneva invece un valore simbolico, in quanto l’unico utilizzabile nel corso della liturgia ecclesiastica.
    Numerose erano inoltre le qualità: il vino puro, detto anche vino fiore, ricavato dalla fermentazione del mosto, era il più pregiato, appannaggio delle classi aristocratiche e prodotto sia in rosso che in bianco. Sottoponendo poi ad ulteriori spremiture le vinacce (buccia, vinaccioli cioè semi, e raspi) si potevano ottenere vinelli, mezzi vinelli e acquatici.
    Questi ultimi, che prevedevano l’aggiunta di acqua alle vinacce spremute ripetutamente, erano consumati principalmente dai ceti popolari.
    Il vino in questa epoca viveva delle 2 nature di alimento e farmaco.
    Oltre all’utilizzo alimentare infatti era previsto l’uso a scopi farmacologici, come antibiotico e antipiretico.
    Da quando si apprende dalla trattatistica agronomica tardo medievale infatti erano i vini giovani e di sapore dolce a godere dei favori del pubblico. La dolcezza, in particolare, era ottenuta non solo con la scelta dei vitigni, ma anche con l’utilizzo di elaborate ricette o di particolari accorgimenti nella vinificazione.
    Per questo, i moscatelli, come pure le vernacce e i trebbiani, riscuotevano generale consenso e apprezzamento. La loro produzione, largamente diffusa, investiva ambiti territoriali diversi, con esiti certo non omogenei sul piano qualitativo.
    Posizioni di vertice nella gerarchia del gradimento erano i vini greci del Mezzogiorno, esportati in notevole quantità verso le regioni centro-settentrionali della penisola.

    La robusta gradazione alcolica, la conseguente maggiore durevolezza, la dolcezza, costituivano altrettante caratteristiche che i vini greci nostrani avevano in comune con la Malvasìa, esportata verso l’Italia da Creta, dalle isole dell’Egeo e da altre contrade del Mediterraneo orientale, nel corso della lunga dominazione mediterranea di Venezia.
    Lo stesso termine Malvasìa porta le tracce della sua origine geografica, trattandosi di una deformazione linguistica di Monembasìa, città con porto a “unica entrata” nel Peloponneso. I Veneziani nel XIII secolo stabilirono un accordo commerciale con la popolazione del luogo, garantendosi l’esclusiva della commercializzazione dei vini prodotti nell’area. L’attuale Malvasìa, erede di quella medievale, appartiene ad una grande famiglia ampelografia, con almeno 17 varietà descritte dalla presenza al suo interno di varianti molto diverse fra loro: da quella a bacca bianca a quella a bacca rossa, dalle aromatiche alle non aromatiche.

    Diversa invece l’origine della Vernaccia, altro famoso vitigno medievale
    Si tratta senz’altro di un vitigno autoctono, coltivato in tutta l’Italia centrale, sebbene il vino al quale si riferiscono i versi danteschi possa non essere quello attuale.
    Riferendosi a Papa Martino V (1281-1285) e alla sua smisurata golosità, Dante sembra ricordare la tradizione che voleva questo Papa ghiotto delle famose anguille di Bolsena annegate nella Vernaccia.
    Probabilmente però la vulgata si riferiva ad un vino ottenuto con il Canaiolo Nero, vitigno che si usava lasciar appassire per alcuni mesi prima della pigiatura, per poi ricavarne un vino dolce di pregio. La Vernaccia dantesca quindi potrebbe essere identificata con l’attuale Cannaiola di Marta, vino che prende il nome dallo splendido borgo affacciato sul lago di Bolsena e che si caratterizza per un colore rubino, un aroma vinoso e fruttato, un gusto leggermente amabile, di facile abbinamento con la pasticceria secca e con le anguille del luogo cotte alla brace.
    In ogni caso il vitigno Vernaccia, dal quale si ricava l’attuale omonimo vino, è attestato a San Gimignano sin dal 1276, in documenti dai quali si evince la sua destinazione preferenziale per le mense aristocratiche e, a differenza della Malvasìa, ne viene riconosciuta unanimemente l’autoctonia, forse celata anche nel nome, se coglie il vero l’etimo che vuole rintracciare le origini del termine in vernaculum, parola latina tardo medievale traducibile con “locale”.






    dal web, brunelli.it

    Edited by gheagabry - 8/11/2011, 18:40
     
    Top
    .
  9. gheagabry
     
    .

    User deleted


    Quando il vino ha il sapore della storia



    Più volte ho affermato: “La storia non si imbottiglia”, per significare che la storicità di un vino non è un merito. Ovvero se citiamo il Falerno perché era eccellente all’epoca dei Romani, o il Barolo che era ottimo quando lo faceva Odart, non possiamo trasferire quel merito di qualità in un vino prodotto oggigiorno. Ma ci sono casi in cui con la storia si può fare il vino, quando cioè si usano viti che hanno decenni, e a volte secoli di vita. Uno dei casi più eclatanti al mondo è quello di Versoaln. Si tratta di un vino, in produzione limitatissima, ottenuta da un’unica singola vite (di una varietà – al momento sconosciuta – denominata appunto Versoaln – e oggetto di studi ampelografici) coltivata a Castel Katzenzungen (Castello “lingua di gatto”) di Prissiano, piccolo villaggio tra Bolzano e Merano. Da recenti studi sembra che la vite abbia circa 350 anni di vita e quindi dovrebbe essere
    la più antica vite conosciuta al mondo, nonché la più grande in quanto ha un’estensione dell’apparato foliare di circa 350 metri quadrati. Le uve di questa vite sono vinificate dall’Istituto provinciale di Laimburg.
    Tuttavia non è vero che Versoaln sia la vite più vecchia che si conosca, ve ne è un’altra che ha almeno 410 anni documentati ed è sul Palazzo Feichter (contiguo a Maso Lowengang di Lageder) a Magrè sulla Strada del vino. La targa posta accanto alla vite dice:

    Nell’ottobre dell’anno del signore 1601 venne messo a dimora questo tralcio di vite dall’antico ceppo di vite Feitcher di proprietà di Clement Feichter tramite il fittavolo Dominig di Valentini originario della Val di Sole.

    Pare che non sia mai stato vinicato il vino dalle uve di questa vite.
    (Francesco Arrigoni)



    .

    Nunc est bibendum
    Ora bisogna bere
    (Orazio)


    COSA BEVEVANO GLI ANTICHI....


