Le fiabe di HANS CHRISTIAN ANDERSEN

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  1. gheagabry
     
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    "Limitarsi a vivere non è abbastanza.
    C'è bisogno anche del sole, della libertà e di un piccolo fiore."



    HANS CHRISTIAN ANDERSEN




    Hans Christian Andersen nasce a Odense, città sull'isola di Fionia (Fyn, Danimarca), il giorno 2 aprile 1805. Trascorre un'infanzia piuttosto travagliata nei quartieri più poveri della sua città natale, insieme al padre Hans, di professione calzolaio, e alla madre Anne Marie Andersdatter, 15 anni più anziana del marito. Inizia la sua attività di scrittore all'età di 30 anni: si reca in Italia per pubblicare la sua prima opera, "L'improvvisatore", che darà il via a una lunga carriera e a una ricchissima produzione letteraria tra romanzi, poesie, opere teatrali, biografie, autobiografie, scritti di viaggio, articoli, scritti umoristici e satirici. Tuttavia il nome di Hans Christian Andersen viene consegnato alla storia della letteratura mondiale soprattutto grazie alla sua produzione di fiabe, di fatto immortali: tra i titoli più noti vi sono "La principessa sul pisello" (1835), "La sirenetta" (1837), "I vestiti nuovi dell'Imperatore" (1837-1838), "Il brutto anatroccolo", "La piccola fiammiferaia", "Il soldatino di stagno" (1845), "La regina delle nevi" (1844-1846). Sono innumerevoli le fiabe, gli scritti e le raccolte prodotti da Andersen in questo campo. I suoi libri probabilmente sono stati tradotti in ogni lingua conosciuta: nel 2005, nel bicentenario dalla sua nascita, si contavano traduzioni in 153 lingue. Instancabile viaggiatore, ha esplorato ogni angolo del mondo che riusciva a raggiungere, viaggiando tra Asia, Europa e Africa; questa passione per la scoperta è stata proprio l'elemento che ha fatto produrre ad Andersen moltissimi appassionanti diari di viaggio. L'opera di Andersen ha influenzato molti autori suoi contemporanei ma anche successivi: tra questi possiamo ricordare Charles Dickens, William Makepeace Thackeray e Oscar Wilde. Hans Christian Andersen è morto il giorno 4 agosto 1875 a Copenaghen.





    La vita di per se è la favola più fantastica.



    ............le favole..............



    Molte favole di Andersen hanno una base autobiografica o traggono spunto da esperienze di vita vissute, altre hanno origine da racconti tradizionali danesi.
    La principessa sul pisello viene scritta dopo uno screzio con Henriette Wulff, sua grande amica, che gli ispirò anche Mignolina. La sirenetta e I fidanzati nascono invece dagli infelici amori non corrisposti dello scrittore.
    Ma la favola dove meglio si individua Andersen è senz'altro Il brutto anatroccolo: qui l'anatroccolo non viene riconosciuto per quello che veramente è, un cigno, ed è deriso e maltrattato da tutti gli altri animali. Alla fine, però, la verità prevale e lui ottiene il posto che le sue qualità gli riservano ....."Che importa se siamo nati in un pollaio, quando siamo usciti da un uovo di cigno?". E come Andersen, anche l'anatroccolo nel momento del trionfo non si insuperbisce, "perché un cuore buono non diventa mai superbo!" ed anzi esulta nel cuore ...."Tanta felicità non l'ho mai sognata, quand'ero un brutto anatroccolo!". Molte volte Andersen, prima di pubblicare una nuova favola, era abituato a leggerla a un ristretto numero di bambini, osservandone le reazioni e ascoltandone i commenti......Solo sei delle favole di Andersen iniziano con la classica formula "C'era una volta...".




    "Andersen scopre nuove sorgenti del meraviglioso (...), non si deve equivocare con prodotti artigianali e surrogati quali la novelletta edificante, il raccontino didascalico o moralistico, insomma quella che viene chiama (...) letteratura pedagogica. Il poeta danese ci dona un tipo di fiaba utile alla formazione della mente, di una mente aperta in tutte le direzioni: una leva fondamentale per l'educazione di un uomo, che non sia solo un esecutore ordinato e limitato, un consumatore facilmente plasmabile e pedissequamente subalterno. "Al di là del contenuto immediato e dell'ideologia di cui possano essere di volta in volta portatrici". ci aiutano a conformare criticamente la mente e ad affrontare la realtà con occhio spregiudicato: "di inventare dei punti di vista per osservarla, di vedere l'invisibile, come lo scienziato vede le onde elettromagnetiche dove nessuno aveva mai visto nulla; insomma, proprio come Andersen vede un'intera storia sulla punta di un ago da rammendo".
    (Gianni Rodari)





    .........oltre alle favole..........



    Sebbene la gloria di Hans Christian Andersen derivi dalle sue favole, che si collocano tra i capolavori della letteratura mondiale, bisogna ricordare che lo scrittore fu assai prolifico: scrisse infatti romanzi, biografie, libri di viaggio, opere teatrali, testi di canzoni e poesie. Hans Christian Andersen scrisse parecchi romanzi e brevi racconti, di cui i principali sono Improvisatoren [L'improvvisatore], O.T., Lykke-Peer [Peer il fortunato] e De to Baronesser [Le due baronesse]. Specialmente il primo, L'improvvisatore, è degno di nota per gli Italiani, perché è interamente ambientato in Italia e fu scritto basandosi sulle esperienze che Andersen ebbe durante il suo primo grande viaggio nella penisola. Questo romanzo fu anche la prima opera che gli diede fama internazionale, prima delle favole (il primo libro di fiabe è del 1835).



    ..........La favola della mia vita.........



    "Raggiungemmo Napoli, proprio mentre il Vesuvio era in piena attività: la lava scendeva dal monte oscuro, tracciando radici di fuoco al pino di fumo. Andai a vedere l'eruzione con Hertz e qualche altro scandinavo: la strada sale tra i vigneti e oltrepassa edifici isolati. Ben presto la vegetazione diede luogo ad arboscelli non più grandi di giunchi, e il crepuscolo era una meraviglia per gli occhi."

    Tra i monti viola dorme Napoli bianco vestita,
    Ischia sul mare fluttua
    Come nube purpurea;
    La neve tra i crepacci
    Sta come studio candido di cigni;
    Il nero Vesuvio leva il capo
    Cinto di rossi riccioli.


    "Il tempo era calmo e bellissimo: la lava splendeva contro il suolo buio come un'immensa costellazione, e la luna diffondeva più luce che al Nord il mezzogiorno in una giornata coperta d'autunno."





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  2. gheagabry
     
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    Fiabe popolari di Danimarca

    L'acciarino magico
    C'era una volta... un soldato valoroso che tornava dalla guerra. Nonostante il suo coraggio, le sue tasche erano vuote e la spada era rimasta la sua unica ricchezza. Passando in mezzo a una foresta, incontrò una vecchia strega che lo fermò. "Bel soldato, ti piacerebbe guadagnare un sacco di monete?" "Monete?! Farei qualunque cosa per un pò di denaro..." "Bene!" riprese la strega, "Vedrai che non sarà difficile! Devi calarti nel tronco vuoto di quell'albero finché troverai un grosso cane con occhi grossi come tazzine da tè a guardia di un grosso forziere pieno di monete di rame: dietro la seconda porta un tesoro di monete d'argento sarà difeso da un cane con occhi grossi come macine del mulino. Infine, se aprirai la terza porta, troverai un altro cane con gli occhi grossi come la base di un torrione, vicino a un tesoro di monete d'oro. Se però poserai davanti ai cani questo mio grembiule, loro vi si accucceranno sopra senza farti male e tu potrai prendere tutte le monete che vuoi. Cosa ne dici?" Il soldato chiese allora sospettoso: "Ma tu cosa vuoi in cambio?" "Voglio solo che mi riporti un vecchio acciarino dimenticato da mia nonna!" Il giovane si legò allora una corda alla vita e, senza abbandonare la spada, si calò nell'apertura. Con sua grande meraviglia trovò le tre porte e i tre cani, proprio come aveva predetto la strega. Poco dopo era di ritorno con le tasche piene di monete, ma prima di consegnare l'acciarino chiese alla strega: "A che cosa ti serve?" La strega urlando gli si avventò addosso tentando di graffiarlo: "Dammelo subito! Dammelo, altrimenti...." Il soldato, nel vedersi assalito dalla megera esclamò: "Ah! E' così che mi ringrazi? Adesso ti farò vedere io!" E, sguainata la spada, con un fendente tagliò di netto la testa alla vecchia. Poi fischiettando proseguì allegro il cammino finché arrivò in città: "Finalmente potrò mangiare e bere a volontà!" si disse, spalancando la porta di una bella locanda. Mai fino allora la locanda aveva avuto un ospite così: pranzi di parecchie portate, una più ricercata e abbondante dell'altra, ma soprattutto laute mance. Al soldato sembrava di essere diventato un Principe, per l'improvvisa ricchezza. Si comprò per prima cosa un paio di stivali nuovi poi, consigliato da alcuni nuovi amici, fece visita al miglior sarto della città. Dopo pochi giorni vestiva una splendente uniforme che tutti si giravano ad ammirare. Generoso, era sempre attorniato da gente che voleva consigliarlo sul come spendere il suo denaro: pranzi, balli, passeggiate in carrozza, teatri e soprattutto grandi bevute si susseguivano. Com'era inevitabile, il denaro finì: sparirono gli amici e fu scacciato dalla locanda quando si accorsero che non poteva più pagare.

    Il povero soldato finì in una soffitta e ogni giorno doveva stringere di un buco la cinghia dei pantaloni. Tutto il buonumore e l'allegria di prima se n'erano andati. Una sera si trovò a fare l'inventario del poco che gli era rimasto e vuotando le tasche si accorse di non aver mai usato l'acciarino della strega. Lo sfregò e allo sprizzo della prima scintilla di colpo gli comparve davanti il cane con gli ochi grandi come tezine da tè. "Cosa comandi, mio signore!"disse la bestia. Il soldato, sbalordito, balbettò: "...portami tanti soldi!" Un attimo dopo il grosso cane era di ritorno, serrando fra i denti un sacco di monete. Il soldato buttò all'aria il cappello gridando: "Evviva! Sono ricco!" Poi continuò a sfregare l'acciarino e ogni volta il cane tornava con altre monete. Quando poi l'acciarino fu sfregato due volte di seguito, arrivò il cane con gli occhi come macine di mulino, carico di monete d'argento, mentre quello che portava monete d'oro comparve strofinando tre volte. Di nuovo ricco, il soldato ricominciò a fare una vita da gran signore. Durante un ricevimento a palazzo reale, venne a sapere che il Re, credendo a una profezia che destinava la bellissima figlia a sposare un semplice soldato, non permetteva a nessuno di avvicinarla.

    Quella sera, tornato in albergo, sfregò l'acciarino formulando un nuovo desiderio: "Portami la Principessa, anche solo per un momento!" Aveva appena pronunciato queste parole che il cane tornò con la bellissima fanciulla addormentata. Il soldato non poté fare a meno di baciarla e la mattina dopo la ragazza raccontò ai genitori di aver sognato quanto invece era realmente accaduto. La madre, insospettita, corse subito ai ripari e una dama di corte fu incaricata di vegliare notte e giorno sulla giovane. La sera dopo, il cane era tornato a prendere la Principessa fu visto e, dato l'allarme, al suo ritorno venne studiato uno stratagemma per sapere dove veniva portata la giovane. La dama della Regina si procurò un sacchetto di semola con cui riempì l'orlo della gonna della Principessa: la polvere uscita da un buco rivelò dove veniva portata. All'alba il soldato, scoperto, fu subito arrestato e condannato all'impiccagione! In prigione il soldato aspettava tranquillo l' ora dell'esecuzione. Il giorno fissato, una gran folla si era radunata intorno al patibolo e quando il condannato arrivò, un mormorio si alzò: "Poverino! Muore per un bacio!". Il boia alzò il cappio verso il collo del soldato e questi ottenne come ultimo desiderio di poter fumare. Il giovane, messa in bocca la pipa, sfregò più volte l'acciarino. I tre cani comparvero per incanto. Il soldato dette un ordine e le tre belve si gettarono sulle guardie. Il Re, sbalordito di fronte al prodigio, dovette arrendersi e mormorò alla Regina: "Ecco che la profezia si avvera!"

    Infatti il giovane soldato di lì a poco sposò la Principessa, e in quell'occasione l'acciarino fu sfregato ancora una volta per invitare anche i tre cani alla sontuosa cerimonia.

    (H.C.Andersen)
     
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  3. gheagabry
     
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    Fiabe popolari di Danimarca
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    L'ago da rammendo
    C'era una volta un ago da rammendo, così delicato da credersi un ago da ricamo. "State attente a dove mi tenete!" disse l'ago da rammendo alle dita, che lo tiravano fuori dalla scatola. "Non mi perdete! Se cado sul pavimento, non sarete più capaci di ritrovarmi, tanto sono sottile." "Questa poi!" dissero le dita e lo afferrarono per la vita. "Guardate: io arrivo col seguito!" esclamò l'ago da rammendo, tirando dopo di sé un lungo filo, che però non aveva il nodo. Le dita guidarono l'ago fino nella pantofola della cuoca dove la tomaia si era rotta e doveva essere ricucita. "È un lavoro volgare!" gridò l'ago da rammendo. "Io non riuscirò mai a passarci! mi spezzo! mi spezzo!" e difatti si spezzò. "Non l'avevo forse detto?" disse l'ago "sono troppo sottile!" Adesso non servirà più a niente, pensarono le dita, ma lo tennero comunque tra loro, perché la cuoca vi sciolse sopra della ceralacca e lo infilò sulla sua sciarpa. "Ecco, adesso sono una spilla da cravatta!" esclamò l'ago da rammendo. "Lo sapevo che avrei ottenuto degli onori, quando si è qualcuno si diventa importanti!" e intanto rideva tra sé, perché naturalmente non si può vedere un ago da rammendo che ride. Stava tutto fiero come se andasse in carrozza, e guardava da tutte le parti. "Posso avere l'onore di chiederVi se siete d'oro?" chiese poi allo spillo, che era il suo vicino. "Avete un ottimo aspetto e poi la testa è proprio Vostra! ma è così piccola! Dovete cercare di farla crescere, perché non è certo da tutti avere della ceralacca all'estremità!" e così l'ago da rammendo si drizzò fiero, ma subito cadde dalla sciarpa nel lavandino, proprio mentre la cuoca faceva scorrere l'acqua. "Adesso si viaggia" esclamò l'ago da rammendo "purché non mi smarrisca!" E invece si smarrì. "Sono troppo sottile per questo mondo!" commentò l'ago quando si trovò nel rigagnolo. "Però ho la coscienza di quello che sono, e ciò è una soddisfazione!" e si tenne ben dritto senza perdere il buon umore. Sopra di lui passavano cose di ogni genere: schegge di legno, pagliuzze, pezzetti di giornale. "Guarda come navigano!" disse l'ago da rammendo. "Non sanno che sotto c'è qualcosa che punge! Io pungo! E rimango qui. Ecco, ora arriva un legnetto; crede che al mondo non ci sia altro che legnetto, cioè lui stesso; ora passa una pagliuzza, e come si rigira! Non pensare troppo a te stessa potresti andare contro il selciato! Là galleggia un giornale! ormai è dimenticato quello che ci sta scritto sopra, ma ciò nonostante lui si gonfia tutto. Io me ne sto qui tranquillo. So quello che sono e tale resterò."

    Un giorno si fermò vicino a lui qualcosa che luccicava in modo splendido, e l'ago da rammendo lo credette un diamante, ma in realtà era un coccio di bottiglia; comunque, dato che luccicava, l'ago da rammendo si presentò come spilla da cravatta. "Lei non è un diamante?" "Sì qualcosa di simile!" e così entrambi credettero di essere preziosi e cominciarono a parlare della arroganza del mondo. "Io abitavo nella scatola di una ragazza" raccontò l'ago da rammendo "e la ragazza faceva la cuoca; aveva in ogni mano cinque dita, ma non ho mai conosciuto nessuno che fosse più presuntuoso di loro; e pensare che il loro compito era quello di tenermi, tirarmi fuori dalla scatola e ripormi di nuovo." "Erano lucenti?" domandò il coccio di bottiglia. "Lucenti?" esclamò l'ago "no! no! erano solo superbi! erano cinque fratelli, tutti dita per nascita, stavano dritti e uniti tra loro, sebbene fossero di diversa lunghezza. Il più esterno di loro, il pollice, era basso e grasso, era fuori dalla fila e aveva un'unica frattura sulla schiena, perciò si poteva piegare solo una volta. Ciò nonostante egli sosteneva che un uomo, perdendolo, non era più idoneo al servizio militare. L'indice si ficcava nel dolce e nell'amaro, indicava il sole e la luna, e faceva pressione quando si scriveva. Il medio guardava gli altri dall'alto in basso, l'anulare aveva un anello d'oro in vita e il mignolo non faceva nulla e se ne vantava. Era pura spavalderia e nient'altro; così io caddi nel lavandino." "E ora siamo qui a luccicare" commentò il pezzo di vetro. In quel mentre arrivò molta acqua nel rigagnolo che straripò dai due lati e si portò via il pezzo di vetro. "Ecco è stato promosso!" disse l'ago da rammendo. "Io resto qui, sono troppo sottile, ma ne vado fiero, e la fierezza è rispettabile" e si tenne dritto meditando a lungo. "Quasi credo di essere nato da un raggio di sole, tanto sono sottile! Mi sembra anche che il sole mi cerchi sempre sotto l'acqua. Purtroppo sono così sottile che mia madre non riesce a ritrovarmi; se avessi ancora il mio vecchio occhio, che si è spezzato, credo che potrei piangere. No, forse non lo farei, piangere non è una cosa fine!"

    Un giorno dei monelli si misero a giocare nel rigagnolo e vi trovarono vecchi chiodi, monetine e cose simili. Erano tutte porcherie, ma per loro era un divertimento. "Ah!" esclamò uno di loro, quando si punse con l'ago da rammendo "guarda che tipo!" "Io non sono un tipo! Sono una signorina" replicò l'ago, ma nessuno lo udì. La ceralacca si era staccata e lui era diventato tutto nero, ma il nero assottiglia e quindi lui credette di essere ancora più sottile di prima. "Arriva un guscio d'uovo" gridarono i ragazzi e subito infilzarono l'ago nel guscio. "Pareti bianche e io sono tutto nero!" disse l'ago "mi sta proprio bene; così adesso mi noteranno! Purché non mi venga mal di mare, perché altrimenti mi spezzo." Ma non gli venne mal di mare e neppure si spezzò. "È un bene avere lo stomaco d'acciaio contro il mal di mare e poi bisogna sempre ricordare che si vale più di un uomo! Ora il male è passato! Quanto più uno è sottile, tanto meglio resiste." "Crac" fece il guscio d'uovo, perché un carro pesante gli passò sopra. "Oh, come preme!" gridò l'ago da rammendo "ora mi viene il mal di mare! ora mi spezzo! mi spezzo!" ma non si spezzò, sebbene gli fosse passato sopra un carro pesante; si ritrovò disteso per terra e lì potrà anche rimanere!

