SCRIVERE.....LEGGERE.....

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  1. gheagabry
     
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    « Senza la scrittura le parole non hanno presenza visiva,
    possono solo essere "recuperate", "ricordate". »
    (Walter Ong)






    Edited by gheagabry - 15/7/2014, 22:38
     
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  2. gheagabry
     
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    Sogni in punta di matita
    di Maila Navarra

    - ... vedi?
    È una questione di etica mantenere gli occhi fissi sull’infinito, il punto in cui tutto converge.
    Il punto che ti attraversa senza spazio né tempo, il punto di arrivo, il punto di partenza, la culla della vita da dove dolcemente scaturisce ogni significato e dove senza forma si galleggia.
    È un’esclusiva dall’infinito...
    È possibile catturarne solo alcuni bagliori nascosti sotto lo stesso velo, ma non mentono mai!
    E poi proiettarli in superficie dove una ballerina sulle punte traccia linee cantando, disegnando la melodia della sua stessa riga; il segno non mente mai, è la scia su cui navigano le sensazioni... un“elettrografogramma”.
    DRIIN... CHI È ADESSO?!...
    DRIIN... “PRONTO?... si, si, stavo proprio arrivando al dunque...”
    Dunque.
    I colori. (DRIIN-DRIIN-DRIIN- no! adesso non rispondo!) I colori che aspettano di emergere dal bianco.
    Il bianco, l’ingresso nell’invisibile e la perdita totale del senso comune, un invito verginale, capisci?



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  3. gheagabry
     
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    “Questo luogo è un mistero, Daniel, un santuario. Ogni libro, ogni volume che vedi possiede un’anima, l’anima di chi lo ha scritto e l’anima di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie a esso. Ogni volta che un libro cambia proprietario, ogni volta che un nuovo sguardo ne sfiora le pagine, il suo spirito acquista forza. Molti anni fa, quando mio padre mi portò qui per la prima volta, questo luogo era già vecchio, quasi come la città. Nessuno sa con certezza da quanto tempo esista o chi l’abbia creato. Ti posso solo ripetere quello che mi disse mio padre: quando una biblioteca scompare, quando una libreria chiude i battenti, quando un libro si perde nell’oblio, noi, custodi di questo luogo, facciamo in modo che arrivi qui. E qui i libri che più nessuno ricorda, i libri perduti nel tempo, vivono per sempre, in attesa del giorno in cui potranno tornare nelle mani di un nuovo lettore, di un nuovo spirito. Noi li vendiamo e li compriamo, ma in realtà i libri non ci appartengono mai. Ognuno di questi libri è stato il miglior amico di qualcuno. Adesso hanno soltanto noi, Daniel. Pensi di poter mantenere il segreto?”


    La storia comincia qui, quando l’undicenne Daniel trova, nel cimitero dei libri dimenticati,
    “L’ombra del vento”, scritto da Julian Carax



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  4. gheagabry
     
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    Non esiste vascello che come un libro ci sa portare in terre lontane. Né corsiero come una pagina di scalpitante poesia. È un viaggio che anche il più povero può fare senza il tormento del pedaggio. Quanto è frugale la carrozza che trasporta l’anima dell’Uomo.
    (Emily Dickinson)





    Parliamo de..........



    IL LIBRO



    “Roma, Alessandria e Bisanzio. Tre città con biblioteche piene di libri, che custodivano i segreti di secoli e secoli di letteratura e ricerche. Edifici affollati da rotoli e codici ricoperti di sogni di altrettanti e più uomini a venire. Ma quei sogni sono andati in fumo sotto i colpi fiammeggianti dei barbari, degli arabi, dei turchi. Cancellavano con un gesto infuocato piani e piani di carte contenenti i segreti della vita. Bruciavano lo spirito e le sue ali. Gli impedivano di volare come aveva fatto per secoli, liberandosi dalle prigioni della storia. La cara dei libri bruciava …”

    “ Perché? “

    “… Cerco di trasformarmi in uno di quei saccheggiatori e mi chiedo cosa vogliono ottenere dando fuoco ai libri che contengono. Mi aggiro per le strade polverose di Roma, di Alessandria e di Bisanzio, che poi ho scoperto essere diventata Costantinopoli e poi Istanbul,e in mezzo agli strepiti e alle urla della gente do fuoco a migliaia di libri. Mi sbarazzo di tutti quei sogni di carta e li trasformo in cenere. Li trasformo in fumo bianco. Ecco la risposta. Incenerire i sogni. Bruciare i sogni è il segreto per abbattere definitivamente i propri nemici, perché non trovino più la forza di rialzarsi e ricominciare. Non sognino le cose belle delle loro città, delle vie altrui, non sognino i racconti di altri,così pieni di libertà e di amore. Non sognino più nulla. Se non permetti alle persone di sognare, le rendi schiave. E io, saccheggiatore di città, adesso ho bisogno solo di schiavi, per regnare tranquillo e indisturbato. E così, non rimanga parola su parola. Ma solo bianca cenere dei sogni antichi. Questa è la distruzione più crudele: rubare i sogni alla gente. Quando non hai sogni li rubi agli altri, perché non li abbiano neanche loro. L’invidia ti brucia il cuore e quel fuoco divora tutto…”
    - Alessandro D’Avenia -