    CHICHA.. è una bevanda dai derivati del mais, preparato in diversi paesi sudamericani.
    Scoperte dimostrano che il Chicha è stato consumato per migliaia di anni, dai tempi degli Inca, ma al giorno d’oggi la sua popolarità era diminuita notevolmente e solo in pochi villaggi: Perù, Bolivia, Colombia, Ecuador e Costa Rica il chicha viene ancora preparato.

    KYKEON o CICEONE..A metà strada tra cibo e bevanda, era una sorta di polentina molto fluida fatta di farina d’orzo, semi di lino e coriandolo, vino rosso forte, formaggio grattugiato, profumata con foglioline di menta e di timo. Il termine “ciceone” è collegato all’atto di mescolare, per evitare il formarsi di un deposito prima di assumere la bevanda. Mescolare era importante e costituiva un gesto ritualizzato. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che i funghi o la segale cornuta utilizzata per la preparazione possedessero proprità allucinogene.


    MUSLUM..Tra le preparazioni a base di vino riveste particolare importanza il muslum. E’ il tipico mielato romano, bevuto durante la gustatio nel convivio e menzionato da numerose fonti letterarie, che lo inseriscono solitamente in contesti conviviali. Tuttavia il muslum fa parte della grande famiglia dei vini medicinale antichi, tutti caratterizzati, come abbiamo già osservato, dalla dolcezza e dal pregio. Plinio ricorda che i vini medicinali si differenziavano a seconda delle patologie, e la loro diffusione aveva dato luogo ad una vera letteratura sul tema, come testimonia il 5° libro del “De Materia Medica” di Dioscoride e l’11° libro delle Geoponiche. Anche il muslum era concepito come bevanda corroborante, dalle qualità terapeutiche: Apicio infatti fornisce la ricetta di un “conditum melizomum viatorium” ovvero vino mielato con aggiunta di pere, mentre nel Satyricon Petronio ne attesta un uso medico, finalizzato alla prevenzione delle malattie conseguenti alla stagione invernale. In ogni caso si trattava di una bevanda molto diffusa, tanto che Plinio consigliava l’uso dei vini di Apamea o l’italico Prepuziano per la sua preparazione, e per la quale l’origine era tradizionalmente legata alla sfera del mito, con Aristeo come suo “primo inventore” (secondo Plinio e Columella) fornisce una sua ricetta per il muslum, dove raccomanda dove raccomanda di esporre il contenitore al fumo. Evidentemente per questa bevanda dovevano esistere un’infinità di varianti e di tradizioni, a testimonianza della sua larga diffusione nel corso dei secoli.

    POSCA..Bevanda perfettamente popolare, era ottenuta da una preparazione a base di mosto, o di vino, soggetta ad acetificazione e successivamente diluita in acqua. Una bevanda consumata soprattutto dalle classi povere, e in particolare dagli schiavi e dai soldati. Sempre agli schiavi infatti era assegnata, secondo Catone la lora, vino ottenuto con il lavaggio delle bucce appena torchiate. Come spesso accadeva nell’antichità, questo tipo di bevande sostituiva l’acqua, di non facile reperibilità e comunque conservata in condizioni igieniche non appropriate. L’aggiunta di aceto infatti faceva della posca, una bevanda dalle proprietà settiche e tonificanti.

    VINI AROMATIZZATI..Numerose testimonianze ci tramandano l’uso antico di colorare i vini con zafferano o bacche di sambuco, di dolcificarlo con miele, vincotto, fichi o datteri, e di aromatizzarlo con spezie, fiori e resine. Apicio, il famoso cuoco della Roma Imperiale di cui si parlerà in seguito prevedeva una miscela a base di vino naturale leggero, pepe, mastice di lentisco, zafferano, datteri e miele..Nel III secolo d.C. gli imperatori Eliogabalo e Gordiano preferivano il “vinum piperatum”, ottenuto dalla bollitura di 3 litri e ½ di vino con 5 Kg. di miele, addizionati successivamente con 10 gr. di pepe macinato, 2 gr. di zafferano e 2 resina di lentisco. Fra i vari additivi, le resine arboree (terebinto, pino, cedro, mirra) furono le più antiche e le più diffuse, capaci di infondere particolari sapori e di combattere l’ossidazione e l’acetificazione precoce del vino.

    ROSATUM e VIOLACIUM..Si tratta di due bevande per le quali l’unica attestazione è quella di Apicio. La sua ricetta prevede una lunga permanenza nel vino di petali di rose o di viole, avvolti in sacchetti di lino e sostituiti con cadenza settimanale. Alla fine del lungo processo di aromatizzazione, il vino doveva essere addizionato con miele, dando luogo ad una bevanda fine e dall’intenso profumo.


    ABSENTHIUM...Plinio ricorda che esistevano 2 procedimenti per produrre questa bevanda. Il 1° prevedeva la bollitura del mosto con assenzio, fino a una riduzione di 1/3 della quantità di liquido iniziale, il 2° la semplice aggiunta di mazzetti di assenzio al vino. Questo tipo di vino, a cui l’assenzio apporta un tipico sapore amaricante, era molto di moda e veniva servito con funzioni di aperitivo, come testimonia lo stesso termine latino absenthium, con il quale si era soliti indicare anche una particolare varietà di artemisia (Artemisia absinthum). Apicio tramanda una ricetta per questa bevanda, ma la sua tradizione prevede l’aggiunta, assieme all’assenzio, anche di terebinto, datteri, zafferano e altre spezie. Un nobile epigono di questa particolare bevanda è il Vermouth, prodotto grazie all’infusione in alcol di artemisia a altre radici.

    VINO RESINATO..Molto diffusi, si ottenevano attraverso l’aggiunta di particolari resine, come quella di terebinto, albero tipico della macchia mediterranea il cui uso è testimoniato fin dal Neolitico, o di pino. Ancora oggi in Grecia, unico luogo del mondo, si producono vini aromatizzati con resine arboree, e fra questi il più noto è senz’altro il Retsina , aromatizzato con resina di Pino di Aleppo. Sicuramente il più ricercato ed esclusivo era il vinum mirratum, ovvero vino addizionato di mirra, la preziosa resina di origine arabica, costosissima e importata a Roma per i consumi di lusso.