    (H.C.Andersen)
     
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  4. gheagabry
     
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    Fiabe Classiche

    L'angelo
    Ogni volta che un bambino buono muore, scende sulla terra un angelo del Signore, prende in braccio il bimbo morto, allarga le grandi ali bianche e vola in tutti i posti che il bambino ha amato, poi coglie una manciata di fiori, che porta a Dio affinché essi fioriscano ancora più belli che sulla terra. Il buon Dio tiene i fiori sul suo cuore, ma a quello che ha più caro di tutti dà un bacio, e questo riceve la voce e può cantare col coro dei beati. Tutto questo veniva raccontato da un angelo del Signore, mentre portava un bambino morto in cielo, e il bambino lo sentiva come in sogno; e volavano per la casa, nei luoghi dove il bambino aveva giocato, e poi nei deliziosi giardini pieni di fiori bellissimi. "Quale dobbiamo prendere da piantare in cielo?" chiese l'angelo. Nel giardino si trovava un alto roseto, ma un uomo cattivo aveva spezzato il fusto, così tutti i rami, pieni di grandi gemme sbocciate a metà, si erano piegati e appassivano. "Povera pianta" disse il bambino "prendi quella, così potrà fiorire presso Dio!" E l'angelo raccolse quella pianta, e diede un bacio al bambino, così egli aprì un po' gli occhietti. Colsero quei magnifici fiori, ma presero anche la disprezzata calendula e la selvatica viola del pensiero. "Adesso abbiamo i fiori!" disse il bambino, e l'angelo annuì, ma ancora non volarono verso Dio. Era notte e c'era silenzio; rimasero nella grande città e volarono in una delle strade più strette, dove si trovava un mucchio di paglia, cenere e spazzatura: c'era stato un trasloco; dappertutto c'erano pezzi di piatti, schegge di gesso, cenci e vecchi cappelli sgualciti, tutte cose molto brutte. E l'angelo indicò, in tutta quella confusione, alcuni cocci di un vaso di fiori; lì vicino c'era una zolla di terra che era caduta fuori dal vaso, ma che era rimasta compatta a causa delle radici di un grande fiore di campo appassito, che non valeva più nulla e per questo era stato gettato. "Portiamolo con noi! " disse l'angelo "poi, mentre voliamo, ti racconterò perché." E così volarono e l'angelo raccontò:

    "Laggiù, in quella strada stretta, in un seminterrato, viveva un povero ragazzo ammalato; fin da piccolo era rimasto sempre a letto, quando proprio si sentiva bene poteva camminare per la stanza con le stampelle, ma non poteva fare altro. In certi giorni d'estate i raggi del sole arrivavano per una mezz'ora nella stanzetta del seminterrato, allora il ragazzino si metteva seduto a sentire il caldo sole su di lui e guardava il sangue rosso che scorreva nelle sue dita sottili, che teneva davanti al viso; in quei giorni si poteva dire: "Oggi il piccolo è uscito!". Conosceva il verde primaverile del bosco solo perché il figlio del vicino gli portava il primo ramo di faggio con le foglie e se lo alzavano sul capo e sognava di trovarsi sotto i faggi col sole che splendeva e gli uccelli che cantavano. Un giorno di primavera il figlio del vicino gli portò anche dei fiori di campo, e tra questi ce n'era per caso uno ancora con le radici: perciò fu piantato in un vaso e messo sulla finestra vicino al letto. Il fiore, piantato da una mano amorevole, crebbe, mise nuovi germogli e ogni anno fiorì. Questo divenne il giardino meraviglioso del ragazzo malato, il suo piccolo tesoro sulla terra. Lo bagnava e lo curava e si preoccupava che ricevesse anche l'ultimo raggio di sole, che penetrava dalla bassa finestrella; e il fiore cresceva anche nella fantasia del ragazzo, perché fioriva per lui, per lui emanava il suo profumo e gli rallegrava la vista. E quando il Signore chiamò il ragazzo, egli si volse, morendo, verso quel fiore. Da un anno è ormai presso Dio, e per un anno intero il fiore è rimasto abbandonato sulla finestra e è appassito. Per questo è stato gettato tra la spazzatura durante il trasloco. E proprio quel fiore, quel povero fiore appassito noi l'abbiamo messo nel nostro mazzo, perché quel fiore ha portato più gioia che non il più bel fiore del giardino reale." "Ma come sai tutte queste cose?" domandò il bambino che l'angelo portava in cielo. "Lo so, perché ero io stesso quel povero ragazzo malato che camminava con le stampelle!" spiegò l'angelo. "E conosco bene il mio fiore!"

    Il bambino spalancò gli occhi e guardò il viso bello e felice dell'angelo; in quel momento giunsero in cielo, dove c'era gioia e beatitudine. Dio strinse al cuore il bambino morto e subito gli spuntarono le ali, come all'altro angelo, e insieme volarono via, tenendosi per mano. Dio strinse al cuore il mazzetto di fiori e baciò quel povero fiore di campo appassito, che subito ebbe voce e cantò con tutti gli angeli che volavano intorno a Dio; alcuni vicinissimi, altri in grandi cerchi intorno a Lui, e altri ancora molto più lontani, nell'infinito, ma tutti ugualmente felici. E tutti cantavano, piccoli e grandi, anche il bambino buono e benedetto e quel povero fiore di campo che era appassito e era stato gettato nella via stretta e buia, tra la spazzatura di un trasloco.

    (H.C.Andersen)
     
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  5. gheagabry
     
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    Fiabe Classiche

    Il bambino cattivo
    C'era una volta un vecchio poeta, proprio un buon vecchio poeta. Una sera che era in casa, venne un tempo bruttissimo, la pioggia scendeva a scroscio, ma il vecchio poeta stava bene al caldo vicino alla stufa, dove la legna bruciava e le mele cuocevano. "Saranno proprio fradici quei poveretti che si trovano fuori adesso!" disse, perché era proprio un buon poeta.

    "Oh, apritemi! Sto congelando e sono bagnato fradicio!" gridò un bambinetto che si trovava fuori. Piangeva e bussava alla porta, mentre la pioggia continuava a cadere e il vento soffiava contro le finestre. "Poverino!" esclamò il vecchio poeta, e aprì la porta. Vide un bambino, completamente nudo, con l'acqua che scorreva lungo i capelli biondi, tremante per il freddo; se non fosse entrato, sarebbe sicuramente morto, con quel tempaccio. "Poverino!" disse il vecchio poeta e lo prese per mano. "Vieni qui da me, che ti scaldo. Adesso ti darò del vino e una mela, perché sei un bel bambino." E lo era veramente. Gli occhi sembravano due stelle lucenti, e i lunghi capelli dorati, pure grondanti d'acqua, erano tutti bene arricciati. Sembrava un angelo, ma era pallido per il freddo e tremava con tutto il corpo. In mano teneva un bell'arco, ma si era rovinato per l'acqua, e i colori delle frecce erano tutti mescolati per la grande umidità. Il vecchio poeta sedette vicino alla stufa, si prese il ragazzino in grembo, gli strizzò l'acqua dai capelli, gli scaldò le manine nelle sue e fece bollire del vino per lui; così il piccolo si riebbe, le guance ripresero colore, e lui saltò sul pavimento e si mise a ballare intorno al vecchio poeta. "Sei proprio un bambino allegro!" esclamò il vecchio poeta. "Come ti chiami?" "Mi chiamo AMORE!" gli rispose. "Non mi conosci? E questo è il mio arco. Io so tirare con l'arco, so tirare davvero! Guarda, adesso torna il bel tempo; la luna splende." "Ma il tuo arco è rovinato" disse il vecchio poeta. "Che peccato" rispose il bambino, lo prese in mano e lo guardò. "Oh, adesso si è asciugato, e non ha subìto danni. La corda è ancora ben tesa! Adesso lo provo" e così tese l'arco, vi mise una freccia, mirò e colpì quel buon vecchio poeta proprio al cuore. "Hai visto che il mio arco non s'è rovinato!" esclamò, e ridendo forte se ne andò.

    Che bambino cattivo! colpire così il vecchio poeta che lo aveva ospitato nella sua casetta calda, che era stato tanto buono con lui, che gli aveva dato del buon vino e la mela più bella. Il buon poeta era steso sul pavimento e piangeva, era stato proprio colpito al cuore e diceva: "Ah, che ragazzo cattivo è Amore! Devo raccontarlo a tutti i bambini buoni, affinché stiano attenti e non giochino mai con lui, perché può far loro del male!". Tutti i bambini buoni, maschi e femmine, a cui egli raccontò l'accaduto, stavano in guardia dal crudele Amore, ma lui li ingannava ugualmente, perché era così abile! Quando gli studenti uscivano dalle lezioni, si affiancava a loro, con un libro sotto il braccio e un vestito nero. Non potevano certo riconoscerlo e così lo prendevano sottobraccio e credevano fosse uno studente come loro, ma a quel punto lui gli scoccava una freccia nel petto. Quando le ragazze se ne andavano via dal prete, o quando erano in chiesa, le seguiva sempre. Sì, era sempre con la gente! A teatro si metteva nel lampadario e ardeva come una lampada, così tutti credevano che fosse una lampadina, ma poi s'accorgevano di qualcos'altro. Correva nel giardino reale e sui bastioni. Sì, una volta ha colpito tuo padre e tua madre al cuore! Prova a chiederglielo, e senti cosa ti diranno. Già, è proprio un ragazzo cattivo, questo Amore, non dovresti mai avere a che fare con lui. Va dietro alla gente. Pensa che una volta ha anche scoccato una freccia alla vecchia nonna; è passato tanto tempo ormai, ma lei non lo dimenticherà. Ah, cattivo Amore! Ma ora lo conosci; sai quanto sia cattivo quel bambino.

    (H.C.Andersen)
     
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  6. gheagabry
     
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    Fiabe Classiche

    Il bucaneve
    Era inverno, l'aria era fredda, il vento tagliente, ma in casa si stava bene e faceva caldo; e il fiore stava in casa, nel suo bulbo sotto la terra e sotto la neve.

    Un giorno cadde la pioggia, le gocce penetrarono oltre la coltre di neve fino alla terra, toccarono il bulbo del fiore, gli annunciarono il mondo luminoso di sopra; presto il raggio di sole, sottile e penetrante, passò attraverso la neve fino al bulbo e busso. "Avanti!" disse il fiore. Non posso" rispose il raggio "non sono abbastanza forte per aprire, diventerò più forte in estate." "Quando verrà l'estate?" chiese il fiore, e lo chiese di nuovo ogni volta che un raggio di sole arrivava laggiù. Ma c'era ancora tanto tempo prima dell'estate, la neve era ancora lì e ogni notte l'acqua gelava. "Quanto dura!" disse il fiore. "Io mi sento solleticare, devo stendermi, allungarmi, aprirmi, devo uscire! Voglio dire buongiorno all'estate; sarà un tempo meraviglioso!" Il fiore si allungò e si stirò contro la scorza sottile che l'acqua aveva ammorbidito, la neve e la terra avevano riscaldato, il raggio di sole aveva punzecchiato; così sotto la neve spuntò una gemma verde chiaro, su uno stelo verde, con foglioline grosse che sembravano volerla proteggere. La neve era fredda, ma tutta illuminata, e era così facile attraversarla, e sopraggiunse un raggio di sole che aveva più forza di prima. "Benvenuto, benvenuto!" cantavano e risuonavano tutti i raggi, e il fiore si sollevò oltre la neve nel mondo luminoso. I raggi lo accarezzarono e lo baciarono, così si aprì tutto, bianco come la neve e adorno di striscioline verdi. Piegava il capo per la gioia e l'umiltà. "Bel fiore" cantavano i raggi "come sei fresco e puro! Tu sei il primo, l'unico, sei il nostro amore. Tu annunci l'estate, la bella estate in campagna e nelle città. Tutta la neve si scioglierà; i freddi venti se ne andranno. Noi domineremo. Tutto rinverdirà, e tu avrai compagnia, il lillà, il glicine e alla fine le rose; ma tu sei il primo, così delicato e puro!" Era proprio divertente. Era come se l'aria cantasse e risuonasse, come se i raggi di sole penetrassero nei suoi petali e nel suo stelo, lui era lì, così sottile e delicato e facile a spezzarsi, eppure così forte, nella sua giovanile bellezza; era lì in mantello bianco e nastri verdi, e lodava l'estate. Ma c'era ancora tempo prima dell'estate; nuvole nascosero il sole, e venti taglienti soffiarono sul fiorellino. "Sei arrivato troppo presto!" dissero il vento e l'aria. "Noi abbiamo ancora il potere, dovrai adattarti! Saresti dovuto rimanere chiuso in casa, non dovevi correre fuori per farti ammirare, non è ancora tempo." C'era un freddo pungente! I giorni che vennero non portarono un solo raggio di sole, c'era un tale freddo che ci si poteva spezzare, soprattutto un fiorellino così delicato. Ma in lui c'era molta più forza di quanto lui stesso sospettasse, era la forza della gioia e della fede per l'estate che doveva giungere, che gli era stata annunciata da una profonda nostalgia e confermata dalla calda luce del sole; quindi resistette con la sua speranza, nel suo abito bianco sulla bianca neve, piegando il capo quando i fiocchi cadevano pesanti e fitti, quando i venti gelati soffiavano su di lui. "Ti spezzerai!" gli dicevano. "Appassirai, gelerai! Perché hai voluto uscire? perché non sei rimasto chiuso in casa? Il raggio di sole ti ha ingannato. E adesso ti sta bene, fiorellino che hai voluto bucare la neve!" "Bucaneve!" ripeté quello nel freddo mattino. "Bucaneve!" gridarono alcuni bambini che erano giunti nel giardino "ce n'è uno, così grazioso, così carino, è il primo, l'unico!"

    Quelle parole fecero bene al fiore, erano come caldi raggi di sole. Il fiore, preso dalla sua gioia, non si accorse neppure d'essere stato colto; si trovò nella mano di un bambino, venne baciato dalle labbra di un bambino, poi fu portato in una stanza riscaldata, osservato da occhi affettuosi, e messo nell'acqua: era così rinfrescante, così ristoratrice, e il fiore credette improvvisamente d'essere entrato nell'estate. La fanciulla della casa, una ragazza graziosa che era già stata cresimata, aveva un caro amico che pure era stato cresimato e che ora studiava per trovarsi una sistemazione. "Sarà lui il mio fiorellino beffato dall'estate!" esclamò la fanciulla, prese quel fiore sottile e lo mise in un foglio di carta profumato su cui erano scritti dei versi, versi su un fiore che cominciavano con «fiorellino beffato dall'estate» e terminavano con «beffato dall'estate». «Caro amico, beffato dall'estate!» Lei lo aveva beffato d'estate. Tutto questo fu scritto in versi e spedito come una lettera; il fiore era là dentro e c'era proprio buio intorno a lui, buio come quando era nel bulbo. Il fiore viaggiò, si trovò nei sacco della posta, venne schiacciato, premuto; non era affatto piacevole, ma finì.

    Il viaggio terminò, la lettera fu aperta e letta dal caro amico lui era molto contento, baciò il fiore che fu messo insieme ai versi in un cassetto, insieme a tante altre belle lettere che però non avevano un fiore; lui era il primo, l'unico, proprio come i raggi del sole lo avevano chiamato: com'era bello pensarlo! Ebbe la possibilità di pensarlo a lungo, e pensò mentre l'estate finiva, e poi finiva il lungo inverno, e venne estate di nuovo, e allora fu tirato fuori. Ma il giovane non era affatto felice; afferrò i fogli con violenza, gettò via i versi, e il fiore cadde sul pavimento, piatto e appassito; non per questo doveva essere gettato sul pavimento! Comunque meglio lì che nel fuoco, dove tutti i versi e le lettere finirono. Cosa era successo? Quello che succede spesso. Il fiore lo aveva beffato, ma quello era uno scherzo; la fanciulla lo aveva beffato, e quello non era uno scherzo; lei si era trovato un altro amico nel mezzo dell'estate. Al mattino il sole brillò su quel piccolo bucaneve schiacciato che sembrava dipinto sul pavimento. La ragazza che faceva le pulizie lo raccolse e lo mise in uno dei libri appoggiati sul tavolo, perché credeva ne fosse caduto mentre lei faceva le pulizie e metteva in ordine. Il fiore si trovò di nuovo tra versi stampati, e questi sono più distinti di quelli scritti a mano, per lo meno costano di più.

    Così passarono gli anni e il libro rimase nello scaffale; poi venne preso, aperto e letto; era un bel libro: erano versi e canti del poeta danese Ambrosius Stub, che vale certo la pena di conoscere. L'uomo che leggeva quel libro girò la pagina. "Oh, c'è un fiore!" esclamò "un bucaneve! È stato messo qui certamente con un preciso significato; povero Ambrosius Stub! Anche lui era un fiore beffato, una vittima della poesia. Era giunto troppo in anticipo sul suo tempo, per questo subì tempeste e venti pungenti, passò da un signore della Fionia all'altro, come un fiore in un vaso d'acqua, come un fiore in una lettera di versi! Fiorellino, beffato dall'estate, zimbello dell'inverno, vittima di scherzi e di giochi, eppure il primo, l'unico poeta danese pieno di gioventù. Ora sei un segnalibro, piccolo bucaneve! Certo non sei stato messo qui a caso!" Così il bucaneve fu rimesso nel libro e si sentì onorato e felice sapendo di essere il segnalibro di quel meraviglioso libro di canti e apprendendo che chi per primo aveva cantato e scritto di lui, era pure stato un bucaneve, beffato dall'estate e vittima dell'inverno. Il fiore capì naturalmente tutto a modo suo, proprio come anche noi capiamo le cose a modo nostro.
    Questa è la fiaba del bucaneve.

    (H.C.Andersen)
     
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  7. gheagabry
     
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    Le cicogne
    Sull'ultima casa di un villaggio si trovava un nido di cicogne. Mamma cicogna se ne stava nel nido con i suoi quattro cicognini, i quali si affacciavano con i loro piccoli becchi neri, che poi sarebbero diventati rossi. Poco lontano dal nido, sempre sul tetto, stava, dritto e immobile, papà cicogna, il quale aveva sollevato una zampa, per stare un pò scomodo dato che stava di guardia. Sembrava scolpito nel legno, tanto era immobile, ' È molto elegante che mia moglie abbia una sentinella vicino al nido! ' pensava 'e non possono sapere che sono suo marito, credono sul serio che sia stato ingaggiato per stare qui. Fa proprio una bella impressione! ' e intanto continuava a stare lì su una zampa sola.

    Per la strada giocava un gruppo di ragazzi, vedendo le cicogne, uno dei più spavaldi intonò la vecchia canzone delle cicogne, ma la cantavano con queste parole, come la ricordava papà cicogna:

    Cicogna, cicogna ardita
    vola, vola a casa tua
    tua moglie sta nel nido
    con i quattro cicognini,
    il primo verrà impiccato
    il secondo verrà infilzato
    il terzo verrà bruciato
    il quarto scorticato!

    "Senti cosa cantano i ragazzi?" esclamarono i giovani cicognini "dicono che saremo impiccati e bruciati!" "Non dovete preoccuparvi!" li tranquillizzò mamma cicogna "non ascoltateli e non succederà niente." Ma i ragazzi continuavano a cantare, e indicavano con le dita le cicogne, solo un ragazzo di nome Peter disse che era male prendere in giro gli animali, e non volle cantare con gli altri. Mamma cicogna consolava intanto i cicognini. "Non preoccupatevene!" ripeteva "guardate come sta tranquillo vostro padre, e su una zampa sola!" "Abbiamo tanta paura!" dicevano i giovani cicognini, nascondendo la testa in fondo al nido.

    Il giorno dopo i ragazzi si radunarono di nuovo per giocare e, vedendo le cicogne, ricominciarono con la loro canzone:

    Il primo verrà impiccato,
    il secondo verrà bruciato!...