    Il criterio di far corrispondere segni e parole fu introdotto nel Mediterraneo dagli Egiziani, fu sviluppato in forma alfabetica dai Fenici, dal quale derivarono, in forme diverse, gli alfabeti greco, italico, ebraico, siriaco, arabo e quello latino. Furono i Greci a diffondere la scrittura come patrimonio universale dell’umanità.
    Gli antichi romani possedevano schiavi colti che utilizzavano per “copiare” i libri sotto dettatura. Soltanto gli ebrei si erano assunti l’obbligo di eliminare l’analfabetismo, senza distinzioni di censo, per poter studiare le Sacre Scritture, mentre in Grecia e a Roma studiava solo chi ne aveva le possibilità. I primi editori sembra fossero gli stessi autori che utilizzavano il sistema della copiatura per commercializzare o regalare le loro opere agli amici. Sono costoro i prototipi dell’editoria. Questa tradizione di “copisti”continuò anche nell’era cristiana: la categoria più famosa furono gli amanuensi.
    A Johann Gensfeish (1399 - 1468), figlio di un orafo della zecca di Magonza, è attribuita l’invenzione del libro. Egli è passato alla storia come Gutemberg per il nome del paese di provenienza della sua famiglia. Intorno al 1450 egli realizza duecento copie della Bibbia, considerata il primo libro a stampa con caratteri mobili, uscito da un torchio.
    La tradizione d’arte italiana smussa la spigolosità dei caratteri gotici e, in pochi decenni, l’Italia acquista un’indiscussa superiorità nella stampa.
    Nella veste esteriore i libri riportano il nome dell’autore, l’insegna dello stampatore, il luogo e l’anno di stampa, mentre la rilegatura diventa sempre più di pregio e vi si riflettono gli stili delle varie epoche: rococò, barocco, romantico, art-noveau, futurismo. Le stampe, in bianco e nero, poste a illustrazione di un testo, vengono usate per la prima volta nel 1461 da A. Pfister per illustrare un’edizione delle favole di Boner.
    Nella seconda metà del XVI secolo la Chiesa opera una censura molto rigida e, nel 1559, esce il primo "Indice dei libri proibiti". Alle stamperie private si affiancano quelle istituzionali, di proprietà dei governi o degli organi ecclesiatici: la Stamperia Vaticana, l’Imprimerie Nationale.
    Tuttavia le crisi economiche e le guerre del XVII secolo colpiscono il libro come merce e veicolo d’informazione. Molte stamperie sono costrette a chiudere o a ridurre i torchi.
    Con il Settecento la quantità della produzione riprende quota insieme alla qualità grafica e si orienta in due grandi filoni distinti: l’opera di pregio, realizzata per una élite di studiosi o di mecenati, e l’opera popolare.
    L’ultimo dei grandi innovatori dell’arte tipografica fu, tra Settecento e Ottocento, il tipografo e fonditore Giovanni Battista Bodoni, nato a Saluzzo nel 1740. Egli disegna caratteri di particolare bellezza, influenzato dal gusto neoclassico del suo tempo, creando il carattere bodoniano, caratterizzato da un eccezionale equilibrio tra spazi bianchi e caratteri.
    In Francia, tra il Settecento e l’Ottocento fu il momento dei Didot, celebre e numerosa famiglia di editori, originaria della Lorena. Firmin Didot inventa la stereotipia, ovvero la conservazione, attraverso un calco, di pagine già composte al fine di future ristampe, limitando notevolmente i costi di produzione.




    Noi siamo abituati a dare a parole come “silenzio” e “solitudine” un significato di malinconia, negativo. Nel caso della lettura non è così, al contrario quel silenzio e quella solitudine segnano la condizione orgogliosa dell’essere umano solo con i suoi pensieri, capace di dimenticare per qualche ora “ogni affanno”.
    (Corrado Augias)