    VINO IPPOCRATICUM o IPPOCRASSO.. Il nome già lo definisce come vino medievale per eccellenza, in quanto Ippocrate, il famoso medico greco del V secolo d.C., era ritenuto il fondatore della scienza medica antica. Per questo l’invenzione di tale vino viene spesso attribuita allo stesso medico greco, che suggeriva di macerare nel vino greco, forte e ricco di zuccheri, i fiori del dittamo e dell’artemisia. Si otteneva in questo modo una bevanda digestiva e stimolante, che nel corso di tutto il Medioevo venne indicata con il termine “vinum hippocraticum” o “ippocrasso”. E’ assai probabile però che questa bevanda abbia origini romane, e che contemplasse l’aggiunta di timo, rosmarino, e mirto, aromi molto cari alla cucina romana. Un possibile riferimento a questa bevanda è presente in Plinio, quando ricorda i vini stomachici, ovvero favorevoli all’attività dello stomaco. Durante il Medioevo la preparazione del “vino ippocratico” fu notevolmente influenzata dal mercato delle spezie gestito dai Veneziani nel Mediterraneo. Nacquero così vini aromatizzati al cardamomo, alla cannella, ai chiodi di garofano, all’artemisia, alla mirra e al rabarbaro.
    In ogni caso la prima attenzione mEdievale è rinvenibile nel “Le viander”, il trattato di Guillame Tirel, detto Taillevent, cuoco di corte di Filippo VI e Carlo VI di Francia, scritto nel 1381. Tirel fa riferimento ad un vino rosso aromatizzato con chiodi di garofano, cardamomo, zenzero, galanga (una pianta erbacea della stessa famiglia dello zenzero), cannella, miele, zucchero di canna e vino rosso, con un’infusione delle spezie nel vino protratta per giorni. Una variante più popolare escludeva, per ovvie ragioni di prezzo, le costosissime spezie, e prendeva il nome di Hypocras (dal greco hypos, “sotto”, e crasis “miscuglio”), deformazione volgarizzata di Hyppocraticum.


    .

    Edited by gheagabry - 13/11/2011, 10:54
     
    Top
    .
  10. gheagabry
     
    .

    User deleted


    da lussy

    Storia del Vino


    jpg

    La parola vino è antichissima e gli etimologi discutono se farla derivare da una radice del sanscrito “venas” (piacevole) da cui Venus (Venere), oppure dall’antico ebraico “iin” che attraverso il greco “oinos”, sarebbe arrivata ai latini. Altri invece sostengono che da una radice sanscrita “vi” (attorcigliarsi) verrebbe fuori la parola vino, cioè il frutto della pianta che si attorciglia.
    Già seimila anni fa, i Sumeri simboleggiavano con una foglia di vite l’esistenza umana e, sui bassorilievi assiri con scene di banchetto, sono rappresentati schiavi che attingono il vino da grandi crateri e lo servono ai commensali in coppe ricolme.
    Anche gli Ebrei dell’Antico Testamento, che attribuivano a Noè la piantagione della prima vigna, consideravano la vite “ uno dei beni più preziosi dell’uomo” (I Re) ed esaltavano il vino che “rallegra il cuore del mortale” (Salmi).
    La pratica della viticoltura vanta origini antichissime, come è testimoniato da non pochi documenti figurati; fra i tanti è degna di nota la pittura di una tomba tebana della XVII dinastia (15552-1306 a.C.), dove sono rappresentati due contadini che colgono grappoli d’uva da una pergola, circostanza interessante da cui si deduce che in Egitto, gia nel II millennio a.C. era diffuso il sistema di coltivazione ‘a pergola’. Altri quattro lavoranti procedono alla pigiatura delle uve in un grande tino ed un loro compagno, chino sotto le cannelle, raccoglie nei recipienti il mosto appena spremuto. In alto si nota una ordinata fila di anfore nelle quali, una volta completata la fermentazione, veniva risposto il vino. Chi faceva vino apponeva anche un sigillo con l'anno della vendemmia; prima prova di una rudimentale pratica di invecchiamento.
    Con l'emergere di altre civiltà, la viticoltura e la vinificazione si affermarono più a nord, lungo le coste del Mediterraneo. Creta e Micene dominarono il mondo culturale ed entrambe erano civiltà commercianti che riconobbero il grande valore del vino.
    L’esistenza di Ciro, il grande condottiero persiano, venne segnata dal vino, che identificò uno dei tesori per i quali i suoi uomini si convinsero ad invadere la Media ricca di campi e vigneti.
    Attraverso i Greci e i Fenici il vino entrò nella civiltà occidentale. Nel mondo greco il vino era ritenuto un dono degli dei e tutti i miti sono concordi nell’attribuire a Dionisio, dio del vino, il più giovane figlio immortale di Zeus, l’introduzione della coltura della vite tra gli uomini.
    I temi connessi al vino sono i protagonisti assoluti della pittura vascolare greca, ed in particolare ebbero grande diffusione le raffigurazioni di Dioniso seguito di satiri e menadi mentre vendemmiano, riempiendo i canestri di grappoli d’uva, o nelle altre fasi del trattamento dell’uva.
    Anche i poemi omerici sono ricchi di citazioni a prova della grande importanza che il vino rivestiva nella cultura ellenica:
    «a Polifemo viene fatto bere puro un vino che usualmente era diluito con 16 parti d’acqua.»
    A Itaca, Ulisse, nella sala del tesoro conservava non solo oro, bronzi, tessuti, olio, ma anche «vasi di vino vecchio, dolce da bere».
    Moltissimi erano i vini prodotti nel bacino del Mediterraneo. La qualità dipendeva dall’esposizione del vigneto, dalle caratteristiche delle piante e dai metodi di coltivazione: sappiamo ad esempio che le vigne basse davano vini mediocri e che, invece, i grandi vini italici erano generalmente ricavati da viti in arbusto. Era inoltre radicato anche l’allevamento della vite con ceppo basso, senza sostegno o con sostegno a paletto; così era la vigna raffigurata sullo scudo di Achille:
    “…una vigna stracarica di grappoli, bella, d’oro: era impalata da cima a fondo di pali d’argento… un solo sentiero vi conduceva per cui passavano i coglitori a vendemmiare la vigna;…in canestri intrecciati portavano il dolce frutto” (Hom. Il.XVIII, 561-569).
    Per quanto riguarda la vinificazione è testimoniato l’uso di una tecnica molto simile a quella utilizzata fino quasi ai nostri giorni: essa prevedeva, in breve, la raccolta e la pigiatura dei grappoli in larghi bacini, la torchiatura dei raspi e la fermentazione del mosto in recipienti lasciati aperti fino al completo esaurimento del processo. L’uva veniva di solito tutta raccolta per la vinificazione, ma poteva anche accadere che una parte del prodotto fosse messo in vendita ancora sulla pianta. A differenza degli lavori agricoli, la vendemmia era un’attività festosa, che non apparteneva propriamente alla sfera del lavoro quotidiano, ma trasformava la condizione umana e la poneva in contatto con il divino.