    "Verremo davvero impiccati e bruciati?" domandarono i cicognini. "Certo che no!" li rassicurò la madre "dovete imparare a volare, e ve lo insegnerò io. Poi andremo nel prato e faremo visita alle rane che si inchineranno davanti a noi, dicendo «cra cra», e noi le mangeremo. Sarà proprio un divertimento!" "E poi?" chiesero i cicognini. "Poi si raduneranno tutte le cicogne che sono in questo paese, e cominceremo le manovre autunnali; in quel momento bisogna saper volare bene: è molto importante, perché il generale infilzerà con il becco coloro che non sanno volare quindi cercate di imparare, quando inizieranno gli esercizi." "Allora verremo infilzati, come affermano i ragazzi, e sentite ora lo dicono di nuovo!" "Ascoltate me e non loro!" disse loro mamma cicogna. "Dopo le grandi manovre voleremo verso i paesi caldi; sì molto lontano da qui, oltre le montagne e i boschi. Voleremo fino in Egitto, dove si trovano case triangolari in pietra, che finiscono a punta oltre le nubi: si chiamano piramidi e sono più antiche di quanto una cicogna possa immaginare. C'è un fiume che straripa, così il paese è pieno di paludi. Noi andremo alle paludi a mangiare le rane." "Oh!" esclamarono i cicognini. "Sì, è proprio bello! non si fa altro che mangiare tutto il giorno, e mentre noi là stiamo così bene, in questo paese non rimarrà una sola foglia sugli alberi, qui sarà così freddo che le nuvole geleranno e si romperanno facendo cadere piccoli pezzetti bianchi." Naturalmente intendeva la neve, ma non sapeva spiegarsi più chiaramente. "Anche i ragazzi cattivi si romperanno per il freddo?" domandarono i cicognini. "No, non si romperanno per il freddo, ma ci andranno vicino. E dovranno restare chiusi a ammuffire in una stanza buia. Voi intanto volerete in un paese straniero, dove ci sono fiori e dove splende il sole." Ormai era passato del tempo e i cicognini erano cresciuti e riuscivano a stare in piedi nel nido per guardarsi intorno, e papà cicogna arrivava ogni giorno con belle rane, piccoli serpentelli e tutte le altre buone cose che piacevano alle cicogne e che lui riusciva a trovare. Com'era divertente vedere le acrobazie che faceva per loro. Metteva la testa sulla coda e col becco faceva il verso della raganella, e poi raccontava loro storie che parlavano della palude. "Bene, ora dovete imparare a volare" disse un giorno mamma cicogna, e i quattro cicognini dovettero salire sul tetto; oh, come traballavano sulle zampe e come cercavano di tenersi in equilibrio con le ali! e comunque erano sempre sul punto di cadere giù. "Guardate come faccio io" disse la madre "dovete tenere la testa in questo modo, e le zampe in quest'altro! un-due! un-due! è questo che vi aiuterà nella vita!" e così volò per un pochino, e i cicognini fecero un saltino molto goffo e bum! si trovarono per terra, perché il sedere era troppo pesante. "Io non voglio volare" disse un cicognino e si rifugiò nel nido "non mi importa di andare nei paesi caldi!" "Allora resterai qui e morirai di freddo quando verrà l'inverno! Vuoi che vengano i ragazzi a impiccarti, o bruciarti o infilzarti? Ora te li chiamo!" "No, no!" gridò il cicognino, e saltò di nuovo sul tetto vicino agli altri, il terzo giorno sapevano già volare un pochino e così credettero di potersi già librare nell'aria, ma quando ci provarono, bum! caddero, e dovettero ricominciare a muovere le ali. In quel mentre giunsero i ragazzi della strada e cantarono la loro canzone:

    Cicogna, cicogna ardita....

    "Possiamo volare giù e cavar loro gli occhi?" chiesero i cicognini. "No, lasciate perdere!" rispose la madre. "State a sentire me piuttosto. È molto più importante! un - due - tre! adesso voliamo a destra, un - due - tre!, ora voliamo a sinistra, intorno al comignolo. Molto bene! L'ultimo colpo di ali era giusto e ben fatto, quindi domani potrete venire con me alla palude. Ci saranno altre famiglie di cicogne, molto per bene, con i loro figli: dimostratemi di essere i più educati; e tenete la testa alta, perché sta bene e accresce la nostra considerazione." "Ma non dobbiamo vendicarci di quei ragazzacci?" chiesero i cicognini. "Lasciate che gridino quello che vogliono. Voi volerete verso le nubi e sarete nel paese delle piramidi quando loro avranno freddo e non ci sarà più una foglia verde o una sola mela!" "Ma noi vogliamo vendicarci!" si dicevano sottovoce i cicognini, e intanto si esercitavano di nuovo. Tra tutti quei ragazzacci di strada il più dispettoso era proprio quello che aveva cominciato a cantare, e era molto piccolo, non aveva più di sei anni; ma i cicognini credettero che avesse più di cento anni, dato che era molto più alto dei loro genitori; che cosa ne sapevano loro di quanti anni potessero avere i bambini e gli adulti? La loro vendetta doveva colpire quell'unico ragazzo, perché lui aveva cominciato e non la smetteva mai. I cicognini erano molto irritati, e diventando grandi sopportavano sempre più malvolentieri; alla fine la madre dovette promettere che si sarebbero vendicati, ma voleva aspettare l'ultimo giorno trascorso in quel paese. "Dobbiamo prima vedere come ve la cavate alle manovre, se sbaglierete e il generale vi infilzerà il becco nel petto, allora i ragazzi in un certo senso avrebbero ragione. Staremo a vedere!" "Vedrai" le dissero i cicognini, e fecero del loro meglio; si esercitarono ogni giorno e impararono a volare con tale facilità e grazia che era un piacere guardarli.

    Venne l'autunno: tutte le cicogne cominciarono a radunarsi per volare verso i paesi caldi, quando da noi c'è l'inverno. Che manovre! Dovevano volare sui boschi e sui villaggi, solo per mostrare le loro capacità, perché era un gran viaggio quello che si accingevano a compiere. I cicognini volarono con una tale grazia che ottennero «ottimo con rane e serpenti». Era il voto più alto e le rane e i serpenti si potevano mangiare, e così fecero i cicognini. "Adesso possiamo vendicarci!" dissero. "Certo!" rispose la madre. "Ho pensato una giusta vendetta! Io so dov'è lo stagno in cui si trovano tutti i bambini piccoli in attesa che le cicogne li portino dai loro genitori. Questi cari neonati dormono e sognano cose bellissime che non sogneranno mai più. Tutti i genitori desiderano quei bei bambini e tutti i bambini desiderano un fratellino o una sorellina. Ora noi andremo allo stagno e porteremo un bambino a ogni ragazzo che non ha cantato quella cattiva canzone e non si è burlato delle cicogne, mentre quanti l'hanno fatto non avranno niente." "Ma che cosa faremo a quel ragazzo cattivo e antipatico che per primo ha cominciato a cantare?" gridavano i cicognini. "Nello stagno si trova anche un bambino morto, morto perché ha sognato troppo; lo porteremo a quel ragazzo, così piangerà, perché gli abbiamo portato un fratellino morto; invece a quel bravo ragazzo che aveva detto: "È male prendersi gioco degli animali!", non l'avete dimenticato, vero?, ebbene, a lui, porteremo sia un fratellino che una sorellina e dato che quel ragazzo si chiama Peter, anche voi tutti vi chiamerete Peter!" E le cose andarono proprio così, e tutte le cicogne si chiamarono Peter, e così si chiamano ancor oggi.

    (H.C.Andersen)
     
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  8. gheagabry
     
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    I fidanzati
    Un trottolino e una palla stavano in un cassetto insieme a altri giocattoli e il trottolino propose alla palla: "Perché non ci fidanziamo, dato che siamo insieme nel cassetto?" ma la palla che era fatta di marocchino e si credeva una signorina per bene non volle neppure rispondere.

    Il giorno dopo venne il bambino che possedeva quei giocattoli, prese il trottolino, lo dipinse di rosso e giallo e vi piantò nel mezzo un chiodo di ottone; ci stava proprio bene soprattutto quando girava. "Mi guardi!" disse il trottolino alla palla. "Che cosa ne dice adesso? non possiamo fidanzarci? Stiamo proprio bene insieme, lei salta e io danzo! nessuno potrebbe essere più felice di noi." "Lei crede?" rispose la palla "forse non sa che mio padre e mia madre sono state pantofole di marocchino, e che io ho una valvola in vita!" "Va bene, ma io sono in legno di mogano!" replicò il trottolino "e mi ha tornito il sindaco del paese personalmente: possiede un tornio e si è divertito moltissimo!" "Va bene, ma io sono in legno di mogano!" replicò il trottolino "e mi ha tornito il sindaco del paese personalmente: possiede un tornio e si è divertito moltissimo!" "Devo crederle?" chiese la palla. "Che io non venga più fatto rotolare, se dico una bugia!" esclamò il trottolino. "Lei parla bene" concluse la palla "ma io non posso accettare sono quasi fidanzata con un rondone! Ogni volta che sono per aria, si affaccia dal nido e mi dice: "Accetta? accetta?" e ora ho gia detto di sì dentro di me, e questo è quasi un fidanzamento! Ma le prometto che non la dimenticherò mai!" "Che bella consolazione!" commentò il trottolino, e da allora non si parlarono più.

    Il giorno dopo la palla venne tolta dal cassetto, il trottolino vide come veniva lanciata in alto, sembrava un uccello; alla fine non la si scorgeva più; ma ogni volta ritornava indietro, e poi quando toccava terra spiccava un altro gran salto, e questo a causa della nostalgia o della valvola che aveva in vita. Al nono salto la palla sparì e non tornò più indietro; il bambino la cercò a lungo, ma non la trovo più. "Io so dove è finita!" sospirò il trottolino. "Si trova nel nido del rondone e si è sposata con lui." Più pensava alla palla, più il trottolino se ne innamorava; proprio perché non poteva averla, provava sempre più amore, e il fatto che lei avesse scelto un altro era quello che più gli dispiaceva. Rotolava e girava su se stesso, ma continuava a pensare alla palla, che nell'immaginazione diventava sempre più graziosa. Così passarono molti anni e quello divenne un antico amore.

    Il trottolino non era più giovane! Un giorno venne dorato da cima a fondo: non era mai stato così bello. Ora era un trottolino dorato e saltava e girava a più non posso. Che divertimento! ma a un certo momento saltò troppo in alto e... sparì! Lo cercarono a lungo, persino in cantina, ma non riuscirono a trovarlo. Dov'era finito? Era caduto nel deposito della spazzatura dove c'era di tutto: torsoli di cavolo, manici di scopa e tanti calcinacci caduti dalla grondaia. "Adesso sono a posto! qui perderò presto la doratura, e guarda un po' con chi mi tocca stare!" e intanto sbirciava verso un lungo torsolo di cavolo che era stato rosicchiato fin troppo, e verso uno strano oggetto rotondo che sembrava una vecchia mela, ma non era una mela, bensì una vecchia palla, che per tanti anni era rimasta sulla grondaia e che l'acqua aveva afflosciato. "Fortunatamente è arrivato qualcuno del mio ceto con cui poter parlare!" esclamò la palla osservando il trottolino dorato. "Io sono fatta di marocchino, cucita da una damigella. E ho una valvola in vita, ma nessuno lo capirebbe ora! Stavo per sposarmi con un rondone, quando caddi sulla grondaia e lì rimasi per cinque anni affondata nell'acqua. È molto tempo, mi creda, per una signorina." Ma il trottolino non disse nulla, pensava al suo antico amore, e più la ascoltava, più si convinceva che era lei. Poi giunse la domestica per vuotare il secchio della spazzatura e "Eccolo qui, il trottolino dorato!" esclamò. Il giocattolo venne così riportato nella stanza con tutti gli onori; della palla invece non si seppe nulla e il trottolino non parlò mai più del suo antico amore; l'amore passa quando la propria amata è rimasta cinque anni a marcire in una grondaia; non la si riconosce nemmeno, se la si incontra nel deposito della spazzatura.

    (H.C.Andersen)
     
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  9. gheagabry
     
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    I cigni selvatici
    Molto lontano da qui, dove le rondini volano quando qui viene l'inverno, viveva un re con undici figli e una figlia, Elisa. Gli undici fratelli, che erano principi, andavano a scuola con la stellamsul petto e la spada al fianco; scrivevano su una lavagna d'oro usando punte di diamante e sapevano leggere bene i libri e recitare a memoria: si capiva subito che erano principi. La loro sorella, Elisa, stava seduta su uno sgabellino di cristallo e guardava un libro di figure che valeva metà del regno. Oh! quei bambini stavano proprio bene, ma la loro felicità non poteva durare per sempre! Il padre, re dell'intero paese, si risposò con una principessa cattiva che non amava affatto quei poveri bambini, e loro dovettero accorgersene fin dal primo giorno. Al castello c'era una grande festa e i bambini giocavano a farsi visita, ma invece di dar loro tutte le torte e le mele al forno che riuscivano a mangiare, la matrigna gli diede solo della sabbia nelle tazze da tè e disse di far finta che fosse qualcosa di buono. La settimana successiva trasferì Elisa in campagna da alcuni contadini e non passò molto tempo che riuscì a far credere al re cose molto brutte sui poveri principini, così che egli non si preoccupò più di loro. «Volatevene via per il mondo e arrangiatevi da soli!» disse la regina cattiva. «Volate via come grandi uccelli senza voce!»; non riuscì tuttavia a far loro tutto il male che avrebbe voluto: i principini si trasformarono in undici bellissimi cigni selvatici. Con uno strano verso si sollevarono e andarono via dal castello verso il parco e il bosco. Era ancora mattino presto quando arrivarono alla casa dei contadini in cui abitava la sorellina Elisa; dormiva ancora, e loro volarono un po' sopra il tetto, girarono il collo da ogni parte e batterono le ali, ma nessuno li vide né li sentì! Dovettero riprendere il volo, in alto verso le nubi, lontano nel vasto mondo, finché giunsero a una immensa e oscura foresta che si stendeva fino alla spiaggia.

    La povera Elisa giocava nella casa dei contadini con una foglia verde: non aveva altri giocattoli; fece un buco nella foglia e guardò attraverso, verso il sole: le sembrò di vedere i begli occhi chiari dei suoi fratelli, e ogni volta che i caldi raggi del sole le illuminavano il viso, pensava alle loro carezze.

    Passarono i giorni, uno uguale all'altro. Quando soffiava tra i cespugli di rose davanti alla casa, il vento sussurrava alle rose: «Chi può essere più grazioso di voi?» e le rose scuotevano la testa e dicevano: «Elisa». E quando la vecchia contadina, la domenica, seduta sulla soglia, leggeva il libro dei salmi, il vento girava le pagine e chiedeva al libro: «Chi può essere più devoto di te?» e il libro rispondeva: «Elisa», e quello che le rose e il libro dei salmi dicevano era la pura verità.

    Quando compì quindici anni, Elisa venne richiamata al castello; e appena la principessa vide che la ragazza era così bella, cominciò a odiarla crudelmente. Avrebbe voluto trasformare anche lei in cigno selvatico, proprio come i fratelli, ma non osò farlo, perché il re voleva vedere la figlia. Di primo mattino la regina si recò nel bagno, costruito in marmo e decorato con soffici cuscini e bellissimi tappeti; lì prese tre rospi, li baciò e disse al primo: «Mettiti sulla testa di Elisa, quando entrerà nella vasca da bagno, e rendila indolente come te! Tu invece devi saltarle in fronte» disse al secondo rospo «così che diventi orribile come te e suo padre non la riconosca! E in quanto a te, devi metterti sul suo cuore» sussurrò al terzo animale «e renderla tanto malvagia che ne soffra lei stessa!». Intanto fece scivolare i tre rospi nell'acqua limpida, che subito divenne verdognola; poi chiamò Elisa, la svestì e la fece entrare nella vasca da bagno; mentre lei si immergeva i tre rospi saltarono uno sul suo capo, uno sulla fronte e l'ultimo sul cuore, ma Elisa sembrò non accorgersene neppure. Quando si rialzò, galleggiavano nell'acqua tre papaveri rossi; se gli animali non fossero stati velenosi e baciati dalla strega, si sarebbero trasformati in rose rosse; ma divennero comunque fiori soltanto perché avevano riposato sul suo capo e sul suo cuore; Elisa era così pura e innocente che i sortilegi non avevano alcun effetto su di lei. Quando la cattiva principessa lo vide, spalmò la ragazza con succo di noci, per scurirle la pelle; poi le unse il viso con un unguento puzzolente e le arruffò i capelli: ora era assolutamente impossibile riconoscere le bella Elisa. Infatti suo padre, vedendola, inorridì e dichiarò che quella non poteva essere sua figlia. In realtà nessuno la riconobbe, a parte il cane da guardia e le rondini, ma quelli erano dei poveri animali e non aveva alcuna importanza ciò che dicevano. La povera Elisa cominciò a piangere pensando ai suoi undici fratelli che erano lontani. Malinconica, uscì dal castello e camminò per tutto il giorno per campi e paludi finché giunse nel grande bosco. Non sapeva dove si trovava, ma era molto triste e provava una grande nostalgia dei fratelli, che sicuramente erano stati cacciati via dal castello come lei, e decise che li avrebbe ritrovati a tutti i costi.

    Era giunta da poco tempo nel bosco quando sopraggiunse la notte; aveva perso la strada e così sedette sul morbido muschio, recitò la preghiera della sera e appoggiò la testa a un tronco d'albero. C'era una grande quiete e l'aria era mite, e sull'erba e tra il muschio si accendevano centinaia di lucciole; quando Elisa con delicatezza sfiorò un ramoscello con la mano, quegli insetti luminosi caddero su di lei come stelle. Per tutta la notte sognò i suoi fratelli, sognò di quando da bambini giocavano insieme e di quando scrivevano con la mina di diamante sulla lavagna d'oro e guardavano il bel libro illustrato che era costato metà del regno. Ma sulla lavagna non scrivevano più, come allora, le aste e gli zeri, ora disegnavano le affascinanti avventure che avevano vissuto e tutto quel che avevano visto. Gli uccelli cantavano, i personaggi uscivano dal libro illustrato e chiacchieravano con Elisa e con i suoi fratelli, ma quando lei girava pagina, ritornavano dentro di corsa per non creare confusione tra le figure. Quando si svegliò, il sole era già alto nel cielo; in verità lei non riusciva a vederlo, perché gli alti alberi si allargavano sopra di lei con rami fitti e folti, ma i raggi penetravano tra le foglie formando un velo d'oro svolazzante. C'era un buon profumo d'erba e gli uccelli quasi si posavano sulle sue spalle. Elisa sentiva il gorgoglio dell'acqua, perché c'erano diverse sorgenti che sfociavano in un laghetto con il fondo di bellissima sabbia. Tutt'intorno crescevano fitti cespugli, ma in un punto i cervi avevano creato un'apertura e da lì Elisa arrivò fino alla riva. L'acqua era così limpida, che se il vento non avesse mosso i rami e i cespugli, lei li avrebbe creduti dipinti sul fondo, si rispecchiava nell'acqua ogni singola foglia, quelle illuminate dal sole e quelle in ombra. Quando vide riflesso il proprio volto Elisa si spaventò, tanto era nera e brutta, ma non appena si toccò gli occhi e la fronte con la mano bagnata, subito la pelle chiara ricomparve. Allora si tolse i vestiti e si immerse nell'acqua fresca, una figlia di re più bella di lei non si trovava in tutto il mondo. Poi si rivestì di nuovo e si intrecciò i lunghi capelli, andò verso la sorgente zampillante e bevve dal cavo delle mani, e si diresse nel bosco, senza sapere dove andare. Pensava ai suoi fratelli, pensava al buon Dio che certamente non l'avrebbe abbandonata, lui che fa crescere le mele selvatiche per dar da mangiare agli affamati. Elisa trovò infatti uno di questi alberi, con i rami piegati per il gran peso dei frutti; ne mangiò, poi mise dei sostegni sotto i rami e s'incamminò nella parte più buia del bosco. C'era un tale silenzio che sentiva il rumore dei suoi passi, sentiva ogni singola foglia secca che scricchiolava sotto i suoi piedi, non si vedeva un uccello e neppure un raggio dl sole riusciva a passare attraverso i fitti rami degli alberi: i tronchi alti erano così vicini tra loro che quando guardava davanti a sé, le sembravano una inferriata che la tenesse prigioniera; per la prima volta provava una solitudine tanto profonda!