    Ci sono libri famosi e libri intelligenti (e qualche volta le due cose riescono addirittura a coincidere); libri inutili e libri importanti; libri che divertono, libri che nutrono e libri che fanno male. Libri che si dimenticano e altri che si ricordano. Libri di cui parlare e libri da meditare. Libri da leggere come quando si ha sete e altri da sorseggiare, come vini d’annata.
    E poi ci sono i “libri-guru”.
    Quelli che arrivano nella tua vita e dopo le cose non sono più come prima.
    A volte è un tocco gentile, delicato, quasi insensibile. Altre volte una spallata.
    Possono passare anni, decenni, prima che ci si accorga di quanto sono stati determinanti.
    Un po’ come gli incontri che si fanno nella vita: molti (forse tutti) hanno un’influenza, ma solo pochi - pochissimi - ne cambiano davvero il corso.
    Nella tradizione tibetana esiste la figura del “Maestro-radice”, che è quello a cui si deve l’iniziazione più importante. Non necessariamente il più celebre o il più acclamato, ma quello che, di fatto, ha prodotto un cambiamento sostanziale nella vita,
    consentendo di dividerla in un “prima” e un “dopo”.
    Magari lo si è frequentato solo per un mese o per una settimana o per un’ora. Quei minuti o quei giorni, però, hanno fatto la differenza. E l’orbita del pianeta che siamo non è più la stessa.
    I libri sono gente, e ogni libro che leggiamo è una persona che entra nella nostra vita. E se abbiamo imparato qualcosa, allora quel libro è stato un maestro. Più o meno importante, più o meno utile, più o meno determinante nel nostro percorso.
    Fra tutti, però, pochi - uno soltanto? - possono fregiarsi del titolo di “libro-guru”.
    Non si tratta di ragionarci, né di misurarne il valore secondo un qualche parametro intellettuale: filosofico, culturale, spirituale o esoterico che sia. Non è così che si può misurare un libro-guru (e nemmeno un guru in carne e ossa, se è per questo).
    Però si può guardarsi indietro, ripercorrere le vicende della vita e magari scoprire che…
    «Oh, bè… chi l’avrebbe mai detto!»
    Certo potremmo anche tirarcela, e chiamare in causa Dostoevskij o il Mahabharata, lo Shobogenzo o Shakespeare, la Bhagavadgita o La Quarta Via.
    Salvo poi scoprire che il confine fra un “prima” e un “dopo” nella nostra vita è marcato dalle suggestioni di un romanzo, o dalle ingenuità di un manuale di “magia pratica” scovato su una bancarella o acquistato per corrispondenza.
    - Vittorio Mascherpa -





    Il tempo per leggere, come il tempo per amare, dilata il tempo per vivere.
    (Daniel Pennac)



    Un libro è il risultato della fatica e dello sforzo di un uomo. Più o meno riuscito, è il tentativo di condensare – nero su bianco – il pensiero, le emozioni, l’esperienza della vita o della ricerca di un individuo; e, solo per questo, merita il massimo rispetto.Un libro può essere chiuso, e riaperto tempo dopo nello stesso punto (che dire della dolcezza del gesto di porre un segnalibro a suggello di una pagina appena gustata?); può essere interrotto nella lettura per qualche istante di riflessione, o ripercorso nelle frasi precedenti, a sottolineatura di un passaggio, di un’emozione, di un’idea improvvisamente sorta da un subconscio che “legge tra le righe”; può essere tenuto – aperto – sulle ginocchia per una pausa di silenzio, d’introspezione, senza che la magia del testo ne abbia a soffrire, talvolta anzi crescendo in espressione proprio nelle pause, quasi che il bianco intorno alle forme dei caratteri prenda il sopravvento come verità più ampia che sottende alle forme possibili.
    Un libro è un mondo che si dispiega e s’adatta alla sostanza del lettore: i suoi significati sono infiniti, e lievitano nell’animo e nell’esperienza di chi legge, andando a colmare spazi vuoti in attesa, domande inespresse, squarci di memoria, intimi scrigni di sentimento, interstizi di nostalgia.
    Un libro può essere un amico sincero e discreto, che aiuta a indagare in sé, senza mai sovrapporsi, senza pretendere nulla in cambio; può essere, nel silenzio di una notte quieta, l’aratro che scava un solco nel cuore indurito dal giorno; o solo il traghettatore che conduce la mente affaticata alle porte del sogno.Un libro, infine, è un oggetto concreto, con un peso, una forma, un aspetto, un odore. Può essere portato con sé, regalato ad un amico, strapazzato o trattato con cura, e alla fine riposto su uno scaffale, per essere ricordato o dimenticato.
    Accade, spesso, di riprenderlo dopo molti anni e, aprendolo, di assistere a uno strano miracolo: quel testo ci ha atteso, ci ha lasciato correre nel mondo a cercare risposte, emozioni, esperienze; e ora ci offre, come per caso, con la discrezione semplice della sua pagina ingiallita, quella stessa risposta che anni prima non potevamo ancora capire. Era lì, già scritta da prima, per quell’uomo o quella donna che siamo diventati ora.
    E tutti sappiamo – ma nessuno osa dirlo – quante volte abbiamo richiuso un libro con un gesto affettuoso, posandolo come una carezza.
    (dal web)




    In fondo (...) il mondo é fatto per finire in un bel libro
    Stéphane Mallarmé





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  5. gheagabry
     
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    Ci sono parole calde come petali di luce,
    dolci e mature come ciliegie in grappoli ma,
    altre fredde come neve nelle notti nere dell’inverno