    .


    da ivana

    Il vino Frascati tra i migliori d'Italia




    Zingaretti: "Giusto riconoscimento agli sforzi compiuti dalle aziende del nostro territorio"


    di LAURA MARI

    Dopo i riconoscimenti conferiti dalla nuova Guida dei vini dell'Espresso ad alcune importanti etichette del territorio laziale, per i vitigni regionali e, in particolare, dei Castelli Romani arrivano altri successi. Il vino prodotto a Frascati, infatti, ha conquistato il podio delle eccellenze enologiche italiane. A conferire "tre bicchieri", ovvero il massimo riconoscimento, ad una etichetta dei Castelli Romani è la guida 2011 del Gambero Rosso che ha premiato la qualità del "Frascati Superiore Epos 2009" dell'azienda Poggio Le Volpi.

    «Un riconoscimento - ha detto il presidente della Provincia Nicola Zingaretti - che rappresenta il giusto premio per gli sforzi e il grande lavoro che le aziende del settore del nostro territorio stanno compiendo in questi anni». Ad affiancare sul podio il vino prodotto a Frascati, alle porte della Capitale, sono due grandi conferme dell´enologia italiana: il Grechetto Poggio della Casa 2009 di Sergio Mottura e il Montiano 2008 della Falesco. Rispettivamente un bianco e un rosso di elevata qualità che valorizzano ancor di più il riconoscimento conferito all´etichetta laziale, new-entry tra bottiglie di pregio.

    «Il vino Frascati - ha sottolineato la presidente della Regione Renata Polverini - è stato il primo in Italia ad ottenere il riconoscimento di denominazione di origine controllata negli anni ‘60». E poi aggiunge: «Questo premio segue a quello conferito dalla Guida dell´Espresso al Cesanese e al Cirsium, a dimostrazione di come l´impegno profuso delle nostre aziende di settore stia dando i suoi buoni risultati».

    Un plauso ai risultati ottenuti dai produttori di vino del Lazio arriva anche dal vicepresidente del consiglio regionale Bruno Astorre. «Le aziende vinicole del territorio di Frascati - dice Astorre - esprimono, da molti anni, un sistema virtuoso di lavorazione». Gli fa eco l´assessore provinciale alle Politiche dell´Agricoltura, Caccia e Pesca, Aurelio Fazio. «È stata riconosciuta - dice - l´assoluta qualità del vino Frascati e il suo ottimo rapporto qualità-prezzo». Quello di cui c´è bisogno ora, secondo l´assessore provinciale, è «un ulteriore miglioramento della promozione e della qualità di questo vino castellano. Una qualità molto elevata e già riconosciuta anche all´estero, come testimonia anche l´apprezzamento da parte dei compratori canadesi giunti nel nostro Paese nei giorni scorsi, che hanno molto gradito i vini della provincia di Roma, in particolare proprio del Frascati».
    Altri riconoscimenti sono stati assegnati dalla Guida ai vitigni viterbesi, in particolare al Grechetto di Mottura (a conduzione biologica) e all´Aleatico.

    (18 ottobre 2010)

    .
     
    Top
    .
  11.  
    .
    Avatar


    Group
    moderatori
    Posts
    19,944
    Location
    Zagreb(Cro) Altamura(It)

    Status
    Offline
    grazieee
     
    Top
    .
  12. arca1959
     
    .

    User deleted


    grazie Gabry
     
    Top
    .
  13. gheagabry
     
    .