    La notte fu proprio buia, neppure una lucciola brillava nel muschio; allora, tristemente, Elisa si sdraiò per dormire; le sembrò che i rami degli alberi si traessero da parte e che il buon Dio la guardasse con dolcezza, mentre gli angioletti gli facevano capolino sopra la testa e sotto le braccia. Quando si risvegliò al mattino non seppe dire se aveva sognato o se tutto era veramente accaduto. Si incamminò, ma dopo pochi passi incontrò una vecchia che portava bacche selvatiche in un cestello. Questa gliele offrì e Elisa le chiese se aveva visto undici principi cavalcare per il bosco. «No» rispose la vecchia «ma ieri ho visto undici cigni con una corona in testa, che nuotavano nel fiume che passa qui vicino!» E condusse Elisa verso un pendio in fondo al quale scorreva un fiume; gli alberi più grandi stendevano i loro lunghi rami folti verso quelli degli alberi dell'altra riva, con cui si intrecciavano; le piante che non erano cresciute abbastanza per toccarsi, avevano divelto le radici dal terreno e si sporgevano più che potevano sull'acqua per intrecciare i rami con quelli delle altre piante. Elisa salutò la vecchia e s'incamminò lungo il fiume, finché questo non sfociò nella spiaggia aperta. L'immenso mare si stendeva ora davanti alla fanciulla, ma non c'era né una vela né una barchetta. Come poteva proseguire? Cominciò a guardare gli innumerevoli ciottoli che si trovavano sulla spiaggia, l'acqua li aveva tutti levigati, vetro, ferro, pietra, tutto quello che era stato depositato sulla spiaggia era stato levigato dall'acqua, che pure era molto più delicata della pelle delle mani! “L'acqua è instancabile nel suo lavoro e così riesce a smussare gli oggetti più duri; anch'io voglio essere altrettanto instancabile! Grazie per quanto mi avete insegnato, chiare onde fluttuanti; un giorno, me lo dice il mio cuore, voi mi porterete dai miei cari fratelli!” Tra i relitti portati dall'onda, c'erano undici bianche piume di cigno; lei le raccolse e ne fece un mazzetto, e vide delle goccioline d'acqua, ma chi poteva dire se erano lacrime o gocce di rugiada? Elisa era sola sulla spiaggia, ma non soffriva di solitudine, il mare infatti era in continuo mutamento, si trasformava in poche ore più volte che non un lago nell'arco di un anno intero. Se sopraggiungeva una grande nuvola nera, allora il mare sembrava dire: “Posso anche oscurarmi!”, quando soffiava il vento le onde mostravano il bianco, se il vento calava e le nubi erano rosse, allora il mare diventava liscio come i petali di rosa; poi si faceva ora verde ora bianco, ma per quanto potesse stare calmo c'era sempre un lieve movimento lungo la riva, l'acqua si sollevava dolcemente, come il petto di un bambino che dorme. Mentre il sole tramontava Elisa vide undici cigni bianchi con le corone d'oro in testa volare verso la riva; allineati com'erano uno dietro l'altro, sembravano un lungo nastro bianco. Elisa si arrampicò sulla scarpata e si nascose dietro un cespuglio: i cigni si posarono vicino a lei e sbatterono le loro grandi ali bianche. Non appena il sole scomparve nel mare, i cigni persero il loro manto di piume e apparvero undici bellissimi principi, i fratelli di Elisa! Lei mandò un grido perché, benché fossero cambiati molto, sentiva che erano loro; si precipitò nelle loro braccia chiamandoli per nome, e loro, riconoscendo la sorellina che si era fatta così grande e bella, si rallegrarono immensamente. Ridevano e piangevano, e subito si resero conto di quanto la matrigna fosse stata cattiva con loro. «Noi fratelli» spiegò il più grande «voliamo come cigni finché è giorno; non appena il sole è calato, assumiamo le sembianze di uomini: per questo dobbiamo badare bene a avere un luogo per posare i piedi, quando è l'ora del tramonto. Infatti, se in quel momento stiamo ancora volando tra le nuvole, diventando uomini, precipiteremmo giù. Noi non abitiamo qui, c'è un altro paese altrettanto bello, dall'altra parte del mare; ma la strada per arrivare fin là è lunga, dobbiamo attraversare l'immenso mare e non c'è neppure un'isola su cui posarci e passare la notte, solamente un unico scoglio, molto piccolo, che affiora: soltanto stringendoci riusciamo a starci tutti e quando il mare è mosso, l'acqua ci spruzza, ma nonostante ciò ne ringraziamo Dio. Lì passiamo la notte nelle sembianze di uomini e senza quello scoglio non potremmo mai rivedere la nostra cara terra natale, perché utilizziamo i due giorni più lunghi dell'anno per compiere il viaggio. Solo una volta all'anno ci è permesso visitare la nostra patria e possiamo restare qui solamente undici giorni. Allora voliamo sopra questa grande foresta e rivediamo il castello dove siamo nati e dove nostro padre ancora vive, scorgiamo anche il campanile della chiesa dove nostra madre è sepolta. «Un richiamo del sangue ci lega a questi alberi e a questi cespugli, qui cavalcano per le praterie i cavalli selvaggi, proprio come ai tempi della nostra infanzia, qui i carbonai cantano le vecchie canzoni al cui ritmo noi ballavamo quand'eravamo piccoli; questa è la nostra cara patria che ci chiama a sé, e qui abbiamo ritrovato te, cara sorellina! Possiamo rimanere ancora due giorni, poi siamo costretti a partire per quella bella terra, che però non è la nostra patria! Come facciamo a portarti con noi? Non c'è una vela né una barca!» «Come posso fare per salvarvi?» esclamò la sorellina. Continuarono a parlare per quasi tutta la notte, dormendo solo poche ore.

    Elisa fu svegliata dal rumore delle ali dei cigni, che sibilavano sopra di lei. I suoi fratelli si erano già trasformati di nuovo e volavano in larghe spirali, e presto scomparvero; ma uno di loro, il più giovane, rimase con lei; posò il suo capo di cigno sul suo grembo e lei gli accarezzò le bianche ali. Rimasero insieme tutto il giorno, verso sera ritornarono gli altri, e quando il sole scomparve ripresero la loro forma umana. «Domani partiremo e non potremo tornare prima che sia passato un anno intero, ma non possiamo lasciarti così! Hai il coraggio di venire con noi? Le nostre braccia sono abbastanza robuste da portarti per il bosco, quindi anche le ali saranno abbastanza forti da portarti con noi sul mare!» «Sì, portatemi con voi!» supplicò Elisa. Per tutta la notte intrecciarono una rete con la corteccia flessibile del salice e dei giunchi pieghevoli, e la rete riuscì grande e robusta; Elisa vi si adagiò sopra e quando il sole sorse, i fratelli si trasformarono in cigni selvatici, afferrarono la rete con il loro becco e si sollevarono tra le nuvole con la cara sorellina che ancora dormiva.


    I raggi del sole le cadevano dritti sul capo, allora uno dei cigni volò proprio sopra di lei perché le sue ampie ali le facessero ombra. Erano già lontani dalla riva quando Elisa si svegliò; credette di sognare ancora, tanto era strano venire trasportata sul mare, così in alto nel cielo. Al suo fianco si trovavano un ramoscello di belle bacche mature e un mazzetto di radici saporite; li aveva raccolti il più giovane dei fratelli, e lei gli sorrise riconoscente, poiché era proprio lui, l'aveva riconosciuto, che le volava sul capo per farle ombra con le ali. Erano così in alto che la prima nave che videro sotto di loro sembrò un gabbiano bianco che galleggiasse sull'acqua. Alle loro spalle sopraggiunse una nube grande quanto una montagna, dove Elisa vide proiettarsi la sua ombra e quella degli undici cigni; erano ombre gigantesche, in una visione meravigliosa, come non ne aveva viste mai, ma il sole continuava a salire nel cielo e la nuvola rimase indietro: l'immagine delle ombre piano piano svanì. Volarono per tutto il giorno come frecce nell'aria, sebbene fossero meno veloci del solito perché dovevano portare la sorella. Il tempo peggiorava e la sera si avvicinava; preoccupata, Elisa guardava il sole che calava: ancora non si riusciva a scorgere lo scoglio. Le sembrò che i cigni battessero con più rapidità le ali. Oh, era colpa sua se non arrivavano in tempo Una volta tramontato il sole, sarebbero diventati uomini, sarebbero precipitati nel mare e affogati. Allora rivolse dal profondo del suo cuore una preghiera al Signore, ma ancora lo scoglio non si vedeva. Le nuvole nere si avvicinavano, violente raffiche di vento annunciavano una tempesta, le nuvole ormai formavano insieme un'onda nera e minacciosa che avanzava inesorabilmente; i lampi rischiaravano il cielo senza posa. Il sole era ormai all'orizzonte. Il cuore di Elisa fremeva; all'improvviso i cigni si abbassarono così rapidamente che lei credette di cadere, poi si rialzarono nuovamente. Il sole era già scomparso per metà, solo in quel momento lei scorse sotto di sé quel piccolo scoglio: non sembrava più grande di una foca che sporge la testa fuori dell'acqua. Il sole calava rapidamente, ora era grande solo come una stella. Il suo piede toccò la dura roccia, proprio mentre il sole soffocava l'ultima scintilla della sua carta incendiata. Elisa vide intorno a sé i fratelli che si tenevano per mano, non c'era altro spazio oltre a quello occupato da lei e da loro. Il mare si frangeva contro lo scoglio e li spruzzava come se stesse piovendo; il cielo sembrava infuocato e i tuoni rimbombavano in continuità. Ma i fratelli si tenevano stretti e intonarono un salmo, con cui ritrovarono il coraggio. All'alba l'aria era di nuovo calma e limpida, e non appena comparve il sole, i cigni e Elisa ripresero il volo. Il mare era ancora grosso, e guardando dall'alto, la spuma bianca sul mare verde scuro sembrava costituita da milioni di cigni che nuotavano nell'acqua. Quando il sole fu più alto Elisa vide davanti a sé una montagna quasi sospesa nell'aria; tra le rocce luccicavano i ghiacciai e nel mezzo si innalzava un castello lungo miglia e miglia, cinto da arditi colonnati sovrapposti; boschi di palme e fiori meravigliosi, grandi come ruote di mulini, circondavano ondeggiando il castello. Elisa chiese se quello era il paese dove dovevano arrivare, ma i cigni scossero il capo: quello che si vedeva era il bellissimo ma sempre mutevole castello di nuvole della Fata Morgana, e nessun uomo vi poteva entrare. Elisa lo osservò con attenzione; le montagne, i boschi e il castello stesso crollarono in un attimo e apparvero venti chiese superbe, tutte uguali tra loro, con alti campanili e finestre appuntite. Le sembrò di sentire la musica di un organo, ma in realtà sentiva il mare. Ora era molto vicina alle chiese e queste si trasformarono in una flotta di navi che navigavano sotto di lei. Guardò più attentamente e vide solo la nebbia del mare sospinta dal vento. Era dunque vero! stava assistendo a una continua trasformazione; ma infine avvistò la vera terra che dovevano raggiungere. Si innalzavano splendide montagne azzurre, con boschi di cedro, città e castelli. Molto tempo prima che il sole tramontasse, Elisa si trovò seduta su una roccia davanti a una grande grotta nascosta da verdi piante rampicanti sottili come tende ricamate. «Chissà cosa sognerai questa notte!» esclamò il più giovane dei fratelli mostrando a Elisa la sua camera da letto. «Vorrei poter sognare come fare a salvarvi!» rispose la fanciulla, e quel pensiero la occupò completamente; nel suo intimo pregò Dio di aiutarla, anche nel sonno continuò a pregare, poi le sembrò di volare fino al castello di nuvole della Fata Morgana e vide la fata venirle incontro, bella e scintillante, e tuttavia assomigliava proprio alla vecchietta che le aveva dato le bacche nel bosco e le aveva raccontato dei cigni con la corona d'oro. «I tuoi fratelli possono essere salvati!» esclamò la fata «ma tu sarai abbastanza coraggiosa e perseverante? È vero che il mare è più lieve delle tue belle mani e pure smussa le pietre più dure, ma non sente il dolore che le tue dita dovranno patire, non ha cuore, non soffre la paura e il supplizio che tu dovrai sopportare. Vedi questa ortica che ho in mano? di queste ne crescono tante vicino alla grotta dove dormi. Ma ricordati, solo queste piante e quella che cresce tra le tombe del cimitero possono essere usate, tu dovrai raccoglierle, anche se ti bruceranno la pelle e te la copriranno di bolle, poi dovrai pestarle con i piedi per ottenerne la fibra: con questa dovrai tessere undici tuniche e gettarle sugli undici cigni selvatici; solo così l'incantesimo verrà rotto. Ma ricorda, dal momento in cui comincerai questo lavoro fino a quando non sarà finito, e possono passare anni, non dovrai più parlare; la prima parola pronunciata trapasserebbe come un pugnale il cuore dei tuoi fratelli. Dalla tua lingua dipende la loro vita. Ricorda tutto quel che ti ho detto!» Intanto sfiorò con l'ortica la mano di Elisa, e a quella sensazione di fuoco acceso Elisa si svegliò. Era già giorno e vicino al suo giaciglio c'era un'ortica, proprio come quella vista nel sogno. Allora s'ínginocchiò, ringraziò il Signore e uscì dalla grotta per cominciare il suo lavoro.

    Con le sue manine delicate colse quelle orribili ortiche che sembravano infuocate; grosse bolle le si formarono sulle mani e sulle braccia, ma lei soffriva volentieri se questo poteva salvare i suoi cari fratelli. Pestò ogni pianta di ortica con i piedini nudi e ne ricavò la verde fibra. Quando il sole tramontò giunsero i fratelli che si spaventarono nel vederla così silenziosa; all'inizio credettero fosse un nuovo incantesimo della matrigna cattiva, ma quando videro le sue mani, capirono quel che lei stava facendo per la loro salvezza, e il più giovane dei fratelli pianse; dove cadevano le sue lacrime scompariva il dolore e sparivano le bolle brucianti.

    Elisa trascorse tutta la notte al lavoro, perché non poteva trovare pace prima di aver salvato i cari fratelli; passò tutto il giorno dopo da sola, dato che i cigni s'erano allontanati, ma il tempo volò. Una tunica era già finita e ora iniziava la seconda. Improvvisamente risuonarono i corni da caccia tra le montagne e lei si spaventò. Il suono si avvicinava, Elisa sentiva i cani abbaiare; terrorizzata, si rifugiò nella grotta, legò in un fascio le ortiche che già aveva raccolto e pestato e vi sedette sopra. In quel momento comparve dalla macchia un grosso cane, seguito da un altro e da un altro ancora. Abbaiavano forte, tornavano indietro e comparivano di nuovo. Dopo pochi minuti tutti i cacciatori stavano all'ingresso della grotta e tra loro il più bello era il re del paese, che si avvicinò a Elisa: non aveva mai visto una ragazza più bella. «Come sei arrivata qui, bella fanciulla?» le chiese. Elisa scosse la testa: non poteva parlare, ne andava di mezzo la salvezza e la vita dei suoi fratelli, e nascose le sue mani sotto il grembiule, perché il re non vedesse quanto soffriva. «Vieni con me!» le disse «qui non puoi certo restare! Se sei buona quanto sei bella, ti rivestirò con seta e velluto, ti metterò una corona d'oro sul capo e tu abiterai nel più ricco dei miei castelli» e così dicendo la sollevò sul suo cavallo; lei piangeva e si torceva le mani, ma il re disse: «Io voglio la tua felicità! un giorno mi ringrazierai per questo!» e così ripartì verso i monti tenendola davanti a sé sul cavallo, seguito dai cacciatori. Quando tramontò il sole apparve la splendida capitale, ricca di chiese e cupole. Il re condusse la fanciulla al castello, dove grandi fontane zampillavano negli alti saloni di marmo, dove le pareti e i soffitti erano splendidamente affrescati, ma Elisa non vedeva nulla e piangeva sconsolata. Senza opporsi, lasciò che le dame di corte la rivestissero di abiti regali, le intrecciassero perle nei capelli e le infilassero morbidi guanti sulle dita bruciate. Così vestita, appariva di una bellezza insuperabile; tutta la corte le si inchinò con una riverenza molto profonda e il re la chiamò sua sposa, sebbene l'arcivescovo scuotesse il capo commentando che la bella fanciulla del bosco in realtà era certo una strega che aveva accecato gli occhi di tutti e sedotto il cuore del re. Il re non lo ascoltò, fece suonare la musica, fece preparare le pietanze più prelibate e fece danzare intorno a lei le fanciulle più graziose. Elisa venne condotta attraverso giardini profumati e in saloni meravigliosi, ma sulle sue labbra non comparve mai un sorriso, e neppure nei suoi occhi; c'era posto solo per il dolore, per sempre! Poi il re aprì una cameretta che si trovava vicino alla camera da letto di Elisa; era tappezzata di preziosi tendaggi verdi che la facevano assomigliare alla grotta in cui era stata; sul pavimento c'era il fascio di fibre che aveva ricavato dalle ortiche e dal soffitto pendeva la tunica già terminata. Tutto questo era stato raccolto da un cacciatore per pura curiosità. «Qui puoi ripensare alla tua vecchia dimora» le disse il re. «Questa è l'attività che ti teneva occupata allora; adesso, in tanto lusso, ti divertirai a ripensare a quei tempi!» Non appena Elisa vide quegli oggetti, che le stavano tanto a cuore, si mise a sorridere e il sangue le ravvivò le guance; pensò alla salvezza dei fratelli e baciò la mano del re, che la abbracciò con forza e fece suonare tutte le campane per annunciare il matrimonio. La bella fanciulla muta del bosco diventava la regina del paese!

    L'arcivescovo sussurrò parole cattive all'orecchio del re, ma queste non gli raggiunsero il cuore. Il matrimonio venne celebrato; l'arcivescovo in persona dovette cingere con la corona il capo di Elisa e di proposito gliela calzò troppo sulla fronte perché le facesse male; ma su di lei gravava una pena ben più pesante, il dolore per i suoi fratelli, e non sentì affatto la sofferenza fisica. La sua bocca restò muta, una sola parola avrebbe infatti ucciso i fratelli, ma nei suoi occhi c'era un profondo amore per il buon re, che faceva di tutto per renderla felice. Ogni giorno egli le voleva più bene; oh, se solo avesse potuto confidarsi con lui, dirgli la sua pena! ma doveva rimanere muta, muta doveva compiere il suo lavoro. Per questo ogni notte si allontanava da lui e si recava nella cameretta che somigliava alla grotta, e lì tesseva una tunica dopo l'altra, stava cominciando la settima, quando restò senza fibra. Sapeva che nel cimitero crescevano le ortiche che lei doveva usare, ma doveva coglierle lei stessa; come poteva recarsi fin là? “Il dolore alle dita non è nulla in confronto al tormento del mio cuore!” pensava. “Devo tentare! Il buon Dio non mi abbandonerà!” Col cuore tremante, come stesse per compiere una cattiva azione, uscì in una notte di luna, in giardino, attraversò i grandi viali, passò per le strade deserte fino al cimitero. Vide sedute su una delle tombe più grandi un gruppo di lamie, streghe cattive che si strappavano i vestiti come volessero fare il bagno e poi scavavano con le lunghe dita magre nelle tombe più fresche, tirandone fuori i corpi e mangiandone la carne. Elisa dovette passare accanto a loro, che le lanciarono sguardi cattivi; ma lei recitò le sue preghiere, raccolse l'ortica infuocata e la portò al castello. Un solo uomo l'aveva vista, l'arcivescovo, che stava sveglio quando gli altri dormivano. Aveva dunque avuto ragione a sospettare della regina: era una strega che aveva sedotto il re e tutto il popolo. In confessione riferì al re quanto aveva visto e quel che sospettava; mentre egli pronunciava quelle cattiverie le immagini intagliate dei santi scossero la testa, come per dire: “Non è vero! Elisa è innocente!” ma l'arcivescovo interpretò il fatto in un altro modo, sostenne che i santi testimoniavano contro di lei e scuotevano la testa per i suoi peccati. Due lacrime solcarono le guance del re, che tornò a casa col cuore pieno di dubbi: la notte fingeva di dormire, ma i suoi occhi non riuscivano a trovare quiete: si accorse così che Elisa si alzava ogni notte e, seguendola, la vide scomparire nella cameretta. Un giorno dopo l'altro il suo sguardo si faceva più scuro; Elisa, vedendolo, ne soffriva, sebbene non ne comprendesse la ragione, e soffriva tanto anche per i fratelli! Sul velluto e sulle porpore principesche cadevano le sue lacrime salate e lì restavano come diamanti splendenti; tutte coloro che vedevano una tale magnificenza desideravano diventare regina. Elisa aveva quasi terminato il suo lavoro; le mancava ancora una sola tunica, ma era rimasta senza fibre e senza ortiche. Un'ultima volta doveva andare al cimitero a raccogliere qualche manciata di ortiche. Ripensò con terrore alla passeggiata solitaria e alle terribili lamie, ma la sua volontà era ferma, così come la sua fiducia nel Signore.

    Elisa dunque andò e il re e l'arcivescovo la seguirono, la videro sparire dietro l'inferriata del cimitero e quando si avvicinarono, videro la lamie sedute sulle tombe, proprio come le aveva viste Elisa, e il re si voltò dall'altra parte, perché pensò che tra di loro ci fosse anche Elisa, la cui testa, anche quella notte aveva riposato sul suo petto! «Il popolo giudicherà» dichiarò, e il popolo decise che fosse arsa tra le fiamme. Dalle splendide sale del palazzo Elisa venne condotta in un carcere buio e umido, dove il vento sibilava tra le sbarre della finestra. Invece di seta e velluto le diedero i fasci di ortica che aveva raccolto, lì avrebbe potuto appoggiare il capo. E le tuniche ruvide e brucianti che aveva tessuto dovevano essere il suo materasso e le sue coperte. Non potevano darle niente di più caro! Lei ricominciò a lavorare e pregò il Signore. Dalla strada i monelli le rivolgevano ingiurie; non un'anima la confortava con una buona parola.