    Anonimo




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  6. gheagabry
     
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    ... FOGLI BIANCHI …
    ...Avete mai provato a mettere la penna sopra un foglio bianco e lasciare che la mente e il cuore muovano la biro? Lasciando il controllo alla libertà di lasciar uscire emozioni e di far in modo che quei segni lasciati dalla penna non siano lettere o parole, ma immagini da osservare, da far entrar dentro di noi e lasciare che esse vivano le nostre emozioni. Fiume in piena, argini divelti dall’impeto dei sentimenti … inchiostro che scorre senza sosta come un cavaliere che cerca di domare un cavallo in preda alla gioia di cavalcare. Immagini si succedono nella mente e si accodano ad altre precedentemente prodotte in attesa di essere liberate nelle descrizione che quella penna farà. Occhi chiusi in attesa dell’onda come un serfista poggiato sulla tavola che attende la spinta giusta che lo catapulterà nel pieno dei gorghi del mare. Fruscii di fogli che scorrono e si riempiono di emozioni descritte e, quando lette, poi condivise e convissute. Cancelli che si aprono verso praterie di colorate sfumature, declivi e ascese che si alternano dinnanzi agli occhi del cuore. Coraggioso è colui che si pone di fronte ad un foglio bianco e, senza alcuna esitazione lascia che il vento caldo del suo cuore lo porti a sorvolare i cieli della propria anima … Carezza sul viso mentre un’esortazione giunge al cuore di chi da troppo tempo attende solo un cenno per dar vita al carnevale della propria ispirazione … Curvo sul foglio alla ricerca di un’ispirazione, d’un tratto la mano si muove, il cuore sorride e gigantesche onde di pensieri e emonzioni aprono la strada a fiumi di inchiostro pronti a dar vita ad un madrigale di suoni e di parole di unica melodia. Soffermati ad ascoltare quella melodia, apri il cuore e falla entrare … specchio che si specchia … immagine che si rinnova … luce che si espande fino a divenire energia … Buon giorno amici miei ... e che le vostre pagine possano riempirsi presto di variopinti disegni, di melodie che riempiono cuore e anima di gioia incontenibile …
    (Claudio)




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  7. gheagabry
     
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    Nel torpore, il cuore tace e la penna si arresta;
    occorrerà attendere che la mano dell'Emozione lo sfiori di nuovo,
    ed esso riprenderà vita, come per incanto.

    Barbara Brussa







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  8. gheagabry
     
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    I pensieri messi per iscritto non sono nulla di più che la traccia di un viandante nella sabbia:
    si vede bene che strada ha preso, ma per sapere che cosa ha visto durante il cammino
    bisogna far uso dei suoi occhi.

    Arthur Schopenhauer







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  9. gheagabry
     
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    Scrivimi una lettera fra tanto tempo.
    Scrivimela a mano, con la tua calligrafia.
    Prova a mandarmi tanti pezzi di cuore.
    Scrivimi come stai, dall'inizio alla fine,
    sei origine e polvere magica.
    Oppure non scrivere niente,
    mandami la busta vuota con dentro la tua anima
    ed io senza scriverti niente,
    ovunque sarò ti risponderò
    e tu saprai sempre
    riconoscerti nelle mie parole, solo tue.
    (dal web)



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  10. ringo47
     
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    Perché leggere i classici




    Edizioni di riferimento
    Italo Calvino, "Italiani, vi esorto ai classici", «L'Espresso», 28 giugno 1981, pp. 58-68.
    Italo Calvino, Perché leggere i classici, Oscar Mondadori, Milano 1995
    Cominciamo con qualche proposta di definizione.

    1. I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito:

    «Sto rileggendo...» e mai «Sto leggendo...»



    Questo avviene almeno tra quelle persone che si suppongono «di vaste letture»; non vale per la gioventù, età in cui l'incontro col mondo, e coi classici come parte del mondo, vale proprio in quanto primo incontro.
    Il prefisso iterativo davanti al verbo «leggere» può essere una piccola ipocrisia da parte di quanti si vergognano d'ammettere di non aver letto un libro famoso. Per rassicurarli basterà osservare che per vaste che possano essere le letture «di formazione» d'un individuo, resta sempre un numero enorme d'opere fondamentali che uno non ha letto.
    Chi ha letto tutto Erodoto e tutto Tucidide alzi la mano. E Saint-Simon? E il cardinale di Retz? Ma anche i grandi cicli romanzeschi dell'Ottocento sono più nominati che letti. Balzac in Francia si comincia a leggerlo a scuola, e dal numero delle edizioni in circolazione si direbbe che si continua a leggerlo anche dopo. Ma in Italia se si facesse un sondaggio Doxa temo che Balzac risulterebbe agli ultimi posti. Gli appassionati di Dickens in Italia sono una ristretta élite di persone che quando s'incontrano si mettono subito a ricordare personaggi e episodi come di gente di loro conoscenza. Anni fa Michel Butor, insegnando in America, stanco di sentirsi chiedere di Emile Zola che non aveva mai letto, si decise a leggere tutto il ciclo dei Rougon-Macquart. Scoperse che era tutto diverso da come credeva: una favolosa genealogia mitologica e cosmogonica, che descrisse in un bellissimo saggio.
    Questo per dire che il leggere per la prima volta un grande libro in età matura è un piacere straordinario: diverso (ma non si può dire maggiore o minore) rispetto a quello d'averlo letto in gioventù. La gioventù comunica alla lettura come a ogni altra esperienza un particolare sapore e una particolare importanza; mentre in maturità si apprezzano (si dovrebbero apprezzare) molti dettagli e livelli e significati in più. Possiamo tentare allora quest'altra formula di definizione:

    2. Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza

    per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza

    non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli

    per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli.