    User deleted



    Il VINO



    Già seimila anni fa, i Sumeri simboleggiavano con una foglia di vite l’esistenza umana e, sui bassorilievi assiri con scene di banchetto, sono rappresentati schiavi che attingono il vino da grandi crateri e lo servono ai commensali in coppe ricolme. Anche gli Ebrei dell’Antico Testamento, che attribuivano a Noè la piantagione della prima vigna, consideravano la vite “ uno dei beni più preziosi dell’uomo” (I Re) ed esaltavano il vino che “rallegra il cuore del mortale” (Salmi).
    Nel mondo greco il vino era ritenuto un dono degli dei e tutti i miti sono concordi nell’attribuire a Dioniso, il più giovane figlio immortale di Zeus, l’introduzione della coltura della vite tra gli uomini, tanto che Dioniso, il dio del vino, fu oggetto di culto non solo presso i Greci, ma anche in Etruria, dove era identificato con la divinità agreste Fufluns, e quindi nel mondo romano, dove era conosciuto come Bacco e ricollegato a Liber, antica divinità latina della fertilità. Secondo la versione più diffusa del mito, Dioniso era nato dall’unione di Zeus con Semele, figlia di Cadmo, re di Tebe. Zeus per avvicinare la donna, che era mortale, le aveva nascosto il suo vero aspetto, ma Semele, istigata dalla gelosa Era, gli chiese di poterlo ammirare nella sua forma di dio del cielo, ed essendogli Zeus comparso con la folgore, restò incenerita. Zeus allora salvò dal suo corpo il piccolo Dioniso e lo cucì nella propria coscia per portarne a compimento la gestazione; quando il bimbo nacque, lo affidò alle ninfe del monte Nisa affinché lo allevassero. Cresciuto nella solitudine dei boschi, educato da Sileno, Dioniso piantò la vite, inebriandosi dell’ “umòr che da essa cola” e il suo destino fu di peregrinare di luogo in luogo accompagnato da animali feroci, pantere o tigri, e seguito da un numeroso corteggio di menadi, satiri e sileni.
    I temi connessi al vino sono i protagonisti assoluti della pittura vascolare greca, ed in particolare ebbero grande diffusione le raffigurazioni di Dioniso e del thiatos dionisiaco, oltre, naturalmente, alle scene di simposio. La pratica della viticoltura vanta origini antichissime, come è testimoniato da non pochi documenti figurati; fra i tanti è degna di nota la pittura di una tomba tebana della XVII dinastia (15552-1306 a.C.), dove sono rappresentati due contadini che colgono grappoli d’uva da una pergola, circostanza interessante da cui si deduce che in Egitto, gia nel II millennio, era diffuso il sistema di coltivazione ‘a pergola’. Altri quattro lavoranti procedono alla pigiatura delle uve in un grande tino ed un loro compagno, chino sotto le cannelle, raccoglie nei recipienti il mosto appena spremuto. In alto si nota una ordinata fila di anfore nelle quali, una volta completata la fermentazione, veniva risposto il vino.
    Moltissimi erano i vini prodotti nel bacino del Mediterraneo, ed in particolare in Italia: bianchi, rossi, secchi, abboccati, leggeri e pesanti a bassa e ad alta gradazione alcolica. La qualità del vino dipendeva dall’esposizione del vigneto, dalle caratteristiche delle piante e dai metodi di coltivazione: sappiamo ad esempio che le vigne basse davano vini mediocri e che, invece, i grandi vini italici erano generalmente ricavati da viti in arbusto. Era inoltre radicato anche l’allevamento della vite con ceppo basso, senza sostegno o con sostegno a paletto; così era la vigna raffigurata sullo scudo di Achille: “…una vigna stracarica di grappoli, bella, d’oro: era impalata da cima a fondo di pali d’argento… un solo sentiero vi conduceva per cui passavano i coglitori a vendemmiare la vigna;…in canestri intrecciati portavano il dolce frutto”(Hom. Il.XVIII, 561-569). Per quanto riguarda la vinificazione è testimoniato l’uso di una tecnica molto simile a quella utilizzata fino quasi ai nostri giorni: essa prevedeva, in breve, la raccolta e la pigiatura dei grappoli in larghi bacini, la torchiatura dei raspi e la fermentazione del mosto in recipienti lasciati aperti fino al completo esaurimento del processo. L’uva veniva di solito tutta raccolta per la vinificazione, ma poteva anche accadere che una parte del prodotto fosse messo in vendita ancora sulla pianta. A differenza degli lavori agricoli, la vendemmia era un’attività festosa, che non apparteneva propriamente alla sfera del lavoro quotidiano, ma trasformava la condizione umana e la poneva in contatto con il divino. E’ per questo che, almeno nel mondo greco, la maggior parte delle raffigurazioni relative alla produzione del vino, ed in particolare alla vendemmia, hanno come protagonisti Dioniso ed il suo seguito di satiri e menadi, che sono spesso rappresentati mentre riempiono i canestri di grappoli d’uva o nelle altre fasi del trattamento dell’uva.
    Maggiori notizie si hanno per il mondo romano: l’uva veniva raccolta in una vasca (lacus vinaria) dove si procedeva alla pigiatura, quindi, una volta colmata questa vasca, si aspettava che il mosto si separasse dalle vinacce e, mentre quest’ultime, quando affioravano, venivano torchiate, il mosto passava in una vasca sottostante. In questo secondo lacus, dove poi confluiva anche il mosto delle vinacce torchiate, aveva luogo la fermentazione cosiddetta tumultuosa. Dopo sette o otto giorni si travasava il mosto in grossi doli interrati dove si completava il processo di fermentazione. Il vino più ordinario veniva consumato o venduto appena limpido, attingendolo direttamente dai doli (vinum doliare), quello di qualità o destinato alla vendita era invece travasato in anfore (vinum amphorarium), dove subiva una serie di trattamenti mirati a garantirne la corretta conservazione. Comunissimo era l’uso di esporre le anfore al calore e al fumo in appositi locali (apotheca e fumarium) oppure quello di aggiungere al vino acqua di mare o comunque salata, secondo un uso gia diffuso in Grecia dove si pensava che l’acqua di mare rendesse il vino più dolce e servisse ad evitare “il mal di testa del giorno dopo”. A seconda delle diverse stagioni il vino poteva essere raffreddato con la neve o scaldato; diffusissimo era inoltre l’uso di addolcirlo con il miele e profumarlo con foglie di rosa, viola e cedro, cannella e zafferano. In molte raffigurazioni sono inoltre rappresentati servi che filtrano il vino in appositi utensili (cola): gli antichi, infatti, per difetto di tecnica, non arrivano mai a produrre vino perfettamente limpido, perciò il verbo liquare (filtrare) è talvolta usato dai poeti come sinonimo di mescere. Le anfore destinate alla vendita venivano tappare con sugheri e sigillate con pece, argilla o gesso e trovavano collocazione entro le celle vinarie. Un’iscrizione a pennello sul corpo dell’anfora o un’etichetta (pittacium) ricordavano l’origine del contenuto, mentre per indicare la data, si scriveva il nome dei consoli in carica quell’anno.
    In Etruria, dove la coltura della vite aveva fatto la sua apparizione nella prima metà del VII sec. a.C., già nel corso del VI la distribuzione di anfore vinarie nel Lazio, in Campania e nella Sicilia orientale, in Sardegna e in Corsica e, a nord, sulle coste meridionali della Francia e della Spagna, è indice non solo del volume dei traffici intrapresi, ma anche dell’intensità di una produzione ormai ben avviata. L’Etruria, evidentemente, è stata capace di organizzarsi in breve tempo sul piano commerciale per smerciare al meglio il prodotto vinicolo in eccedenza. Almeno nella fase iniziale, il fondamento di questo commercio sembra sia stato sostanzialmente lo scambio di generi di necessità e/o di prestigio, come il vino, contro metallo o prodotti semilavorati. Le anfore, recipienti solidi o affusolati, idonei ad essere accatastati razionalmente sulle navi, sono sempre state considerati i contenitori da trasporto per eccellenza.
    Nell’antichità in genere è il traffico marittimo ad avere il massimo sviluppo e ciò è da ritenersi naturale ove si considerino la lentezza e le enormi difficoltà del trasporto terrestre. Per quanto riguarda quest’ultimo, avveniva su carri trainati da buoi o muli dove le anfore trovavano posto, impilate, e quindi coperte con teloni assicurati ai bordi dei carri con funi e corregge. Sia nei conviti greci che quelli romani il vino si beveva mescolato con acqua, molto probabilmente a causa della sua altissima gradazione alcolica dovuta alla vendemmia tardiva. Le proporzioni della mescolanza erano stabilite di volta in volta da uno dei convitati eletto dagli altri commensali alla carica di simposiarca, come lo definivano i Greci, o di magister bibendi o rex convivii, come lo chiamavano i Latini, il quale fissava anche il numero e le modalità dei brindisi. Le diluizioni preferite, dopo aver scartato quella metà acqua e metà vino, giudicata pericolosa, erano quelle chiamate “a cinque e tre”.
    La proporzione a cinque era formata da tre quarti d’acqua e due di vino; quella a tre, invece, da due parti d’acqua per una di vino. A Roma si usava fare brindisi bevendo alla salute, o di uno degli astanti, il quale doveva vuotare la tazza esclamando: bene tibi, vivas, oppure di persone assenti. Nel brindisi alla donna amata era uso vuotare tanti kyathoi uno dietro l’altro quante erano le lettere che componevano il nome di lei (nomen bibere). Così Marziale: “Sette calici a Giustina, a Levina sei ne bevi, quattro a Lida, cinque a Licia, a Ida tre. Col Falerno che versai numerai ogni amica, vien nessuna; dunque, o Sonno, vieni a me”. Nel mondo romano esistevano anche le tabernae. Si trattava di locali assimilabili alle nostre osterie, vere e proprie mescite dove si vendeva vino al dettaglio. Erano costituite da uno o più ambienti, di cui quello all’aperto sulla strada fornito di un grande bancone in muratura, sul quale si trovava quasi sempre un piccolo fornello per scaldare l’acqua d’inverno ed erano poggiati contenitori e vasi potori di vario tipo. Nel bancone erano inoltre murati alcuni grandi orci per contenere il vino da vendere. Il loro numero indica quanti tipi di vino si potessero trovare in quella data taverna. L’arredamento delle tabernae era essenziale: tavoli e sedie, sgabelli e panche di legno, e banconi in muratura. Qualche volta, nei locali migliori, le pareti erano abbellite da decorazioni a festoni o da drappi e ghirlande, se non addirittura affreschi che illustravano tipiche scene da osteria. I proprietari, o gestori delle tabernae, godevano di solito di una pessima fama: appartenevano sempre ad una classe sociale di infimo rango, spesso erano schiavi affrancati o comunque di origine servile, molti dei quali provenienti dalla Grecia o dall’Oriente.
    Il cibo era a buon mercato e il vino costava ancora meno: quello servito normalmente era mescolato con acqua calda o fredda, a seconda delle stagioni, a volte “condito” con miele e spezie. Talvolta si servivano anche vini pregiati, più cari, ma più buoni dei vini “della casa”.
    Plinio parla, solo per Roma, di ben ottanta qualità di vino! Il più apprezzato era il Falerno, ma Orazio canta anche il Caleno e il Cecubo, prodotto presso Fondi, e Marziale l’Albano.
    Insieme al vino venivano servite focacce dolci, uova e formaggi, frutta fresca, verdure e ceci. Le locande più pretenziose potevano avere specialità quali cacciagione o pesce, funghi o tartufi.
    Tra i numerosi locali che servivano il vino nelle città dell’impero romano erano le popinae, vere e proprie trattorie, dove si bevevo consumando i pasti, al tavolo e le cauponae, che erano un po’ come le nostre osterie di campagna poste sulle strade, spesso provviste di stalle per i cavalli e frequentate con una sorta di stazioni di sosta dai viaggiatori.
    (G. Carlotta Cianferoni)