    Verso sera un'ala di cigno sfiorò l'inferriata: era il più giovane dei fratelli che aveva ritrovato la sorellina; lei singhiozzò forte per la gioia, sebbene sapesse che quella sarebbe stata probabilmente l'ultima notte per lei; ma ormai il lavoro era quasi terminato e i suoi fratelli erano lì. Giunse l'arcivescovo, per trascorrere con lei le ultime ore come aveva promesso al re, ma lei scosse la testa, e coi gesti e con gli occhi lo pregò di andarsene; quella notte doveva terminare il suo lavoro, altrimenti tutto sarebbe stato inutile, i dolori, le lacrime e le notti insonni. L'arcivescovo se ne andò pronunciando nuove cattiverie su di lei, ma la povera Elisa sapeva di essere innocente e continuò a lavorare. I topolini correvano sul pavimento portando ai suoi piedi i fili di ortica per aiutarla, il merlo si appollaiò sull'inferriata e cantò per tutta la notte meglio che poté, perché lei non si scoraggiasse. Non era ancora l'alba, mancava un'ora al sorgere del sole quando gli undici fratelli che si trovavano all'ingresso del castello chiesero di essere condotti dal re; ma «non è possibile!» fu risposto «è ancora piena notte, il re dorme e non può essere svegliato». Loro supplicarono, minacciarono, giunse la sentinella; persino il re uscì e chiese che cosa stava succedendo. Ma in quel momento il sole sorse e i fratelli non si videro più: sul castello volavano undici cigni bianchi. Tutto il popolo affluiva alla porta della città per vedere bruciare la strega. Un misero cavallo tirava il carretto su cui Elisa era seduta; l'avevano vestita con una tela di sacco ruvida, i lunghi e bei capelli cadevano sciolti intorno al viso grazioso, le guance erano pallide come la morte, le labbra si muovevano piano mentre le dita intrecciavano la verde fibra: persino andando verso la morte non aveva smesso il suo lavoro, le dieci tuniche giacevano ai suoi piedi, e lei stava terminando l'undicesima. Il volgo la ingiuriava. «Guardate la strega! come borbotta! non ha il libro dei salmi con sé, no, è circondata dai suoi luridi sortilegi. Strappateglieli in mille pezzi!» E tutti si spinsero verso di lei e le volevano strappare il lavoro; allora giunsero undici cigni bianchi in volo e circondarono il carretto sbattendo le grandi ali, così allontanarono la folla spaventata. «È un segno del cielo! È sicuramente innocente!» sussurravano in molti, ma nessuno osò dirlo a voce alta. Il boia la afferrò per una mano, allora lei gettò in fretta le undici tuniche sui cigni e subito apparvero undici bellissimi principi. Il più giovane aveva però ancora un'ala di cigno al posto del braccio, perché Elisa non aveva ancora potuto tessere una manica all'ultima tunica. «Adesso posso parlare!» esclamò. «Sono innocente!» E il popolo, che aveva visto l'accaduto, si inchinò davanti a lei come davanti a una santa, ma lei cadde svenuta tra le braccia dei fratelli, dopo tutta quella tensione, quell'angoscia, quel dolore. «Sì, è innocente!» disse il fratello maggiore e raccontò tutto quel che era successo. Mentre lui parlava si sparse nell'aria un profumo come di migliaia di rose: ogni piccolo legno del rogo aveva messo radici e fioriva; ora era un cespuglio alto e profumato, di rose rosse, e in cima c'era un fiore bianco e luminoso come una stella, il re lo colse e lo mise sul seno di Elisa e lei subito si risvegliò col cuore pieno di pace e di felicità. Tutte le campane delle chiese suonarono da sole e gli uccelli sopraggiunsero a stormi in direzione del castello; si formò un corteo nuziale così lungo che nessun re mai aveva visto l'eguale.

    (H.C.Andersen)
     
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  10. gheagabry
     
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    Fiabe Classiche

    Cinque in un baccello
    C'erano cinque piselli in un baccello, erano verdi e anche il baccello era verde, così loro credevano che tutto il mondo fosse verde, e avevano pienamente ragione! Il baccello cresceva, e anche i piselli crescevano, così si assestarono secondo la conformazione della casa, mettendosi tutti in fila. Fuori il sole splendeva e riscaldava il baccello; la pioggia lo schiariva, c'era bel caldo e si stava bene, era chiaro di giorno e buio di notte proprio come doveva essere, e i piselli diventavano sempre più grossi e pensavano sempre di più: se ne stavano sempre lì seduti, qualcosa dovevano pur farla! «Dobbiamo restare qui per sempre?» si chiedevano «purché non diventiamo duri a star seduti così a lungo! Mi sembra quasi che ci sia qualcosa fuori di qui; ne ho la sensazione!» E passarono diverse settimane; i piselli ingiallirono e anche il baccello si fece giallo. «Tutto il mondo sta diventando giallo!» dissero, e ne avevano il motivo. Poi sentirono una scossa al baccello; era stato strappato dalla pianta preso in mano e messo nella tasca di una giacca insieme a molti altri baccelli ancora pieni. «Tra poco ci apriranno!» esclamarono, e si misero a aspettare. Mi piacerebbe sapere chi di noi andrà più lontano!» disse il pisello più piccolo. «Tra breve si vedrà!» «Succeda quel che deve succedere!» replicò il più grande. Crac! il baccello fu aperto e i cinque piselli rotolarono fuori sotto il sole; si trovarono in una mano di bambino: un ragazzetto li teneva stretti e diceva che andavano proprio bene per la sua cerbottana. Subito un pisello tu messo nella canna e sparato lontano. «Ora volo nel vasto mondo! mi segua chi può!» e era già partito. «Io invece» esclamò il secondo «volerò fino al sole; è un vero e proprio baccello e mi andrà a meraviglia!» e fu lanciato anche lui. «Noi dormiremo dove capiterà!» dissero gli altri due «ma avanzeremo anche noi!» e subito rotolarono sul pavimento prima di finire nella canna, ma poi venne anche il loro turno. «Andremo più lontano di tutti!» «Succeda quel che deve succedere!» esclamò l'ultimo che venne sparato verso l'alto, volò contro una vecchia assicella che si trovava sotto la finestra di una mansarda, e s'infilò proprio in una fessura dove c'erano muschio e terra umida. Il muschio gli si richiuse sopra; era nascosto ma non era stato dimenticato dal Signore. «Succeda quel che deve succedere!» disse di nuovo.

    In quella piccola mansarda abitava una povera donna che di giorno andava a pulire le stufe, a tagliare la legna e a fare i lavori pesanti, perché era forte e piena di volontà, ma ciò nonostante rimaneva povera. In casa, nella cameretta, c'era anche la sua unica figlia, una adolescente delicata e gracile; da un anno intero era a letto e non voleva né vivere né morire. «Andrà dalla sorellina!» diceva la donna. «Avevo due figlie, era troppo faticoso mantenerle entrambe, e così il Signore le ha divise con me e se ne è presa una; ora io vorrei tenere quest'unica che mi è rimasta, ma lui non vuole tenerle separate e così lei andrà a raggiungere la sorellina.» La ragazzina malata però viveva ancora. Se ne stava a letto immobile e paziente per tutto il giorno, mentre la madre era fuori per guadagnare qualcosa. Era primavera, e una mattina presto, mentre la madre stava andando al lavoro e il sole splendeva chiaro attraverso la finestrella e si posava sul pavimento, la fanciulla malata guardò attraverso il vetro più basso. «Che cos'è quel verde che spunta dietro il vetro? Si muove col vento!» la madre andò alla finestra, e la aprì. «Oh!» esclamò «è un piccolo pisello che ha messo fuori delle foglioline verdi. Come ha fatto a arrivare in quella fessura? Adesso hai un giardinetto da guardare!» Il letto della malata venne avvicinato alla finestra, perché lei potesse vedere il pisello che germogliava; intanto la madre andò al lavoro.

    «Mamma, credo che guarirò!» raccontò la bambina alla sera «Il sole oggi era così caldo su di me. Il pisello cresce proprio bene, e anch'io voglio crescere e uscire al sole.» «Se solo accadesse davvero!» esclamò la madre, ma non lo credeva possibile; intanto però a quel verde germoglio che aveva donato alla bambina la voglia di vivere mise un bastoncino, perché non si piegasse al vento. Legò un filo dall'assicella alla finestra così che il gambo del pisello avesse qualcosa a cui appoggiarsi e arrampicarsi, crescendo; e così infatti fece, e di giorno in giorno cresceva a vista d'occhio. «Oh, mette anche i fiori!» disse un mattino la donna, e cominciò a sperare e a credere che la piccola malata sarebbe guarita. Le tornò in mente che nell'ultimo periodo la sua figliola parlava con più vivacità, le ultime mattine si era tirata su da sola nel letto e era rimasta lì seduta a guardare con occhi splendenti quel giardinetto costituito da una sola pianta di piselli. La settimana successiva per la prima volta la malata restò alzata per più di un'ora. Felice si sedette al sole, con la finestra aperta, e fuori c'era un fiore bianco e rosso di pisello completamente sbocciato. La fanciulla piegò la testa e baciò con delicatezza quei petali lievi. Era proprio un giorno di festa, quel giorno! «Il Signore in persona lo ha piantato e lo ha fatto crescere, per dare a te gioia e speranza, cara figliola, e anche a me» disse la madre felice, e sorrise al fiore come se fosse un angelo del Signore.

    E che ne è stato degli altri piselli? Quello che volò nel vasto mondo: «Mi segua chi può!» cadde in una grondaia e finì nel gozzo di un piccione, e lì rimase come Giona nella balena. I due pigroni fecero la stessa strada e furono anch'essi mangiati dai piccioni, e ciò vuol dire essere utili in modo concreto. Il quarto, che voleva raggiungere il sole, cadde nella fogna e restò per molti giorni e settimane nell'acqua stagnante, gonfiandosi tutto. «Divento bello grosso!» esclamò. «Sto per scoppiare e non credo che nessun pisello abbia mai fatto altrettanto. Sono sicuramente il più notevole dei cinque che erano nel baccello!» e la fogna lo approvava. Alla finestra della mansarda stava la fanciulla con gli occhi scintillanti e con il colore della salute sulle guance; congiunse le manine delicate sul fiore del pisello e ringraziò il Signore per averglielo dato. «Per me» esclamò la fogna «il mio è il migliore!»

    (H.C.Andersen)
     
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    Fiabe Classiche

    L'elfo della rosa
    In mezzo a un giardino cresceva un albero di rose, il quale era piuttosto pieno di rose, e in una di esse, la più bella di tutte, viveva un elfo; era così piccolo che nessun occhio umano era capace di vederlo; dietro ognuno dei petali della rosa aveva una stanza da letto; era benfatto e delizioso come nessun occhio umano poteva esserlo e aveva le ali dalle spalle fino giù ai piedi. Oh, com'erano profumate le sue stanze e com'erano nitide e belle le loro pareti! Erano infatti i delicati petali rosso pallido. Si sollazzava l'intera giornata nei caldi raggi del sole, svolazzando da un fiore all'altro, ballando sulle ali della farfalla in volo, e contava i passi che doveva fare per percorrere tutte le strade maestre e i viottoli che c'erano su un'unica foglia di tiglio. Erano ciò che noi chiamiamo le nervature della foglia che egli considerava come strade maestre e viottoli; eh sì, per lui erano strade senza fine! Prima che egli terminasse il sole era tramontato; aveva anche iniziato molto tardi. Si fece tanto freddo, la rugiada cadde e il vento soffiò; ora era meglio tornare a casa; si affrettò più che poté, ma la rosa si era chiusa, non vi poté entrare - non una sola rosa era rimasta aperta; il povero piccolo elfo fu così spaventato, non aveva mai passato la notte fuori fino ad allora, aveva sempre dormito dolcemente dietro ai tiepidi petali della rosa, oh, sarebbe probabilmente stata la sua morte!

    Dall'altro lato del giardino sapeva che c'era una capanna di fronde con dei bei caprifogli, i fiori sembravano corni dipinti: sarebbe sceso in uno di questi per dormire fino a domani. Volò laggiù. Silenzio! All'interno vi erano due persone; un bel giovanotto e una meravigliosa fanciulla; erano seduti l'uno accanto all'altra e con la speranza di non doversi mai separare per l'eternità; si amavano tanto, molto più di quanto un bambino affettuosissimo possa amare sua madre o suo padre. "Eppure ci dobbiamo dividere!" disse il giovanotto; "tuo fratello non ci vuole bene e perciò mi manda a fare questa commissione tanto lontano oltre i monti e oltre i mari! Addio mia cara sposa, perché questo sei tu per me nonostante tutto!" E poi si baciarono e la giovane ragazza pianse e gli diede una rosa; ma prima di dargliela vi impresse un bacio così deciso e così sincero che il fiore si aprì: ed ecco che il piccolo elfo prese il volo e vi entrò e posò la testa contro le delicate pareti profumate; però sentì bene che si dissero ' Addio, Addio! ' e sentì che la rosa venne posata contro il petto del giovanotto - oh, come il cuore vi batteva all'interno! Il piccolo elfo non riuscì per niente a dormire, per quanto batteva.

    La rosa non rimase a lungo tranquilla contro il petto, il ragazzo la prese e mentre attraversava da solo il bosco tenebroso, baciava il fiore, oh, così spesso e con così tanta forza che il piccolo elfo stava per morire schiacciato: poté sentire attraverso il petalo il bruciore delle labbra dell'uomo e la rosa stessa si era aperta come al sole fortissimo di mezzogiorno.

    Venne allora un altro signore, scuro e corrucciato, era il fratello cattivo della bella ragazza; tirò fuori un coltello tanto affilato e tanto grande e mentre l'altro baciava la rosa, il signore cattivo lo accoltellò a morte, tagliò la sua testa e la seppellì insieme al corpo nella terra morbida sotto il tiglio. ' Eccolo sparito e dimenticato ', pensò il fratello cattivo; ' non sarà mai più di ritorno. Doveva fare un lungo viaggio, oltre i monti e oltre i mari, vi si può facilmente perdere la vita e così è stato per lui. Egli non verrà mai più e a me mia sorella non oserà mai chiedere di lui. ' Poi con i piedi ammucchiò un pò di foglie secche sulla terra scavata e se ne ritornò a casa nella notte oscura; ma non procedeva da solo come egli pensava: il piccolo elfo lo seguì, stava in una foglia di tiglio secca e arrotolata che era caduta nei capelli dell'uomo cattivo quando stava scavando la fossa. Poi sopra era stato messo il cappello, faceva tanto buio lì dentro, e l'elfo tremava dalla paura e dalla rabbia per un'azione così vile. Nell'ora mattutina l'uomo cattivo tornò a casa; si tolse il cappello e andò nella stanza da letto della sorella; lì stava sdraiata la bella ragazza fiorente che sognava colui che lei amava tanto e che lei pensava camminasse ora sulle montagne e attraverso i boschi; e il fratello cattivo si chinò su di lei e rise vilmente come può ridere un demonio; ed ecco che la foglia secca cadde dai suoi capelli giù sul letto, ma egli non se ne accorse e uscì per dormire anche un pò nelle ore mattutine. Ma l'elfo saltò dalla foglia secca ed entrò nell'orecchio della ragazza che dormiva per raccontarle, come in un sogno, l'atroce omicidio; egli le descrisse il luogo dove il fratello l'aveva ucciso e aveva depositato il suo corpo, le raccontò del tiglio in fiore lì accanto dicendo: "Perché tu non creda che sia semplicemente un sogno ciò che ti ho raccontato, troverai sul tuo letto una foglia di tiglio secca!" ed ella svegliandosi la trovò.

    Oh come ella pianse a calde lacrime! E non osava raccontare a nessuno il suo dolore. La finestra rimase aperta tutto il giorno, il piccolo elfo poté uscire in giardino senza difficoltà per raggiungere le rose e tutti gli altri fiori, ma non ebbe il coraggio di lasciare la sconsolata. Sulla finestra vi era un albero di rosa che fioriva ogni mese, egli si mise in uno dei fiori e guardò la povera ragazza. Suo fratello veniva spesso nella stanza ed era tanto allegro e cattivo ma ella non osava dire una parola sul suo cuore affranto. Appena venne la notte, ella uscì alla chetichella dalla casa, andò nel bosco fino al posto in cui c'era il tiglio, tirò via le foglie dalla terra, scavò in essa e trovò immediatamente colui che era stato ucciso. Oh come pianse! E pregò il Signore di poter morire anche lei ben presto. Avrebbe volentieri portato il cadavere a casa ma non poteva; allora prese la pallida testa con gli occhi chiusi, baciò la fredda bocca e scosse i bei capelli per toglierne la terra. "Questa la voglio possedere!" disse, e dopo aver coperto il corpo senza vita di terra e di foglie prese la testa e se la portò a casa con un ramicello di quell'albero di gelsomino che fioriva nel bosco lì dove egli era stato ucciso.

    Appena ella fu nella sua stanza, andò a prendere il più grande vaso da fiori che poté trovare e in esso depose la testa del morto con sopra la terra e poi piantò il ramo di gelsomino nel vaso. "Addio! Addio!" sussurrò il piccolo elfo, non potendo più sopportare la vista di tanto dolore, e se ne andò via volando fuori nel giardino per raggiungere la sua rosa; ma essa era appassita, lungo la coccola verde pendevano soltanto alcuni petali pallidi. "Ahimè! Come sta per finire tutto ciò che è bello e tutto ciò che è buono!" sospirò l'elfo. Alla fine ritrovò una rosa che diventò la sua casa, dietro ai suoi delicati petali profumati poteva costruire e vivere. Ogni mattina volava alla finestra della povera ragazza ed ella stava sempre al vaso piangendo; le lacrime amare cadevano sul ramo di gelsomino e come lei ogni giorno diventava sempre più pallida, il ramo si faceva sempre più fresco e più verde, venivano fuori un germoglio dopo l'altro, apparivano i piccoli boccioli bianchi dei fiori ed ella li baciava, ma il fratello cattivo brontolava chiedendo se fosse diventata folle? Non gli piaceva e non poteva capire perché ella piangesse sempre sopra quel vaso coi fiori. Egli infatti non sapeva quali occhi erano stati chiusi e quali labbra rosse erano state trasformate lì in terra; ed ella chinò la testa appoggiandola al vaso coi fiori e il piccolo elfo della rosa la trovò così sonnecchiando; allora penetrò nel suo orecchio, le raccontò della sera nella capanna di fronde, del profumo della rosa e dell'amore degli elfi; ella fece un dolcissimo sogno e mentre sognava la vita svanì; era morta di una dolce morte, era nel cielo insieme a colui che le era caro.

    E i fiori del gelsomino aprirono le loro grandi campanelle, erano profumate in maniera tanto deliziosa: non avevano altri modi per piangere la morta. Ma il fratello cattivo guardava il bell'albero in fiore, se lo prese come una eredità e se lo mise in camera da letto, vicinissimo al letto poiché era bello da vedere e il suo profumo era dolce e soave. Il piccolo elfo della rosa lo accompagnò volando da un fiore all'altro, in ciascuno di essi infatti vi era una piccola anima e a questa egli raccontò del giovane ragazzo ucciso, la cui testa ora era terra sotto la terra, raccontò del fratello cattivo e della povera sorella. "Lo sappiamo!" dissero tutte le anime dentro ai fiori, "lo sappiamo! Non siamo noi cresciute dagli occhi e dalle labbra del ragazzo ucciso! Lo sappiamo! Lo sappiamo!" e poi fecero con la testa un cenno tanto strano. L'elfo della rosa non fu capace di intendere come potevano rimanere tanto tranquille e se ne andò volando a trovare le api che stavano raccogliendo il miele, raccontò loro la storia del fratello cattivo e le api la dissero alla loro regina, la quale comandò che l'indomani mattina tutte quante avrebbero dovuto uccidere l'assassino. Ma la notte precedente, fu la prima notte dopo la morte della sorella, quando il fratello dormiva nel suo letto vicinissimo all'albero di gelsomino profumato, ognuno dei calici dei fiori si aprì e le anime dei fiori uscirono, invisibili ma con lance velenose, e si posero prima vicino al suo orecchio raccontandogli sogni cattivi, poi passarono a volo sulle sue labbra pungendo la sua lingua con le lance velenose. "Ora abbiamo vendicato la morta!" dissero e tornarono indietro nelle campanelle bianche del gelsomino.