    Infatti le letture di gioventù possono essere poco proficue per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l'uso, inesperienza della vita. Possono essere (magari nello stesso tempo) formative nel senso che danno una forma alle esperienze future, fornendo modelli, contenitori, termini di paragone, schemi di classificazione, scale di valori, paradigmi di bellezza: tutte cose che continuano a operare anche se del libro letto in gioventù ci si ricorda poco o nulla. Rileggendo il libro in età matura, accade di ritrovare queste costanti che ormai fanno parte dei nostri meccanismi interiori e di cui avevamo dimenticato l'origine. C'è una particolare forza dell'opera che riesce a farsi dimenticare in quanto tale, ma che lascia il suo seme. La definizione che possiamo darne allora sarà:
    . I classici sono libri che esercitano un'influenza particolare

    3
    sia quando s'impongono come indimenticabili, sia quando

    si nascondono nelle pieghe della memoria

    mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale.


    Per questo ci dovrebbe essere un tempo nella vita adulta dedicato a rivisitare le letture più importanti della gioventù. Se i libri sono rimasti gli stessi (ma anch'essi cambiano, nella luce d'una prospettiva storica mutata) noi siamo certamente cambiati, e l'incontro è un avvenimento del tutto nuovo.
    Dunque, che si usi il verbo «leggere» o il verbo «rileggere» non ha molta importanza. Potremmo infatti dire:

    4. D'un classico ogni rilettura

    è una lettura di scoperta come la prima.

    5. D'un classico ogni prima lettura

    è in realtà una rilettura.

    La definizione 4 può essere considerata corollario di questa:

    6. Un classico

    è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.

    Mentre la definizione 5 rimanda a una formulazione più esplicativa, come:

    7. I classici sono quei libri che ci arrivano portando

    su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra

    e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura

    o nelle culture che hanno attraversato

    (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume).


    Questo vale per i classici antichi quanto per i classici moderni. Se leggo l'Odissea leggo il testo d'Omero ma non posso dimenticare tutto quello che le avventure d'Ulisse sono venute a significare durante i secoli, e non posso non domandarmi se questi significati erano impliciti nel testo o se sono incrostazioni o deformazioni o dilatazioni. Leggendo Kafka non posso fare a meno di comprovare o di respingere la legittimità dell'aggettivo «kafkiano» che ci capita di sentire ogni quarto d'ora, applicato per dritto e per traverso. Se leggo Padri e figli di Turgenev o I demoni di Dostoevskij non posso fare a meno di pensare come questi personaggi hanno continuato a reincarnarsi fino ai nostri giorni.
    La lettura d'un classico deve darci qualche sorpresa, in rapporto all'immagine che ne avevamo. Per questo non si raccomanderà mai abbastanza la lettura diretta dei testi originali scansando il più possibile bibliografia critica, commenti, interpretazioni. La scuola e l'università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d'un libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il contrario. C'è un capovolgimento di valori molto diffuso per cui l'introduzione, l'apparato critico, la bibliografia vengono usati come una cortina fumogena per nascondere quel che il testo ha da dire e che può dire solo se lo si lascia parlare senza intermediari che pretendano di saperne più di lui. Possiamo concludere che:

    8. Un classico è un'opera che provoca incessantemente

    un pulviscolo di discorsi critici su di sé,

    ma continuamente se li scrolla di dosso.


    Non necessariamente il classico ci insegna qualcosa che non sapevamo; alle volte vi scopriamo qualcosa che avevamo sempre saputo (o creduto di sapere) ma non sapevamo che l'aveva detto lui per primo (o che comunque si collega a lui in modo particolare). E anche questa è una sorpresa che dà molta soddisfazione, come sempre la scoperta d'una origine, d'una relazione, d'una appartenenza. Da tutto questo potremmo derivare una definizione del tipo:

    9. I classici sono libri

    che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire,

    tanto più quando si leggono davvero

    si trovano nuovi, inaspettati, inediti.