    ....curiosità.....



    Il primo ubriaco fu Noè. Dopo il Diluvio Universale, Noè, coltivatore della terra, fece la vigna, ottenne il vino, lo bevve e si inebriò. Ce lo tramanda la Genesi, che attribuisce al vecchio patriarca l'invenzione del vino.

    Tre coppe di vino...Dioniso (Dio Greco del vino), in una commedia di Eubulo, raccomanda:
    Tre coppe di vino non di più, stabilisco per i bevitori assennati. La prima per la salute di chi beve; la seconda risveglia l'amore ed il piacere; la terza invita al sonno. Bevuta questa, chi vuol essere saggio, se ne torna a casa. La quarta coppa non è più nostra, è fuori misura; la quinta urla; sei significa ormai schiamazzi; sette occhi pesti; otto arriva lo sbirro; nove sale la bile; dieci si è perso il senno, si cade a terra privi di sensi. Il vino versato troppo spesso in una piccola tazza taglia le gambe al bevitore.


    Uno dei vini più famosi dell'antichità era il vino di Maronea, che Ulisse adoperò per ubriacare Polifemo.

    Il vino era conosciuto dai Sùmeri, gli Egiziani lo consideravano una bevanda sacra, lo offrivano agli Dei e lo distribuivano soltanto in occasioni religiose. Lo importavano dalla Siria, dalla Palestina ed anche da Creta.

    Lo scrittore romano Plinio (I° sec. d.C.) classificò centonovantacinque vini elencandone le caratteristiche e mettendo al primo posto il Falerno rosso.

    Vi erano quattro qualità di vino conosciute: albus (bianco), fulvus (biondo), sanguineus (rosso sanguigno), niger (nero).

    Sembra che la parola sommelier abbia origine dall'abitudine dei soldati della sussistenza dell'esercito di Napoleone di legare (lier) le botti del generale su di un mulo da soma (somme) infatti "somme" più "lier" uguale a sommelier.
    Un piccolo elenco degli antenati dei Sommelier.

    Ebe .... Figlia di Giove e di Giunone, era la Dea della eterna giovinezza. Aveva anche il compito mescere il nettare agli dei, ed era quindi considerata la la coppiera degli Dei. Secondo la leggenda Ebe, mentre stava versando agli dei la celeste bevanda, sarebbe caduta in modo poco conveniente perchè completamente ebbra per il troppo bevuto, e Giove suo padre l'avrebbe dispensata dal delicato ufficio, tanto più che da tempo aveva in animo di sostituirla col bellissimo Ganimede.

    Ganimede...Era un bellissimo giovinetto di cui Giove (che evidentemente non disdegnava a giocare su tutte e due le sponde), si invaghì. Cogliendo al volo un incidente avvenuto ad Ebe, lo chiamò in cielo quale coppiere degli dei, sostituendolo ad Ebe che ne aveva prima l'ncarico.

    Il Cerimoniere ... Nell'antica Grecia era un personaggio importante, era la persona che, durante il simposio, fissava le proporzioni di acqua e di vino da mescolare nel cratere (il vino doveva essere mescolato all'acqua, anche perché quello utilizzato dai Greci presentava un'altissima gradazione alcolica). e quante coppe di vino doveva bere ciascun convitato.

    Il Bottigliere ...Come un moderno Sommelier, aveva il compito di "testare" il vino. Lo versava nella coppa, lo guardava controluce, lo faceva girare, lo annusava e poi ne prendeva un sorso. Ma, a differenza del Sommelier, il suo compito era quello di individuare la presenza di eventuali veleni nel vino, di evitare al suo "dominus" o al suo imperatore di essere avvelenato, come era consuetudine in quei secoli.

    Eubolo, poeta ateniese del IV° secolo a.C. scriveva così:
    Miscelo tre crateri solo per le persone ragionevoli
    Il primo ad essere svuotato è per la salute
    Il secondo è per l'amore ed il piacere
    Il terzo è per dormire
    Il quarto non è più per me, ma per l'eccesso.

    (probiviro.it)
     
    Top
    .
  14. gheagabry
     
    .