    Quando la mattina arrivò e la finestra della camera da letto venne aperta bruscamente, l'elfo della rosa con l'ape regina e tutto lo sciame delle api si precipitarono all'interno per ucciderlo. Ma egli era già morto; c'era gente in piedi intorno al letto che diceva: "Il profumo del gelsomino l'ha ucciso!". L'elfo della rosa intuì allora la vendetta dei fiori e lo raccontò all'ape regina, la quale con tutto il suo sciame ronzò intorno al vaso coi fiori; fu impossibile cacciare via le api; allora un signore portò via il vaso coi fiori e una delle api punse la sua mano sicché egli fece cadere il vaso che si ruppe. Videro allora la testa bianca del morto e capirono che il morto nel letto era un assassino. E l'ape regina ronzava nell'aria e col suo canto raccontava la vendetta dei fiori e dell'elfo della rosa e diceva che anche dietro al petalo più piccolo c'è qualcuno capace di raccontare e di vendicare la cattiveria!

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  12. gheagabry
     
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    Fiabe Classiche

    La fanciulla che calpestò il pane
    Hai certamente sentito parlare di quella fanciulla che calpestò il pane per non sporcarsi le scarpe, e delle sofferenze che dovette subire. È una storia scritta e stampata. Era una bambina povera, orgogliosa e superba; c'era in lei un fondo cattivo, come si dice. Da piccolina aveva come divertimento quello di catturare le mosche e di strappar loro le ali riducendole a animaletti striscianti. Prendeva il maggiolino e lo scarabeo, li infilzava con uno spillo e poi metteva una fogliolina verde o un pezzetto di carta tra i loro piedi, così il povero animale vi si afferrava e si rigirava senza posa per cercare di liberarsi dall'ago. «Adesso il maggiolino legge!» esclamava la piccola Inger «guarda come gira il foglio!»

    Crescendo diventò ancora peggio, invece di migliorare; ma era bella e questa fu la sua sfortuna, perché altrimenti sarebbe stata castigata ben diversamente da come in realtà avvenne. «Bisogna trovare un buon rimedio per questa testa!» diceva la sua stessa madre. «Spesso da bambina mi calpestavi il grembiule, ho paura che da grande mi calpesterai il cuore.» E così infatti fece. Andò in campagna a servire in una famiglia molto distinta; la trattavano come se fosse stata una loro figlia, e venne anche rivestita di begli abiti; era graziosa e divenne superba.

    Era in campagna da circa un anno quando la sua padrona le disse: «Dovresti andare a trovare i tuoi genitori almeno una volta, piccola Inger!». Lei ci andò, ma per mettersi in mostra, per far vedere come era diventata distinta; quando giunse all'ingresso del paese, dove le ragazze e i giovanotti erano riuniti a chiacchierare intorno all'abbeveratoio, vide sua madre seduta su una pietra che si riposava, con davanti a sé un fascio di legna raccolta nel bosco. Inger se ne tornò indietro, vergognandosi, così ben vestita, di avere una madre stracciona che andava a raccogliere la legna. Non le dispiacque affatto essere tornata indietro, era solo irritata. Passarono poi altri sei mesi.

    «Dovresti tornare a casa a visitare i tuoi vecchi genitori, piccola Inger!» le disse la padrona di casa. «Eccoti un grosso pane bianco che puoi portare per loro; saranno certo contenti di vederti.» Inger si mise il vestito migliore e le scarpe nuove, poi sollevò un poco la gonna e si incamminò, con attenzione, per non sporcarsi i piedi, e per questo era da lodare. Ma quando arrivò dove il sentiero passava tra la palude e dove c'era acqua e fango per un bel pezzo di strada, gettò il pane sul fango con l'intenzione di camminarci sopra e attraversare il fango senza bagnare le scarpe; ma mentre stava con un piede sul pane e con l'altro sollevato, il pane affondò sempre più, con lei sopra, e così scomparve, rimase solo il fango nero e gorgogliante. Questa è la storia. Dove arrivò? Scese dalla donna della palude che fa la birra. La donna della palude è la zia delle fanciulle degli elfi, e questi sono molto noti perché hanno scritto ballate su di loro, e sono stati anche dipinti; della donna della palude invece si sa solo che quando in estate i campi sono pieni di vapore è perché lei sta facendo la birra. Proprio nel luogo dove si fa la birra cadde Inger, e quello non è un posto da starci a lungo. La cloaca in confronto è una luminosa e bellissima stanza. Ogni vasca puzza tanto da far svenire, e le vasche sono molto vicine tra loro, se poi nel mezzo ci fosse lo spazio dove poter passare, non sarebbe utilizzabile a causa dei fradici rospi e delle grosse bisce che si attorcigliano l'una all'altra. Proprio qui finì la piccola Inger; tutto quel ripugnante groviglio vivente era così gelato che lei rabbrividì e si fece sempre più rigida. Rimase attaccata al pane, che la tirava come un bottone d'ambra tira un filo di paglia.

    La donna della palude era a casa, aveva in visita il diavolo e la sua bisnonna, una donna molto vecchia e molto velenosa che non stava mai in ozio: non usciva mai senza avere con sé il lavoro, e lo aveva anche quella volta. Cuciva solette di cuoio da mettere nelle scarpe degli uomini, in modo che non avessero mai pace, tesseva menzogne e lavorava all'uncinetto parole avventate che cadevano sulla terra portando danni e rovina. E con quanto zelo cuciva, tesseva e lavorava all'uncinetto, la vecchia bisnonna! Vide Inger e si mise l'occhialino davanti agli occhi per guardarla meglio. «È una ragazza che ha attitudine!» disse. «Vorrei averla come ricordo di questa visita! Potrebbe essere messa come statua nell'ingresso del mio pronipote!» Così l'ottenne. Inger arrivò all'inferno. La gente non ci arriva sempre dritta dritta, si possono anche percorrere strade traverse, quando si ha l'attitudine.

    Era un ingresso senza fine; venivano le vertigini sia a guardare avanti che a guardare indietro; lì si trovava una schiera di persone sofferenti in attesa che la porta della Grazia venisse aperta: ma avrebbero aspettato a lungo! Giganteschi ragni, grossi e barcollanti, tessevano da millenni sopra i loro piedi, e la tela li stringeva come stivaletti e penetrava nella carne come una catena di rame, inoltre c'era un'eterna inquietudine in ogni anima, un'inquietudine piena di tormento. C'era l'avaro che aveva dimenticato la chiave della cassaforte, e sapeva che era rimasta dentro la cassaforte stessa. Sarebbe lungo nominare tutti i tipi di sofferenze e di tormenti che venivano patiti. Inger visse il suo tormento nello stare dritta come una statua, e le sembrava di essere fissata al pane. "Questo succede a chi vuol avere i piedi puliti!" disse a se stessa. "Guarda come tutti mi osservano!" e infatti tutti la guardavano. I loro cattivi desideri venivano espressi con gli occhi, e venivano letti sulle labbra, senza che venisse emesso alcun suono; era una cosa terribile. "Dev'essere un piacere guardarmi!" pensò la piccola Inger "ho un bel viso e dei bei vestiti!" e ruotò gli occhi, dato che il collo era ormai rigido. Oh, come s'era conciata nella birreria della donna della palude! Non l'aveva notato! I vestiti erano come coperti da un'unica grande macchia unta, e da ogni piega della gonna si affacciava un rospo, che guaiva come un cagnolino asmatico. Era proprio una cosa imbarazzante! "Ma anche gli altri che si trovano qui hanno un aspetto terribile!" si consolò. La cosa peggiore per lei era però la fame che sentiva. Ma non poteva dunque piegarsi per prendere un pezzetto del pane su cui si trovava? No! La schiena era rigida, e lo erano anche le braccia e le mani; tutto il corpo era come una statua di pietra. Poteva solo girare gli occhi, e li girava del tutto, così da vedere anche dietro, e era proprio una brutta vista! Poi arrivarono le mosche; le strisciarono sugli occhi, avanti e indietro, e lei sbatté le palpebre, ma le mosche non se ne andarono, non potevano perché le loro ali erano state strappate, erano diventate animaletti striscianti. Era un vero tormento, e poi quella fame; alla fine le sembrò che il suo intestino divorasse se stesso e si sentì così vuota, terribilmente vuota. "Se dura ancora a lungo, non lo sopporterò" disse, ma dovette sopportarlo, e le cose non cambiarono. Allora le cadde una lacrima ardente sulla testa, le scivolò lungo il viso e il petto fino a raggiungere il pane, poi ne cadde un'altra, e molte ancora. Chi piangeva per la piccola Inger? Aveva una madre sulla terra. Le lacrime di dolore che una madre piange per il proprio figlio arrivano dappertutto, ma non aiutano, bruciano e rendono il tormento ancora più grande. E poi quella insopportabile fame, e non poter arrivare al pane che calpestava coi piedi! Alla fine, ebbe la sensazione di aver consumato tutto quello che era in lei, era come una canna cava e sottile in cui rimbombava ogni suono, poteva sentire chiaramente dalla terra tutto quel che la riguardava, e erano solo parole cattive e severe quelle che sentiva. Sua madre piangeva molto e era addolorata, ma diceva anche: «La superbia fa cadere! E stata la tua disgrazia, Inger! Come hai addolorato tua madre!». Sua madre e tutti gli altri lassù sapevano del suo peccato, sapevano che aveva calpestato il pane e era affondata. L'aveva raccontato il vaccaro perché l'aveva visto personalmente dalla collina. «Come hai addolorato tua madre, Inger!» disse la madre «già, ma me l'aspettavo!» "Se solo non fossi mai nata!" pensò Inger "sarebbe stato molto meglio! Adesso non serve a nulla che mia madre pianga."

    Sentì anche che cosa dicevano i suoi padroni, quella brava gente che era stata per lei come una nuova famiglia. «Era una bambina peccatrice!» dissero «non ha rispettato i doni del Signore, ma li ha calpestati: la porta della Grazia non verrà forse mai aperta per lei.» "Avreste dovuto castigarmi di più!" pensò Inger "togliermi i grilli dalla testa, se ne avevo!" Sentì che veniva scritta una canzone su di lei: "La fanciulla superba che calpestò il pane, per avere le scarpe belle" e che veniva cantata in tutto il paese. "Che si debbano sentire tante cose su questo, e che si debba soffrire tanto per questo!" pensò Inger "anche gli altri dovrebbero venire puniti per i loro peccati. Certo, così ci sarebbero molte cose da punire. Oh, come mi tormento!" E la sua anima diventò ancora più rigida del corpo. "Quaggiù con questa compagnia non si può certo diventare migliori! e non lo voglio neppure! Guarda come mi osservano!" La sua anima era piena di ira e di cattiveria verso tutti gli uomini. "Adesso hanno qualcosa di cui parlare, lassù! Oh, come mi tormento!" E sentì che raccontavano la sua storia ai bambini, i più piccoli la chiamavano "Inger la scellerata": era così cattiva, dicevano, così malvagia, e era giusto che patisse. C'erano sempre parole dure per lei da parte dei bambini. Ma un giorno in cui l'ira e la fame le mordevano il corpo ormai vuoto, sentì il suo nome; la sua storia veniva raccontata a una bambina innocente che scoppiò a piangere sentendo la storia della Inger superba e smaniosa di eleganza. «Non tornerà mai più su?» chiese la bambina. E le fu risposto: «No, non verrà mai più su». «E se chiedesse perdono e non lo facesse più?» «Ma non chiederà certo perdono!» dissero. «Vorrei tanto che lo facesse!» concluse la bambina, inconsolabile. «Darei il mio armadio delle bambole, se lei potesse tornare su. È terribile per la povera Inger!»

    Quelle parole toccarono il cuore di Inger e le fecero bene; era la prima volta che qualcuno diceva: "povera Inger!" senza parlare della sua colpa; una bambina innocente aveva pianto e pregato per lei: ne fu così commossa che avrebbe pianto, ma non poteva, e anche questo era un tormento.

    Passarono gli anni sulla terra, ma laggiù non ci fu nessun cambiamento: solo sentiva più raramente i suoni di lassù, si parlava sempre meno di lei. Un giorno sentì un singhiozzo: «Inger! Inger! Come mi hai addolorata. L'avevo detto!». Era sua madre che moriva. Ogni tanto sentiva il suo nome nominato dai suoi vecchi padroni e le parole più dolci della padrona erano: «Chissà se ti rivedrò mai, Inger! non si sa mai dove si va a finire!». Ma Inger sapeva bene che la sua brava padrona non sarebbe mai arrivata dov'era lei. Così passò dell'altro tempo, lungo e amaro. Poi Inger sentì di nuovo il suo nome e vide sopra di sé brillare due stelle luminose; erano due dolcissimi occhi che si chiudevano sulla terra. Erano passati tanti anni da quella volta in cui una bambina aveva pianto in modo inconsolabile per la "povera Inger": quella bambina era ora una vecchia che il Signore voleva chiamare a sé; proprio in quel momento, quando i pensieri di tutta la vita si ripresentavano a lei, ricordò di come aveva pianto amaramente da piccola nel sentire la storia di Inger. Quel momento e quell'impressione erano ancora così chiari nella sua mente nell'ora della morte che lei esclamò a voce alta: «Signore, mio Dio, forse anch'io come Inger ho spesso calpestato i doni della tua benedizione senza pensarci, forse anch'io ho peccato di superbia, ma tu, con la tua grazia, non mi hai lasciato sprofondare, mi hai sostenuto. Non lasciarmi nella mia ultima ora!». Gli occhi della vecchia si chiusero e quelli dell'anima si aprirono davanti all'ignoto, e poiché Inger era così viva nei suoi ultimi pensieri, potè vederla e vide com'era sprofondata in basso, e a quella vista quell'anima pia scoppiò in lacrime, nel regno dei cieli piangeva come una bambina per la povera Inger. Quelle lacrime e quelle preghiere risuonarono come un'eco nel corpo vuoto e consumato che racchiudeva l'anima prigioniera; questa venne sopraffatta da tanto inimmaginato amore che veniva dall'alto. Un angelo del Signore piangeva per lei! Perché era capitato a lei? L'anima tormentata ripensò a ogni azione compiuta sulla terra e scoppiò a piangere, come Inger non aveva mai potuto fare; la pietà per se stessa ebbe il sopravvento, pensò che la porta della Grazia non si sarebbe mai potuta aprire per lei e proprio mentre nella contrizione lo riconosceva, un raggio di luce brillò nell'abisso, un raggio molto più potente di quelli del sole che sciolgono gli uomini di neve costruiti dai ragazzi nei cortili; allora, molto più in fretta di un fiocco di neve che cade sulla bocca tiepida di un fanciullo e si scioglie in acqua, la figura pietrificata di Inger si dissolse, e un minuscolo uccello si alzò in volo, con lo zigzag del fulmine, verso il mondo degli uomini. Era però intimorito e impaurito per tutto quello che lo circondava, si vergognava di se stesso e di tutte le creature viventi e si rifugiò immediatamente in un buco che si trovava in un muro diroccato. Si posò lì e si piegò su se stesso, tremando in tutto il corpo; non riuscì a emettere alcun suono, perché non aveva voce, restò lì a lungo, prima di riuscire a vedere e ammirare con tranquillità tutte le bellezze che c'erano là fuori. Sì, era proprio una meraviglia: l'aria era fresca e mite, la luna splendeva luminosa, gli alberi e i cespugli profumavano, e poi era così bello il luogo dove si trovava e le sue piume erano così pulite e delicate. Come si mostravano belle tutte le cose create nell'amore e nella bellezza! Tutti i pensieri che si trovavano nel petto dell'uccello volevano essere cantati, ma l'uccello non riusciva a farlo, eppure avrebbe cantato così volentieri come fanno in primavera gli usignoli e i cuculi. Il Signore, che sente anche il silenzioso canto di ringraziamento del verme, sentì quell'inno di lode che si alzava in accordi di pensiero, così come il salmo risuonava nel petto di Davide prima di trasformarsi in parole e musica.

    Per molte settimane quei canti silenziosi crebbero e s'ingrossarono; ormai dovevano esprimersi, al primo battito d'ala di una buona azione: era indispensabile!

    Vennero le feste di Natale. Il contadino eresse vicino al muro un palo e vi legò un fascio di avena piena di chicchi, così che anche gli uccelli del cielo avessero un buon Natale e un buon pranzo in quel giorno di salvezza. Il sole si alzò la mattina di Natale e illuminò l'avena, così tutti gli uccelli volarono cinguettando intorno al palo del cibo; allora anche dal muro risuonò "cip, cip", quei pensieri silenziosi divennero suono, quel debole cip si trasformò in un inno di gioia, si cominciava a delineare l'immagine di una buona azione, e l'uccello uscì dal suo rifugio. Nel regno dei cieli sapevano bene chi fosse quell'uccellino. L'inverno si fece sentire davvero, l'acqua ghiacciò fino in profondità, gli uccelli e gli animali del bosco ebbero difficoltà a trovare cibo. Quell'uccellino volò lungo la strada maestra e cercò, trovandolo qua e là nelle impronte delle slitte, qualche granello di grano; nei luoghi di sosta trovò briciole di pane, ma ne mangiò una sola e poi chiamò tutti gli altri passeri affamati, affinché potessero trovare qualcosa da mangiare. Volò fino alla città, controllò tutt'intorno, e dove una mano amorosa aveva sparso sul davanzale pane per gli uccelli, ne mangiò un po' e diede tutto il resto agli altri. Per tutto l'inverno l'uccello raccolse e distribuì così tante briciole di pane che, tutte insieme, pesavano come l'intera pagnotta che la piccola Inger aveva calpestato per non sporcarsi le scarpe; quando l'ultima briciola fu trovata e data via, le ali grigie dell'uccello diventarono bianche e si allargarono. «Una rondinella marina sta volando sul lago!» gridarono i bambini, vedendo quell'uccello bianco. Si tuffò nel lago, si sollevò nella chiara luce solare e luccicò; fu poi impossibile vedere che fine fece, ma si dice che sia volato fino al sole.

    (H.C.Andersen)
     
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  13. gheagabry
     
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    I fiori della piccola Ida



    "I miei poveri fiori sono tutti morti!" disse la piccola Ida. "Erano così belli ieri sera, e ora sono tutti appassiti! Perché è successo?" chiese allo studente, che sedeva sul divano. Lei gli era molto affezionata, perché sapeva raccontare le storie più belle e sapeva ritagliare figurine di carta molto divertenti: cuori che contenevano damine che danzavano, fiori e grandi castelli, le cui porte si potevano aprire; era proprio uno studente simpatico! "Perché i fiori sono così brutti oggi?" gli chiese di nuovo, e gli mostrò un mazzo che era tutto appassito.



    "Oh, sai che cosa hanno?" disse lo studente. "I fiori sono stati a ballare questa notte e per questo hanno la testa che ciondola".

    "Ma no! I fiori non possono ballare" rispose la piccola Ida.

    "Come no!" replicò lo studente. "Quando viene buio e noi tutti dormiamo, loro si mettono a saltare allegramente qui intorno, quasi ogni notte ballano".

    "E i bambini non possono partecipare al ballo?".

    "Sì: le piccole margherite e i mughetti!".

    "E dove ballano i fiori più carini?" chiese la piccola Ida.

    "Non sei stata già più volte fuori città in quel grande castello, dove il re abita d'estate, dove c'è un bel giardino con moltissimi fiori?

    Hai anche visto i cigni nuotarti incontro quando volevi dar loro le briciole di pane. Quello, sì, che è un ballo, credimi!".

    "Sono stata in quel giardino proprio ieri con la mamma" disse Ida, "ma tutte le foglie erano cadute dagli alberi e non c'era più neppure un fiore. Dove sono finiti? In estate ne ho visti tanti!".

    "Sono entrati nel castello. Devi sapere che non appena il re e la sua corte rientrano in città, tutti i fiori corrono nel castello per divertirsi. Dovresti vedere! Le due rose più belle si siedono sul trono e fanno il re e la regina. Tutte le rosse creste di gallo si mettono di lato e si inchinano, loro sono i gentiluomini di corte. Poi arrivano tutti i fiori più belli e ballano, le violette fanno finta di essere allievi ufficiali di marina, e ballano coi giacinti e coi fiori di croco, che chiamano signorine! I tulipani e i grandi gigli gialli, che sono delle vecchie signore, stanno attente che si balli bene e che tutto vada per il meglio".