    Naturalmente questo avviene quando un classico «funziona» come tale, cioè stabilisce un rapporto personale con chi lo legge. Se la scintilla non scocca, niente da fare: non si leggono i classici per dovere o per rispetto, ma solo per amore. Tranne che a scuola: la scuola deve farti conoscere bene o male un certo numero di classici tra i quali (o in riferimento ai quali) tu potrai in seguito riconoscere i «tuoi» classici. La scuola è tenuta a darti degli strumenti per esercitare una scelta; ma le scelte che contano sono quelle che avvengono fuori e dopo ogni scuola.
    È solo nelle letture disinteressate che può accadere d'imbatterti nel libro che diventa il «tuo» libro. Conosco un ottimo storico dell'arte, uomo di vastissime letture, che tra tutti i libri ha concentrato la sua predilezione più profonda sul Circolo Pickwick, e a ogni proposito cita battute del libro di Dickens, e ogni fatto della vita lo associa con episodi pickwickiani. A poco a poco lui stesso, l'universo, la vera filosofia hanno preso la forma del Circolo Pickwick in un'identificazione assoluta. Giungiamo per questa via a un'idea di classico molto alta ed esigente:

    10. Chiamasi classico un libro che si configura

    come equivalente dell'universo, al pari degli antichi talismani.


    Con questa definizione ci si avvicina all'idea di libro totale, come lo sognava Mallarmé. Ma un classico può stabilire un rapporto altrettanto forte d'opposizione, d'antitesi. Tutto quello che Jean-Jacques Rousseau pensa e fa mi sta a cuore, ma tutto m'ispira un incoercibile desiderio di contraddirlo, di criticarlo, di litigare con lui. C'entra la sua personale antipatia su un piano temperamentale, ma per quello non avrei che da non leggerlo, invece non posso fare a meno di considerarlo tra i miei autori. Dirò dunque:

    11. Il «tuo» classico è quello

    che non può esserti indifferente e che ti serve

    per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui.


    Credo di non aver bisogno di giustificarmi se uso il termine «classico» senza fare distinzioni d'antichità, di stile, d'autorità. (Per la storia di tutte queste accezioni del termine, si veda l'esauriente voce Classico di Franco Fortini nell'Enciclopedia Einaudi, vol. III). Quello che distingue il classico nel discorso che sto facendo è forse solo un effetto di risonanza che vale tanto per un'opera antica che per una moderna ma già con un suo posto in una continuità culturale. Potremmo dire:

    12. Un classico è un libro che viene prima di altri classici;

    ma chi ha letto prima gli altri e poi legge quello,

    riconosce subito il suo posto nella genealogia.


    A questo punto non posso più rimandare il problema decisivo di come mettere in rapporto la lettura dei classici con tutte le altre letture che classici non sono. Problema che si connette con domande come: «Perché leggere i classici anziché concentrarci su letture che ci facciano capire più a fondo il nostro tempo?» e «Dove trovare il tempo e l'agio della mente per leggere dei classici, soverchiati come siamo dalla valanga di carta stampata dell'attualità?».
    Certo si può ipotizzare una persona beata che dedichi il «tempo-lettura» delle sue giornate esclusivamente a leggere Lucrezio, Luciano, Montaigne, Erasmo, Quevedo, Marlowe, il Discours de la Méthode, il Wilhelm Meister, Coleridge, Ruskin, Proust e Valéry, con qualche divagazione verso Murasaki o le saghe islandesi. Tutto questo senza aver da fare recensioni dell'ultima ristampa, né pubblicazioni per il concorso della cattedra, né lavori editoriali con contratto a scadenza ravvicinata. Questa persona beata per mantenere la sua dieta senza nessuna contaminazione dovrebbe astenersi dal leggere i giornali, non lasciarsi mai tentare dall'ultimo romanzo o dall'ultima inchiesta sociologica. Resta da vedere quanto un simile rigorismo sarebbe giusto e proficuo. L'attualità può essere banale e mortificante, ma è pur sempre un punto in cui situarci per guardare in avanti o indietro. Per poter leggere i classici si deve pur stabilire «da dove» li stai leggendo, altrimenti sia il libro che il lettore si perdono in una nuvola senza tempo. Ecco dunque che il massimo rendimento della lettura dei classici si ha da parte di chi ad essa sa alternare con sapiente dosaggio la lettura d'attualità. E questo non presume necessariamente una equilibrata calma interiore: può essere anche il frutto d'un nervosismo impaziente, d'una insoddisfazione sbuffante.
    Forse l'ideale sarebbe sentire l'attualità come il brusio fuori della finestra, che ci avverte degli ingorghi del traffico e degli sbalzi meteorologici, mentre seguiamo il discorso dei classici che suona chiaro e articolato nella stanza. Ma è ancora tanto se per i più la presenza dei classici s'avverte come un rimbombo lontano, fuori dalla stanza invasa dall'attualità come dalla televisione a tutto volume. Aggiungiamo dunque:

    13. È classico ciò che tende a relegare l'attualità

    al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo

    di questo rumore di fondo non può fare a meno.

    14. È classico ciò che persiste come rumore di fondo
    anche là dove l'attualità più incompatibile fa da padrona.