    User deleted



    VINI LIGURI

    vini-liguria

    Il greco Strabone (I sec. a.C.) nel suo trattato “Geografia” osservava: “I liguri vivono di latte e di bevande a base di orzo; comperano a Genova olio e vino d’Italia; il poco vino che essi producono direttamente, è resinoso ed aspro”. Questa la prima testimonianza, anche se non incoraggiante, della presenza della vite nelle zone liguri.
    La conquista romana dovette portare ad un miglioramento della produzione, se Plinio il Vecchio riconobbe i liguri esperti vinificatori, e Marziale ne parlò entusiasticamente.
    Bisogna arrivare al Medioevo per avere un quadro abbastanza stabile della coltura della vite in questa regione, condizionata dalla duplice attività marittima e terrestre delle sue genti.
    Ancor prima dei tempi della Repubblica di Genova, i marinai della flotta lavoravano la terra solamente nei periodi di sbarco, e nelle cosiddette “fasce”, piccoli appezzamenti agricoli ricavati sulle balze retrostanti i villaggi di mare, impiantavano le barbatelle di vite raccolte nei punti più impensati delle coste mediterranee. Proprio da questa vocazione marinara, deriverebbe il grande numero di vitigni che ancora oggi caratterizzano la viticoltura della Liguria.
    Dante, Boccaccio, Petrarca, decantarono i vini della riviera di Levante, mentre i prodotti della riviera di Ponente, trovarono la loro sublimazione letteraria nel ‘400 con Jacopo Bracelli che esaltava fra gli altri lo squisito Moscato prodotto nella “piccola città” di Taggia.
    L’apice della fioritura dei vini liguri si raggiunse nel ‘500, quando anche Paolo III degustava nella stagione invernale il pregiato nettare delle Cinque Terre.

    p522_1_00

    Successivamente, il Carducci (… infuso di tutti i profumi e le ebbrezze dionisiache) e il Pascoli (rugiada fecondatrice e rinfrescatrice) si sono innamorati del vino ligure, forse più noto nel passato che ai tempi contemporanei, dove l’attività turistica ha sottratto buona parte degli spazi ai vigneti.
    Oggi la viticoltura ligure si concentra prevalentemente sulle zone intorno a La Spezia, le Cinque Terre e buona parte della riviera di Ponente. Per ovvie ragioni geomorfologiche, il suolo dedicato alla coltivazione dell'uva in Liguria è esiguo ed è quasi tutto situato in terrazzamenti appositamente creati dall'uomo sulle pendici delle montagne.

    Vitigni a bacca bianca

    Vermentino: In Liguria il vitigno è noto anche con i nomi di Malvasia Grossa, e Carbesso o Carbess. In Liguria, questo vitigno è maggiormente sviluppato nella Riviera di Ponente. Un bel colore giallo paglierino con note intense di frutta fresca. Ha una bella struttura, una piacevole alcolicità supportata da una discreta freschezza e sapidità con il caratteristico finale dal fondo amarognolo. E’ un vino che dovrebbe essere bevuto entro i 2-3 anni dalla vendemmia.
    Pigato: Il pigato è un vino prodotto dalle uve di pigato nella riviera ligure di ponente, in particolare nella piana di Albenga. È un vino dal colore giallo paglierino che, se invecchiato tende a divenire giallo dorato; ha sapore sapido e secco, profumi di macchia mediterranea e polpa gialla. Di notevole eleganza.
    Bianchetta: Il Golfo del Tigullio Bianchetta Genovese è un vino DOC la cui produzione è consentita nella provincia di Genova. Di colore giallo paglierino più o meno carico, odore fine, delicato, discretamente persistente, sapore secco, sapido, pieno, caratteristico.
    Mataòssu - Lumassina: Il Lumassina e' un vitigno che viene prodotto in un' area abbastanza circoscritta, tra l'entroterra di Noli e di Varigotti, dove viene “battezzato” con il nome di Mataòssu. Dal colore giallo paglierino, secco, con buona persistenza e dai sapori fragranti e leggeri di fiori bianchi di campo, profumi di susina gialla.
    Cinque Terre: E' forse il vino più famoso della Liguria ed il simbolo dell'enologia ligure. Ricco di una grande tradizione e di una buona notorietà anche oltre confine. di colore giallo paglierino e di sapore fresco ed asciutto con un profumo delicato di erbe di campo ed un lieve sentore di salmastro. Si abbina con piatti di pesce e con i primi piatti tipici della cucina ligure.

    Vitigni a bacca rossa

    Rossese di Dolceacqua: Il Rossese di Dolceacqua è un vino prodotto nel ponente ligure, ed esattamente in val Nervia, in provincia di Imperia. Questo vino prende nome dal borgo di Dolceacqua. Pare che Papa Paolo III Farnese fosse un suo estimatore, nonchè apprezzato dallo stesso Napoleone. Il profumo è lieve, fragrante e floreale da giovane, se giustamente affinato si fa intenso e persistente, con sentori complessi di rosa leggermente appassita e di fragola di bosco matura.
    Ormeasco: L’opinione più diffusa fra gli storici è che l’Ormeasco sia una clone del Dolcetto; è un vitigno coltivato esclusivamente nella provincia di Imperia; di colore rosso rubino vivo; odore discretamente persistente, vinoso e caratteristico; sapore asciutto, gradevole, di medio corpo e con una vena amarognola.
    Granaccia: Il Granaccia è un vino rosso, tipico della zona di Quiliano. Il nome scientifico è Granaccia o Grenaccia: è di origine spagnola (Alicante o Grenache) ed è stato portato nella nostra zona nel secolo XVIII. Di colore rosso intenso tendente al rubino, fragrante, che può farsi intenso con sentore di more e di ribes se adeguatamente affinato.
    Ciliegiolo: del Golfo del Tigullio, presenta un caratteristico color rubino intenso, una limpidezza brillante e un profumo gradevolmente fruttato.

    (Ambasciatore AIGS Bruno Cantamessa. Docente, scrittore, executive chef, studioso e ricercatore della cucina tradizionale. Co-autore de La Cucina Storica.)



    taccuini storici
     
    Top
    .
  15.  
    .
    Avatar

    Senior Member

    Group
    moderatori
    Posts
    43,236

    Status
    Offline


    L'enologia: la nascita del vino


    31_conoscere_vino_p092--420x520


    Il vino è il prodotto di una trasformazione naturale dell’uva: i lieviti presenti nel frutto, e quindi nel mosto, si nutrono degli zuccheri contenuti negli acini e, grazie a un processo chimico, li trasformano in alcol e anidride carbonica. Di questa trasformazione si occupa l’enologia, la tecnica della produzione nonché della conservazione dei vini. Per ottenere un buon prodotto la vinificazione deve essere monitorata, guidata e assistita dall’enologo.