    "Ma non c'è nessuno che fa qualcosa ai fiori che ballano nel castello del re?" chiese la piccola Ida.

    "Nessuno lo sa!" ribatté lo studente. "A volte di notte arriva il vecchio guardiano, che deve controllare il castello; ha un gran mucchio di chiavi e non appena i fiori sentono il rumore delle chiavi, si azzittiscono, si nascondono dietro le lunghe tende e affacciano la testa. 'Sento bene dal profumo che qui dentro ci sono dei fiori!' dice il vecchio guardiano, ma non riesce a vederli".

    "E' divertente!" disse la piccola Ida e batté le mani. "Ma neppure io li potrei vedere?".

    "Sì; ricordati, quando andrai là di nuovo, di guardare dentro la finestra e sicuramente li vedrai. Io ho guardato oggi e c'era un lungo narciso giallo sdraiato sul divano che si stiracchiava come se fosse stato una dama di corte".

    "Anche i fiori del giardino botanico possono andare fin là? Possono camminare così a lungo?".

    "Certo che possono. Quando vogliono, possono anche volare. Non hai mai visto le belle farfalle, rosse, gialle e bianche, che sembrano proprio dei fiori? E lo erano; sono saltate dal gambo verso l'alto e hanno agitato i petali come se fossero state piccole ali, e così hanno cominciato a volare; e dato che si comportarono bene, ottennero il permesso di volare anche di giorno, non dovettero più tornare a casa e rimettersi sul gambo, e così i petali divennero alla fine delle vere ali. E tu stessa l'hai visto! Può anche essere che i fiori del giardino botanico non siano mai stati nel castello del re, altrimenti saprebbero quanto è divertente là di notte. Per questo ora ti dico qualcosa che renderà molto sorpreso il professore di botanica che abita qui accanto. Tu lo conosci, vero? Quando vai nel suo giardino devi raccontare a uno dei suoi fiori che c'è un grande ballo al castello, così lui lo dirà a tutti gli altri e se ne partiranno; e quando il professore entrerà nel giardino non ci sarà più nessun fiore e lui non saprà dove sono finiti".

    "Ma come farà il fiore a raccontarlo agli altri? I fiori non sanno parlare!".

    "No, certo che non sanno parlare" rispose lo studente, "ma usano la mimica. Avrai notato che quando c'è un po' di vento, i fiori fanno cenni e muovono le foglie; si capiscono come se parlassero".

    "E il professore non capisce la mimica?".

    "Sì, senza dubbio! Una mattina era entrato nel suo giardino e aveva visto una grande ortica parlare con i movimenti delle foglie a un bel garofano rosso; gli diceva: 'Sei così carino, e io ti voglio molto bene!'; ma questo al professore non piaceva, così picchiò subito l'ortica sulle foglie, e in quel modo si fece male e da quel momento non osò più toccare un'ortica".

    "E' divertente!" esclamò la piccola Ida, e rise.

    "Come si fa a raccontare certe cose ai bambini!" disse il noioso consigliere che era venuto a far visita e che si era seduto sul divano; non poteva sopportare lo studente e borbottava sempre quando lo vedeva ritagliare quelle strane figure divertenti: una volta un uomo che penzolava dalla forca e aveva un cuore in mano - era un ladro di cuori - un'altra volta una vecchia strega che cavalcava una scopa e aveva il marito sul naso; tutto questo non piaceva al consigliere che diceva sempre: 'Che gusto mettere queste sciocchezze in testa ai bambini. Tu e la tua stupida fantasia!".

    La piccola Ida pensava invece che era così divertente quello che lo studente raccontava dei suoi fiori, e ci pensò a lungo. Se i fiori avevano la testa piegata perché erano stanchi per aver ballato tutta la notte, erano certamente malati. Così li prese e li portò da tutti i suoi giocattoli, sistemati su un grazioso tavolino col cassetto pieno di cianfrusaglie. Nel letto della bambola c'era la bambola, Sofia, che dormiva, ma la piccola Ida le disse: "Adesso devi alzarti, Sofia, e accontentarti di stare nel cassetto per questa notte; i poveri fiori sono malati e devono sdraiarsi nel tuo letto, così forse guariranno", e sollevò la bambola che la guardava di traverso ma non disse una parola, perché era molto arrabbiata di non poter stare nel suo letto.

    Poi Ida mise i fiori nel lettino della bambola, li coprì per bene con la coperta e disse che dovevano stare tranquilli: avrebbe preparato del tè per loro, così sarebbero guariti e si sarebbero alzati di nuovo l'indomani. Poi tirò le tende vicino al lettino per evitare che il sole li disturbasse.

    Per tutta la sera non poté fare a meno di pensare a quello che lo studente le aveva raccontato, e quando lei stessa dovette andare a letto, guardò prima dietro le tendine della finestra dove c'erano i bei fiori della sua mamma, i giacinti e i tulipani, e sussurrò piano piano: "So bene che dovete andare al ballo questa notte"; i fiori fecero finta di niente, non mossero una foglia, ma Ida sapeva bene quello che diceva.

    Una volta a letto pensò a lungo a quanto sarebbe stato bello vedere i bei fiori danzare al castello del re. "Chissà se i miei fiori sono veramente stati là?". E così si addormentò. A metà notte si svegliò di nuovo; aveva sognato i fiori e lo studente con cui il consigliere brontolava dicendo che voleva mettere tutte quelle sciocchezze in testa alla bambina. C'era silenzio nella camera da letto dove si trovava Ida; la lampada per la notte bruciava laggiù sul tavolo e i suoi genitori dormivano.

    "Chissà se i miei fiori sono ancora nel letto di Sofia!" si chiese, " mi piacerebbe saperlo". Si alzò a sedere e guardò verso la porta, che era socchiusa: là nella stanza c'erano i fiori e tutti i suoi giocattoli. Tese l'orecchio e le sembrò di sentire qualcuno che suonava il pianoforte in quella stanza, ma così piano e così bene che non l'aveva mai sentito prima.

    "Certamente tutti i fiori stanno ballando là dentro" disse. "Oh, come mi piacerebbe vederli!" ma non osava alzarsi, perché avrebbe svegliato i suoi genitori. "Se solo venissero qui loro" pensò, ma i fiori non vennero e la musica continuava, ed era tanto bella che lei non poté più trattenersi; scivolò fuori dal suo lettino e andò piano piano fino alla porta e da lì guardò nella stanza. Oh, che belle cose vide!

    Non c'era luce là dentro, ma ugualmente la stanza era luminosa, la luna brillava attraverso la finestra fino in mezzo al pavimento! Tutti i giacinti e i tulipani erano allineati in due file sul pavimento, non ce n'erano più alla finestra, i vasi erano tutti vuoti. Sul pavimento i fiori ballavano girando tra di loro, facevano catene ordinate e si tenevano per le lunghe foglie verdi, quando ruotavano.

    Al pianoforte sedeva un grande giglio giallo, che Ida di sicuro aveva visto quell'estate perché ricordava bene che lo studente aveva detto:

    "Oh, come assomiglia alla signorina Line!", ma tutti lo avevano preso in giro; ora invece il lungo fiore giallo assomigliava alla signorina, e si muoveva allo stesso modo mentre suonava, piegava il viso allungato prima da una parte e poi dall'altra, segnando il tempo della musica. Nessuno si accorse della piccola Ida. Lei vide poi un grande croco blu saltare sul tavolo dei giocattoli e andare al letto della bambola e tirare le tendine; lì c'erano i fiori malati, ma si alzarono subito e fecero come gli altri, come se volessero danzare pure loro.

    Il vecchio bruciafumo, quello con il labbro inferiore rotto, si alzò e si inchinò davanti ai bei fiori, che non sembravano affatto malati; anzi saltarono giù insieme agli altri e avevano l'aria di divertirsi.

    Le sembrò poi che qualcuno fosse caduto giù dal tavolo, e guardò in quella direzione: era il frustino di carnevale che era saltato giù, pensando di dover stare insieme ai fiori. Era molto grazioso e proprio sopra aveva un bambolotto di cera che portava un largo cappello in testa, giusto come quello del consigliere; il frustino di carnevale saltellava sulle sue tre gambe di legno rosse in mezzo ai fiori e batteva forte i piedi, perché si ballava la mazurca, e quella danza gli altri fiori non la potevano fare: erano troppo leggeri e non potevano battere i piedi.

    Il bambolotto di cera sul frustino di carnevale divenne sempre più lungo e grande, e si librò sopra i fiori di carta e urlò a voce ben alta: "Come si fa a far credere certe cose ai bambini! Tu e la tua stupida fantasia!" e in quel momento il bambolotto di cera era tale e quale il consigliere, con quel largo cappello, era giallo e burbero come lui, ma i fiori di carta lo colpirono e tornò a essere un minuscolo bambolotto di cera. Era proprio divertente! La piccola Ida non poté fare a meno di ridere.

    Il frustino di carnevale continuò a danzare e il consigliere non poteva non danzare con lui; che si facesse ancora lungo lungo o restasse il bambolotto di cera con l'enorme cappello, non serviva proprio a niente. Allora furono gli altri fiori a chiedere che potesse smettere, soprattutto quelli che avevano riposato nel letto della bambola, e così il frustino di carnevale si fermò. Contemporaneamente si sentì bussare forte nel cassetto, dove la bambola di Ida, Sofia, si trovava con molti altri giocattoli; il bruciafumo corse fino al bordo della tavola, si affacciò, appoggiato sulla pancia, e aprì un pochino il cassetto. Sofia si alzò in piedi e guardò intorno meravigliata.

    "Qui c'è un ballo!" disse, "perché nessuno me l'ha detto?".

    "Vuoi ballare con me?" chiese il bruciafumo.

    "Sì, sei proprio il tipo giusto con cui ballare!" gli disse, e gli voltò le spalle. Poi sedette sul cassetto e pensò che uno dei fiori sarebbe certo andato a invitarla, ma nessuno andò; allora tossì un po': "uhm, uhm, uhm!", ma anche con questo non andò nessuno. Il bruciafumo se la ballava da solo e non era affatto male!

    Dato che nessuno dei fiori sembrava guardarla, Sofia si lasciò cadere dal cassetto giù nel pavimento, così ci fu una gran confusione; tutti i fiori corsero lì e la circondarono e le chiesero se si era fatta male, e tutti i fiori di Ida la ringraziarono per il comodo letto e si occuparono di lei; la misero in mezzo al pavimento, dove la luna splendeva, e danzarono insieme a lei, e tutti gli altri fiori le fecero cerchio intorno: ora Sofia si divertiva proprio! e disse che potevano tenere ancora il suo letto, perché a lei non costava nulla stare nel cassetto.



    Ma i fiori risposero: "Ti ringraziamo molto, ma non vivremo a lungo; domani saremo morti: riferisci alla piccola Ida che ci seppellisca nel giardino, dove giace il canarino, così cresceremo di nuovo per l'estate e saremo ancora più belli!".

    "No, non potete morire!" disse Sofia e baciò i fiori; nello stesso istante si aprì la porta del salone ed entrò danzando una gran quantità di fiori bellissimi; Ida non immaginava da dove venissero.

    Erano certo tutti i fiori del castello del re. Per prime giunsero due belle rose, che portavano piccole corone d'oro in testa; erano un re e una regina, poi seguivano le più belle violacciocche e i garofani più graziosi, e salutavano da ogni parte. Avevano con loro anche un'orchestrina, grandi papaveri e peonie soffiavano nei baccelli dei piselli ed erano tutti rossi in viso, i giacinti azzurri e i bianchi bucaneve suonavano come se avessero avuto addosso delle campanelline.

    Facevano una bella musica. Poi giunsero molti altri fiori e ballarono tutti insieme, le violette azzurre e le margheritine rosse, le margherite e i mughetti. E tutti si baciavano tra loro, erano così carini da vedere!

    Alla fine si augurarono la buona notte e anche la piccola Ida se ne tornò nel suo lettino, dove sognò tutto quello che aveva visto.

    Quando il mattino dopo si alzò, andò subito al tavolino per vedere se i fiori erano ancora lì, tirò le tendine del letto e, sì, c'erano tutti, ma erano completamente appassiti, molto più che il giorno prima. Sofia era nel cassetto, dove l'aveva messa lei, e appariva molto assonnata.

    "Ti ricordi che cosa mi dovevi dire?" chiese la piccola Ida, ma Sofia aveva l'aria molto stupida e non disse una parola.

    "Non sei affatto buona" disse Ida, "eppure hanno ballato tutti con te". Poi prese una scatoletta di cartone con disegnati sopra dei begli uccellini, la aprì e vi mise dentro i fiori morti. "Questa sarà la vostra graziosa bara" disse, "e quando i miei cugini norvegesi saranno qui, vi seppelliremo fuori in giardino, così potrete crescere per l'estate e diventare ancora più belli".

    I cugini norvegesi erano due ragazzi in gamba, si chiamavano uno Giona e l'altro Adolfo; avevano appena avuto in regalo dal padre due nuovi archi che avevano portato per mostrarli a Ida. Lei raccontò dei poveri fiori appassiti, e così poté seppellirli. I due ragazzi erano davanti, con gli archi sulle spalle, e la piccola Ida li seguiva con i fiori morti nella graziosa scatola; nel giardino venne scavata una piccola fossa; Ida prima baciò i fiori, poi li posò con la scatola nella terra e Adolfo e Giona tirarono con l'arco, non avendo né fucili né cannoni.

    (Hans Christian Andersen)

     
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    Il farfallone
    Il farfallone voleva una fidanzata, che naturalmente doveva essere un grazioso fiorellino. Guardò tutti i fiori, ciascuno se ne stava tranquillo e piegato sul suo stelo, come una signorina deve stare quando non è ancora fidanzata; ma ce n'erano tanti tra cui scegliere, era difficile, e il farfallone non aveva voglia di stare a cercare; così volò dalla margheritina. I francesi la chiamano Marguerite, e sanno che è capace di prevedere il futuro, come fa quando gli innamorati le staccano un petalo dopo l'altro chiedendo: "M'ama, non m'ama, di cuore, con dolore, mi ama molto, mi ama poco?" o cose simili. Ognuno chiede nella sua lingua. Anche il farfallone giunse per chiederle qualcosa, non le staccò i petali, ma li baciò uno per uno pensando che con la gentilezza si ottiene di più. "Dolce margheritina Marguerite!" disse "lei è la donna più intelligente di tutti i fiori! Lei sa prevedere il futuro! Mi dica, la troverò oppure no? E chi sarà? Quando lo saprò, andrò direttamente da lei a chiederle la mano!" Ma Marguerite non rispose affatto. Non le piaceva essere chiamata donna, perché era una signorina, e quindi non era una donna. Lui le fece le stesse domande una seconda e poi una terza volta, ma non ottenendo neppure una parola da lei, non ebbe più voglia di chiedere di nuovo, e se ne andò via a cercarsi a danzata da solo.

    Si era all'inizio della primavera, era pieno di crochi e di bucaneve. "Sono bellissime!" esclamò il farfallone "sembrano graziose cresimande; ma un po' insipide." Come tutti i giovani lui preferiva le ragazze un pò più mature. Allora volò dagli anemoni, ma erano un po' troppo acidi, le violette erano troppo romantiche, i tulipani troppo pomposi, le giunchiglie troppo borghesi, i fiori di tiglio troppo piccoli e poi avevano una famiglia troppo numerosa; i fiori di melo sembravano proprio delle rose, ma un giorno c'erano e il giorno dopo erano già caduti, secondo come soffiava il vento, e quello sarebbe stato un matrimonio troppo breve a suo avviso. Il fiore del pisello era quello che più gli piaceva, era rosso e bianco, tenero e sottile, proprio come quelle ragazze di casa che sono carine e anche brave in cucina. Stava per chiedere la mano, quando vide proprio lì vicino un baccello con un fiore appassito in cima. "Che cos'è?" chiese. "Mia sorella" disse il fiore di pisello. "Ah, col tempo sarà anche lei così!" e, spaventato, il farfallone se ne volò via. I caprifogli pendevano dalle siepi, erano tante signorine col viso lungo e la pelle gialla, proprio di quelle che a lui non piacevano. Già, ma che cosa gli piaceva? Chiedeteglielo un pò! La primavera passò. Anche l'estate passò e poi l'autunno; lui era sempre allo stesso punto. I fiori misero i loro vestiti più belli, ma a cosa serviva, ora che non c'era più la fresca e profumata giovinezza? Con la vecchiaia si bada sempre meno al profumo, e poi non è detto che le peonie o la malvarosa abbiano un profumo particolare. Così il farfallone andò dalla menta. "Non ha nessun fiore, ma è come se fosse un fiore solo, profuma dalla testa ai piedi, ha il profumo dei fiori in ogni sua foglia. Scelgo questa!" E le chiese la mano.

    Ma la menta rimase immobile e tranquilla e alla fine disse: "Amicizia, ma niente di più! Io sono vecchia e anche lei è vecchio! Potremmo tranquillamente vivere uno per l'altro senza sposarci. Non rendiamoci ridicoli alla nostra età!". E il farfallone non sposò nessuno. Aveva cercato troppo a lungo, e questo non si deve fare. Divenne uno scapolone, come si dice. Alla fine dell'autunno si mise a piovere e venne la nebbia, il vento soffiava freddo nella schiena dei vecchi salici, e li faceva scricchiolare. Non era affatto bello volare per la campagna coi vestiti dell'estate: l'entusiasmo sbollisce, come si dice. Ma il farfallone non volò fuori, casualmente era entrato in una porta dove c'era del fuoco in una stufa, faceva caldo come d'estate, lì si poteva vivere, ma "vivere non è abbastanza" disse "il sole, la libertà, e un fiorellino bisognerebbe avere!". Così volò contro il vetro, fu visto, ammirato e puntato con uno spillo in una cassetta di vetro. Di più non si poteva fare. "Adesso ho anch'io un gambo proprio come i fiori!" commentò il farfallone "non è poi tanto comodo! È un pò come essere sposati: si è legati" aggiunse per consolarsi. "È una misera consolazione!" dicevano i fiori dei vasi. ' È meglio non fidarsi dei fiori dei vasi ' pensava il farfallone ' vivono troppo a contatto con gli uomini. '

    (H.C.Andersen)
     
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    Ole Chiudigliocchi
    In tutto il mondo non c'è nessuno che sappia tante storie quante ne sa Ole Chiudigliocchi. E come le sa raccontare! Verso sera, quando i bambini sono ancora seduti a tavola, o sulle loro seggiole, arriva Ole Chiudigliocchi, sale le scale silenziosamente, perché cammina senza scarpe, apre lentamente la porta e plaff! spruzza un po' di latte negli occhietti dei bambini, poco, poco, ma comunque abbastanza perché loro non riescano più a tenere gli occhi aperti e perciò non lo vedano; sguscia dietro di loro, gli soffia dolcemente sul collo e subito sentono la testa pesante, ma non tanto da far male; perché Ole Chiudigliocchi vuole il bene dei bambini, desidera soltanto che stiano tranquilli, e loro sono davvero tranquilli solo quando finalmente vanno a letto e devono stare zitti perché lui possa raccontare le sue storie. Quando i bambini finalmente dormono, Ole Chiudigliocchi si siede sul loro letto; ha un bel vestito, un mantello di seta, ma è impossibile dire di che colore è perché a ogni suo movimento ha riflessi ora verdi, ora rossi, ora blu. Tiene sotto le braccia due ombrelli, uno pieno di figure, e lo apre sopra i bambini buoni che così sognano per tutta la notte le storie più belle, l'altro invece non ha niente e viene aperto sui bambini cattivi che così dormono in modo strano e quando si svegliano la mattina, non hanno sognato niente. Ora ascoltiamo come Ole Chiudigliocchi per tutta una settimana si è recato da un bambino di nome Hjalmar, e sentiamo che cosa gli ha raccontato. Sono sette storie in tutto, perché ci sono sette giorni in una settimana.