    Resta il fatto che il leggere i classici sembra in contraddizione col nostro ritmo di vita, che non conosce i tempi lunghi, il respiro dell'otium umanistico; e anche in contraddizione con l'eclettismo della nostra cultura che non saprebbe mai redigere un catalogo della classicità che fa al caso nostro.
    Erano le condizioni che si realizzavano in pieno per Leopardi, data la sua vita nel paterno ostello, il culto dell'antichità greca e latina e la formidabile biblioteca trasmessigli dal padre Monaldo, con annessa la letteratura italiana al completo, più la francese, ad esclusione dei romanzi e in genere delle novità editoriali, relegate tutt'al più al margine, per conforto della sorella («il tuo Stendhal» scriveva a Paolina). Anche le sue vivissime curiosità scientifiche e storiche, Giacomo le soddisfaceva su testi che non erano mai troppo up to date: i costumi degli uccelli in Buffon, le mummie di Federico Ruysch in Fontenelle, il viaggio di Colombo in Robertson.

    Oggi un'educazione classica come quella del giovane Leopardi è impensabile, e soprattutto la biblioteca del conte Monaldo è esplosa. I vecchi titoli sono stati decimati ma i nuovi sono moltiplicati proliferando in tutte le letterature e le culture moderne. Non resta che inventarci ognuno una biblioteca ideale dei nostri classici; e direi che essa dovrebbe comprendere per metà libri che abbiamo letto e che hanno contato per noi, e per metà libri che ci proponiamo di leggere e presupponiamo possano contare. Lasciando una sezione di posti vuoti per le sorprese, le scoperte occasionali.
    M'accorgo che Leopardi è il solo nome della letteratura italiana che ho citato. Effetto dell'esplosione della biblioteca. Ora dovrei riscrivere tutto l'articolo facendo risultare ben chiaro che i classici servono a capire chi siamo e dove siamo arrivati e perciò gli italiani sono indispensabili proprio per confrontarli agli stranieri, e gli stranieri sono indispensabili proprio per confrontarli agli italiani.
    Poi dovrei riscriverlo ancora una volta perché non si creda che i classici vanno letti perché «servono» a qualcosa. La sola ragione che si può addurre è che leggere i classici è meglio che non leggere i classici.
    E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (non un classico, almeno per ora, ma un pensatore contemporaneo che solo ora si comincia a tradurre in Italia): «Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un'aria sul flauto. “A cosa ti servirà?” gli fu chiesto. “A sapere quest'aria prima di morire”»



    leggere




    Leggere non è un dovere, né un amaro calice da bere fino in fondo con la speranza di chissà quali benefici. Leggere vuol dire crearsi un proprio piccolo tesoro personale di ricordi e di emozioni, un tesoro che non sarà uguale a quello di nessun altro e che tuttavia potremo mettere in comune con altri.
    Susanna Tamaro






     
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  11. gheagabry
     
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    ... PARLARE ITALIANO ...
    ... Avete mai provato ad ascoltare il vociare intorno a voi? Avete mai provato ad ascoltare chi parla vicino a voi? Ci facevo caso tempo fa, ed ora la notiza trovata in rete lo conferma, stiamo lentamente perdendo la capacità e l’uso della lingua italiana quando parliamo. Sono entrato giorni fa in una scuola per lavoro e sono rimasto senza parole; una maestra stava parlando con un alunno; mi sono fermato in disparte ad ascoltare, la maestra ha paralato senza sosta per dei minuti ma, e questa è stata la cosa che mi ha incuriosito, vedevo lo sguardo dell’alunno assente, quasi fosse non coinvolto in quel ragionamento. La maestra dopo un po’ che parlava, prende fiato e “Allora hai capito? Siamo d’accordo?” … un lungo respiro e l’alunno candidamente sussurava “Prof, veramente c’ho capito poco, lei usa parole che non capisco”. Nel respiro pesante dopo quella risposta, era condensata la risposta della professoressa. Era come se avesse ricevuto una secchiata di acqua fredda, aveva parlato italiano, eppure quel ragazzo non aveva capito cosa lei avesse detto. A volte è disarmante ascoltare i ragazzi; complici social network, sms, e chat, hanno perso l’abitudine a scrivere e a causa del pressante uso del pc si è anche persa l’abitudine a leggere e quindi ad arriccihire il proprio lessico e conoscenza della lingua italiana ... .
    (Claudio)



    Italiano, studiosi lanciano l'allarme: nel Belpaese solo 29% padroneggia la lingua.

    (Adnkronos) - Appena il 29% degli italiani possiede ancora gli strumenti linguistici per padroneggiare l'uso della nostra lingua nazionale. E' quanto ha affermato il linguista Tullio De Mauro, ex ministro della Pubblica istruzione, intervenendo oggi a Firenze a un convegno del
    ''Il 71% della popolazione - ha detto De Mauro - si trova al di sotto del livello minimo di lettura e comprensione di un testo scritto in italiano di media difficoltà: il 5% non è neppure in grado di decifrare lettere e cifre, un altro 33% sa leggere, ma riesce a decifrare solo testi di primo livello su una scala di cinque ed è a forte rischio di regressione nell'analfabetismo, un ulteriore 33% si ferma a testi di secondo livello. Non più del 20% possiede le competenze minime per orientarsi e risolvere, attraverso l'uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana. Ce lo dicono due recenti studi internazionali, ma qui da noi nessuno sembra voler sentire''.