    Trasformazione del frutto


    31_conoscere_vino_p095--420x520 31_conoscere_vino_p097--420x520


    Il conferimento delle uve in cantina


    La prima operazione di cantina è la ricezione del frutto. Per ottenere vini di alta qualità è utile effettuare una selezione dei grappoli sia al momento della raccolta sia prima della pigiatura. Nel primo caso è il vendemmiatore a operare la scelta, nel secondo esistono appositi nastri o tavoli, dove le uve sono distese per essere selezionate, pulite da fogliame o da impurità e quindi avviate alla pressatura.


    L'ammostatura-pigiatura del frutto


    Il mosto è il succo dell’uva; nella vinificazione dei rossi viene lasciato per un periodo variabile a contatto delle vinacce che, cedendo sali minerali, lieviti, sostanze coloranti, tanniche e altro ancora, permettono di ottenere il vino. Questa trasformazione avviene tramite la pigiatura. L’antica usanza di pigiare l’uva con i piedi è oggi sostituita da moderne presse pneumatiche orizzontali, capaci di regolare sia l’intensità sia la durata della pressione. Tali apparecchiature sono in grado di estrarre succo e polpa con la dovuta forza, evitando quanto più possibile di estrarre sostanze indesiderate che darebbero spiacevoli sentori al vino.


    Il contatto con le bucce: la macerazione-estrazione


    Dopo la pigiatura inizia il processo di fermentazione, ossia la trasformazione degli zuccheri in alcol e anidride carbonica che ha luogo grazie all’azione dei lieviti. Al contrario di quanto avviene nella vinificazione dei rossi, nella produzione dei vini bianchi il mosto è raramente messo a contatto con le bucce che conferiscono ai vini colore e profumi. Per i vini bianchi la macerazione in presenza di bucce è spesso assente, ma se avviene è di breve durata e svolta a bassa temperatura, affinché ci sia una ridotta estrazione di sostanze che potrebbero alterarne la freschezza e il colore. I vini rossi macerano invece più a lungo. Se si vuole ottenere un vino rosso da consumarsi giovane e dal colore non particolarmente intenso, la macerazione dura circa 5-7 giorni; se invece desideriamo avere un vino rosso ricco di colore, corpo e aromi, può durare anche per tutta la fase di fermentazione, dai 10 ai 20 giorni; per conferire ai vini rosati il loro tipico colore cerasuolo dura 8-15 ore circa oppure è solo parziale, nel senso che solo una limitata quantità di uva rimane a contatto con le bucce.

    Per consentire una maggiore estrazione di sostanze aromatiche e coloranti, la temperatura di fermentazione dei rossi è particolarmente alta, di circa 28-30 °C; quella dei bianchi si aggira invece intorno ai 18-22 °C, così come quella dei rosati. Più volte nella giornata, con varie tecniche (dette rimontaggi o follature) la parte liquida di mosto a contatto con quella solida viene rinnovata e agitata per facilitare la cessione di aromi e colore.


    La svinatura e i travasi


    Al termine della fermentazione si procede alla svinatura, cioè alla separazione della parte solida (vinacce) da quella liquida (vino fiore). La svinatura consiste nel travaso del vino, tramite apposite pompe, dalla parte superiore della vasca in un altro contenitore. Con particolari tecniche di filtrazione il vino viene quindi reso più limpido.


    Le correzioni del mosto


    In cantina si persegue anche l’obiettivo di stabilizzare il vino, cioè renderlo il più possibile resistente al degradamento, e di ottimizzarne le caratteristiche. Qualora se ne ravvisi la necessità, è possibile intervenire su grado zuccherino, acidità, colore, contenuto di tannino ed estratto del vino con appropriate tecniche di cantina. Al termine del processo produttivo, dopo che gli interventi in cantina hanno permesso di migliorarne la qualità, il vino è pronto per l’invecchiamento, l’imbottigliamento, l’eventuale ulteriore affinamento e la successiva commercializzazione.


    L’invecchiamento


    Durante il periodo di invecchiamento il vino è posto in contenitori di diverso materiale, affinché le sue caratteristiche organolettiche possano migliorare. I contenitori sono scelti in base alle caratteristiche che si desiderano per il particolare vino. A tale scopo è ormai usuale ricorrere a contenitori di legno. Il legno è infatti in grado di arricchire il vino di complessi profumi e accentuarne la struttura e il corpo. In genere i contenitori sono di rovere e possono avere dimensioni diverse. Le botti possono essere di diverse capacità: tra le più piccole si ricordano le barrique che contengono 225 litri a fronte degli oltre 1.000 delle botti più grandi. Con l’utilizzo delle barrique il rilascio di essenze da parte del legno è maggiore, perché maggiore è la superficie del vino a contatto con il legno stesso.


    Imbottigliamento


    Dopo un periodo di affinamento in botte il vino viene imbottigliato. Questa fase deve essere svolta con estrema cura affinché non si sviluppino microbi o sentori indesiderati. La bottiglia di vetro scuro è da preferirsi perché preserva il vino dalla luce, fattore che può agire negativamente sulle caratteristiche del vino stesso.
    Normalmente i tappi sono di sughero, ottenuti dalla corteccia della quercia da sughero. Siccome il sughero può essere attaccato da un fungo che sviluppa nel vino l’indesiderato “sentore di tappo”, in commercio esistono anche tappi di materiale sintetico (silicone). Il dibattito sull’utilità di questi tappi è ancora in corso e particolarmente acceso. I sostenitori del sughero sostengono che i tappi sintetici possono rilasciare odori poco piacevoli e che il sughero, permettendo una maggiore ossigenazione del vino, contribuisce ad arricchirlo e stabilizzarlo. Al di là di queste motivazioni tecniche, è indubbio che esteticamente il tappo in sughero è da preferirsi a quello in silicone. Di qualunque materiale sia, il tappo viene poi rivestito da una capsula di plastica o di alluminio, capace di proteggerlo dal contatto con agenti esterni.


    L’affinamento


    L’ultima fase del processo produttivo è l’affinamento del vino in bottiglia. Durante il periodo di permanenza in bottiglia il vino si stabilizza e si arricchisce di nuovi profumi e aromi. Affinché tra il vino e l’esterno non si verifichino scambi che potrebbero comprometterne la stabilità, durante l’affinamento è opportuno mantenere le bottiglie in posizione orizzontale: in questo modo il tappo rimane “bagnato” dal vino, impedendo un eccessivo scambio di ossigeno con l’esterno.


    31_conoscere_vino_p099b--420x520



    Fonte:cucina.corriere.it
     
    Top
    .
21 replies since 16/6/2011, 12:19   4003 views
  Share  
.