    Lunedì

    "Stai a sentire!" disse Ole Chiudigliocchi, dopo aver messo a letto Hjalmar "ora voglio addobbare la stanza" e così tutti i fiori dei vasi si trasformarono in grandi alberi, che allungarono i rami fin sotto il soffitto e lungo le pareti così da far diventare la stanza una bellissima pergola, e tutti i rami erano carichi di fiori e ogni fiore era più bello della rosa, profumava deliziosamente e, se lo si mangiava, era più dolce della marmellata; i frutti brillavano come fossero d'oro e poi c'erano panini dolci che scoppiavano perché pieni di uva sultanina: era davvero incredibile. Ma in quel momento si sentirono lamenti spaventosi venire dal cassetto del tavolo, dove Hjalmar aveva riposto i libri di scuola. "Che succede?" esclamò Ole Chiudigliocchi andando al tavolo, e aprì il cassetto. Era la lavagna che soffriva e si sentiva oppressa perché c'era un numero sbagliato nell'operazione di aritmetica e stava per buttare tutto all'aria. Il gessetto, legato a una cordicella, si agitava come un cagnolino, perché voleva aiutare la lavagna a fare l'operazione, ma non ci riusciva. Poi anche il quaderno di calligrafia di Hjalmar cominciò a lamentarsi, era proprio straziante da ascoltare! Su ogni pagina si trovavano in colonna tutte le lettere maiuscole, e vicino quelle minuscole - erano il modello di calligrafia - e di seguito si trovavano altre lettere che credevano di essere identiche alle prime, queste le aveva scritte Hjalmar e sembrava fossero cadute giù dalle righe su cui avrebbero dovuto stare. "Guardate, è così che dovete stare!" dissero i modelli "così, ancora un po' da questa parte, con un colpetto!" "Oh, ci piacerebbe proprio", risposero le lettere di Hjalmar "ma non ci riusciamo, siamo cosi deboli!" "Allora vi daremo la purga!" esclamò Ole Chiudigliocchi. "Oh no!" gridarono le lettere, e si drizzarono che era un piacere guardarle. "Ecco, così non abbiamo tempo di raccontare la storia!" commentò Ole Chiudigliocchi "ma voi dovete fare un po' di esercizi, un-due, un-due" e così le lettere fecero un pò di ginnastica e diventarono dritte e robuste proprio come i modelli; ma quando Ole Chiudigliocchi se ne andò e Hjalmar al mattino andò a guardarle, erano deboli come il giorno prima.

    Martedì

    Non appena Hjalmar fu a letto, Ole Chiudigliocchi toccò con la siringa magica tutti i mobili che c'erano nella stanza e subito questo cominciarono a parlare, e tutti raccontavano di se stessi eccetto la sputacchiera che se ne stava zitta e arrabbiata perché gli altri erano così vanitosi da parlare solo di sé e pensare solo a se stessi, e non pensavano affatto a lei che se ne stava sola in un angolo e si faceva sputare addosso. Sopra il comò era appeso un grande quadro in una cornice dorata; rappresentava un paesaggio, si vedevano alberi alti e antichi, fiori tra l'erba e un grande lago con un fiume che scorreva dietro il bosco, passava davanti a molti castelli e si gettava infine nell'immenso mare. Ole Chiudigliocchi toccò il quadro con la siringa magica e subito gli uccelli cominciarono a cantare, i rami degli alberi a agitarsi e le nuvole a passare nel cielo, tanto che si potevano vedere le ombre sul paesaggio. Ole Chiudigliocchi sollevò il piccolo Hjalmar fino alla cornice e il bimbo infilò le gambine nel quadro, proprio tra l'erba alta, e lì rimase; il sole splendeva tra i rami degli alberi e giungeva fino a lui. Corse fino al lago, salì su una barchetta che si trovava lì, colorata di rosso e bianco, le vele splendenti come argento, e sei cigni, con una corona d'oro intorno al collo e una stella azzurra che brillava sul capo, diressero la barca attraverso i verdi boschi, dove gli alberi raccontavano di giganti e di streghe e i fiori narravano dei graziosi elfi o di quello che avevano sentito dalle farfalle. I pesci più belli, con le squame che sembravano d'oro e d'argento, nuotavano dietro la barchetta, ogni tanto spiccavano un salto e ricadevano di nuovo in acqua, e gli uccelli, rossi e blu, grandi e piccoli, volavano in due lunghe file seguendo la barca, i moscerini danzavano e i maggiolini facevano bum, bum. Tutti volevano seguire Hjalmar, e ognuno di loro aveva una storia da raccontare. Era proprio una bella gita! A volte i boschi si infittivano ed erano tutti scuri, a volte sembravano splendidi giardini rischiarati dal sole e pieni di fiori, e c'erano grandi castelli di vetro e di marmo; sui balconi erano uscite le principesse, e erano tutte bambine che Hjalmar conosceva, perché aveva giocato con loro altre volte. Tesero le mani verso il ragazzo e ognuna aveva un maialino di marzapane molto più grazioso di quelli che si comprano dalla venditrice ambulante, e Hjalmar afferrò il maialino di marzapane mentre passava con la barca, ma la principessa lo teneva ben stretto, cosi ognuno rimase con un pezzo di maialino, lei col più piccolo, Hjalmar col più grosso! A ogni castello stavano di guardia principini che salutarono con la sciabola d'oro e fecero cadere una pioggia di canditi e di soldatini di piombo; erano ottimi principi! Hjalmar passava ora attraverso boschi, ora attraverso grandi radure, ora tra villaggi; passò anche nel villaggio in cui abitava la sua balia, che lo aveva tenuto in braccio quand'era molto piccolo e gli aveva voluto così bene; lei gli fece cenno e lo salutò, e gli cantò quella graziosa canzoncina che lei stessa aveva scritto per Hjalmar:

    Io penso a te tante volte
    Mio caro Hjalmar, mio tesoro!
    Oh, quanto ho baciato la tua piccola bocca,
    la tua fronte, le tue guancine rosse.
    Ho ascoltato le tue prime parole
    e ti ho dovuto dire addio.
    Che il Signore ti benedica sulla terra,
    angelo del cielo!

    E tutti gli uccelli si unirono al canto, i fiori danzarono sul loro stelo e gli alberi si piegarono, era come se Ole Chiudigliocchi raccontasse le storie anche a loro.

    Mercoledì

    Come scrosciava la pioggia fuori! Hjalmar la sentiva nel sonno! E quando Ole Chiudigliocchi aprì la finestra, l'acqua era arrivata fino al davanzale, era tutto un grande lago là fuori e una splendida nave era ancorata proprio davanti alla casa. "Vuoi venire con me sulla nave, piccolo Hjalmar?" chiese Ole Chiudigliocchi "così stanotte potremo raggiungere paesi sconosciuti e saremo di ritorno domattina." Subito Hjalmar si trovò sulla splendida nave col suo vestito della domenica e venne il bel tempo così navigarono lungo le strade, girarono dietro la chiesa e si trovarono nell'immenso mare. Navigarono a lungo, la terra non si scorgeva più, poi videro uno stormo di cicogne, che proveniva dal loro stesso paese e si dirigeva verso i paesi caldi; volavano tutte allineate una dietro l'altra e avevano già volato per molto, molto tempo una di loro era così stanca che le sue ali non riuscivano più a reggerla, era l'ultima della fila e presto rimase indietro rispetto alle altre, alla fine precipitò sempre più in basso con le ali aperte, sfiorò con le zampe l'albero della nave, scivolò lungo la vela e bum! si trovò sul ponte. Un mozzo la prese e la portò nel pollaio, tra galline, anatre e tacchini; la povera cicogna si sentì tutta avvilita in mezzo a loro. "Ma che strano tipo!" esclamarono le galline. Il tacchino si gonfiò più che poté e chiese chi fosse, e le anatre si tirarono indietro, urtandosi tra loro e dicendo: "Muoviti, muoviti!". La cicogna raccontò della calda Africa, delle piramidi e dello struzzo, che correva come un cavallo selvaggio in mezzo al deserto, ma le anatre non capivano e si urtavano tra loro dicendo: "Siamo d'accordo che è una stupida?". "Certo che è stupida!" ripeté il tacchino e poi gorgogliò. Allora la cicogna tacque e si mise a pensare alla sua Africa. "Che belle zampe snelle ha lei!" osservò il tacchino. "Quanto costano al metro?" "Qua, qua, qua!" risero tutte le anatre, ma la cicogna finse di non aver sentito. "Lei potrebbe ridere con noi!" le disse il tacchino "dato che era una bella battuta! o forse era troppo volgare per lei! ah! ah! lei non è una mente aperta! allora ci divertiremo per conto nostro!" e le galline chiocciarono, e le anatre schiamazzarono "gik! gak! gik!" era spaventoso vedere come trovavano divertenti certe cose! Ma Hjalmar arrivò al pollaio, aprì la porta, chiamò la cicogna che gli andò incontro; ora si era riposata e sembrava volesse ringraziare Hjalmar col capo; poi spiegò le ali e volò verso i paesi caldi; intanto le galline chiocciavano, le anatre schiamazzavano e il tacchino era diventato tutto rosso in viso. "Domani faremo un buon brodo con voi!" disse Hjalmar, e si svegliò di nuovo nel suo lettino. Era stato un viaggio meraviglioso quello che Ole Chiudigliocchi gli aveva fatto fare quella notte!

    Giovedì

    "Ascolta un po'" disse Ole Chiudigliocchi "non spaventarti; adesso vedrai una topolina!" e intanto tendeva verso di lui la mano con una leggera e graziosa topolina. "È venuta a invitarti a un matrimonio. Ci sono due topolini che questa notte si sposeranno. Abitano sotto il pavimento della dispensa di tua madre, deve essere proprio un bell'appartamentino!" "Ma come faccio a passare attraverso il buchino dei topi che c'è nel pavimento?" chiese Hjalmar. "Lascia fare a me!" rispose Ole Chiudigliocchi. "Ti faccio diventare piccolo piccolo" e lo sfiorò con la sua siringa magica: subito Hjalmar rimpicciolì fino a diventare alto come un dito. "Ora potrai indossare i vestiti del soldatino di piombo, penso che ti vadano bene, e poi sta bene indossare l'uniforme quando si va in società!" "Certamente" rispose Hjalmar, e in un attimo si trovò vestito come il più grazioso dei soldatini di piombo. "Vuole essere così gentile da sedersi nel ditale di sua madre?" gli disse la topolina "così avrò l'onore di condurla!" "Dio mio! deve disturbarsi la signorina?" chiese Hjalmar, e così partirono per il matrimonio dei topolini. Passando sotto il pavimento, entrarono in un lungo corridoio, largo appena per passarci con un ditale, e tutto illuminato di legno marcio. "Sente che buon odore c'è qui?" chiese la topolina che lo tirava "tutto il corridoio è stato spalmato di lardo. Non potevano trovare niente di meglio!" Infine entrarono nel salone delle nozze: a destra si trovavano tutte le signore tope che chiacchieravano e spettegolavano, come se si prendessero in giro a vicenda; a sinistra avevano preso posto tutti i signori topi che si lisciavano i baffi con le zampette; in mezzo alla sala stavano gli sposi, erano in piedi dentro una crosta di formaggio incavata e si baciavano appassionatamente davanti agli occhi di tutti, perché ormai erano fidanzati e presto si sarebbero sposati. Continuavano a arrivare nuovi invitati, i topi rischiavano ormai di calpestarsi a vicenda così gli sposi si misero davanti alla porta in modo che non si potesse più né entrare né uscire. Anche la sala era stata spalmata di lardo come il corridoio, e questo era il rinfresco, ma come dessert venne servito un pisello, su cui un topolino della famiglia aveva inciso coi dentini il nome degli sposi, o meglio le loro iniziali: una cosa proprio fuori dell'ordinario! Tutti i topi affermarono che era stato un bel matrimonio e che la conversazione era stata davvero piacevole. E Hjalmar ritornò a casa; era stato senza dubbio nell'alta società, ma per fare questo aveva dovuto rimpicciolirsi e indossare l'uniforme del soldatino di piombo.

    Venerdì

    "È da non credere quante persone adulte mi vorrebbero!" disse Ole Chiudigliocchi "soprattutto quelle che hanno fatto del male. Mi dicono: «Caro, piccolo Ole, non riusciamo a chiudere gli occhi e per tutta la notte guardiamo le nostre brutte azioni, che sotto forma di mostriciattoli si siedono sul letto e ci spruzzano addosso acqua bollente; vuoi venire a cacciarli via, così che possiamo dormire bene?» e sospirano profondamente «e ti pagheremmo volentieri, buona notte, Ole! i soldi sono sul davanzale!». Ma io non lo faccio per i soldi!" concluse Ole Chiudigliocchi. "Che cosa facciamo questa notte?" gli chiese Hjalmar. "Non so se hai ancora voglia di andare a un matrimonio, ma è ben diverso da quello di ieri. La bambola grande di tua sorella, quella che sembra proprio un giovanotto e che si chiama Herman, si sposa con la bambola Bertha; inoltre è anche il suo compleanno, quindi ci saranno moltissimi regali." "Sì, la conosco bene!" rispose Hjalmar "quando le bambole hanno bisogno di nuovi vestiti, allora mia sorella trova la scusa di un compleanno o di un matrimonio! è già successo almeno cento volte!" "Sì, ma questa notte è il centounesimo matrimonio, quindi sarà una festa senza limiti. Vieni a vedere!" Hjalmar guardò allora sul tavolo; c'era una casetta di cartone con le finestre illuminate e tutti i soldatini di piombo presentavano le armi all'ingresso. Gli sposi erano seduti sul pavimento e si appoggiavano a una gamba del tavolo; erano pensierosi, e forse avevano le loro ragioni. Ole Chiudigliocchi aveva indossato una gonna nera della nonna e diede loro la benedizione. Finita la cerimonia, tutti i mobili della stanza intonarono la seguente bella canzone che era stata scritta dalle matite, sull'aria della ritirata:

    Il nostro canto giungerà
    agli sposi come il vento
    essi stanno tutti rigidi,
    fatti di pelle di guanto.
    Evviva gli sposi di pelle di guanto
    cantiamo con forza nel vento!

    Poi ricevettero i regali, ma rifiutarono tutte le cose da mangiare perché a loro bastava l'amore. "Ora andiamo in campagna o facciamo un viaggio all'estero?" chiese la sposa, e così vennero interpellate la rondine, che aveva viaggiato tanto, e la vecchia chioccia, che aveva covato cinque volte i pulcini. La rondine raccontò dei bei paesi caldi, dove i grappoli d'uva sono grandi e pesanti, dove l'aria è mite e le montagne hanno colori che non si possono immaginare! "Ma non hanno il nostro cavolo verde!" esclamò la chioccia. "Io mi trovai un'estate in campagna con i miei pulcini, e c'era una cava di sabbia dove andavamo a raspare, e poi potevamo entrare in un orto pieno di cavoli verdi! Com'erano verdi! non riesco a immaginare niente di più bello!" "Ma i torsi del cavolo sono tutti uguali!" commentò la rondine "e poi qui c'è spesso cattivo tempo!" "Ma a questo si è abituati" replicò la chioccia. "Qui fa molto freddo e si gela!" "Ma al cavolo fa bene! " disse la chioccia. "Inoltre anche qui può venire il caldo. Non abbiamo avuto quattro anni fa un'estate che durò cinque settimane? Faceva così caldo che non si riusciva più a respirare! E poi qui non ci sono tutti quegli animali velenosi che si trovano all'estero. E non abbiamo neppure i briganti! È vile chi non riconosce che il nostro paese è il più bello: non merita neppure di abitare qui!" e intanto la chioccia piangeva. "Anch'io ho viaggiato: ho percorso in una botte più di dodici miglia! Non c'è proprio niente di divertente nel viaggiare!" "È vero! La chioccia è una signora intelligente" esclamò la bambola Bertha. "Nemmeno a me piace viaggiare sulle montagne, non è altro che salire e scendere! No, preferisco trasferirmi vicino a una cava di sabbia e passeggiare nell'orto dei cavoli."

    E così fecero.

    Sabato

    "Mi racconti una storia?" esclamò il piccolo Hjalmar, non appena Ole Chiudigliocchi lo ebbe messo a letto. "Questa sera non abbiamo tempo! " rispose Ole, e aprì il suo bell'ombrello sul bambino. "Guarda i cinesi!" e tutto l'ombrello sembrava ora un vaso cinese con gli alberi azzurri e i ponti a sella d'asino su cui passavano cinesini che facevano cenni con la testa. "Dobbiamo pulire e rendere bello tutto il mondo per domani" spiegò Ole "perché domani è festa, è domenica. Devo salire sul campanile per vedere se i folletti della chiesa hanno lucidato le campane, così che suonino bene domani, devo andare nei campi a controllare che il vento abbia soffiato via la polvere dall'erba e dalle foglie, e poi devo tirar giù dal cielo tutte le stelle per lustrarle un po', e questa è la fatica più grande! Le metto nel mio grembiule, ma prima devo numerarle e devo anche numerare i buchi dove sono fissate nel cielo perché così posso rimetterle al loro posto. Altrimenti non sarebbero ben fissate e avremmo troppe stelle cadenti: cadrebbero tutte, una dopo l'altra!" "Senta un pò, signor Chiudigliocchi" disse un vecchio ritratto che era appeso nella camera di Hjalmar "io sono il bisnonno di Hjalmar; la ringrazio per le storie che lei racconta al ragazzo, ma non deve confondergli le idee. Le stelle non possono essere tirate giù e lustrate: le stelle sono globi proprio come la terra, e proprio qui sta la loro bellezza!" "Grazie, vecchio bisnonno!" rispose Ole Chiudigliocchi "grazie mille! Tu sei la zucca della famiglia, la zucca più antica! ma io sono molto più vecchio di te. Sono un vecchio pagano, i greci e i latini mi chiamavano Dio dei Sogni. Sono entrato nelle case più signorili e le frequento ancora adesso, so stare con i piccoli e con i grandi. Adesso prova a raccontare tu!" e se ne andò col suo ombrello. "Adesso non si può più neppure dire la propria opinione!" brontolò il vecchio ritratto. E Hjalmar si svegliò.

    Domenica

    "Buona sera" disse Ole Chiudigliocchi e Hjalmar lo salutò col capo, ma subito saltò fuori dal letto e andò a girare il ritratto del bisnonno verso la parete, perché non potesse intervenire come aveva fatto il giorno prima. "Adesso mi devi raccontare le storie dei «Cinque piselli in un baccello», del «Gallo che faceva la corte alla gallina» e dell'«Ago da rammendo» che era così delicato da credere di essere un ago da ricamo!" "Il troppo stroppia!" esclamò Ole Chiudigliocchi "preferisco mostrarti qualcosa, e precisamente mio fratello, che pure si chiama Ole Chiudigliocchi, ma che non va mai dalle persone più di una volta, e quando ci va le porta via con sé sul suo cavallo e racconta loro delle storie; ne conosce soltanto due: una è così straordinariamente bella che nessuno al mondo se la può immaginare, e l'altra è così orribile e spaventosa da non poterla raccontare!" e Ole Chiudigliocchi sollevò il piccolo Hjalmar fino alla finestra e gli disse: "Da qui vedrai mio fratello, l'altro Ole Chiudigliocchi; lo chiamano anche Morte; ma vedrai che non è affatto brutto come compare sui libri di figure dove è solo uno scheletro. In realtà ha un abito tutto ricamato d'argento, una bellissima uniforme da ussaro! Un mantello di velluto nero vola nel vento, dietro il cavallo; guarda come va al galoppo!". E Hjalmar vide come quell'Ole Chiudigliocchi cavalcava via, prendendo sul cavallo giovani e vecchi. Alcuni li metteva davanti, altri dietro, ma prima chiedeva sempre: "Che voti hai preso sulla pagella?". "Buono" rispondevano tutti, ma lui diceva: "Fatemi vedere!" e così gli mostravano la pagella, e quelli che avevano «buono» e «ottimo» erano messi davanti a ascoltare la bella storia, quelli che invece avevano meritato «sufficiente» o «scarso» si sedevano dietro a ascoltare la storia spaventosa; allora tremavano e piangevano, volevano saltare giù dal cavallo, ma non potevano farlo: erano come inchiodati. "La Morte allora è un Ole Chiudigliocchi straordinario!" esclamò Hjalmar "io non ho affatto paura di lui!" "Infatti non ne devi avere!" gli rispose Ole Chiudigliocchi. "Basta che tu abbia una bella pagella!" "Questo sì che è istruttivo!" borbottò il ritratto del bisnonno "allora è utile dire la propria opinione" e così si sentì soddisfatto. Questa è la storia di Ole Chiudigliocchi; questa sera te ne potrà raccontare altre lui stesso.

    (H.C.Andersen)
     
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