    Dammi il supremo coraggio dell'Amore,
    questa è la mia preghiera,
    coraggio di parlare,
    di agire, di soffrire,
    di lasciare tutte le cose,
    o di essere lasciato solo.
    Temperami con incarichi rischiosi,
    onorami con il dolore,
    e aiutami ad alzarmi ogni volta che cadrò.
    Dammi la suprema certezza nell'amore,
    e dell'amore,
    questa è la mia preghiera,
    la certezza che appartiene alla vita nella morte,
    alla vittoria nella sconfitta,
    alla potenza nascosta nella più fragile bellezza,
    a quella dignità nel dolore,
    che accetta l'offesa,
    ma disdegna di ripagarla con l'offesa.
    Dammi la forza di amare
    sempre
    e ad ogni costo.
    (Tagore)



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  12. gheagabry
     
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    "I libri a volte sono possessivi, vero?
    ..Cammini in una libreria e un determinato libro ti salta incontro,
    come se si fosse spostato lì da solo, soltanto per attirare la tua attenzione.
    A volte quello che c'è dentro ti cambierà la vita,
    a volte non ci sarà neanche bisogno di leggerlo.
    A volte avere intorno un libro è semplicemente un conforto."

     
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  13. gheagabry
     
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    Mi piace scrivere, le parole appaiono sul foglio come distillate..Goccia dopo goccia, quasi lettera per lettera, rispettando le pause e i tempi, vengono su con una morbidezza fluida, che ha sapore di rugiada….Foglio come foglia…Dalla foglia le gocce rotolano sul terreno, lasciando una traccia luminosa…Profumo di pioggia sulla terra…Armonia di vita nella poesia di una frase..in un’immagine ben calibrata…Tu sei come un’equilibrista, poeta e giullare…alla ricerca infinita delle cose più semplici…Le tracce del tuo passaggio sono profonde come artigli, e leggere, come il soffio di un mastro vetraio….Adesso le parole ..profumano di sabbia e di mare…
    (dal web)

     
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  14. gheagabry
     
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    fioreza casanova


    Leggere ... un giornale è una finestra sulla vita del mondo è un viaggio con la mente e col cuore attraverso le immagini che parole scritte in sequenza creano come per incanto. Leggere ...il profumo delle pagine e dell’inchiostro inebriano i sensi; e quando inizia la lettura la nostra vocina interna da suono e colore alle parole che la nostra mente legge. Molte volte mi sono ritrovato nel bel mezzo di una lettura a differenziare personaggi e personalità scoprendo che quella vocina dentro di me dava ad ognuno voci diverse. In quel momento le righe scritte sembrano onde di un mare amico che avvolgono e cullano, mi lascio andare e assecondo il dolce cullare di quelle parole. La chiamano empatia, questo lasciarsi andare e permeare il senso degli scritti facendoli entrare profondamente dentro di noi; io vivo questo stato come un’estasi, come un filo invisibile che unisce la mia mente, i miei sensi a quelli di chi ha scritto quel libro, quel giornale, quel pensiero. E’ come, per un attimo, sentirsi in un altro luogo, in un altra dimensione, nel posto dove emozioni e sentimenti si incontrano dando vita ai colori della nostra anima...

    (Claudio)

     
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  15. gheagabry
     
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    libri-antichi1




    I libri

    Devo molto
    a quelli che non amo.
    Il sollievo con cui accetto
    che siano più vicini a un altro.

    La gioia di non essere io
    il lupo dei loro agnelli.

    Mi sento in pace con loro
    e in libertà con loro,
    e questo l’amore non può darlo,
    ne’ riesce a toglierlo.

    Non li aspetto
    dalla porta alla finestra.
    Paziente
    quasi come un orologio solare,
    capisco
    ciò che l’amore non capisce,
    perdono
    ciò che l’amore non perdonerebbe mai.

    Da un incontro a una lettera
    passa non un’eternità,
    ma solo qualche giorno o settimana.

    I viaggi con loro vanno sempre bene,
    i concerti sono ascoltati fino in fondo,
    le cattedrali visitate,
    i paesaggi nitidi.

    E quando ci separano
    sette monti e fiumi,
    sono monti e fiumi
    che si trovano in ogni atlante.

    E’ merito loro
    se vivo in tre dimensioni,
    in uno spazio non lirico e non retorico,
    con un orizzonte vero, perchè mobile.

    Loro stessi non sanno
    quanto portano nelle mani vuote.

    “Non devo loro nulla” -
    direbbe l’amore
    su questa questione aperta.

    W.Szymborska

     
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34 replies since 22/5/2011, 01:10   2406 views
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